Febbraio 11th, 2023 Riccardo Fucile
CI SONO DOSSIER DELICATI CHE L’EUROPA DOVRÀ ESAMINARE NEL 2023: GLI AIUTI ALLE IMPRESE SARANNO SUL TAVOLO DEL CONSIGLIO EUROPEO DEL PROSSIMO MESE… LITIGARE CON FRANCIA E GERMANIA SIGNIFICA ANCHE NON RICEVERE AIUTO SU QUEL FRONTE DECISIVO PER IL NOSTRO DEBITO PUBBLICO. I TASSI SONO GIÀ IN CRESCITA, SERVONO PIÙ SOLDI PER FINANZIARE I TITOLI DI STATO
Il giorno dopo il Consiglio europeo le Cancellerie di mezza Ue iniziano a interrogarsi su quale sia il vero volto di Giorgia Meloni. Un autorevole esponente diplomatico di un Paese nordico ripete : «Litigare con Francia e Germania non porta mai risultati. Solo isolamento e irrilevanza». E lei deve decidere se entrare nel gruppo dei “grandi” o in quello dei “piccoli”.
Il punto è che la leader di FdI si trova sempre su quel crinale sottilissimo tra affidabilità e inaffidabilità. E consegnarsi ad un giudizio negativo è il modo peggiore per tutelare l’interesse nazionale. Lo è semplicemente perché l’Italia per una serie di condizioni oggettive – a cominciare dal debito pubblico – non ha abbastanza forza per contrapporsi agli alleati più strutturati.
La stessa Meloni ha spiegato esplicitamente che il suo raccordo principale è con i capi di governo di questo gruppo: il polacco Morawiecki e il ceco Fiala. L’opzione “Visegrad” automaticamente la inserisce nel novero dei “piccoli”. Conseguenza: l’irrilevanza. Incapacità di incidere nei momenti più delicati. Un vero e proprio “downgrading” per un Paese che comunque è tra i fondatori dell’Unione, è la seconda manifattura europea e ha un numero di abitanti pari alla Francia.
«Se lei pensa di mettersi alla testa di questo gruppo – osserva il rappresentante di un paese “frugale” storicamente vicino alla Germania – senza nemmeno creare un’intesa con i Popolari, allora sbaglierà di grosso».
Anche perché con Varsavia e Praga non ci sono interessi convergenti ad eccezione della linea sulla guerra in Ucraina. Dal punto di vista delle convenienze nazionali, l’Italia ha bisogno di confrontarsi e dialogare con la Francia e la Germania. La via preferenziale con i capi Conservatori crea un cortocircuito rispetto all’immagine che Palazzo Chigi aveva tentato di costruire a Bruxelles in questi mesi
Anche la distanza che costantemente viene messa rispetto al suo predecessore Mario Draghi è orientata in primo luogo a rassicurare il suo elettorato e la sua opinione pubblica più che a coltivare l’interesse nazionale. Tutto questo rischia di riflettersi su alcuni dei dossier più delicati che l’Europa dovrà esaminare nel 2023. Gli aiuti alle imprese saranno sul tavolo del consiglio europeo del prossimo mese. L’estensione del ricorso agli aiuti di Stato è però già una sconfitta per l’Italia. Che non potrà pareggiare le risorse che Berlino e Parigi sono in grado di immettere nel tessuto imprenditoriale.
E poi c’è la gigantesca partita della riforma del Patto di Stabilità. Litigare con Francia e Germania significa anche non ricevere aiuto su quel fronte decisivo per il nostro debito pubblico. Anzi, proprio le casse dello Stato rappresentano il nervo scoperto che tutti gli “avversari” dell’Italia o del premier di turno vanno a sollecitare. I tassi sono già in crescita, servono più soldi per finanziare i titoli di Stato.
E ancora di più nei prossimi mesi visto che gli acquisti della Bce sono in via di esaurimento. Il programma App – iniziato nel 2014 – ha già sospeso i nuovi acquisti netti. Il Peep lo farà il prossimo anno. Un problema in più per il nostro Paese. E una possibilità in più per la speculazione. Soprattutto se la lite in Europa fosse permanente. Un’Italia debole politicamente a Bruxelles è anche un’Italia facilmente aggredibile dai mercati finanziari.
(da La Repubblica)
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Febbraio 11th, 2023 Riccardo Fucile
L’ESPONENTE DI FORZA ITALIA HA RICEVUTO L’AVVISO DI GARANZIA INSIEME A CINQUE ASSESSORI DI FORZA ITALIA E FDI
Il presidente della Regione Molise, Donato Toma, esponente di Forza Italia, è indagato per abuso d’ufficio. Ha ricevuto l’avviso di garanzia oggi, come alcuni assessori della sua Giunta: Vincenzo Cotugno, Nicola Cavaliere, Quintino Pallante (Fdi), Vincenzo Niro e Filomena Calenda, oltre all’ex assessore Michele Marone e all’ex consigliere regionale Nico Romagnuolo. Le indagini si concentrano su fatti avvenuti tra il 2020 e il 2021, in relazione all’incarico di commissario straordinario del Consorzio per lo sviluppo industriale di Campobasso-Bojano.
Il 18 settembre 2020, la Giunta regionale aveva dato l’incarico a Nico Romagnuolo, votando all’unanimità. Il 29 settembre, il presidente Toma l’aveva nominato ufficialmente. Tra marzo e aprile 2021, poi, l’incarico di commissario è stato prorogato per altri sei mesi dal presidente e dalla Giunta.
A giugno 2021, infine, l’Autorità nazionale Anticorruzione aveva ‘bocciato’ la nomina di Romagnuolo, decretandola illegittima e facendolo decadere dalla carica. Le motivazioni dell’Anac erano le stesse portate avanti dalla Procura di Campobasso.
Secondo la Procura, la nomina avrebbe violato la legge sull’incompatibilità degli incarichi pubblici e privati: infatti, tra la fine di un mandato in un’istituzione pubblica regionale (come quello da consigliere regionale) e l’inizio di un incarico in un ente privato controllato dalla stessa Regione (come quello di commissario straordinario del Consorzio per lo sviluppo industriale) devono passare almeno due anni.
