Febbraio 15th, 2023 Riccardo Fucile
SMENTITO IL GOVERNO CHE SE NE FREGA DEL FUTURO DEL PIANETA… “LA GREEN ECONOMY CREA NUOVI POSTI DI LAVORO E OPPORTUNITA’ INDUSTRIALI”
La decisione dell’Unione Europea di mettere uno stop, a partire dal 2035, alla vendita di auto a benzina o diesel è stata accolta con un certo scetticismo dal governo italiano.
Il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini l’ha definita una «decisione folle», il ministro degli Esteri Antonio Tajani parla di «obiettivi irraggiungibili», mentre secondo il ministro dell’Industria Adolfo Urso la decisione è frutto di una «visione ideologica e faziosa».
Eppure, chi opera all’interno del settore dell’automotive sapeva che questa svolta prima o poi sarebbe arrivata.
E adesso in molti sono già al lavoro per rimboccarsi le maniche e far sì che la transizione – dai tradizionali motori endotermici alle auto elettriche – sia il più indolore possibile.
«Il passaggio alla green economy crea davvero posti di lavoro e opportunità industriali. Ma è una partita che va giocata bene, sia a livello europeo che italiano», avverte Matteo Di Castelnuovo, professore di Economia dell’energia all’Università Bocconi di Milano.
«Il tempo c’è», aggiunge Gianmarco Giorda, direttore generale di Anfia, l’associazione che rappresenta le aziende della filiera automobilistica italiana. «Piuttosto la questione ora è un’altra: come agevolare questa transizione a livello economico».
Chi rischia il posto
Adesso che è arrivato l’ok definitivo del Parlamento Europeo, non ci sono altre strade: per poter sopravvivere, il settore dell’automotive dovrà avviare un processo di radicale trasformazione. Il nodo più importante è quello dei posti di lavoro. Secondo le stime di Anfia, saranno circa 450 le aziende coinvolte dalla decisione europea e 70mila i posti di lavoro potenzialmente a rischio.
«Naturalmente questo non significa che resteranno tutti a casa», chiarisce Gianmarco Giorda, direttore generale di Anfia. «Il fatturato di queste aziende, che operano quasi interamente nei settori del motore a combustione interna, calerà già nei prossimi anni, per poi sparire del tutto a partire dal 2035. Si dovrà fare un’attività di accompagnamento per far sì che possano differenziare il proprio portafoglio di prodotti, non per forza restando all’interno della filiera automobilistica», aggiunge Giorda.
Rispetto ai veicoli a benzina e diesel, le auto elettriche hanno meno componenti. Alcune parti del veicolo, però, restano tutto sommato simili, a partire dagli pneumatici e dai freni.
«La vera differenza sta in ciò che si trova sotto il cofano – spiega Di Castelnuovo -. Chi produce componenti che vanno a finire in quella parte dell’auto sarà costretto a riconvertire la propria produzione per non trovarsi in difficoltà».
Secondo il professore della Bocconi, per evitare che la decisione dell’Ue si trasformi in un dramma occupazionale c’è bisogno innanzitutto di portare in Italia la produzione di alcune componenti essenziali per le auto elettriche, a partire dalle batterie.
«Oggi gran parte delle batterie che usiamo vengono importate dalla Cina, dove abbiamo delocalizzato la produzione», spiega Di Castelnuovo. «Servono incentivi – aggiunge – per riportare all’interno dei nostri confini la produzione di queste tecnologie e stimolare la domanda interna, come stanno facendo negli Stati Uniti».
Le richieste di produttori e sindacati
Una sfida tutt’altro che semplice, soprattutto per l’Italia.
«Siamo un po’ indietro rispetto ad altri Paesi europei – ammette il direttore generale di Anfia -. Un po’ perché produciamo meno auto, un po’ per ragioni culturali. Il diesel è stato a lungo un nostro vantaggio competitivo, ma ora si sta trasformando nell’esatto opposto».
Da qui, la richiesta di Anfia – e di tutte le aziende che operano nella filiera automobilistica – di agevolare la transizione voluta dall’Ue.
«Al di là del fondo nazionale automotive, chiediamo a Bruxelles di istituire un altro fondo on top per aiutare il nostro settore a investire in nuovi macchinari e affrontare questo passaggio», precisa Giorda. «Abbiamo già fatto diversi incontri con i ministri e ne faremo altri. Ora che la decisione dell’Ue è definitiva, insisteremo sulle nostre proposte», aggiunge il direttore generale di Anfia.
Se i produttori chiedono incentivi al governo e alla Commissione Europea, i sindacati avanzano un’altra richiesta: un piano straordinario del governo per il settore dell’automotive.
«L’Italia ha abbandonato qualsiasi politica industriale da almeno un decennio. E il risultato è che oggi ci troviamo in una fase di cambiamento epocale senza sapere come muoverci», spiega Simone Marinelli, coordinatore nazionale automotive per la Fiom Cgil.
