Febbraio 26th, 2023 Riccardo Fucile
LA GUERRA IN UCRAINA AVREBBE DOVUTO CREARE UN’ONDA D’URTO DI RIFUGIATI, CON CONSEGUENTE DESTABILIZZAZIONE DEI GOVERNI EUROPEI. MA NON È ANDATA COSÌ
La «bomba migratoria» di Vladimir Putin non ha funzionato: i profughi dall’Ucraina non hanno avuto alcun effetto destabilizzante in Europa. Né si sono materializzate le ondate di «migrazioni da carestia» che dovevano invadere l’Europa dall’emisfero Sud.
Forse la questione dell’immigrazione perderà un po’ del suo potenziale esplosivo perfino nella prossima campagna presidenziale americana? Infatti Joe Biden, mentre elogia la Polonia per la sua accoglienza dei profughi ucraini, a casa sua rinnova i provvedimenti restrittivi di Donald Trump.
La scommessa di Biden è questa: dimostrare che l’immigrazione può essere controllata, regolata e mantenuta dentro il rispetto delle leggi. Peraltro negli ultimi anni la riduzione dei flussi migratori negli Stati Uniti ha coinciso con un netto miglioramento nelle paghe operaie, anche a beneficio di minoranze etniche come gli afroamericani.
Uno degli scenari esplicitamente evocati nel 2022 dagli esperti russi di geopolitica era questo: la guerra in Ucraina avrebbe creato come danno collaterale un’onda d’urto di rifugiati, con effetti destabilizzanti sui governi europei, analoghi a quelli che avvennero nel 2015 con gli arrivi in massa da Siria e Afghanistan.
La guerra in Ucraina, creando penurie alimentari e iperinflazione, doveva generare carestie, nuova miseria di massa, e un’altra onda d’urto migratoria dall’Africa verso l’Europa, anche questa con effetti politici e sociali destabilizzanti sulle democrazie. Nulla di tutto ciò si è verificato. Adesso possiamo aggiungere la «bomba demografica» all’elenco delle tante profezie apocalittiche che sono state clamorosamente smentite dai fatti.
Il caso emblematico è la Polonia, perché è il paese che ne ha accolto il numero maggiore. Nel corso del 2022 quasi dieci milioni di profughi hanno attraversato la frontiera tra Ucraina e Polonia, un numero altissimo anche in proporzione, visto che la Polonia ha solo 38 milioni di abitanti.
Però i dati sugli attraversamenti della frontiera tra i due paesi includono i transiti multipli, e molti di quei profughi sono tornati a casa loro non appena è stato possibile. Alla fine del 2022 si annoveravano… «solo» due milioni di ucraini rifugiati in Polonia. Questo fornisce una prima spiegazione sul perché la «bomba demografica» di Putin non ha avuto gli effetti politici che lui sperava.
I paesi di accoglienza come la Polonia percepiscono l’immigrazione dall’Ucraina come un’emergenza temporanea, perché in larga parte lo è. Gli ucraini fuggono dalle bombe e dai missili di Putin ma vogliono tornare a vivere nel loro paese e a ricostruirlo non appena possibile. In quanto a quelli che rimangono, anche i due milioni di ucraini tuttora in Polonia non hanno scatenato reazioni di rigetto. Qui pesa il fattore dell’affinità culturale.
Biden ha elogiato la capacità di accoglienza dei polacchi. Ma questo gli è valso un bel po’ di polemiche a casa sua. La sinistra del partito democratico lo accusa: applaudi i polacchi ma tu chiudi le frontiere. Mi riferisco, per esempio, ad una lettera firmata da quattro senatori del partito democratico (Bob Menendez e Cory Booker del New Jersey, Alex Padilla della California, Ben Ray Lujan del New Mexico) che contestano le ultime decisioni di Biden sull’immigrazione. Queste, in effetti, rivelano una continuità con la politica di Donald Trump.
A parte la costruzione del Muro con il Messico, un’operazione per lo più simbolica (e già cominciata dal presidente democratico Bill Clinton un quarto di secolo prima), l’azione più efficace di Trump per contenere l’immigrazione clandestina era stata la norma Title 42. Si trattava di un decreto che consentiva l’espulsione con procedura direttissima di coloro che varcavano la frontiera degli Stati Uniti in modo illegale.