Romagnuolo, invece, era stato consigliere regionale supplente tra il 2018 e il 2020, pochi mesi prima di essere nominato commissario straordinario.
La tesi della sostituta procuratrice di Campobasso, Viviana Di Palma, è che questo abbia portato un vantaggio economico ingiusto a Romagnuolo, dato che l’incarico da commissario era retribuito con una paga di 3.500 euro al mese. In più, avrebbe anche danneggiato altre persone che, avendone i requisiti, avrebbero potuto concorrere per la nomina e ottenere quel ruolo.
Gli indagati avranno ora 20 giorni di tempo per presentare memorie difensive o per chiedere di essere sentiti.
(da agenzie)
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Febbraio 11th, 2023 Riccardo Fucile
I TEMPI DI ATTESA ARRIVANO FINO A SEI MESI E LE AGENZIE DI VIAGGIO CHE HANNO RICEVUTO GIÀ 80 MILE DISDETTE
La caccia quotidiana al passaporto si scatena in ogni città d’Italia: accomuna turisti e lavoratori, promessi sposi e familiari in cerca di ricongiungimento, agenzie di viaggio alle prese con disdette e crolli di fatturato. E va così da quasi un anno. Per tante ragioni: il post pandemia, la Brexit, gli straordinari della Zecca. Persino una sorta di “sindrome da accaparramento”, dettata dall’ansia di avere il documento in casa per qualsiasi evenienza futura.
Se dal Viminale assicurano che «nelle prossime settimane la situazione è destinata a migliorare», la ministra del Turismo Daniela Santanchè annuncia: «La settimana buona per avere novità sarà la prossima». Nel frattempo però si continua ad annaspare. E ogni città cerca di tamponare come meglio crede. A Torino, il portale per la prenotazione online ieri mattina dava la prima disponibilità per un appuntamento in questura al 9 agosto. A Bari bisogna aspettare oltre tre mesi. Era così anche a Firenze, fino a poco tempo fa
Ci sono gli open day: le questure aprono i propri uffici, senza prenotazione. E fiumane di persone si presentano in piena notte o al più tardi all’alba per ottenere il prezioso tagliando, finendo in larghissimo anticipo le disponibilità di biglietti.
Proprio questa strada, spiegano dal Viminale, illustra perfettamente la sindrome: «Più si diffonde la voce che il passaporto sia diventato irraggiungibile, più le persone con il documento scaduto sono spinte a procurarselo anche se non hanno programmato alcun viaggio. Lo si capisce anche dal fatto che ci sono migliaia di passaporti pronti ma non ritirati».
Ma nella corsa disperata a rimettersi in carreggiata è finito pure l’Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, che deve stampare i libretti e annaspa dietro le richieste moltiplicate.
Per farsi un’idea: da aprile a dicembre 2022 in media lo Stato ha rilasciato 165.075 passaporti al mese; nel 2019 i documenti consegnati erano stati 148.618. Lo scorso gennaio si è arrivati a 190.456. È il risultato, anche, dell’incremento degli sportelli dedicati, che tuttavia ancora non basta.
Nel frattempo non sono soltanto i privati cittadini ad aspettare. Le agenzie di viaggio lamentano danni devastanti. Assoviaggi, l’associazione del turismo organizzato di Confesercenti, ha calcolato che «già circa 80mila viaggi organizzati sono saltati, con circa 150 milioni di euro di mancate vendite per il sistema italiano delle agenzie di viaggi »
(da La Repubblica)
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Febbraio 11th, 2023 Riccardo Fucile
RISALE NEI SONDAGGI, MA RISPETTO AL 2013 E’ CAMBIATO TUTTO: LEADER, OBIETTIVI E TABU’
«Noi accusiamo la politica e i politici tutti di essere stati parte volontaria di un processo di impoverimento economico, culturale e mediatico di questo nostro Paese. Non abbiamo nulla a che spartire con altri schieramenti». Quando pronunciava queste parole (in un’intervista a Udinetoday) Walter Rizzetto era un neo-eletto deputato del Movimento 5 Stelle. Era il 27 febbraio 2013 e i grillini – come all’epoca tutti li chiamavano – avevano appena ribaltato i pronostici raccogliendo il 25% dei voti alle politiche e conquistandosi per la prima volta il biglietto d’ingresso al parlamento.
Oggi, dieci anni dopo quell’intervista, Rizzetto è ancora a Montecitorio, ma si è spostato nei banchi di Fratelli d’Italia, di cui nel frattempo è diventato uno dei più conosciuti volti televisivi. Ha lasciato il M5S nel 2015 spiegando che gli era impedito dire quello che pensava.
Rizzetto è in buona compagnia. Tra espulsioni e uscite volontarie, nelle sue prime due legislature il movimento ha perso per strada ben 212 parlamentari sui 493 che aveva fatto eleggere: il 43%. Di questo elenco non fa parte – perché siede al parlamento europeo – Dino Giarrusso, il transfugo pentastellato di cui più si è parlato nelle ultime settimane.
Dopo essere stato prima dimaiano e poi contiano, l’ex iena televisiva se n’è andato accusando il movimento di essere «diventato lo zerbino del Pd». Ora però cerca casa proprio nel Partito democratico: prima ha bussato alla porta di Elly Schlein, poi a quella di Stefano Bonaccini. E ancora aspetta che qualcuno gli apra.
Ma del resto lo stesso Giuseppe Conte fino a un anno e mezzo fa nemmeno era iscritto ai Cinque Stelle, di cui poi ha preso saldamente in pugno le redini. E allora viene da chiedersi cosa resta oggi di quel movimento incendiario che dieci anni fa entrava per la prima volta in parlamento con lo sbandierato proposito di «aprirlo come una scatoletta di tonno»?
Debuttanti
Il primo grande successo elettorale fu nel 2012 l’elezione di Federico Pizzarotti a sindaco di Parma. Sembrava l’inizio di uno tsunami destinato a travolgere l’Italia intera. E lo era, in effetti. Ma quattro anni dopo Pizzarotti si sfilerà dal M5S in aperta polemica con i vertici, che gli contestavano un avviso di garanzia (poi evaporato in un’archiviazione).