L’obiettivo dei sindacati è chiaro: far sì che la sostenibilità della svolta voluta da Bruxelles sia non solo di tipo ambientale ma anche sociale. «La decisione dell’Ue è un obiettivo che va colto, altrimenti rischiamo di guardare il dito e non arrivare sulla Luna – spiega Marinelli -. Ma è importante che questo passaggio avvenga senza perdite occupazionali. Anzi, dovremmo sfruttare questo cambiamento per creare posti di lavoro».
Verso un nuovo «ecosistema»
Accanto ai temi della riconversione industriale e dell’occupazione, la svolta europea verso le auto elettriche pone una serie di altre questioni economiche: la produzione di energia elettrica, le infrastrutture, la formazione di nuovi professionisti e, non da ultimo, le accise.
Nel 2021, le tasse sui carburanti hanno portato nelle casse dello Stato 24 miliardi di euro. Se da qui al 2035 il numero di auto a benzina diminuirà fino a scomparire, lo Stato vedrebbe diminuire le proprie entrate.
Per agevolare il passaggio all’elettrico, poi, è necessario fare investimenti su tutto l’indotto. A partire dalle infrastrutture di ricarica, che oggi non sono ancora diffuse in modo capillare su tutto il territorio nazionale. «Per riassumere tutto con una sola parola, dobbiamo creare un nuovo ecosistema», precisa Di Castelnuovo.
«Possiamo anche stracciarci le vesti, ma la svolta è stata decisa e sappiamo che arriverà. La cosa migliore che possiamo fare è metterci al lavoro per agevolare questo processo il più possibile».
(da Open)
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Febbraio 15th, 2023 Riccardo Fucile
NONOSTANTE LA GRANCASSA DEI MEDIA SPONSORIZZI L’AMICO DI RENZI, IL VOTO POPOLARE PREDILIGE ELLY
Elly Schlein davanti a Stefano Bonaccini nella corsa alla segreteria del Pd. La notizia arriva dal sondaggio politico di Winpoll pubblicato oggi su La Stampa, che ribalta le aspettative create finora dai voti in arrivo dai circoli.
Il vantaggio del presidente dell’Emilia-Romagna è sembrato assottigliarsi nel corso dei giorni, ma è sempre stato considerato il favorito – in ogni caso – nella successione a Enrico Letta.
Dalle stime che vengono fatte sull’elettorato, però, arriva una risposta abbastanza chiara: ai gazebo è Schlein la favorita da battere, ammesso che – come ormai è quasi certo – si arrivi al confronto finale tra i due.
Mancano ancora alcuni giorni prima della chiusura del voto nei circoli, a cui possono partecipare solamente gli iscritti al Partito Democratico.
In corsa – ma nettamente staccati rispetto ai primi due – ci sono anche Gianni Cuperlo e Paola De Micheli.
Poi, una volta scelti i due candidati con maggior consenso, si procederà al voto ai gazebo aperto anche ai simpatizzanti. E proprio lì Schlein potrebbe emergere: secondo Winpoll la deputata è al 56,3% tra i potenziali elettori del Pd, contro il 43,7% di Bonaccini in un confronto diretto tra i due.
Scendendo nello specifico delle fasce d’età che compongono il campione di elettorato dem, arriva un dettaglio in più sulle preferenze per Schlein: la deputata guadagna il massimo consenso tra i più giovani, che nella fascia tra i 18 e i 29 anni la premiano con il 61% delle preferenze contro il 26% di Bonaccini.
Tra i 30 e i 44 anni in testa c’è ancora Schlein con il 45%, davanti al presidente dell’Emilia-Romagna al 40%. È un confronto quasi alla pari, invece, nella fascia tra i 45 e i 65 anni: la deputata al 39% con il governatore al 41%. Ma Schlein conquista anche gli over 65: 48% con Bonaccini fermo al 33%.
Schlein è la preferita tra le donne (53% contro 30%), Bonaccini il favorito tra gli uomini (44% contro 40%).
Al Nord prevale Schlein con il 48% contro il 36% di Bonaccini. Al Centro la deputata è avanti col 47% contro il 39%. Sud e Isole vedono il governatore in vantaggio col 41% contro il 39%.
(da Fanpage)
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Febbraio 15th, 2023 Riccardo Fucile
INTERVISTA ALL’ AVV. CAMPOCHIARO, UNO DEI LEGALI DELLA ONG CHE HA BATTUTO IL GOVERNO
“C’è un aspetto della sentenza che, probabilmente, è il più attuale tra tutti: è quello che riguarda la protezione internazionale, e cioè l’obbligo da parte dello Stato di dare seguito a quella richiesta in tempi brevi”. Riccardo Campochiaro è uno degli avvocati del “carico residuale”.
Cioè i 35 migranti (bangladesi, egiziani e pakistani) rimasti a bordo della nave Humanity 1 della ong Sos Humanity più a lungo degli altri.
Finché per loro l’Usmaf, l’Ufficio sanità marittima, non ha riconosciuto “il disagio psicologico e psichiatrico crescente” dovuto al “prolungarsi indefinito” della permanenza sull’imbarcazione.