Ora che la pandemia è cessata, Title 42 non poteva prolungarsi. Biden l’ha sostituito con una normativa essenzialmente identica: consente l’espulsione con procedura veloce di chi attraversa illegalmente il confine senza avere prima notificato una richiesta di asilo.
E’ un tentativo di arginare quel boom di ingressi illegali che si era verificato nel 2022, e che secondo i repubblicani era stato incoraggiato dai messaggi lassisti del partito democratico in tema d’immigrazione. L’anno scorso ci furono due milioni di attraversamenti illegali del confine, secondo i dati della Border Patrol, la polizia di frontiera.
Biden vuole difendersi dall’accusa di avere creato il caos alle frontiere e di avere contribuito a una nuova invasione di stranieri senza documenti, con tutti i problemi che comportano. Nel frattempo però Biden sta cercando di riattivare dei flussi migratori regolari. Nel corso del 2022 la sua Amministrazione ha rilasciato 7,3 milioni di visti, dai permessi di lavoro temporanei alle Green Card a durata indeterminata. L’immigrazione legale è tornata ai livelli pre-Trump. La sfida di Biden è dimostrare che i flussi migratori possono essere governati: in modo da bilanciare le esigenze del mercato del lavoro, con quella della legalità, l’ordine, il senso di sicurezza dei cittadini.
(da Il Corriere della Sera)
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Febbraio 26th, 2023 Riccardo Fucile
“SE CI FOSSERO I MEZZI A SOCCORRERE, NESSUNO MORIREBBE IN MARE”…E NON DOVREMMO VEDERE IPOCRITI CHE ORA FINGONO DI ESSERE ADDOLORATI
“Questa non è una tragedia, è la conseguenza di scelte precise da parte del governo italiano e dell’Europa. Se ci fossero i mezzi a soccorrere nessuno morirebbe in mare”. Così Veronica Alfonsi, presidente di Open Arms Italia.
“Noi come Open Arms abbiamo lanciato una petizione per chiedere l’istituzione di una commissione d’inchiesta sul Mediterraneo, alcuni parlamentari hanno aderito e aspettiamo altre adesioni”.
Stesso concetto ribadito anche da Emergency: “Il dramma di Crotone é il frutto di precise scelte politiche che impediscono vie di accesso legali e sicure all’Europa. Con la Life Support continueremo a fare la nostra parte, a soccorrere chi è in difficoltà e a salvare vite, ma i farti dimostrano che è necessario che l’Italia e l’Europa organizzino una missione di ricerca e soccorso, mettano mano a una riforma del sistema di accesso, asilo e accoglienza e aprano vie legali di ingresso per chi cerca una possibilità di vita migliore”.
La Comunità di Sant’Egidio: “Occorre continuare e incentivare il salvataggio di chi è in pericolo nel Mediterraneo, incrementare le quote dei decreti flussi insieme a nuove vie di ingresso regolare. Chiediamo soprattutto all’Europa di uscire dal suo torpore, incrementando la cooperazione e attivando subito un ‘piano speciale’ di aiuti e di sviluppo per i paesi di provenienza dei migranti”.
(da agenzie)
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Febbraio 26th, 2023 Riccardo Fucile
NEL 2014 SBRAITAVA CONTRO LE SANZIONI A MOSCA, NEL 2021 IL FLASHMOB DI SOSTEGNO ALLA RUSSIA, OGGI DICE IL CONTRARIO
Sarà bastato un viaggio in Ucraina a fare cambiare idea alla premier Giorgia Meloni sulla guerra in Ucraina e sui rapporti con la Russia? Nell’ottobre del 2014, l’allora onorevole semplice parlava in Aula della Camera dei deputati denunciando le sanzioni a Mosca. “Italia, stai serena” era lo slogan di Matteo Renzi che non faceva dormire sonni tranquilli alla Meloni proprio per le sanzioni imposte alla Russia.
“Giorgia, stai serena”, la guerra in Ucraina è stata già condannata, le mire espansionistiche di Putin erano già chiare.
Nel 2014 la Meloni era preoccupata per il business italiano e per gli equilibri geopolitici. Dunque, chiedeva apertamente in aula e in qualsiasi altro luogo di non “bisticciare” con Vladimir Putin.
La storia è andata avanti per diversi anni. Nel 2015 su Twitter e Facebook tornava a chiedere “un sussulto di dignità”.
E rivolgendosi all’allora presidente del Consiglio Renzi proponeva di non confermare le misure.