La prima espulsione di un parlamentare, invece, risale a poche settimane dopo le elezioni del 2013: il senatore Marino Mastrangeli, 41 anni, poliziotto originario di Cassino, fu cacciato per aver accettato di partecipare a un talk show televisivo di Barbara D’Urso.
Era la fase in cui i Cinque Stelle si fidavano solo della Rete che disintermediava tutto, al punto che persino le consultazioni per formare un governo erano trasmesse online in streaming. L’ambientamento dentro i vetusti palazzi delle istituzioni non fu semplice, per i debuttanti grillini.
I primi anni furono di duro apprendistato. Nel 2014 l’Italia era un Paese a trazione renziana e alle elezioni europee il movimento subì una battuta d’arresto (21% contro il 40% del Pd).
Poi accadde che morì l’imprenditore-guru da cui tutto era iniziato, Gianroberto Casaleggio: «Nel medio-lungo termine – aveva previsto – i movimenti prevarranno sui partiti e la democrazia rappresentativa perderà significato». Chissà cosa penserebbe oggi, che di democrazia diretta, tra le fila pentastellate, nessuno parla più.
Tuttavia quel periodo travagliato era il preludio di nuovi trionfi. Nella primavera del 2016 il M5S vinse a mani basse le comunali di Roma e Torino: «Il vento sta cambiando, signori», premoniva entusiasta la neo-sindaca capitolina Virginia Raggi.
Eppure quel vento si sarebbe presto tramutato in bufera, almeno sul Campidoglio, dove i cinque successivi anni furono segnati da raffiche di dimissioni, gaffe, inchieste giudiziarie, fino alla mancata rielezione del 2021, con Raggi sconfitta e retrocessa a semplice consigliera comunale, a cui Conte ha pure negato una candidatura alle ultime politiche.
In compenso, è diventata una dirigente di punta del movimento l’altra ex sindaca, la torinese Chiara Appendino, che ha astutamente evitato di ripresentarsi alle amministrative e dallo scorso ottobre occupa un seggio a Montecitorio.
Scissioni e congiure
La storia del M5S non si può capire senza quella dei suoi esponenti più in vista. Il caso più interessante da analizzare è senza dubbio quello di Luigi Di Maio da Pomigliano d’Arco, un millenial un po’ ingessato che sulle 189 preferenze raccolte alle parlamentarie del 2013 ha saputo costruire una carriera politica che in pochi possono vantare nella storia della repubblica.
E pazienza se quella carriera rischia di essere già arrivata al capolinea, collassata su un errore da matita rossa, ovvero l’abiura del verbo sacro pentastellato – «Uno non vale l’altro» – pronunciata la scorsa estate, al momento della scissione dal movimento.
Il percorso politico di Di Maio è stato segnato da balzi clamorosi: non solo quello esaltante da umile attivista a vicepremier, ma anche altri un po’ sfacciati, dai gilet gialli alla Farnesina, dalla Via della Seta cinese al fiero atlantismo, dalla richiesta di impeachment contro Mattarella all’innamoramento per Mario Draghi. Un innamoramento cieco, per giunta, che alla fine lo ha portato a bruciarsi.
Di Maio è stato capo politico dei Cinque Stelle dal settembre 2017 al gennaio 2020. È sotto il suo comando che le truppe pentastellate hanno perso l’innocenza accettando di allearsi con gli odiati partiti tradizionali: prima la destra leghista, poi il Pd zingarettiano. Quello stesso Pd che Beppe Grillo chiamava «Pd meno L» per evocarne la sovrapponibilità al Partito della Libertà di Berlusconi. Quello stesso Pd che Di Maio – ancora lui – aveva additato come il «partito di Bibbiano» che «toglieva i bambini alle famiglie con l’elettroshock» per «venderli».
L’elezione di “Giggino” a leader è stata un punto di svolta nella storia del M5S. «Il nostro era un movimento orizzontale basato sull’attivismo territoriale», rimpiange una ex deputata anonima, «poi a un certo punto si è deciso che ci fosse un capo politico. E prima ancora (nel 2015, ndr) c’era stata la famosa lettera firmata da Roberto Fico e Alessandro Di Battista in cui si diceva che i meetup non rappresentavano i Cinque Stelle (si voleva evitare che fossero scalati da persone poco raccomandabili in cerca di visibilità, ndr)».
«Quelli – continua l’ex parlamentare – sono stati i due momenti che hanno cambiato tutto. La forza del M5S non veniva da quei personaggi costruiti a tavolino dalla comunicazione interna, ma dall’attivismo sui territori. Che però, così, negli anni è venuto meno. Si è persa l’identità, finché poi sono arrivate le alleanze con gli altri partiti che hanno omologato i Cinque Stelle alle altre forze politiche».
«C’è uno staff di comunicazione molto abile in quello che rimane del movimento», sottolinea amara l’ex deputata, «Rocco Casalino è estremamente bravo nel suo lavoro: le varie vittorie alle elezioni e la risalita nei sondaggi di oggi sono merito suo».
Dopo il trionfo alle politiche del 2018 (33%) e il repentino crollo alle europee del 2019 (17%), seguiti dall’anno anomalo del lockdown pandemico e dall’accoltellamento di Renzi a Conte, nel 2021 il M5S ha chiuso il cerchio della contaminazione politica entrando a far parte di un governo di larghissima coalizione (con dentro persino Forza Italia) presieduto da Mario Draghi, l’ex governatore della Bce, incarnazione massima dell’establishment che per anni i grillini avevano contestato.
«Così è troppo», ha riflettuto Alessandro Di Battista, il punto di riferimento dell’ala più battagliera del movimento, che a quel punto ha detto basta e si è tirato fuori. Idealista, appassionato, lontanissimo dall’ex compagno di mille avventure Di Maio, Di Battista aveva già rinunciato alla carica da parlamentare: il primo giro di giostra, nella legislatura 2013-2018, gli aveva fatto capire che i seggi vellutati del Palazzo non sono cosa per uno con la sua verve.
