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LA MELONI, LE BANCHE D’AFFARI E I GRANDI FONDI DI INVESTIMENTO DELLA CITY

Agosto 27th, 2022 Riccardo Fucile

DA MORGAN STANLEY A GOLDMAN SACHS, TUTTI VOGLIONO CAPIRE COME SI MUOVERÀ LA MELONI CHE ORA CERCA DI MOSTRARSI AFFIDABILE AI POTERI FORTI CHE SOLO A PAROLE ATTACCAVA FINO A IERI

Gli inviti a incontrare le banche d’affari e i grandi fondi di investimento della City di Londra sono partiti prima del crollo del governo Draghi.Non è ancor deciso se la risposta arriverà prima o dopo il voto del 25 settembre. Per chi conosce le regole del mercato non c’è contraddizione fra le scommesse al ribasso verso l’Italia di questi giorni e il desiderio di conoscere le intenzioni della probabile premier del governo che verrà. Morgan Stanley, J. P. Morgan, Goldman Sachs e ancora Elliot, Fidelity, BlackRock, Bridgewater, per citare i più noti: la lista di coloro i quali vogliono capire cosa abbia in testa Giorgia Meloni è lunga.
A fare da apripista fin qui è stato Guido Crosetto, imprenditore, uno dei tre fondatori del partito e presidente di Aiad, l’associazione dei produttori di armi italiane. Chi lo ha incontrato ha raccolto l’impressione che sarà la Meloni – in caso di vittoria alle elezioni – la garante della continuità istituzionale dell’Italia. «Il programma che ci è stato prospettato somiglia molto a quello del primo Berlusconi, solo con un accento più marcato alla difesa delle imprese nazionali», spiega uno degli analisti sotto la garanzia dell’anonimato. Gli incontri di Crosetto sono iniziati fra maggio e giugno.
Allora la crisi del governo di larghe intese non era ancora conclamata, lo era semmai la curva ascendente dei tassi di interesse, il più decisivo dei fattori di rischio di un Paese ad alto debito come l’Italia. È da allora che è iniziata a circolare insistente una domanda: che accadrà dopo? Il nuovo governo di centrodestra somiglierà a quello che nel 2011 spinse l’Italia sull’orlo del baratro finanziario o la musica cambierà?
Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata molta, e in parte lo si deve proprio a Draghi. Dal «Whatever it takes» in poi il rischio Italia è calmierato dalla Banca centrale europea, che è oggi è uno dei grandi acquirenti del debito italiano. Ma la recente stima di Standard and Poor’ s a proposito delle intenzioni di chi scommette in titoli pubblici dice che le risposte date fin qui e le promesse non sono state comunque convincenti. Più che il pragmatismo di Meloni, testimoniato in una lunga intervista giovedì all’agenzia Reuters e ribadita ieri alla kermesse di Affari Italiani a Ceglie Messapica, a preoccupare il mondo della finanza è la coesione dell’alleanza di centrodestra. Dopo dieci anni di instabilità e leader mai eletti, la coalizione che dovrebbe uscire vincente dalle elezioni sarà in grado di governare per l’intera legislatura, come avviene normalmente in Francia o in Germania?
Tra i militanti di Fratelli d’Italia riuniti a Ceglie c’è ottimismo, tanto che la stessa Meloni si spinge a ipotizzare il suo approdo a Palazzo Chigi come se fosse questione di giorni.
Tra i dirigenti del partito c’è la convinzione che i compiti siano in gran parte già fatti, specie in Europa, dove il capogruppo al Parlamento di Strasburgo Raffaele Fitto rivendica di aver allontanato i Conservatori da certi ardori sovranisti, partecipando alle trattative con popolari e socialisti che hanno portato all’elezione di Roberta Metsola alla presidenza. Ma allo stesso tempo c’è una consapevolezza: gli alleati – Berlusconi e Salvini possono rappresentare un problema. La parola d’ordine è parlare il meno possibile, le frasi avventate sull’euro degli esponenti leghisti e l’esperienza del governo gialloverde stanno lì a dimostrarlo.
«Le preoccupazioni che il Financial Times ha sollevato si risolveranno nello spazio di una sera: quella in cui faremo sapere chi sarà il ministro dell’economia» dice un dirigente del partito sotto stretto anonimato.
«A quel punto le costruzioni astratte finiranno». E intorno a quel nome si sta ragionando molto. Meloni non si sbilancia: «credete che ve lo dico?» ha scherzato ieri a Ceglie. E’ noto che le piacerebbe poter contare su Fabio Panetta, ma le intenzioni dell’attuale componente del comitato esecutivo della Bce sembrano essere diverse.
Altra opzione – ma che nel partito viene esclusa – è quella di un ritorno di Giulio Tremonti, che agli occhi di alcune cancellerie riporta alla memoria i mesi bui della crisi finanziaria del 2011. Si spiega anche così la durezza della risposta di Meloni a Luigi Di Maio che aveva vaticinato di «sfracelli economici» in caso di vittoria della destra: «Un ministro indegno».
I messaggi pubblici, come l’intervista alla Reuters (necessaria a rispondere ai timori degli investitori), si alternano a quelli privati. Le interlocuzioni vanno avanti da mesi e man mano che i sondaggi rafforzano le certezze di vittoria, i dialoghi si fanno più frequenti e a più alto livello. Un aspetto fondamentale di questa fase per Meloni è mantenere i canali aperti con il Quirinale. Lo conferma un fedelissimo della candidata premier: «Sia lei che il presidente sanno che a calcio non si segna con le mani: le regole sono condivise».
Un modo per rassicurare sul fatto che le scelte nei ministeri chiave (Esteri, Difesa, Economia e Viminale, ambito da Salvini), non saranno avventate. C’è anche un’altra preoccupazione: trovare un modo di convivere con i funzionari dei ministeri, specie quelli economici. «Un esercito – dicono a Fratelli d’Italia – vicino al Pd». Nelle intenzioni la visita alla City dovrebbe servire a dissipare quelle ombre.
(da La Stampa)