Nel 2017, cambia il governo e il premier diventa Paolo Gentiloni ma la Meloni con una citazione cinematografica torna all’attacco. “Gentiloni è peggio di Tafazzi”, personaggio comico di Giacomo Poretti con la caratteristica di prendersi a bottigliate.
Nel 2021 alla Garbatella, quartiere dell’associazione che Meloni ha presieduto da giovane, venne organizzato addirittura un flashmob davanti all’ambasciata russa. Il movimento si schierava dichiaratamente con il popolo russo e contro gli Stati Uniti e l’Europa.
Poi, nel 2022 prima dell’invasione della Russia in Ucraina la Meloni evidenziava come fosse fondamentale rimanere in buoni rapporti con Putin: “Serve una pace secolare con la Russia ma mi sembra che Biden usi la politica estera per coprire i problemi che ha in patria”.
Improvvisamente, ecco assistere alla metamorfosi della premier Meloni che ieri si presenta davanti alle telecamere elegante e con i capelli raccolti ma soprattutto con una voce preoccupata, a un anno dall’inizio dell’invasione. “Un anno fa la Federazione russa ha scioccato il mondo invadendo l’Ucraina – dichiara la Meloni anche un tantino sorpresa -. La Russia aveva già compiuto in passato aggressioni nei confronti dei propri vicini. Non aveva mai spento le rivendicazioni su quelli che chiama i suoi confini storici. Ma nessuno avrebbe potuto immaginare un atto così grave. Ci eravamo illusi. L’obiettivo di Putin era far capitolare l’Ucraina per poi rivolgere le sue mire espansionistiche agli altri Stati confinanti, non solamente europei”.
Trasformazione completa
La metamorfosi, però, non è conclusa perché ecco calarsi pure nei panni di un personaggio biblico. Come Tommaso che dovette toccare con le proprie mani e vedere con i propri occhi per credere, cosi “Santa Giorgia” dopo il viaggio in Ucraina si è redenta.
“A Bucha e Irpin l’ho visto con i miei occhi e non lo dimenticherò. L’Ucraina non è e non sarà sola perché sta difendendo anche i valori di libertà e democrazia su cui nasce l’identità europea e le fondamenta stesse del diritto internazionale, senza il quale varrebbe solo la forza militare e ogni stato del mondo rischierebbe di essere invaso dal proprio vicino. Non possiamo consentirlo ed è nostro dovere lavorare per arrivare a una pace giusta. Il mondo libero è debitore nei confronti delle donne e degli uomini ucraini. L’Italia è dalla loro parte”.
In molti potrebbero gridare al miracolo o qualche “fattura” fatta dall’opposizione ma probabilmente sarà stato l’effetto in ritardo del vaccino di Sputnik che tanto difendeva.
(da La Notizia)
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Febbraio 26th, 2023 Riccardo Fucile
L’IPOTESI È QUELLA DI DARE IL VIA LIBERA IMMEDIATO ALLE GARE, COME IMPONGONO LE NORMATIVE EUROPEE, MA CON TUTELE (ANCHE ECONOMICHE) PER GLI ATTUALI GESTORI – BISOGNERA’ VEDERE SE LA “CASTA” DEI BALNEARI ACCETTERA’ UN COMPROMESSO
L’unico compromesso possibile a questo punto è un decreto legge. A Palazzo Chigi lo ritengono inevitabile. Un intervento normativo non immediato perché dovrà essere il frutto di un’interlocuzione con almeno tre attori: la Commissione europea, il Quirinale che ha sollevato i rilievi e infine la categoria dei titolari di concessioni balneari, i cui interessi Giorgia Meloni continua a voler proteggere, ma non più a tutti i costi, bensì nel perimetro di un accordo difficile che contemperi diversi interessi in campo, economici, giuridici e istituzionali.
Fonti di governo per questo motivo raccontano che occorreranno diverse settimane, se non mesi, per arrivare a un intervento normativo che sani il vulnus giuridico introdotto dalle norme contenute nel Milleproroghe, norme che la prima carica dello Stato ha chiesto di correggere. Quelle disposizioni prorogano ancora una volta di un anno, e in alcuni casi di due anni, le gare sulle concessioni balneari. Gare che per l’Unione Europea invece vanno fatte, in base al principio della concorrenza.