Però, dopo le dimissioni da capo politico di Di Maio, aveva accarezzato l’idea di prendere lui le redini della carrozza: a impedirglielo – almeno secondo la sua versione dei fatti – fu «una congiurettina» ordita ai suoi danni dal resto della dirigenza pentastellata, preoccupata dal fatto che la base lo avrebbe eletto per acclamazione, o quasi.
Tesi, questa, confermata da Davide Casaleggio, il figlio del co-fondatore del M5S, che ha a sua volta abbandonato la nave – da presidente della celeberrima piattaforma Rousseau, utilizzata per tutte le votazioni online degli iscritti – accusando il movimento di scarsa trasparenza e di aver violentato il concetto di democrazia interna.
E così oggi Di Battista – che i suoi detrattori chiamano «il Che Guevara di Roma Nord»– rappresenta quel vasto popolo di ex attivisti o semplici elettori a cinque stelle delusi per la strada che ha preso la creatura nella quale avevano creduto, e che a tratti li aveva fatti sognare.
Catto-ecologist
Ma la decisione di sostenere Draghi – sebbene avallata dal solito discusso voto online – era stata calata dall’alto dal grande capo Beppe Grillo, la figura più importante e al tempo stesso la più enigmatica nella storia del movimento.
La macchina si è messa in moto a partire dai suoi monologhi anti-convenzionali nei palazzetti dello sport, poi sono venuti i “Vaffanculo Day” nelle piazze gremite e di lì il salto fin dentro le istituzioni è stato breve. Favorito anche da una classe politica che aveva colpevolmente sottovalutato il fenomeno dell’indignazione popolare contro la “casta” (ricordate quella sgangherata profezia di Piero Fassino? «Grillo, se vuol fare politica, fondi un partito e vediamo quanti voti prende»).
Con il passare del tempo «l’Elevato», come lui stesso ironicamente si definisce, è passato dall’essere capo-popolo-agitatore-di-folle a evanescente padre-padrone che agisce nell’ombra e si esprime pubblicamente solo attraverso messaggi criptici.
Nell’estate 2021 è arrivato a un centimetro dalla rottura con Conte, poi i due hanno concordato una tregua armata che dura tutt’ora.
Oggi il Movimento 5 Stelle è, di fatto, il partito di Giuseppe Conte, un avvocato pugliese – ma ben radicato a Roma – che fino al 2018 era un illustre sconosciuto.
La sua vita è cambiata in quei giorni di maggio di cinque anni fa, quando Di Maio – ottenuto il Sì dell’alleato in pectore Salvini – gli chiese di fare il presidente del Consiglio: lui accettò e poche settimane dopo era al vertice Nato di Bruxelles a colloquio con il presidente americano Donald Trump, con il quale instaurò fin da subito un buon rapporto (sebbene quello lo chiamasse «Giuseppi»).
Nella sua doppia esperienza a Palazzo Chigi, prima quella tinta di gialloverde, poi quella giallorossa, Conte ha dimostrato soprattutto di possedere ottime doti di mediatore: non ha mai sfoderato una precisa visione politica, ondeggiando dal sovranismo all’europeismo, ma ha saputo portare a casa almeno un paio di misure bandiera per il M5S (il Reddito di cittadinanza e il Superbonus edilizio) e soprattutto il Recovery Fund, rispetto al quale anche gli avversari gli hanno riconosciuto merito. Eppure, sebbene fosse espressione dei Cinque Stelle, il Conte premier non era nemmeno iscritto al movimento.
È stato dopo la sua caduta, provocata dalla sfiducia renziana, che Grillo lo ha invitato ad assumere la guida. Era il 2021 e i pentastellati – sconquassati dall’aver partecipato a tre governi diversi in tre anni – attraversavano la fase più difficile di sempre: snaturati, disorientati, sfilacciati al loro interno, ormai subalterni al Pd col quale dal 2019 era stata saldata un’alleanza più o meno strutturale proprio sul nome di Conte (indicato da Zingaretti come «punto di riferimento dei progressisti»).
Appena insediatosi, l’ex presidente del Consiglio ha messo mano allo statuto M5S (che già era stato cambiato una prima volta nel 2019 da Di Maio insieme a Casaleggio junior) facendo infuriare il garante Grillo, con il quale poi – come detto – ha comunque trovato un’intesa.
Per circa un anno il neo-leader ha navigato a vista badando essenzialmente a evitare brutti scherzi dall’interno, poi – a partire dalla primavera 2022 – ha cambiato atteggiamento, iniziando a contestare in maniera sempre più dura alcune scelte del Governo Draghi, fino a provocarne la caduta, con conseguente convocazione di elezioni anticipate.
Conte sapeva che la sua opera di logoramento nei confronti di Super Mario avrebbe allontanato i Cinque Stelle dal Pd (nel frattempo passato nelle mani di Enrico Letta). E così l’alleanza giallorossa, che aveva retto per tre anni, si è rotta proprio alla vigilia del voto.
Ma, contrariamente a quello che ci si sarebbe potuti aspettare, a pagarne il prezzo più alto sono stati soprattutto i dem, mentre la corsa in solitaria – imperniata sulla difesa di quel vecchio cavallo di battaglia che è il Reddito di cittadinanza – ha restituito ossigeno vitale al movimento. Che addirittura adesso nei sondaggi risulta davanti al Pd.
Intanto il M5S ha sfatato un altro dei suoi storici tabù accendendo al finanziamento pubblico tramite il 2 per mille. Non solo: gli ex senatori Vito Crimi e Paola Taverna sono stati assunti come collaboratori dei gruppi parlamentari e l’ex presidente della Camera Roberto Fico ha mantenuto un ufficio con staff a Montecitorio, alla faccia del «no ai politici di professione».
E, a dispetto del «non siamo né di destra né di sinistra», Conte sta pilotando i Cinque Stelle nel campo progressista, con vista aperta su un certo mondo cattolico (dalla Comunità di Sant’Egidio alle Acli) e sul gruppo europeo dei Verdi, ai quali l’ex premier vorrebbe ora iscrivere il movimento.