Campochiaro, già componente del team legale dell’organizzazione umanitaria, commenta con Fanpage.it la sentenza del tribunale di Catania che definisce “illegittimo” il decreto interministeriale sullo “sbarco selettivo”.
Puntando l’attenzione, però, non tanto sull’illegittimità del decreto firmato in quei giorni dai ministri Matteo Piantedosi (Interno), Guido Crosetto (Difesa) e Matteo Salvini (Infrastrutture), bensì sui punti fermi che il pronunciamento della giudice etnea Marisa Acagnino mette per il futuro.
Anche rispetto al cosiddetto “codice di condotta” per le Ong, che attende di essere convertito in legge dal Parlamento, e che punterebbe a rafforzare le competenze dello Stato di bandiera della nave, più che del porto di approdo.
“Il racconto che il governo ha fatto di quel provvedimento lascia intendere che i migranti soccorsi debbano fare richiesta di protezione già a bordo, allo Stato di bandiera della nave. Nel caso di Humanity 1, per esempio, sarebbe la Germania – afferma Campochiaro – In realtà, però, il decreto non dice questo. Dice, invece, che gli ufficiali a bordo devono dare ai naufraghi tutte le informazioni possibili sulle richieste d’asilo, e questa è una cosa positiva, e cominciare a prendere i dati di coloro che manifestano l’intenzione di fare richiesta di protezione internazionale”. Un fatto diverso dal formulare un’istanza. “L’Italia non può imporre che la richiesta di asilo venga fatta sulla nave, allo Stato a cui fa riferimento la nave stessa, perché sarebbe una violazione del diritto internazionale”, aggiunge il legale.
La normativa internazionale dice che la richiesta di protezione può essere formulata alle frontiere, all’interno del Paese o nelle sue acque territoriali. L’ordinanza del tribunale di Catania ricorda “l’obbligo dello Stato italiano a registrare tale domanda, consentendo la regolarizzazione, seppure temporanea, della permanenza del migrante nel territorio dello Stato”, e di farlo in “tempi brevi”, si legge nel documento.
“In sintesi – spiega Riccardo Campochiaro – il tribunale blocca sul nascere ogni speculazione possibile sull’ipotesi di chiedere asilo allo Stato di bandiera della nave”.
Dall’inizio di novembre, quando Humanity 1 e Geo Barents sono rimaste ormeggiate, ostaggio delle decisioni del governo, una di fronte all’altra al porto di Catania, nel capoluogo etneo non si sono più fermate navi di Ong. Né sono stati più operati sbarchi “selettivi”.
“Quello di Catania non è più stato indicato come un porto sicuro e, all’arrivo altrove, è stato permesso a tutti di scendere a terra”, ricorda Campochiaro. Alla sosta forzata sulle banchine dei porti siciliani è stata sostituita la navigazione forzata fino al porto di assegnazione sulla penisola. Geo Barents di Medici senza frontiere, con a bordo 48 persone di cui nove minori, ha ricevuto l’assegnazione del porto di Ancona, “distante cinque giorni di navigazione”, hanno reso noto dalla Ong.
“È ovvio che si tratta di politiche che puntano tutte a deflazionare il carico degli arrivi sulle coste italiane, soprattutto se da navi di organizzazioni non governative – conclude Campochiaro – La sentenza definisce illegittimo un decreto interministeriale che, al momento, non viene più usato per normare gli sbarchi sul territorio nazionale. Ma che resta in vigore”.
E che, quindi, in futuro, potrebbe anche essere rispolverato. “In questo senso la decisione del tribunale di Catania è certamente importante – conferma l’avvocato – È un punto di partenza importante. Su questo e, come detto, sul tema della protezione internazionale”.
(da Fanpage)
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Febbraio 15th, 2023 Riccardo Fucile
“CONTRARIO A LEGGI NAZIONALI E NORME INTERNAZIONALI”… L’OPPOSIZIONE DORME E NON CHIEDE LE DIMISSIONI DEI TRE FIRMATARI: PIANTEDOSI, SALVINI E CROSETTO
Il ministro Piantedosi li aveva definiti “carico residuale”, ma tutti i richiedenti protezione a bordo della Humanity 1 avevano dei diritti, che il governo Meloni doveva rispettare, e che invece ha calpestato.
Questo è quel che sottolinea il Tribunale di Catania, con un’ordinanza che condanna i ministeri dell’Interno, della Difesa e delle Infrastrutture a pagare le spese processuali.
Per farlo, analizza il decreto interministeriale che Piantedosi, Crosetto e Salvini avevano emanato per vietare alla nave della Ong, con 179 naufraghi a bordo, di “sostare nelle acque territoriali nazionali oltre il termine necessario alle operazioni di soccorso e assistenza nei confronti delle persone che versino in condizioni emergenziali e in precarie condizioni di salute segnalate dalle competenti Autorità nazionali”. Quell’ordine, però, era illegittimo.