È chiaro al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, che in queste ore si è raccordato con gli uffici legislativi del Quirinale, che a questo punto l’intervento dovrà avere diversi obiettivi: intanto risolvere la contraddizione di avere due leggi diverse, le norme del Milleproroghe e la riforma Draghi sulla concorrenza
Poi però dovrà anche risolvere il pasticcio che il Colle ha messo sotto la sua lente: al momento una sentenza a sezione unite del Consiglio di Stato dà ragione al diritto europeo e dunque già dai prossimi mesi qualsiasi sindaco, magari di sinistra, può mettere a gara le concessioni balneari dal 2024 e trovare un giudice che gli dia ragione. Il concessionario infatti quasi sicuramente perderebbe la causa, in base al diritto europeo, alla giurisprudenza italiana e a un contesto normativo che è confuso e contraddittorio.
Per raggiungere questi diversi, intrecciati e molteplici obiettivi a questo punto occorre, secondo fonti di governo, che nuove norme vengano studiate in base ad un negoziato che includa la Commissione europea, cercando quanto più possibile di ottemperare alla direttiva Bolkestein, e contemporaneamente rassicuri quello che è un bacino elettorale storico del centrodestra.
Già nella riforma Draghi, votata l’anno scorso sia dalla Lega che da Forza Italia, che ora invece l’hanno messa in discussione, erano contenute delle leggere forme di garanzia per la categoria, per esempio prendendo in esame gli investimenti fatti dai concessionari. Ora si discute di una formula, che andrà comunque discussa anche con la Commissione europea, a Bruxelles, che per ragioni di semplificazione va sotto il nome di «bandi concordati». Si riaprono le gare, i balneari accettano il principio, ma con una tutela rafforzata che ne enfatizzi il ruolo avuto, in primo luogo economico, negli anni di titolarità.
Bisognerà vedere se i balneari accetteranno un compromesso o piuttosto tireranno dritto con la rivendicazione di una proroga infinita delle gare. Bisognerà anche vedere sino a che punto Meloni vorrà scontrarsi con Lega e Forza Italia, che nella gestazione del Milleproroghe non hanno voluto sentire ragioni, ignorando sia i suggerimenti che arrivavano dal Quirinale sia il tentativo di mediazione che il ministro Raffaele Fitto ha esperito.
In questo quadro aleggia comunque una prossima condanna all’Italia della Corte di giustizia europea. La Corte si è rifiutata di ascoltare in udienza le ragioni dei concessionari italiani. Una sua sentenza, che appare scontata, aprirebbe le porte a una nuova procedura di infrazione contro Roma. Ma è in fondo l’ultimo dei mali, visto che ne abbiamo 82 aperte. L’obiettivo più urgente del governo a questo punto è risolvere un groviglio giuridico che può deflagrare in centinaia di cause, senza un intervento.
(da il Corriere della Sera)
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Febbraio 26th, 2023 Riccardo Fucile
17.7 MILIONI HANNO CONCLUSO LA SCUOLA MEDIA, ALTRI 17.9 MILIONI (IL 42% DELLA POPOLAZIONE) HANNO RAGGIUNTO IL DIPLOMA. E I LAUREATI? SONO 6.1 MILIONI, APPENA IL 14%
Quasi quattro milioni di italiani si sono iscritti alle scuole superiori ma poi hanno abbandonato gli studi. Altri cinque milioni hanno iniziato a frequentare l’università ma poi non si sono laureati. Poco meno di dodici milioni non ha mai neanche cominciato un percorso di istruzione secondaria.
I dati dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp), diffusi ieri come anticipazione del Rapporto Plus 2022, suggeriscono come il mondo della scuola in Italia abbia anche altre priorità rispetto a quelle che emergono dalle dichiarazioni del ministro Giuseppe Valditara.
Ancora oggi, infatti, quattro italiani su dieci tra i 18 e i 74 anni hanno raggiunto al massimo la licenza media. Parliamo di quasi 17,7 milioni di individui, il 41% del Paese. Altri 17,9 milioni hanno raggiunto il diploma. Il 42% della popolazione. I laureati sono invece 6,1 milioni – il 14% – mentre solo il 3% possiede titoli superiori alla laurea come master e dottorati di ricerca.
Emerge anche il progressivo invecchiamento della forza lavoro: gli occupati over 50 sono il triplo di quelli under 30, visto che tra questi ultimi solo uno su cinque ha avuto un’occupazione (considerando però che metà è impegnata ancora negli studi).