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PERCHE’ IL REDDITO DI CITTADINANZA E’ NECESSARIO

Agosto 27th, 2022 Riccardo Fucile

I DATI UFFICIALI PARLANO CHIARO: SU 1,8 MILIONI DI BENEFICIARI IL 40% HA GIA’ UN LAVORO MA INSUFFICIENTE A SOPRAVVIVERE (QUINDI LO INTEGRA), IL 30% HA TROVATO UN LAVORO MA SI TRATTA PER IL 65% DI CONTRATTI CHE NON SUPERANO I TRE MESI

A un mese alle elezioni politiche, nell’indecoroso carosello di delazioni e reciproche squalifiche a cui la maggior parte dei partiti si sta dedicando, capita che si parli anche di programmi, e buona parte di queste discussioni si articolano attorno al destino del reddito di cittadinanza.
C’è chi propone di abolirlo e destinare quei fondi alle imprese come incentivo per nuove assunzioni, chi di depotenziarlo e ridurne l’estensione, chi di rafforzarlo e corredarlo di un salario minimo e una riduzione dell’orario lavorativo, chi invece propone di ricalibrarlo per renderlo più equo e sicuro.
A distanza di alcuni anni dalla sua prima introduzione, questa misura viene ancora da molti percepita come un’elargizione assistenzialista, o un “metadone di stato” per citare uno degli esponenti politici più critici, quando in realtà i dati parlano chiaro: lo scorso dicembre Anpal, l’Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro, ha rivelato come il 40% degli 1,8 milioni di beneficiari di reddito di cittadinanza abbia continuato a svolgere un lavoro (che da solo, ed è questo il vero problema, non consentirebbe di condurre una vita dignitosa), mentre il 30% ha attivato un nuovo rapporto lavorativo in seguito alla percezione del reddito di cittadinanza. Il problema, semmai, a livello occupazionale, riguarda il fatto che nel 65% dei casi i lavori proposti ai percettori di RdC non superino i tre mesi, e che nel 50% si tratti addirittura di contratti limitati a un solo mese.
Con tutti suoi limiti e difetti, dunque, il reddito di cittadinanza ha contribuito ad ammortizzare situazioni di povertà drammatiche che il Covid e la crisi energetica hanno reso ancor più emergenziale.
(da agenzie)

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“DIO, PATRIA E FAMIGLIA” NON E’ UN MANIFESTO D’AMORE COME DICE LA MELONI

Agosto 27th, 2022 Riccardo Fucile

QUALI RELIGIONI. QUALE PATRIA E QUALE FAMIGLIA? BASTA NASCONDERSI DIETRO SLOGAN DATATI PER GIUSTIFICARE IL VUOTO IDEALE E DISCRIMINATORIO DI CUI SI E’ PORTATORI