Il 5 novembre 2022, dopo diversi giorni di navigazione e con condizioni meteo avverse, alla Humanity viene finalmente assegnato il porto di Catania come place of safety. Il giorno prima, però, il ministro dell’Interno, di concerto con quelli della Difesa e delle Infrastrutture, aveva emanato un atto che impediva lo sbarco dei naufraghi, prevedendo il soccorso per le sole persone che versassero in “condizioni emergenziali”. I primi naufraghi assistiti e fatti sbarcare furono 144, in precarie condizioni di salute. A bordo rimasero 35 persone, il “carico residuale”: nelle intenzioni del governo sarebbero dovuti uscire dalle acque territoriali, eppure l’8 novembre 2022, dopo diversi incidenti diplomatici, sbarcarono. Nel frattempo, avevano manifestato l’intenzione di presentare richiesta di protezione internazionale e, di fronte ai divieti ministeriali, avevano presentato un ricorso cautelare al Tribunale di Catania.
Da un punto di vista giudiziario, il fatto che, alla fine, tutti i naufraghi siano sbarcati significa che è “cessata la materia del contendere”: il motivo per il quale si chiedeva il giudizio è venuto meno, la sentenza non serve più.
Il tribunale, però, deve decidere sulle spese di giudizio, attribuendole all’una o all’altra parte (o, in altri casi, a entrambe). E, per farlo, segue il principio della soccombenza virtuale, cioè valuta comunque la questione e condanna in questo caso i ministeri dell’Interno, della Difesa e delle Infrastrutture, perché il loro decreto era contrario sia alle leggi nazionali, sia alle norme internazionali.
La violazione dei diritti oltre la propaganda
Innanzitutto, il Tribunale ricorda che il decreto interministeriale in questione è, come (quasi) tutti gli ordini governativi, un semplice atto amministrativo. Ma gli atti amministrativi devono essere applicati “in quanto conformi alla legge”, il che significa che, se invece non rispettano la legge, possono (anzi devono) essere disapplicati.
È quel che è accaduto al decreto Piantedosi-Crosetto-Salvini e il Tribunale spiega, in maniera sintetica ma completa, il perché.
Primo. La convenzione UNCLOS sul soccorso in mare, che l’Italia ha ratificato nel 1989, impone di fornire assistenza a ogni naufrago, senza distinzioni, nemmeno sulla base delle condizioni di salute. La ragione di un simile obbligo è tanto semplice quanto logica: in una fase di soccorso, la priorità è salvare vite, a prescindere che il naufrago sia un appassionato di pesca sportiva, il proprietario di uno yacht affondato o una persona in fuga dai lager libici. E il soccorso deve essere il più semplice e spedito possibile. La logica è la stessa di un’ambulanza che accorre sul luogo di un incidente: i paramedici trasportano i feriti in ospedale, senza preoccuparsi di compilare la constatazione amichevole.
Secondo. Il soccorso non si esaurisce con l’assistenza in mare, ma si conclude solo quando il naufrago sbarca in un luogo sicuro (place of safety), dove possono essere garantite le necessità umane primarie: cibo, alloggio, cure mediche, protezione internazionale. Lasciare un naufrago su una nave equivale a non prestare il soccorso completo richiesto dagli obblighi internazionali.
Terzo. Tra le necessità umane primarie, come anticipato, c’è anche il diritto di richiedere la protezione internazionale. Chiunque entri in uno Stato deve poter presentare una richiesta simile. La legge italiana, in linea con il sistema internazionale, prevede che il richiedente ottenga un permesso di soggiorno temporaneo, in attesa che si esprima la commissione che valuta i requisiti di protezione. Pur avendo manifestato la volontà di chiedere protezione, i trentacinque naufraghi che non versavano in condizioni mediche di emergenza sono invece stati lasciati ad aspettare sulla nave.
Quarto. Impedire in questo modo il diritto di richiedere asilo o protezione internazionale viola anche la Convenzione europea sui diritti umani (CEDU), perché il decreto interministeriale avrebbe messo in atto un’espulsione collettiva. L’espulsione collettiva è illegittima (e l’Italia è stata condannata più e più volte per questa prassi) perché infrange due diritti fondamentali. Da un lato, cacciare dei richiedenti protezione significa respingerli alla situazione di danno o di pericolo da cui provengono: e questo significa calpestare il diritto di non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti (art. 3 CEDU). Dall’altro, non viene garantito un rimedio effettivo contro l’espulsione (art. 13 CEDU), proprio perché la situazione del naufrago, nella sua individualità, non viene analizzata, e la protezione viene negata a priori, con un respingimento collettivo.
Insomma, il decreto firmato dai ministri Piantedosi, Crosetto e Salvini era illegittimo, e calpestava tanto i princìpi sul soccorso in mare quanto i diritti umani di protezione internazionale, confermando ancora un’azione di governo, specie su profughi e sbarchi, più di propaganda che di sostanza.