Il fatto, secondo la politologa Nadia Urbinati, che insegna alla Columbia University di New York, è che «la storia del M5S è contenuta tutta in una contraddizione: nasce come movimento anti-partito, ma partecipando alle elezioni è automaticamente diventato un partito».
«L’antipartitismo – spiega Urbinati – è un fenomeno sempre presente nelle democrazie, che trova più spazio quando i partiti decadono come forme organizzate di partecipazione o perdono credibilità presso gli elettori, ma poggia su fondamenta sbagliate, perché senza partiti non ci può proprio essere democrazia elettorale».
E d’altro canto «non si può competere per le elezioni senza essere un gruppo politico o partito. È qui che sta la contraddizione dei Cinque Stelle: erano un non-partito, sono diventati addirittura un partito di governo. Fra l’altro, portando avanti una linea politica all’insegna del solo opportunismo: basti pensare che nel giro di quattro anni si sono alleati prima con la destra, poi con la sinistra e poi hanno fatto parte di un governo di larga coalizione».
«Oggi – conclude la politologa – il M5S è il partito personale di Conte, un uomo che non viene dalla politica e non ha una struttura di discorso politico, ma va dove lo portano le maggiori probabilità di raccogliere consenso: oggi a sinistra, ma domani, chissà».
(da TPI)
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Febbraio 11th, 2023 Riccardo Fucile
NESSUNA COMPASSIONE E DIFESA CIECA DI QUEL CHE SI HA SENZA UNA VISIONE DEL FUTURO
I sentimenti prevalenti sono “l’ansia e l’incertezza”. Ma i russi “si adeguano alla deriva totalitaria del regime”, acceleratasi dopo l’invasione dell’Ucraina. Sanno bene come fare: durante settant’anni hanno sviluppato le difese per sopravvivere al totalitarismo. La differenza è che nel periodo sovietico “c’era almeno la speranza in un futuro migliore, pacifico e giusto”. Sotto Putin, “il futuro è sparito”. Per non parlar della pace.
Si pensa solo “a non perdere quel poco o tanto che si ha”, trionfa un “cinismo amorale”: “Non c’è compassione per gli ucraini aggrediti. Né odio”. Ci si identifica nello Stato. Si fa finta di credere alla propaganda del regime perché conviene: se non altro fornisce giustificazioni per l’ingiustificabile, e uno poi si sente un po’ meglio. Quello dei russi dell’anno Z è un conformismo “da schiavi”, che “priva gli individui del loro senso di responsabilità”, mentre la società somiglia sempre più alle società del consenso viste nei regimi totalitari europei del recente passato.
A descrivere a Fanpage.it come la guerra di Putin sta cambiando la Russia è Lev Gudkov, 76 anni, probabilmente il maggior sociologo del Paese. Direttore scientifico del centro statistico indipendente Levada, Gudkov rimane a Mosca pur criticando il regime, per questo rischia l’arresto. L’istituto che ha guidato per oltre 15 anni potrebbe esser chiuso in ogni momento, il centro Levada è stato infatti dichiarato “agente straniero”.
Se il Cremlino finora ne ha tollerato le attività è perché anche agli autocrati i sondaggi indipendenti servono. Ma il boicottaggio è spietato. Commesse e inserzionisti non ci sono più. Gli uffici ormai occupano solo una piccola parte della sede storica, un palazzo ottocentesco dipinto di verde sulla Nikolskaya, la strada pedonale fra la Lubyanka e la Piazza Rossa. La stessa via dove, durante i mondiali di calcio del 2018, tifosi di ogni dove facevano festa. Sembra passato un secolo. Gudkov ci risponde dalla sua stanza al secondo piano di un fortino assediato nella capitale di un grande Paese sempre più isolato.
Come è cambiata la società russa nei dodici mesi seguiti all’invasione dell’Ucraina?
La società si è raccolta attorno al regime di Putin. A causa della propaganda, della censura e della repressione di ogni opposizione. Non si tratta di un cambiamento drastico, ma c’è stata un’accelerazione in questo senso.
Il regime è diventato totalitario
Sì, la deriva è decisamente totalitaria. E la popolazione si è adeguata. Il regime è diventato più repressivo, ha allargato il suo controllo su aree che prima non rientravano nella competenza dello Stato. Sta rapidamente rafforzando il dominio sull’istruzione, sui media e su internet. Sono stati bloccati oltre 250 siti di notizie. Mentre è in atto una vera e propria aggressione contro chi critica la guerra contro l’Ucraina.
Non sono mica tanti i russi che criticano la guerra, secondo i vostri sondaggi. Perché?
Perché il regime è stato capace di organizzare il consenso in relazione al conflitto. Il 75% della popolazione sostiene l’invasione e il 71% si dice certo che la Russia vincerà. Ma questi dati vanno messi in relazione con altri che permettono di capire meglio quali siano i sentimenti che prevalgono: oltre la metà dei russi, anche quando sostengono le scelte fatte finora dal regime, vorrebbe che la guerra finisse subito e che si avviassero colloqui di pace.
E quindi quali sono i sentimenti prevalenti nella società?
L’ansia e l’incertezza. La gente è ben cosciente che la guerra lampo sognata da Putin è fallita. Ha paura che il conflitto continui a lungo, si allarghi e raggiunga il territorio russo. Con le conseguenti distruzioni e un sempre maggior numero di vittime. Si teme che alla fine ci sia un intervento diretto della Nato e degli Stati Uniti, con una escalation fino all’utilizzo delle armi nucleari.
E le sanzioni non fanno paura?
Contribuiscono certamente alle paure dei russi: le persone sono preoccupate per il forte calo della qualità della vita, per la fuga delle società straniere dal nostro mercato, per l’aumento della disoccupazione e l’accelerazione dell’inflazione, per la scomparsa di una serie di beni di consumo e di medicinali.
Tornando alla percezione della guerra: i russi non si sentono in colpa?