L’ultima proposta di Giorgia Meloni è di abbassare le tasse per le famiglie numerose. Matteo Salvini, qualche giorno fa invece, era tornato a parlare di contrastare il calo demografico ispirandosi alle politiche ungheresi sulla famiglia.
La destra sovranista torna all’attacco con un grande classico. Ma attenzione, non si sta parlando di difesa della famiglia di per sé, solo di quella che si iscrive in un preciso disegno.
E, soprattutto quando si parla di Giorgia Meloni, il messaggio politico che vi sta dietro è decisamente più ampio. È quello legato al motto Dio, patria e famiglia.
Uno slogan che la leader di Fratelli d’Italia ha descritto come un “manifesto d’amore”
In queste tre parole così associate è racchiusa un’ideologia che ha ben poco a che vedere con la religione, con il significato di nazione e quello di famiglia. Dio, patria e famiglia è il contenitore di un conservatorismo chiuso e arcaico, terrorizzato da tutto ciò che può essere altro. Altre religioni, altri stili e altre scelte di vita.
Quando è stato eletto nuovamente alla guida dell’Ungheria, Viktor Orban (che ora Salvini cita come modello di riferimento per le politiche familiari), ha citato questi tre concetti. Ha parlato di valori cristiani tradizionali, della patria e della difesa dei confini sovrani, della famiglia come colonna portante della società. Se contestualizziamo le sue parole, però, ci accorgeremo che c’è ben poco dei valori cristiani nelle recinzioni di filo spinato erette alla frontiera ungherese per non far passare i migranti, che proteggere i confini significa lasciare delle persone in condizioni disumane dall’altro lato, che la difesa della famiglia tradizionale diventa presto la discriminazione di tutte quelle che non lo sono.
Il messaggio racchiuso nello slogan Dio, patria e famiglia è il volto della peggiore destra sovranista
In questo universo la famiglia diventa il nucleo primario. Il filo conduttore attraverso cui tenere insieme il sistema di valori tradizionali è quello dell’identità. Un’identità che deve richiamare orgoglio di appartenenza, che deve esprimersi nel noi contro l’altro. Un’identità sì che deve rispondere alla patria e a Dio, ma che si forma prima di tutto in famiglia. La famiglia che diventa la prima incubatrice di quell’identità religiosa, nazionale e di ideali, il primo avamposto che si occuperà di conservarla e custodirla.
Quando Salvini e Meloni fanno riferimento al modello ungherese, non parla semplicemente di un pacchetto di norme, parla di tutto questo. La lotta al calo demografico assume subito un significato ben più ampio.
E basta guardare alle politiche di Orban sulla famiglia per capirlo. Il premie ungherese ha modificato la Costituzione per precisare che per famiglia si intende esclusivamente una donna-madre e un uomo-padre, cancellando i diritti delle famiglie arcobaleno di essere riconosciute come tali o di poter adottare dei figli.
Anche nelle famiglie tradizionali, però, non tutti i figli saranno tutelati. Le leggi contro le persone Lgbtq+, infatti, vietano fino ai 18 anni l’accesso a materiale riguardante omossessualità e identità di genere: i bambini o ragazzi che non si riconosceranno, per il loro orientamento sessuale o per la loro identità di genere, nella narrazione dominante saranno così lasciati alla loro sofferenza senza alcuna risposta. Se non quella di essere sbagliati.
Nella famiglia dell’Ungheria di Orban, inoltre, il ruolo della donna è uno solo. La recente campagna di comunicazione governativa sul rafforzamento dei ruoli di genere, infatti, non ha fatto che confinare ulteriormente le donne all’ambiente domestico, discriminandone qualsiasi altra aspirazione.
E infine, con la modifica della Costituzione, che afferma la tutela della vita umana fin dal concepimento, e con una nuova legge del 2017, che garantisce il diritto a medici e ospedali di non dover effettuare interruzioni volontarie di gravidanza, anche in Ungheria l’aborto sicuro è sempre più a rischio.
Tutto questo non ha (solo) a che vedere con i diritti di alcune comunità, che siano le donne o gli omosessuali, sempre più a rischio. Ha a che vedere con una precisa visione del mondo, quella di Dio, patria e famiglia, che appartiene però a un passato arcaico di cui nessuno dovrebbe avere nostalgia. Ma che per la destra sovranista, invece, rimane un modello.
(da Fanpage)

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IL M5S HA INZIATO LA RINCORSA SULLA LEGA: “SIAMO PARI NEI SONDAGGI”