(da Il Fatto Quotidiano)
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Febbraio 26th, 2023 Riccardo Fucile
RIGUARDA I FONDI IMPEGNATI PRIMA PER L’EMERGENZA E POI PER LA RICOSTRUZIONE DEL VIADOTTO
Non uno, ma due. O forse più filoni aperti dalla Procura della Corte dei Conti sui soldi spesi dal commissario straordinario per la gestione dell’emergenza dopo il crollo del Ponte Morandi e dal commissario straordinario per la ricostruzione del Viadotto San Giorgio.
Tutto ciò trapela nel giorno della inaugurazione dell’anno giudiziario. E’ probabile che i magistrati, guidati dal procuratore regionale Antonio Giuseppone (dal primo marzo sarà trasferito alla Procura regionale della Corte dei Conti della Campania), abbiano già notificato l’invito a dedurre ai diretti interessati: da una parte il presidente della Regione Giovanni Toti, dall’altra il sindaco di Genova Marco Bucci.
La Procura regionale della Corte dei conti indaga sulle spese di ricostruzione del nuovo Ponte Morandi e sull’attività dei commissari. Nel mirino della magistratura contabile è finito il lavoro dei due commissari, quello della ricostruzione, il sindaco Marco Bucci, e dell’emergenza Giovanni Toti. I pm della corte dei conti infatti stanno svolgendo approfondimenti per capire quanti fondi pubblici siano stati utilizzati e se questi siano direttamente collegati o meno alla costruzione del ponte.
S’indaga anche su chi abbia effettivamente sostenuto i 280 milioni di euro della ricostruzione del nuovo ponte e sul ruolo della società concessionaria che si è fatta carico di sostenerli. E ancora. La magistratura contabile ha avviato accertamenti anche sul patteggiamento da 30 milioni di euro che ha permesso ad Aspi di uscire dal processo.
I pm vogliono capire se la cifra sia stata versata dalla vecchia Autostrade riconducibile alla famiglia Benetton oppure da quella nuova e statale affidata a Cassa Depositi e Prestiti.
(da agenzie)
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Febbraio 26th, 2023 Riccardo Fucile
ECCO PERCHE’ IL FUTURO DEL PAESE AFRICANO RIGUARDA ANCHE L’ITALIA
Ieri, 25 febbraio, gli oltre 90 milioni di elettori registrati della Nigeria, il Paese più popoloso dell’Africa e sua prima economia per dimensione del Pil, hanno votato per scegliere il prossimo presidente e rinnovare il parlamento.
Nonostante – scrive Bloomberg – le votazioni siano state ritardate di diverse ore in molti seggi elettorali della Nigeria, la Commissione elettorale nazionale indipendente prevede «di proclamare il vincitore delle urne entro il 27 febbraio».
Chi riuscirà a ottenere il maggior numero di voti erediterà un paese chiamato ad affrontare «importanti sfide di carattere economico e sociale con la crisi finanziaria in corso, l’inflazione elevata, un mercato del lavoro problematico», dice a Open Lucia Ragazzi, ricercatrice per il Programma Africa dell’ISPI. Ma non solo: il paese dovrà fare i conti anche un’impennata di violenza e conflitti interni esacerbati da una società anche etnicamente frammentata. «Le questioni principali riguardano la corruzione, l’insicurezza ormai endemica, dovuta agli estremisti e a questioni etniche che riguardano il controllo e lo sfruttamento delle risorse del territorio, ma anche la disattenzione verso i giovani», spiega invece Antonella Sinopoli, direttrice di Voci Globali con base in Ghana e corrispondente per Nigrizia.
Chi sono i candidati del post-Buhari?