C’è una diffusa sensazione di aver la coscienza sporca, di esser coinvolti in un brutta cosa. Ma c’è anche il rifiuto di sentirsi responsabili delle decisioni prese dalle autorità. Le si approvano solo passivamente. Tutti uniti intorno al regime. Conviene così.
A questo proposito, un sondaggio Levada rileva che il 59% della popolazione non si sente responsabile del conflitto ucraino. Che sentimenti si associano a questo dato?
Non c’è compassione nei confronti degli ucraini. Nemmeno odio, nonostante la propaganda lo fomenti senza sosta. La società russa è diventata amorale. La responsabilità civile è estremamente debole, così come la comprensione dei crimini commessi dal regime. I russi non vogliono questa guerra. Ma obbediscono, dicono che è giusta e vanno a uccidere i loro vicini di casa. Senza provare odio. Senza vera aggressività. Agisce un’identificazione con lo Stato che cancella la responsabilità individuale e anche il libero arbitrio. La gente dichiara la sua approvazione per una guerra che dentro di sé sa di non volere. Non c’è resistenza alle pressioni dello Stato. E di conseguenza si è sempre alla ricerca di argomenti che giustifichino comportamenti altrimenti ingiustificabili. Come la presunta volontà dell’Occidente di distruggere la Russia o l’odio da parte degli ucraini. E la propaganda aiuta a fornirli, questi argomenti.
Si chiama organizzazione del consenso. E ricorda parecchio l’Italia negli anni Trenta del secolo scorso. Riguardo all’Occidente: i russi credono davvero che siamo tutti “satanisti”, come dice la propaganda quando è gentile?
C’è molta diffidenza e paura dell’Occidente. C’è il senso di un reale pericolo che arriva da Ovest. Al di là di ogni eccesso propagandistico.
Diceva dell’adeguamento della popolazione alla deriva totalitaria. Lei, dopo aver studiato per decenni il tipo sociologico dell’”Homo Sovieticus” — così definito dal suo maestro Yuri Levada — ha identificato oggi l’“Homo Putinus”. In cosa differiscono questi due tipi?
Il cittadino tipico dell’era di Putin è simile a quello dei tempi sovietici ma più cinico. Utilizza le stesse capacità di adattamento al totalitarismo usate dal suo predecessore. Ma siccome non ci sono più i defizit (Gudkov usa la parola associata alla cronica mancanza di beni di prima necessità nell’Urss), l’”Homo Putinus”è relativamente soddisfatto del suo tenore di vita e non vuole perdere quel che ha. È cinico, appunto. Ogni visione del futuro è sparita. Quando c’era l’Unione Sovietica, le persone avevano un’esistenza pacifica e potevano immaginare un futuro radioso. Questo, almeno, prometteva lo Stato. Lo Stato di oggi non promette nulla. Certamente non la pace. non c’è alcun futuro pacifico e luminoso, all’orizzonte. La gente che intervistiamo afferma di non sapere cosa sarà di loro il prossimo mese. Vive alla giornata. Si è adattata a un regime pessimista. È distaccata dalla politica. E non vuole assumersi responsabilità. Prevale il cinismo. Queste caratteristiche si sono accentuate nell’ultimo anno. Sono una conseguenza dell’involuzione del regime. Al contempo, ne sono le fondamenta.
La gente è distaccata dalla politica, diceva. Infatti, se chiedi a un russo cosa pensa della guerra il più delle volte ti risponde che “non si occupa di politica”. Però con la mobilitazione parziale del settembre-ottobre scorso il conflitto ucraino è entrato davvero nelle case. E i vostri sondaggi registrarono allora un forte calo del sostegno al Cremlino. Che succede se viene proclamata una nuova mobilitazione?
È vero che dopo l’annuncio della mobilitazione l’umore della società cambiò radicalmente. Ma anche in questo caso è subentrato l’adattamento. Rapidamente si è ristabilita la calma. E il sostegno alla guerra è tornato a salire. Si è voluto credere che la mobilitazione fosse un evento unico che non si ripeterà. Anche se si capisce bene che invece potrebbe ripetersi eccome. Comunque, la prossima ondata di mobilitazione creerà di nuovo molta paura. Ne conseguirà una ulteriore ondata migratoria: come nell’ottobre scorso, molti russi lasceranno di corsa il Paese.
E ci saranno nuove proteste delle madri e delle mogli dei coscritti, come successe qualche mese fa? Potrebbero allargarsi, proteste del genere?
No. Furono proteste locali. Limitate al fatto che i richiamati alle armi non avevano equipaggiamento e addestramento sufficienti. Nessuna critica alla guerra in sé, né agli obiettivi del Cremlino o al regime di Putin. Si è trattato solo di lamentele per la scarsa organizzazione. Proteste da schiavi che non contestano il padrone ma l’organizzazione del loro lavoro di schiavi. E poi le autorità hanno già tratto le conclusioni e avviato una campagna serrata in tivù e sulla stampa per mostrare che i mobilitati vengono addestrati alla perfezione ed equipaggiati al meglio.
Cosa deve succedere per incrinare il sostegno dei russi a Putin?
Devono succedere due cose. E potrebbero succedere. La prima, e più importante, è la sconfitta in Ucraina: l’autorità e la legittimazione di Putin sono associate alla capacità militare e al prestigio da nuova Urss che il regime vuole per il Paese. L’altro fattore che cambierebbe l’atteggiamento nei confronti del presidente è una crisi economica acuta e prolungata come effetto della guerra in corso.
Lei critica senza mezzi termini il regime. Perché rimane a Mosca? Non ha paura di essere arrestato?
Non riesco a immaginare diversamente la mia vita. Non voglio andare all’estero. Lavorerò finché mi sarà fisicamente possibile, vista la mia età. Certo che la situazione è parecchio incerta. Il centro Levada è a rischio. Potremmo essere eliminati in ogni momento. Probabilmente lo saremo non appena i nostri sondaggi inizieranno a indicare un calo del sostegno alla guerra. Ma il mio posto è qui.