Agosto 27th, 2022 Riccardo Fucile

LA SPERANZA DEL SORPASSO A UN MESE DAL VOTO CON SONDAGGI IN SALITA

Lo premettono innanzitutto loro, i 5Stelle, che sono solo sondaggi di fine agosto, e che quindi “vanno presi con le molle, lo sappiamo”.
Però è un fatto, assicurano più fonti, che nelle ultime ore ai piani alti del Movimento siano affluiti sondaggi e stime che danno il partito di Giuseppe Conte ben sopra il dieci per cento, la quota che per il M5S varrebbe la sopravvivenza politica. “Ci valutano al 12-13 per cento, grosso modo alla pari con la Lega” spiegano.
Così un graduato contiano si espone: “Possiamo essere il terzo partito nelle urne, anche perché la tendenza di tutte le rilevazioni ci dà in crescita”. Insomma, qualcuno spera di scavalcare il Carroccio. Comunque difficile, anzi di più, visto che proprio nel Nord che è roccaforte leghista il Movimento negli ultimi anni è crollato a percentuali sconfortanti.
Non è un caso che Conte si sia candidato come capolista in due collegi della Lombardia, per fare da traino. E che il primo atto della sua campagna elettorale sui territori – impostata su “poche tappe mirate”, per usare le parole dell’avvocato – sarà in Veneto, martedì prossimo, dove visiterà alcune aziende e un cantiere aperto grazie al superbonus, misura totem dei grillini.
Bisogna recuperare punti soprattutto sopra Roma, anche se è proprio nella capitale che il Movimento dovrebbe tenere l’evento di chiusura della campagna, e nel dettaglio in piazza Santi Apostoli.
Un luogo che un tempo era sinonimo di Ulivo e quindi di Romano Prodi, ma che il M5S utilizzò già nel 2020, per protestare contro il ritorno dei vitalizi.
Questa volta vedere i grilllini nella piazza del centrosinistra avrebbe anche una chiara sfumatura politica, visto che Conte cerca anche e forse sopratutto nel campo dem i punti per agguantare il dieci per cento. Da giorni insiste sul Movimento come “unico, vero partito progressista”. Mentre ieri è sceso in picchiata – come altri leader – contro la campagna social di Letta, imperniata sull’invito agli elettori a stare da una parte o dall’altra. “Enrico, che ti succede?” ha chiesto l’avvocato in un lungo post rivolto all’ex alleato. Ai suoi, Conte lo ha (ri)detto così: “L’impostazione di quel messaggio è profondamente sbagliata, questo è il modo migliore per consegnare il Paese alle destre e alimentare l’astensionismo”.
Non vuole la polarizzazione, Conte, anche perché teme di pagare dazio nelle urne se prendesse piede la narrazione del voto utile. Per questo teorizza: “Le destre si battono discutendo nel merito le loro proposte”. Considerazioni che potrebbe ripetere nelle piazze, a partire da quella di Chieti, dove è atteso mercoledì sera. O magari in occasione della presentazione del programma a Roma, il 9 settembre, nell’Auditorium della Conciliazione.
Una sala che il M5S aveva prenotato – e pagato – oltre un anno fa, raccontano, perché voleva presentarvi lo Statuto di Conte. Poi ci fu lo scontro con Beppe Grillo e non se ne fece nulla. Ora proveranno a riparare. Sperando che Grillo partecipi: se non il 9, almeno il 23, nella piazza del comizio di chiusura. Molto più piccola di piazza San Giovanni, perché il Movimento delle folle oceaniche è già un ricordo.
(da agenzie)

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IN SPAGNA APPROVATA LA LEGGE PIU’ SEVERA: SESSO SENZA CONSENSO ESPLICITO E’ STUPRO

Agosto 27th, 2022 Riccardo Fucile

ABOLITA LA DISTINZIONE TRA IL REATO DI ABUSO SESSUALE E QUELLO DI AGGRESSIONE SESSUALE, RESTA IN VIGORE SOLO QUEST’ULTIMO