In lizza per il dopo Muhammadu Buhari, che non può più presentarsi alle elezioni, avendo concluso i due mandati consentiti dalla Costituzione, ci sono ben 18 candidati. Solo tre, secondo i sondaggi, hanno davvero una possibilità di vincere. Si tratta del 70enne Bola Ahmed Tinubu, ex governatore dello stato nigeriano di Lagos, esponente del partito di governo All Progressives Congress (APC); il 76enne Atiku Abubakar, importante uomo d’affari ed ex funzionario statale, candidato per il principale partito di opposizione People’s Democratic Party (PDP). E, infine, l’outsider di queste elezioni: Peter Obi, esponente del Labour Party, che punta a scardinare l’equilibrio bi-partitico che esiste dalla nascita della (giovane) democrazia nigeriana nel 1999. Per diventare il presidente di uno dei Paesi economicamente e geopoliticamente più importanti dell’Africa, uno dei tre dovrà ottenere il maggior numero di voti a livello nazionale e più del 25% di quelli espressi in almeno due terzi dei 36 stati della Nigeria. Se nessuno ce la farà, l’11 marzo si andrà al secondo turno. «Ci sono diverse particolarità in queste elezioni – spiega Lucia Ragazzi di Ispi – in generale le elezioni in Nigeria sono state contese tra due candidati: questa volta la particolarità è l’ingresso di un terzo partito nella competizione, quello di Obi che è un candidato di rottura rispetto agli altri e che secondo alcuni sondaggi potrebbe anche vincere».
È anche una questione europea
Gli effetti di una futura stabilità economica, sociale e democratica della prima economia dell’Africa «si ripercuoteranno inevitabilmente al di fuori del continente», dice Ragazzi. «Il colosso demografico ed economico è un polo di riferimento per i mercati internazionali» e gli osservatori mondiali hanno gli occhi puntati sulla Nigeria per via dell’influenza geopolitica del Paese ma anche, e soprattuto, per le sue grandi risorse energetiche che sono ambìte in un contesto di enorme incertezza. «L’Europa, compresa l’Italia, hanno bisogno più che mai delle risorse nigeriane: l’abbiamo visto con la guerra in Ucraina», spiega Sinopoli. «Ma hanno bisogno anche – continua – che questo che questo Paese esca dalla morsa della violenza e dell’insicurezza. Perché alla fine la destabilizzazione non fa bene a nessuno».
Le relazioni tra Unione europea e Nigeria – nonostante «siano cominciate nel 1975, quando era CEE, con l’accordo di Lomé», spiega Antonella Sinopoli -, «si sono fatte più strette a partire dal 1999, con la democratizzazione del Paese» che ha messo fine a 16 anni consecutivi di governo militare. «Oggi, per fare un esempio, – continua – la Commissione europea ha in corso un programma iniziato nel 2021 e che terminerà nel 2024 con un investimento in Nigeria da 508 milioni di euro nel campo dell’economia sostenibile, della governance e dello sviluppo umano mirato a combattere le ineguaglianze». Tuttavia, la Nigeria non è un Paese che non ha dato nulla in cambio. «Pensiamo alle tante risorse naturali», dice Sinopoli, in particolare il petrolio. «L’Ue – spiega – è diventato il maggiore importatore di greggio, ma soprattutto di gas: in questo caso parliamo dell’80% dal Paese africano».
L’incognita petrolio
La Nigeria è il principale produttore di petrolio in Africa e ha un potenziale di estrazione di circa 2 milioni di barili al giorno. Cifra, questa, che ha visto una sostanziale diminuzione negli anni fino a raggiungere numeri che vanno da 1,2 milioni a 1,3. Nell’ultimo anno, però, il gigante africano non è riuscito a sfruttare economicamente l’aumento dei prezzi del greggio, né a rispettare le quote di produzione che le erano state assegnate dell’associazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec). Le conseguenze di tale situazione sono da ricercare sia nel mancato ammodernamento delle infrastrutture, ma anche in seguito ai cosiddetti furti di carburante, rivenduto su mercati semi-clandestini, che costituiscono un problema in termini di approvvigionamento mondiale messo ulteriormente in crisi dall’invasione russa dell’Ucraina.
Ma non solo: la Nigeria non è in grado di raffinare il proprio petrolio per produrre carburante e, dunque, di sfruttare a pieno l’immensa ricchezza del suo territorio. Tutto questo, non incoraggia affatto gli investimenti delle multinazionali nel Paese, utili – se non indispensabili – per garantire una crescita degli introiti nazionali. Infine, il futuro del governo di Abuja è sotto gli occhi degli osservatori europei anche dopo l’approvazione del memorandum d’intesa – firmato il 15 settembre scorso – relativo al «progetto di gasdotto Nigeria-Marocco» che rifornirà l’Africa occidentale e l’Europa e che indirizzerà – inevitabilmente – l’agenda della nuova presidenza.
E L’Italia?