(da Fanpage)
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Febbraio 15th, 2023 Riccardo Fucile
“LE MONDE”: “SI STANNO ORGANIZZANDO PER GARANTIRE CHE I SUOI ABITANTI SIANO IN GRADO DI RESISTERE IN CASO DI CONFLITTO. CHE SI TRATTI DI SOLDATI DI CARRIERA E RISERVISTI, DIPENDENTI PUBBLICI, AUTISTI DI AUTOBUS O INFERMIERI, TUTTI HANNO RICEVUTO IL LORO ‘INCARICO DI GUERRA”
Ritornata al centro dell’agenda politica dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia, la difesa civile è stata intensificata dopo l’invasione dell’Ucraina. Il Paese – scrive il corrispondente di Le Monde – si sta organizzando per garantire che i suoi abitanti siano in grado di resistere in caso di conflitto.
Erano 404.218 il 31 dicembre 2022, il 16% in più rispetto a giugno. Che si tratti di soldati di carriera e riservisti, dipendenti pubblici, autisti di autobus o infermiere, tutti hanno ricevuto il loro “incarico di guerra”.
Se la Svezia viene attaccata, sanno cosa ci si aspetta da loro. La maggior parte di loro, come i dipendenti della televisione pubblica e della radio avvisati nell’ottobre 2022, dovrà continuare a svolgere il proprio lavoro, considerato fondamentale per il funzionamento della società. Altri sono stati selezionati per le loro competenze specifiche.
A ciascuno di loro viene chiesto di esercitare la propria discrezionalità. La protezione civile del Paese è nel bel mezzo di una rinascita dopo una lunga pausa di quasi tre decenni, durante i quali “abbiamo voluto credere nella pace eterna”, afferma Marinette Nyh Radebo, responsabile delle comunicazioni presso l’agenzia di reclutamento delle forze armate svedesi. L’agenzia tiene i registri delle assegnazioni e si assicura che non ci siano doppioni. “Quando la polizia ci ha inviato i suoi elenchi, abbiamo scoperto che diverse migliaia di peacekeepers erano riservisti”, dice Nyh Radebo.
Per fare un paragone, nel 1992 il Paese, che allora contava 8,5 milioni di abitanti (contro i 10 milioni di oggi), poteva destinarne 2,2 milioni alla protezione civile, oltre a un milione chiamato a far parte dell’esercito. Per gli altri abitanti, di età compresa tra i 16 e i 70 anni, che non erano stati assegnati, non c’era nemmeno la possibilità di fuggire: dovevano continuare la loro attività e potevano essere mobilitati dall’agenzia nazionale del lavoro.
Questo dovere di difesa, caduto in disuso alla fine del XX secolo, è stato ricordato ai 121.500 giovani svedesi che hanno compiuto 16 anni nel 2022. L’Agenzia per la Protezione Civile (MSB) ha inviato loro una lettera, informandoli che ora fanno parte della “difesa totale” del Regno e hanno l'”obbligo di aiutare in caso di minaccia di guerra o di guerra”.
Questo concetto è tornato in cima all’agenda politica svedese nel 2015, un anno dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia. L’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio 2022 “ha dato una dimensione completamente nuova”, afferma Marcus Björklund, responsabile della pianificazione della contea di Skåne, nel sud della Svezia. La prova: per la prima volta dal 1947, il regno ha di nuovo un ministro della difesa civile, accanto al ministro delle forze armate.
Il conservatore Carl-Oskar Bohlin, entrato in carica il 18 ottobre 2022, giustifica la sua nomina con “la gravissima situazione della sicurezza in Svezia e in Europa”. Il suo ruolo, spiega, è quello di coordinare gli sforzi per ricostruire la difesa civile del Paese, in modo che “la società continui a funzionare, in caso di attacco militare, nonostante le gravissime interruzioni” e che “sia anche in grado di concentrare tutte le sue risorse ed energie per sostenere l’esercito nel suo compito”.
“Errore strategico”
La protezione civile è nata dopo la Seconda guerra mondiale, ricorda Camilla Eriksson, esperta in materia presso l’Istituto svedese di ricerca sulla difesa (FOI): “Abbiamo scoperto allora che la guerra moderna colpisce l’intera società, come accade oggi in Ucraina, dove ci aspettavamo più una guerra ibrida e di precisione. Di fronte a questa guerra totale, avevamo bisogno di una difesa totale, sia militare che civile”.
La Svezia si dichiara neutrale e non vive un conflitto armato dal 1814. Questo non le impedisce di essere preparata: “Abbiamo pensato che sarebbe potuto accadere di nuovo e che avremmo potuto essere coinvolti, soprattutto per la nostra vicinanza alla Finlandia e all’Unione Sovietica”, osserva Marinette Nyh Radebo. Durante la Seconda guerra mondiale, anche gli svedesi hanno sperimentato la penuria. “Il Paese voleva proteggersi dalle conseguenze di un ulteriore isolamento”, aggiunge la signora Eriksson.