Una legge più severa: stretta contro le violenze sessuali in Spagna. Il 25 agosto, la Camera del Parlamento ha approvato in via definitiva la cosiddetta legge del “solo sì è sì”.
Secondo la norma, qualsiasi atto sessuale in cui una delle persone coinvolte non dà il proprio consenso esplicito è uno stupro. In particolare, come sottolineato nel testo di legge, “c’è consenso solo quando è stato liberamente espresso con atti che, date le circostanze del caso, esprimono chiaramente la volontà della persona interessata”.
La norma contempla modifiche del codice penale come l’abolizione della distinzione tra il reato di “abuso sessuale” (più lieve) e quello di “aggressione sessuale” (più grave), lasciando in vigore solo quest’ultimo. Pertanto, qualsiasi interazione sessuale senza il consenso dell’altra persona sarà un’aggressione e sarà punita con una pena detentiva da 1 a 4 anni.
L’ultima votazione sul testo, promosso in particolare dalla ministra delle Pari Opportunità Irene Montero, si è tenuta al Congresso dei deputati, dove sono stati registrati 205 “sì” e 141 “no”, della destra.
Dopo un primo passaggio al Congresso a fine maggio, il progetto di legge è stato poi esaminato al Senato, dal quale si attendeva l’ok definitivo a luglio. Un’inattesa manovra parlamentare tecnica messa in atto da partiti dell’opposizione ha però fatto rimbalzare di nuovo il testo al Congresso.
“Oggi è una giornata di vittoria, dopo molti anni di lotta”, ha commentato Montero in Aula. “Finalmente, il nostro Paese riconosce per legge che il consenso dev’essere al centro di tutte le relazioni sessuali”, ha aggiunto.
Il caso di cronaca legato alla legge
La legge viene chiamata “solo sì è sì” per via di uno slogan gridato nelle piazze spagnole durante manifestazioni di protesta per un caso giudiziario riguardante uno stupro di gruppo che suscitò forti polemiche. Il caso, noto come “La Manada”, risale al 2016: la vittima, allora 18enne, era stata violentata da un branco di cinque ragazzi a Pamplona e poi lasciata seminuda nell’androne di un palazzo. I giovani avevano anche filmato tutto con gli smartphone, vantandosi poi dei fatti su un gruppo WhatsApp, in cui si riferivano a loro stessi con la parola “La Manada”, cioè “Il branco”.
I giudici del tribunale di Pamplona avevano condannato i cinque a nove anni di carcere per “abusi sessuali” e non per stupro. Da qui le forti proteste che si erano scatenate nel Paese. “Non è abuso, è stupro” e “Sorella, io sì ti credo” erano gli slogan delle associazioni che combattevano per il rispetto delle donne. Il verdetto era poi stato poi rivisto dal Tribunale supremo spagnolo, i cui giudici riconobbero che fu una vera e propria aggressione sessuale.
(da agenzie)

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PICCOLISSIMI, FACILI DA UTILIZZARE E LETALI: I DRONI SONO LA NUOVA FRONTIERA DELLA GUERRA

Agosto 27th, 2022 Riccardo Fucile

I DRONI SONO DIVENTATI FONDAMENTALI, SIA PER L’ELIMINAZIONE DI OBIETTIVI CHE PER LA RACCOLTA DI INFORMAZIONI… A KIEV SONO ARRIVATI VEICOLI AEREI SENZA EQUIPAGGIO: DAI BRITANNICI “BLACK HORNET”, LUNGHI SOLO 15 CENTIMETRI, A “PHOENIX FANTASMA”, I “DRONI KAMIKAZE” MADE IN USA

Altro che carri armati, lanciamissili lungo raggio e sommergibili nucleari. La guerra in Ucraina la fanno i droni come quelli che i britannici hanno promesso nell’ultima visita di Boris Johnson a Kiev per l’Indipendenza, i Black Hornet da 6 pollici che si tengono tra due dita, micidiali nel penetrare ambienti e fotografare obiettivi; o i formidabili droni turchi disegnati nientemeno che dal genero di Erdogan, che hanno salvato Kiev costringendo le colonne di tank russi alla ritirata.
O quelli fai-da-te progettati da patrioti ucraini con l’hobby del drone, che hanno usato la tecnica della stampa tridimensionale. O le bombette di fabbricazione russa modificate dagli ucraini con alette che le fanno dolcemente planare sui target per disintegrarli. O i kamikaze americani, i Phoenix fantasma che vanno a disintegrarsi senza un gemito sulle torrette dei tank.
Ottocentocinquanta i micro-droni portati in dote da Johnson a Zelensky, Quasi 2 km di raggio, velocità massima 17 km l’ora, visione notturna, 25 minuti come tempo di volo. Silenziosissimi, possono entrare in una stanza dalla finestra senza farsene accorgere, inquadrare e trasmettere immagini in alta definizione.
Tra i maghi dei droni arruolati nell’esercito di Kiev il 31enne presidente della Federazione ucraina di atletica, Yechen Pronin. Alla periferia della capitale c’è un centro d’addestramento per piloti di Uav, 35 allievi alla volta per un corso di 5 giorni, alle prese con 15 diversi tipi di drone.
I Switchblade, o Phoenix fantasma, possono volare per 15 minuti a quasi 100 km l’ora, una volta individuato il target si fiondano giù con l’esplosivo incorporato.
Abbinata vincente col Puma: apertura alare di 4 metri e mezzo, lanciato a mano, 10 chili di peso, per 5 ore volteggia in un raggio di 40 km per individuare i target, in modo che il Phoenix debba solo andar dritto sull’obiettivo senza perdite di tempo.
Non altrettanto efficaci i droni promessi a Putin dal regime iraniano, gli Shadhed 129, modellati su un prototipo israeliano e con apertura alare di poco inferiore alla lunghezza di un bus londinese.
(da agenzie)