«L’Italia dal canto suo ha la stessa convenienza e le stesse necessità nei confronti di questo Paese», dice Sinopoli. «Qui opera l’Italian trade Agency (Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, ndr)». I rapporti commerciali sono «molto forti ed estesi». La Nigeria è infatti il principale partner commerciale dell’Italia nell’Africa sub-sahariana dopo il Sud Africa: «Esportiamo mobili, materiali da costruzione, tecnologia. Pensiamo solo che secondo il database comtrade della Nazioni Unite sul commercio internazionale le esportazioni dall’Italia sono state valutate a 1,89 miliardi di dollari. È un dato che risale al 2018 ma rende molto l’idea». E poi: «pensiamo all’Eni: la sua presenza nel Paese risale al 1962. Ultimamente la grande azienda petrolifera ha firmato nuovi contratti di esplorazione e produzione di GNL (gas naturale liquefatto, ndr), mentre non si sono mai fermate le estrazioni di petrolio». Basta pensare all’accordo di 8 miliardi siglato tra Italia e Libia, con l’obiettivo di aumentare la produzione di gas sia per soddisfare la domanda interna, sia per garantire l’esportazione verso l’Europa. Tuttavia, chiunque vincerà le elezioni presidenziali, però, «non modificherà – è convinta Sinopoli – gli accordi economici e di partnership, gli interesse sono strettamente legati e sono reciproci» e, dunque, non converrebbe a nessuna delle due parti in gioco.
«Non è un paese per vecchi»
Ma oltre che per le motivazioni economiche, l’Italia e in generale l’Europa intera, «dovrebbero stare attenti a quanto accade in Nigeria, per la sua popolazione giovanile», costretta molto spesso alla migrazione forzata a causa del contesto economico-sociale destabilizzante. Nel 2050, la Nigeria sarà il terzo Paese più popoloso al mondo: l’età media è di 18 anni e il 70% della popolazione è under 30. «Il Paese ha dunque – spiega Sinopoli – una delle popolazioni giovanili a livello globale, e questo deve rappresentare un’opportunità» per l’Europa intera. «Pensiamo ad esempio alle tante start up avviate in questi anni, al panorama artistico, cinematografico e letterario». Tuttavia, la realtà di questo Paese, così “sconosciuto” ai più, è abbastanza sconfortante e l’elettorato più giovane è quello per certi versi più colpito dai fallimenti del presidente uscente Muhammadu Buhari. «Secondo gli ultimi dati la Nigeria ha circa 90 milioni di giovani disoccupati».
Quindi, cosa faranno questi giovani? Dove andranno a finire tutte queste energie? «Se non saranno incanalate verso la costruzione del futuro del Paese, le alternative – dice a Open Sinopoli – non sono molte: oltre ad aumentare il numero della popolazione povera e disperata (oltre 40% vive ancora sotto la soglia di povertà), potrebbero aderire a uno dei gruppi jihadisti che in questi anni hanno preso possesso di alcune aree del Paese; ma soprattutto potrebbero essere costretti ad emigrare». La Nigeria è il paese da cui ha origine la maggiore diaspora africana: i nigeriani sono i più numerosi tra i gruppi africani che vivono nell’Unione europea, compresa l’Italia. Ma non solo: «La Nigeria – spiega Lucia Ragazzi di Ispi – è anche il primo Strato dell’Africa subsahariana da cui arrivano i migranti irregolari verso l’Ue».
(da agenzie)
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Febbraio 26th, 2023 Riccardo Fucile
IL GOVERNATORE DELLA REGIONE DI SVERDLOVSK LO SBEFFEGGIA: “TORNA A CUCINARE POLPETTE E SPAGHETTI”
All’arredamento della propaganda manca ormai un pezzo importante. Fino a poco tempo fa, Evgenij Prigozhin era l’uomo forte che diceva le cose giuste. Era la figura da contrapporre ai «burocrati ministeriali» che con i loro tentennamenti impedivano una rapida avanzata in Ucraina.
Le sue critiche rivolte soprattutto al titolare della Difesa Sergey Shoigu e ai capi delle forze armate, risuonavano forti negli studi televisivi ed erano commentate con favore anche sulla carta stampata filogovernativa. Dopo la ritirata dell’Armata russa da Kherson, l’oligarca fondatore della Brigata Wagner era diventato quasi un contropotere all’interno del potere stesso, un amico personale di Vladimir Putin che criticava il modo «timido» con il quale veniva condotta l’Operazione militare speciale. Poteva permetterselo, dato il massiccio impiego dei suoi uomini al fronte.