Nei decenni successivi, il regno ha sviluppato un sistema di protezione civile che ha fatto impallidire i suoi vicini: “Probabilmente avevamo il sistema più elaborato e ben sviluppato del mondo”, dice Carl-Oskar Bohlin, con una punta di amarezza. Dopo la caduta del Muro di Berlino e l’implosione del blocco sovietico, con la minaccia di una guerra sul suolo europeo che si allontanava, la Svezia “ha commesso l’errore strategico di credere nella fine della storia”, secondo il Ministro della Protezione Civile.
Una svolta di 180 gradi
La difesa totale non viene più insegnata nelle scuole superiori e le informazioni pratiche (allarmi, ubicazione dei rifugi, attrezzature da conservare in casa, ecc.) riportate nell’elenco telefonico durante la Guerra Fredda stanno finalmente scomparendo. Le enormi riserve di attrezzature e cibo sono state abbandonate. I rifugi antiatomici sono stati trasformati in capannoni per biciclette. Da parte sua, la Finlandia, che si è ispirata al modello svedese per costruire la sua strategia di “sicurezza globale”, non ha cambiato nulla.
Nel 2014, l’invasione della Crimea ha provocato una svolta di 180 gradi: il servizio militare svedese, abolito nel 2010, è stato ripristinato nel 2017, l’isola di Gotland – smilitarizzata – ha ricevuto un nuovo reggimento e la protezione civile è stata rilanciata. Nel 2018, 4,9 milioni di famiglie hanno ricevuto nella cassetta della posta l’opuscolo “In caso di guerra o crisi”, tradotto in 14 lingue (compreso il francese), che spiega come prepararsi al peggio. Spiega come prepararsi al peggio, ad esempio come fare scorta di cibo e acqua potabile per almeno una settimana.
Le autorità e le amministrazioni locali stanno rilanciando la loro pianificazione. Lo scenario più frequentemente citato è ancora quello di una crisi causata da un disastro naturale. “Pensavamo che se fossimo stati pronti per una catastrofe naturale, saremmo stati pronti anche per una guerra”, afferma Marcus Björklund del Consiglio provinciale di Skåne. Ma c’è una differenza, osserva il ministro: “In guerra, la società è esposta a un avversario dinamico, un antagonista che cerca di sfruttare le nostre debolezze, creare effetti a cascata e pianificare la prossima mossa”.
Ora la Svezia si sta preparando anche alla guerra, pensando di essere pronta per qualsiasi tipo di crisi. La pianificazione avviene a tutti i livelli della società. Nella Scania, circa un centinaio di persone ci lavorano a tempo pieno, rispetto alla trentina di dieci anni fa. La prefettura è attiva in tutti i settori: dalla creazione di un’organizzazione di crisi, in grado di essere mobilitata 24 ore su 24 per un lungo periodo, alla stesura di piani di evacuazione e di distribuzione del carburante, senza dimenticare l’identificazione del patrimonio culturale da proteggere dalle bombe, “perché una guerra si combatte anche sul campo culturale”, dice Marcus Björklund.
A livello nazionale, una legge entrata in vigore il 1° ottobre 2022 individua dieci settori strategici (poste e telecomunicazioni, servizi finanziari, energia, sanità, ecc.) e chiede alle agenzie governative di garantirne il funzionamento. Per gli alimenti e l’acqua potabile, la responsabilità è di tre enti: l’Agenzia alimentare nazionale, l’Agenzia per l’agricoltura e l’Istituto veterinario svedese. La sfida, afferma Patrik Moström, responsabile dell’unità di emergenza dell’agenzia per l’agricoltura, è quella di “mantenere le persone in salute per un lungo periodo di tempo, tra i tre mesi e l’anno”, mentre le importazioni possono essere sospese e le vie di approvvigionamento interrotte.
In un rapporto intitolato “Cibo e preparazione”, pubblicato nel novembre 2021, l’agenzia stima il fabbisogno medio giornaliero a 2.450 calorie per persona – 100 calorie in più rispetto al tempo di pace. “In tre mesi, se si è in salute, non si ha il tempo di sviluppare gravi carenze. Ma è necessario avere abbastanza energia per garantire la resistenza della popolazione”, afferma Lena Lind, esperta del dipartimento di preparazione degli approvvigionamenti dell’Agenzia alimentare.
Il passo successivo consiste nell’individuare ciò che può essere prodotto localmente e ciò che deve essere immagazzinato in anticipo. Molto è cambiato dalla fine della Guerra Fredda. “Siamo in una società just-in-time con poche riserve”, osserva Patrik Moström. La dipendenza dalle importazioni è aumentata, come ha dimostrato la pandemia di Covid-19. La Svezia è autosufficiente solo al 50% (rispetto all’80% della Finlandia).
La rivoluzione digitale ha anche aumentato la vulnerabilità della società agli attacchi esterni. Quanto alle privatizzazioni degli ultimi trent’anni, “hanno aumentato il numero di attori che devono essere mobilitati, complicando il coordinamento”, osserva Camilla Eriksson.