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VOLETE SAPERE PERCHÉ PUTIN BRUCIA IL GAS? IL SUO RICATTO ENERGETICO CONTRO L’EUROPA COMINCIA A MOSTRARE LA CORDA

Agosto 27th, 2022 Riccardo Fucile

IL GAS INVENDUTO VA DISTRUTTO, CON GRAVE DANNO PER LE FINANZE DI MOSCA, AL FINE DI EVITARE DANNI PERFINO SUPERIORI: AI GIACIMENTI, AGLI IMPIANTI, ALLA RETE DISTRIBUTIVA. IL PETROLIO CHE MOSCA NON ESPORTA VERSO OCCIDENTE TROVA ACQUIRENTI, A COMINCIARE DA INDIA E CINA. IL GAS NO”

Bruciare gas al confine con la Finlandia – quel che sta facendo la Gazprom di Putin – è l’equivalente di bruciare banconote. Lo abbiamo visto fare in qualche film, magari da un mafioso in vena di esibizioni arroganti. È un gesto spettacolare ma tutt’altro che benefico per le proprie finanze.
Putin lo fa non perché se lo può permettere, ma perché non può farne a meno: il suo ricatto energetico contro l’Europa comincia a mostrare la corda. Il gas invenduto va distrutto, con grave danno per le finanze di Mosca, al fine di evitare danni perfino superiori: ai giacimenti, agli impianti, alla rete distributiva. È questa la tesi interessante di due esperti americani del settore energetico, Paul Roderick Gregory della Hoover Institution (Stanford) e Ramanan Krishnamoorti dell’università di Houston, Texas. In un’analisi pubblicata ieri sul Wall Street Journal i due esperti avevano anticipato la “necessità” di bruciare gas per limitare i danni tecnici agli impianti e alla rete.
Al centro della questione c’èil gasdotto Nord Stream 1 che trasporta gas dalla Russia all’Unione europea. Il gas viene estratto nelle regioni artiche della Russia. Entra nel gasdotto Nord Stream 1 a Vyborg, vicino al confine con la Finlandia: proprio lì dove adesso Gazprom lo sta bruciando. Dalla frontiera finlandese Nord Stream 1 viaggia sotto il mare fino a Greifswald in Germania, dove si collega con la rete europea. Un gasdotto parallelo è Nord Stream 2, la cui costruzione era praticamente conclusa ma che è stato bloccato dalle sanzioni. Nord Stream 1 resta quindi l’arteria principale che dalla Russia porta gas all’Unione europea. Ha una capacità massima di 62 miliardi di metri cubi all’anno. Prima della guerra in Ucraina, Gazprom lo stava usando quasi ai limiti della capacità: dal 2019 al 2021 il Nord Stream ha trasportato 55 miliardi di metri cubi all’anno.
Dopo l’invasione dell’Ucraina, l’Occidente non ha mai incluso il gas nel perimetro di applicazione delle sanzioni, però Putin ne ha fatto un’arma di pressione. Ha imposto dei tagli alle forniture per infliggere danno economico all’Europa. A fine luglio Nord Stream stava ormai trasportando solo il 40% di gas rispetto alla sua capacità massima. Poi con la scusa di lavori di manutenzione è sceso al 20%. Se dovesse continuare così, a fine 2022 avrà trasportato solo 19 miliardi di metri cubi invece dei 55 miliardi abituali. Le conseguenze sull’Europa le conosciamo bene, e rischiano di aggravarsi in autunno. La capacità di ricatto di Putin si sta dispiegando in tutta la sua potenza, e fa dire ad alcuni che le sanzioni fanno male solo all’Europa.