Adesso, le dichiarazioni più polemiche dell’ex cuoco del presidente, in realtà ex titolare di una società di catering che riforniva il Cremlino durante i ricevimenti ufficiali, sono sparite dai media ufficiali.
Eppure, lui parla. Con cadenza quotidiana, continua a mandare messaggi attraverso i suoi social.
Prigozhin ha trascorso gli ultimi dieci giorni ad attaccare il ministero della Difesa, reo di far mancare al suo gruppo mercenario le munizioni necessarie per combattere. I media internazionali hanno dato ampio spazio alle sue lamentele. In Russia, niente.
Il sito di informazione indipendente Verstka racconta come molti organi di informazione statali siano stati istruiti a non citare più le frasi di Prigozhin quando trattano «argomenti non neutri». A sua volta, il ministero della Difesa avrebbe pronta una campagna mediatica contro di lui, nel caso ce ne fosse bisogno. L’unica certezza è la scomparsa di ogni parola al veleno pronunciata dal signore della guerra russo.
«Pensa agli affari tuoi, e torna a cucinare polpette e spaghetti». Qualcosa è davvero cambiato, se il governatore della regione di Sverdlovsk può permettersi di rispondere così alle critiche di uno dei personaggi più temuti di Russia che lo accusava di non dare degna sepoltura ai soldati della Wagner.
Un anno di Operazione militare speciale lascia il segno anche in Russia, anche negli equilibri sui quali si regge la verticale del potere putiniana. La crescente popolarità di Prigozhin, che si è sempre presentato come uomo d’azione contrapposto ai «topi d’ufficio», così ebbe a definirli, che siedono nei ministeri moscoviti, può diventare un problema.
In una intervista online di pochi giorni fa, il deputato di Russia Unita Oleg Matveychev ha descritto gli ultranazionalisti, il partito della guerra, come «la più grande minaccia interna nei confronti di Putin».
I liberali sono tutti fuggiti, spiegava. L’opposizione semi-ufficiale dei Comunisti non esercita una gran presa sull’elettorato. «I turbo-patrioti sono invece l’unico vero pericolo per il nostro Stato». Le loro critiche all’establishment rischiano di compromettere l’unità della Russia contro il nemico esterno, è il succo del ragionamento.
(da Il Corriere della Sera)
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Febbraio 26th, 2023 Riccardo Fucile
IN CALO LA FIDUCIA NELLA PREMIER (AL 41,3%, -0,3%), PER LA METÀ DI CHI VOTA LEGA E FORZA ITALIA, IL VIAGGIO A KIEV DELLA MELONI È STATO UN ERRORE
Il rapporto tra Giorgia Meloni e il suo elettorato è in leggero calo. A certificarlo è l’ultima rilevazione di Euromedia Research per Porta a Porta, che segna la fiducia nel presidente del Consiglio al 41.3% e quella del suo governo al 39%.
Interrogando gli italiani sulla coesione della maggioranza ci si accorge che se il 38.7% la reputa unita anche con un dialogo aperto, il 46.4% la legge invece divisa, con tensioni e malumori al suo interno.
È interessante osservare come la percezione un po’ meno fluida e con diversi nervosismi all’interno della coalizione la interpretino, insieme ai partiti delle opposizioni, il 40.7% degli elettori di Forza Italia e il 31.7% di quelli della Lega, nonostante siano coabitanti a pieno titolo in tutte – o quasi – le maggioranze dove governano, comprese le ultime elezioni regionali vinte in Lombardia e in Lazio.
Le diverse esternazioni di Silvio Berlusconi non vengono giudicate lesive o con l’intento di disturbare il lavoro e l’immagine di Giorgia Meloni dal 72.9% degli elettori di Forza Italia; tuttavia un elettore su tre di Fratelli d’Italia ne è convinto. È pur vero che la maggioranza degli elettori azzurri (47.5%) e di quelli di Matteo Salvini (41.7%) non ha gradito la scelta di Giorgia Meloni di recarsi a Kiev per incontrare il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.
Fratelli d’Italia è riuscita a crescere nell’ombra delle opposizioni e ora deve vedersela con alleati che, essendo stati ai vertici, oggi faticano a trovare un posto sotto l’ala.
(da La Stampa)
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