(da Fanpage)
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Febbraio 11th, 2023 Riccardo Fucile
I CANALI DI OPPOSIZIONE SEGNALANO UNA IMPENNATA DI CASI DI INSUBORDINAZIONE E PROTESTE DELLE NEORECLUTE E LA RUSSIA HA ANNUNCIATO UN TAGLIO DELLA PRODUZIONE DI PETROLIO CHE NON RIESCE A VENDERE A CAUSA DELLE SANZIONI
Il conto alla rovescia per l’anniversario dell’invasione dell’Ucraina è iniziato, e nei dintorni del Cremlino è già partito il giro delle scommesse: cosa annuncerà Vladimir Putin nel suo discorso alle camere riunite il 21 febbraio? La suspence non fa che aumentare dopo che Putin aveva rinviato o cancellato tutte le sue apparizioni di fine anno .Per il discorso 2023, cambia anche la location: non più il classico Cremlino, ma l’enorme corte coperta del Gostiny Dvor, a fianco della piazza Rossa
Si parlerà di guerra: ieri il ministro degli Esteri Sergey Lavrov è tornato a riprendere il discorso putiniano di un Occidente che vuole «annientare la Russia copiando la triste esperienza di Napoleone e Hitler». Per Mosca circolano voci che Putin farà qualche annuncio clamoroso, per esempio, la tanto temuta seconda ondata di mobilitazione.
A Kyiv stanno aspettando con apprensione di capire dove il comandante supremo russo scaglierà i 300 mila uomini che secondo l’intelligence ucraina ha messo sotto le armi nella mobilitazione precedente, partita a settembre, i falchi russi più decisi insistono per una «guerra totale», con una chiamata alle armi di almeno un milione di russi, Evgeny Prigozhin, il fondatore del gruppo Wagner, si prepara a una guerra lunga: «Per prendere tutto il Donbass ci vorranno almeno un anno e mezzo-due, per arrivare al Dnipro tre», ha dichiarato.
Pronostici che smentirebbero le attese di una imminente grande offensiva russa, un “blitzkrieg” sul quale, secondo diverse indiscrezioni filtrate negli ultimi giorni, Putin scommetterebbe per una rapida conquista dei territori ucraini che rivendica nel Sud-Est da presentare poi come “vittoria”. Intanto i canali di opposizione segnalano una impennata di casi di insubordinazione e proteste delle neoreclute russe
La risposta al nuovo round di aiuti militari tecnologicamente avanzati, negoziati da Volodymyr Zelensky nelle capitali europee, dovrebbe essere un fiume umano di soldati russi, come quelli che conquistano a prezzo di centinaia di caduti ogni giorno le avanzate di qualche chilometro a Bakhmut e Vuhledar. […] la Russia ha appena annunciato un taglio della produzione di petrolio che non riesce a vendere in seguito alle sanzioni, mentre un terzo della spesa dello Stato ormai viene mangiato dalla guerra .
A Putin restano dunque dieci giorni per decidere se e come rilanciare la guerra: la scelta del 21 febbraio come data del discorso al parlamento, due giorni prima della festa delle forze armate e tre giorni prima dell’anniversario dell’inizio della guerra, non può essere casuale. L’attacco missilistico massiccio di ieri contro le città sembra più una ripresa di una vecchia tattica che l’inizio di una fase qualitativamente nuova
(da La Stampa)
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Febbraio 11th, 2023 Riccardo Fucile
IL REPORT DEI SERVIZI SEGRETI ESTONI: “LE FIGURA EMERGENTI? PUTIN NON ESITERÀ A SBARAZZARSENE SE DIVENTERANNO TROPPO AMBIZIOSE. L’OPPOSIZIONE, È STATA AZZERATA. OGNI SEGNALE DI MALCONTENTO VIENE CONTENUTO. PER MONITORARE I CONSENSI, IL CREMLINO COMMISSIONA CONTINUI SONDAGGI PRIVATI”
«Per quello che sappiamo l’obiettivo di Vladimir Putin resta la presa totale dell’Ucraina». Il neo-direttore dell’intelligence estera dell’Estonia, Kaupo Rosi: il quadro che traccia è all’insegna del realismo. Primo: «Putin ha il pieno controllo del potere».
Secondo: ha ancora mezzi e uomini per continuare l’aggressione militare contro l’Ucraina. Terzo: lancerà una nuova grande offensiva «nelle prossime settimane o mesi».
«Non bisogna sperare che il regime devastato da guerra e sanzioni crolli e adotti valori democratici», spiega Rosin. L’élite è radicalizzata, continua Rosin, tanto quanto il suo leader.
Chiunque gli succederà, se mai gli succederà, continuerà nel suo solco e, se pure provasse a ricostruire le relazioni con l’Occidente, lo farebbe per pure ragioni economiche. «La Russia si avvia sempre più verso la dittatura totale». Certo, vi sono lotte di potere tra figure emergenti, come il capo di Wagner Evgenij Prigozhin, che cercano di posizionarsi alla corte dello Zar. Ma, avverte Rosin, Putin non esiterà a sbarazzarsene se diventeranno troppo ambiziose. Per quanto riguarda l’opposizione, è stata azzerata.
E ogni segnale di malcontento viene contenuto. Per monitorare i consensi, il Cremlino commissiona continui sondaggi privati e ha raddoppiato i fondi destinati alla sicurezza interna fino al 15% del budget federale proprio per essere pronto a «tenere tutto sotto controllo». Quanto agli armamenti, la Russia «non ha ancora raggiunto la cosiddetta riserva strategica».
Nei depositi ha ancora munizioni, pezzi d’artiglieria e tank. Al momento ha autonomia per almeno un anno, ma intanto ha mobilitato le industrie che continuano a sfornare armi di precisione per sostituire quelle perdute sul campo di battaglia e importa da Iran, Nord Corea e Cina i componenti mancanti. La pressione sul terreno cresce. In campo non ci sono più soltanto i mercenari di Wagner, ma anche forze regolari. La mobilitazione procede benché «nell’ombra».