Ma che può fare la Russia con il gas che non vende agli europei? Il petrolio che Mosca non esporta più verso Occidente trova facilmente acquirenti, a cominciare da India e Cina, sia pure a prezzi scontati. Il petrolio viaggia soprattutto su navi ed è facile dirottarlo da un mercato all’altro. Il gas no, la parte che viene trasportata su nave è ridotta e richiede comunque la costruzione di impianti particolari (ne sappiamo qualcosa: per i paesi riceventi sono i rigassificatori, a cui corrispondono impianti speculari e simmetrici che nei paesi produttori devono trasformare il gas in liquido, quindi caricarlo su apposite navi cisterna).
Russia e Cina hanno raggiunto un accordo per costruire un nuovo gasdotto che le colleghi, ma ci vorranno anni prima che sia pronto. Invece il gas che Gazprom non sta fornendo agli europei continua a sgorgare dai giacimenti, e bisogna farne qualcosa. Immagazzinarlo? Le capacità di stoccaggio di gas russe sono già quasi esaurite. Chiudere i “pozzi”, interrompere l’estrazione? Si può fare, però correndo dei rischi tecnici. I giacimenti che smettono di fornire gas possono subire danni strutturali che ne compromettono il ritorno alla produzione in tempi successivi.
Poi ci sono i problemi tecnici che riguardano i gasdotti. Tutte le valvole, gli accessori, le attrezzature tecniche sofisticate che regolano il funzionamento dei gasdotti, sono soggette a guasti e deterioramento se la pressione scende o si azzera. Sono problemi risolvibili se c’è una manutenzione di altissimo livello. Ma qui intervengono le sanzioni economiche occidentali, che allontanano dalla Russia grandi aziende specializzate in quel tipo di manutenzione sofisticata come Halliburton, Baker Hughes, Schlumberger. Per evitare problemi e ridurre i rischi di gravi danni al gasdotto, un espediente consiste proprio nel bruciare il gas.
A parte il danno ambientale, questo significa distruggere una risorsa primaria per l’economia russa. E proprio quando Putin ha bisogno di soldi per allargare gli organici del suo esercito.
E’ autolesionismo, quindi, anche se inevitabile nelle circostanze in cui Putin si è messo da solo. Il danno del gas bruciato si aggiunge, aggravandola, a una perdita perfino più sostanziale nel lungo periodo: la credibilità. Dai tempi del leader comunista Brezhnev – anni Settanta – Mosca si era costruita una reputazione di partner affidabile per la fornitura di energia all’Europa.
Un paese come la Germania aveva imperniato il proprio modello economico sul gas russo a buon mercato e aveva impostato la propria politica estera sull’idea che il commercio con l’Oriente avrebbe reso le autocrazie sempre meno ostili. Oggi la Germania, come l’Europa intera, deve operare una torsione geoeconomica andando a cercare energia altrove. Il gas russo che brucia al confine con la Finlandia sta distruggendo molte cose.
(da il Corriere della Sera)

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INVESTITORI IN FUGA DALL’ITALIA: PRONTI A VENDERE 200 MILIARDI DI EURO IN TITOLI DI STATO

Agosto 27th, 2022 Riccardo Fucile

IL CAPO ECONOMISTA DI BANCA INTESA AVVERTE: “SERVE RISPETTARE I PARAMETRI UE E L’AGENDA DRAGHI”