Tutti citano l’Ucraina e le lezioni che se ne possono trarre. Ma l’obiettivo è quello di “costruire un’organizzazione che possa affrontare qualsiasi scenario a lungo termine”, afferma Rickard Bjerselius dell’agenzia alimentare. È responsabile dell’armonizzazione dei regolamenti svedesi con i requisiti europei e con quelli della NATO, di cui la Svezia spera di diventare presto membro.
A Stoccolma, l’agenzia per la protezione civile vuole aumentare la volontà degli svedesi di difendere il proprio Paese attraverso campagne di informazione ed esercitazioni. “Non siamo così ingenui da credere di poter resistere a tutto”, afferma Patrik Moström. Ma preparandosi a qualsiasi eventualità, il Regno spera anche di dissuadere un eventuale avversario dall’attaccarlo.
(da Le Monde)
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Febbraio 15th, 2023 Riccardo Fucile
RENZI NON VUOLE PIÙ CHE IL COGNOME DI CALENDA COMPAIA NEL LOGO
«Il progetto del Terzo polo va avanti», dicono entrambi, Renzi e Calenda. Ma su tempi e modi per provare a rivitalizzare il cantiere centrista qualche crepa inizia a venire a galla, Calenda ha chiesto di accelerare sul partito unico. Obiettivo: fondere definitivamente Azione e Iv. Renzi è più cauto, è convinto che serva ancora tempo e che la deadline debba continuare a coincidere con le Europee, fra un anno e mezzo. Ma un altro nodo, rimasto finora sottotraccia, rischia di rendere i rapporti più tesi: il simbolo della nuova forza politica. Renzi non vuole più che il cognome di Calenda compaia nel logo.
Non perché voglia sostituirlo col suo, ma perché crede che sia un errore personalizzare il nuovo cartello. Del resto anche nel 2018, quando era segretario del Pd, sulla scheda elettorale delle Politiche il simbolo dem rimase quello originale, senza aggiunte. Fosse stato per l’ex premier, la scritta “Calenda” non sarebbe comparsa nemmeno in questa tornata delle Regionali.
Avrebbe preferito metterci Moratti e D’Amato, il candidato del Lazio, come testimonia uno scambio di messaggini in chat tra i due, che risale a un mese e mezzo fa. Alla fine il cognome di Calenda è rimasto, ma solo perché è servito a bypassare la raccolta delle firme, operazione complicata fra Natale e la Befana. Il risultato, soprattutto in Lombardia, ha rafforzato la convinzione di Renzi.
(da la Repubblica)
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Febbraio 15th, 2023 Riccardo Fucile
SMETTE DI COMBATTERE E FONDA UNA ORGANIZZAZIONE DI BENEFICIENZA A SUPPORTO DEI PATRIOTI UCRAINI
Era in Ucraina per combattere al fianco delle truppe di Kiev. Giulia Schiff, ex pilota dell’Aeronautica militare da mesi in prima linea come volontaria nelle Forze Speciali della Legione Internazionale, ha deciso di togliere la divisa, sposare un 29enne israelo-ucraino conosciuto nel maggio scorso nella legione straniera e fondare – insieme al marito – un’organizzazione di beneficenza di supporto alle milizie.
La 24enne italiana, che in Italia qualche anno prima da allieva dell’Accademia di Pozzuoli aveva denunciato di essere stata vittima di mobbing e nonnismo si è detta «soddisfatta della sua esperienza e della sua nuova vita».
Ora, Kida – questo il suo nome di battaglia – si trova a Dnipro, dove vive con Victor. «Lui – spiega – ha dovuto fermarsi per motivi di salute, a causa dei danni subiti per le pressioni delle bombe in diversi episodi. Per stargli vicino, a novembre ho mollato tutto e sono tornata da lui», ha detto all’Ansa. Tuttavia, i due non hanno smesso di aiutare i soldati ucraini: «Abbiamo fondato un’organizzazione di beneficenza che porta aiuti alle truppe e sono in cantiere altri progetti».
(da Open)
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Febbraio 15th, 2023 Riccardo Fucile
GUAI A RACCONTARE LA VERITA’ AL POPOLO
Condannata a sei anni di reclusione per aver dato la notizia del raid aereo di Mosca contro il teatro ucraino di Mariupol. La giornalista Maria Ponomarenko documentò sui suoi social l’attacco che provocò la morte di centinaia di civili, tra cui molti bambini. Ora il tribunale di Barnaul, in Siberia, l’ha giudicata colpevole di aver diffuso fake news su quanto successo a Mariupol. Oltre ai sei anni di carcere, i giudici hanno vietato alla giornalista di svolgere la sua attività lavorativa per cinque anni.
La 44enne che scriveva per il sito RusNews era stata arrestata settimane dopo il bombardamento per aver pubblicato il post in cui si affermava che l’attacco a Mariupol era stato compiuto da aerei da guerra russi, nonostante il ministero della Difesa avesse smentito la notizia. Lo scorso aprile l’organizzazione indipendente Committee to Protect Journalists aveva lanciato un appello per richiedere la scarcerazione della giornalista.