Ci si prepara alla nuova prossima offensiva . Quel che è certo è che si concentrerà sul Sud e sull’Est dell’Ucraina. Movimenti su Kiev dalla Bielorussia sono da escludere. Ciò non vuol dire che l’alleanza con Aleksandr Lukashenko vacilli. Le forze russe hanno totale libertà di movimento sul suo territorio . A distanza di un anno, conclude Rosin, gli obiettivi strategici di Putin non sono cambiati. Il leader del Cremlino crede ancora che il sostegno dell’Occidente a Kiev vacillerà.
Le allusioni al negoziato sono meri tentativi di guadagnare tempo, mentre le minacce nucleari servono a fare pressione sull’Occidente perché non mandi ulteriori rinforzi a Kiev. Non mancano i chiaroscuri. Il morale tra i diplomatici è basso. Non vengono pagati a causa delle sanzioni . Ma la nota più dolente è che in Russia, dice Rosin, «la volontà politica è molto più forte della realtà militare sul terreno». Il generale Serghej Surovikin voleva «stabilizzare il fronte, raccogliere risorse e addestrare le nuove leve» prima di lanciare un nuovo attacco, ma Putin «voleva risultati più immediati». Da qui l’avvicendamento col capo di stato maggiore Valerij Gerasimov.
(da La Repubblica)
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Febbraio 11th, 2023 Riccardo Fucile
IL MEDICO: “A RISCHIO EDEMA E ARITMIE FATALI, MA VUOLE ANDARE AVANTI CON LA PROTESTA”
Alfredo Cospito è stato trasferito dal centro clinico del carcere di Opera al reparto di medicina penitenziaria dell’ospedale San Paolo di Milano. “Su indicazione dei sanitari, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha disposto oggi il trasferimento – in via precauzionale – del detenuto. Dalle 18.39, Cospito si trova in una delle camere riservate ai detenuti in regime di 41bis. La salute di ogni detenuto costituisce priorità assoluta”, si legge in una nota del ministero della Giustizia.
Da quanto si è appreso da ambienti carcerari e giudiziari milanesi, per l’esponente anarchico, che oggi è al 115 giorno di sciopero della fame, si è reso necessario il ricovero ospedaliero in quanto, oltre al cibo, si rifiuta di assumere anche gli integratori.
L’anarchico pesa ormai 71 chili ed è a rischio di edema cerebrale e aritmie cardiache potenzialmente fatali. A riferirlo era stato il medico di parte, Andrea Crosignani, all’avvocato Flavio Rossi Albertini dopo aver visitato il detenuto stamattina nel carcere milanese di Opera.
L’anarchico secondo quanto riporta il medico, sarebbe “determinato ad andare avanti con la protesta. Anche se ho cercato di convincerlo a riprendere il potassio per ridurre il rischio di queste aritmie. È lucido e cammina sulle proprie gambe”. Il dottore ha definito le sue condizioni “serie”. “I parametri tengono ma basta poco perché la situazione precipiti senza dei segni particolari di allarme” preventivo.
“Ho preso visione della cartella clinica, la situazione da un punto di vista fisico è di importante debilitazione ma è presente a se stesso”, ha aggiunto Crosignani ai microfoni della Rai. “La debilitazione, unita alla determinazione, purtroppo non è un buon segno”, ha concluso il medico.
(da La Repubblica)
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Febbraio 11th, 2023 Riccardo Fucile
DANNEGGIATE SETTE VETRINE DI BANCHE, VETRI DELLE AUTO SPACCATE.. FUMOGENI E BOMBE CARTA
Il presidio di solidarietà per Alfredo Cospito in piazza XXIV Maggio è diventato presto un corteo non autorizzato, con scontri, manganellate e bombe carta lanciate dagli anarchici.
Circa 200 persone si sono radunate davanti alla Darsena per la manifestazione organizzata dagli anarchici milanesi. Intorno alle 18 il gruppo si è mosso in direzione Porta Romana, dove il numero di manifestanti è salito a circa 400, tra cori e urli contro giornalisti e fotografi. Gli anarchici hanno esposto striscioni contro il 41 bis.
Poco dopo la partenza del corteo, all’altezza di viale Bligny di fronte all’università Bocconi, alcuni manifestanti hanno preso di mira, danneggiandola, una vetrina della filiale della banca Crédit Agricole. Ma di vetrine di banche danneggiate alla fine della giornata se ne conteranno almeno sette.
Intorno alle 18.20 i manifestanti in prima fila, tutti vestiti di nero e con i caschi, sono venuti a contatto con gli agenti all’altezza di viale Sabotino. Dalla parte degli anarchici sono state esplose due bombe carta, accesi diversi fumogeni ed è partito un fitto lancio di oggetti, tra cui petardi e bottiglie. A quel punto sono partite almeno quattro cariche di alleggerimento da parte delle forze dell’ordine per far indietreggiare il corteo.
Durante gli scontri sono state danneggiate anche alcune delle auto che si trovavano parcheggiate in strada e alcuni vasi. Dopo il contatto in viale Sabotino gli anarchici si sono allontanati.
Un altro scontro violento è avvenuto nei pressi di via Altaguardia. Durato più di qualche minuto, con le forze dell’ordine che contrastavano l’avanzata delle prime file dei manifestanti. Dopo un vero e proprio corpo a corpo in due tempi, la polizia è riuscita a far indietreggiare gli anarchici e ha poi lanciato lacrimogeni. Un’altra carica è arrivata all’altezza di via Salasco.
Si tratta del secondo raduno degli anarchici in città per protestare contro il regime del carcere duro, dopo la manifestazione dello scorso venerdì in stazione Centrale. Sabato scorso invece gli anarchici del nord Italia si erano dati appuntamento davanti al carcere di Opera dove Cospito si trova detenuto e dove sta portando avanti il suo sciopera della fame che va avanti da oltre 110 giorni.
Nei giorni scorsi, sempre in zona Navigli, erano comparse scritte con la firma della A cerchiata, con insulti alla Polizia e contro il 41 bis. Le scritte sono state fatte in via Gola, a pochi metri dal centro sociale “Cuore in Gola” che secondo gli investigatori è uno dei luoghi di riferimento della galassia anarchica.
(da La Repubblica)
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