200 miliardi di euro. É questo il valore dei Btp, i titoli di Stato che l’Italia vende per rifinanziare il proprio debito, che gli investitori istituzionali sarebbero pronti a vendere dopo l’addio di Mario Draghi a Palazzo Chigi.
A rivelarlo è la banca statunitense Citi, come spiega La Stampa.
Si tratta del 7,5% del debito (2.766 miliardi di euro, il massimo storico è stato toccato a luglio), che di per sé vale il 152% del Pil del nostro Paese. La notizia della caduta del governo ha subito causato incertezza e volatilità nei mercati.
Uno scetticismo che è diventato presto evidente nello spread tra i Btp e Bund, i titoli di Stato tedeschi. Il valore, che mesi fa si manteneva tra i 100 e i 150 punti base, dallo scoppio della crisi di governo si attesta stabilmente tra i 200 e i 250.
A poco sembrano essere servite le rassicurazioni della leader di FdI Giorgia Meloni a Reuters quando ha dichiarato che con il suo partito al governo i conti pubblici sarebbero in buone mani.
Gli interessi che l’Italia deve versare per rifinanziare il proprio debito – al momento il Btp decennale paga il 3,75% – sono sempre più alti e sempre più distanti dai valori relativamente bassi di quelli tedeschi. Tutto ciò nonostante l’aiuto della Bce, che ha acquistato 10 miliardi di titoli italiani a luglio.
Insomma, gli investitori sono pronti a scommettere contro il nostro Paese, e a vendere 200 miliardi del nostro debito, su cui lo stato dovrebbe pagare interessi ancora più alti.
La notizia arriva dopo la rivelazione del Financial Times, che ha fatto sapere che numerosi fondi speculativi internazionali stanno scommettendo contro il nostro Paese. Ovvero si stanno tutelando in vista di una una seria crisi economica della penisola.
Tra le maggiori preoccupazioni di chi attualmente detiene il debito pubblico italiano c’è il rallentamento della realizzazione delle opere finanziate con i fondi del Pnrr, che rischiano di andare in fumo se gli interventi non avverranno entro le scadenze prestabilite.
E il rispetto dei tempi è messo a dura prova dalla caduta del governo in un momento cruciale per la definizione degli iter progettuali. Inoltre, gli investitori temono che il nostro Paese non riuscirà a fare fronte all’aumento dei tassi di interesse deciso dalla Bce.
«L’Italia ce la farà se rispetterà l’agenda Draghi»
Gregorio De Felice, capo economista di Banca Intesa San Paolo ammette le difficoltà, ma esclude il pessimismo. «Una gestione ordinata della politica di bilancio e il rispetto delle regole Ue in materia di saldi di finanza pubblica e convergenza macroeconomica escludono qualsiasi criticità sul fronte del rifinanziamento del debito pubblico nel 2023» ha spiegato al quotidiano torinese.
Se tutto andrà come deve, e le tranche del Pnrr verranno confermate, «la quantità di debito da rifinanziare sui mercati è stimabile nell’ordine dei 50 miliardi di euro, che potrebbero essere coperti da acquisti netti di investitori domestici (intermediari e famiglie) anche a fronte di un possibile moderato flusso di vendite estere», che Intesa stima intorno ai 20 miliardi di euro.
L’importante, secondo De Felice, è che il prossimo governo non si discosti eccessivamente dalla cosiddetta «agenda Draghi». Il modus operandi dell’ex presidente della Bce, la cui figura viene vista come garanzia di rigore e scelte oculate, infatti, ha finora tenuto a bada le speculazioni e rassicurato i mercati e il timore è che una brusca inversione di rotta potrebbe portare il Paese in mezzo a forti turbolenze difficili da gestire. La Bce, però, è pronta a intervenire di nuovo acquistando i nostri titoli di Stato, a patto che i parametri economici dell’Unione vengano rispettati.
(da agenzie)

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SOVRANISTI SERVI DELLA RUSSIA, ASSE ORBAN-PUTIN SEMPRE PIU’ FORTE

Agosto 27th, 2022 Riccardo Fucile

MOSCA COSTRUIRA’ DUE NUOVI REATTORI NUCLEARI IN UNGHERIA

L’azienda pubblica russa dell’energia nucleare Rosatom inizierà nelle prossime settimane a costruire due nuovi reattori nucleari in Ungheria. Lo ha affermato il ministro degli Esteri ungherese, Peter Szijjarto.
L’accordo raggiunto da Mosca e Budapest nel 2014, riferisce la Bbc, mira ad ampliare l’esistente centrale nucleare di Paks, che attualmente genera il 40% della fornitura di elettricità dell’Ungheria.
Con i due reattori aggiuntivi, la centrale nucleare, oggi composta da quattro reattori di era sovietica, potrà almeno raddoppiare la sua capacità di produzione. Il progetto da 12,5 miliardi di euro è in gran parte finanziato dalla Russia, la cui industria nucleare non è soggetta alle sanzioni Ue per l’invasione dell’Ucraina. Il governo ungherese si aspetta che i lavori vengano ultimati entro il 2030.
“Che la costruzione abbia inizio! Questo è un grande passo, una pietra miliare importante”, ha scritto Szijjarto in un post su Facebook. “In questo modo – ha aggiunto – garantiremo la sicurezza energetica dell’Ungheria a lungo termine e proteggeremo gli ungheresi dalle oscillazioni selvagge dei prezzi dell’energia”.
(da agenzie)

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