«Le autorità russe dovrebbero immediatamente abbandonare tutte le accuse e smettere di perseguitare i membri della stampa». Ora il tribunale di Barnaul ha emesso la sua sentenza. Ponomarenko ha accolto la decisione con lo stesso coraggio che l’ha contraddistinta fin dai primi momenti della guerra di Mosca: «Nessun regime totalitario è mai stato così forte come prima del suo crollo», ha detto subito dopo aver appreso la sentenza.
(da agenzie)
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Febbraio 15th, 2023 Riccardo Fucile
“LE RAGAZZE ANDAVANO INDAGATE, NON POTEVANO TESTIMONIARE”: LA DECISIONE DI RENDERE INUTILIZZABILI PER IL PROCESSO TUTTI I PRIMI VERBALI DELLE RAGAZZE HA PORTATO ALL’ASSOLUZIONE
Due ore di camera di consiglio per un’assoluzione totale per tutti i ventinove imputati. A cominciare da Silvio Berlusconi, accusato di corruzione in atti giudiziari nel processo milanese sul caso Ruby ter, e Karima el Mahroug, “Ruby Rubacuori”, la marocchina, diciassettenne all’epoca dei fatti e ora trentenne, accusata di corruzione e falsa testimonianza. Con loro, il proscioglimento è arrivato per tutte le altre ragazze ospiti delle “cene eleganti” di Arcore e la cerchia di personalità che frequentavano villa San Martino.
Per il collegio della settima sezione penale del tribunale di Milano, presieduto da Marco Tremolada, “il fatto non sussiste”. Tutti assolti, e prosciolti anche tre posizioni minori per prescrizione.
Le ragazze imputate, sentite nei due processi sul caso Ruby, “non potevano legittimamente rivestire l’ufficio pubblico di testimone”, perché andavano indagate già all’epoca e sentite come testi assististe da avvocati.
A spiegare il senso della decisione, in attesa delle motivazioni del Tribunale (che saranno pubblicate entro 90 giorni), è una nota del presidente del Tribunale di Milano, Fabio Roia.
Una possibilità introdotta dalle linee guida sull’organizzazione degli uffici giudiziari del Csm. Le ventuno giovani andavano sentite quindi come indagate, e i loro verbali raccolti nei primi due processi Ruby – come testimoni – sono stati quindi dichiarati inutilizzabili nel dibattimento.
Questo “incide sulla stessa possibilità di configurare sia la falsa testimonianza, sia la corruzione in atti giudiziari”, scrive nella nota il tribunale. Non ci può essere la falsa testimonianza se un soggetto non riveste la qualità di testimone. E non può esserci la corruzione in atti giudiziari se non vi è la qualifica di pubblico ufficiale derivante dalla qualifica di testimone. E’ così che cadono le imputazioni nei confronti di Silvio Berlusconi, perché l’accusa “non può sussitere nemmeno nei confronti dell’ipotizzato corruttore, nel caso di specie Berlusconi”.
La Procura di Milano, rappresentata dall’aggiunto Tiziana Siciliano e dal sostituto procuratore Luca Gaglio, chiedeva per il leader di Forza Italia la condanna a 6 anni di reclusione e la confisca di 10.846.123 euro. Con il deposito delle motivazioni, l’accusa non esclude di fare ricorso.
La sentenza chiude un dibattimento durato sei anni in cui la procura di Milano ha accusato il leader di Forza Italia di aver pagato – a partire dal novembre 2011 e fino al 2015 – circa dieci milioni di euro alle giovani ospiti di Arcore per essere reticenti o mentire durante i processi Ruby e Ruby bis sulle serate a villa San Martino.
Un’accusa da cui l’ex premier si è sempre difeso parlando di “generosità” per ricompensare chi si è visto rovinare la vita da un’inchiesta giudiziaria presto esplosa sulla stampa. Ora la sentenza. Con un verdetto su cui pesa l’ordinanza emessa dai giudici nel novembre 2021: hanno dichiarato “inutilizzabili” i verbali di almeno 18 giovani resi nei processi Ruby, perché, secondo il Tribunale, andavano già indagate dal marzo 2012 e sentite in aula con la garanzia dei testi assistiti da avvocati.
“Non c’è amarezza, è il nostro sistema giudiziario, abbiamo lavorato con profonda convinzione e le prove dal nostro punto di vista ci hanno dato la convinzione, che rimane, che ci siano state le false testimonianze e la corruzione”, ha commentato Siciliano. Le ragazze, ha continuato il magistrato, “hanno sicuramente mentito. Lo hanno accertato due sentenze passate in giudicato. Il presupposto è che abbiano mentito. Ora c’è un tema squisitamente giuridico, ovvero se hanno mentito nella veste di testi o di soggetti che avrebbero dovuto avere un’altra qualifica e quindi non tenuti a dire la verità”.
(da agenzie)
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