Aprile 8th, 2023 Riccardo Fucile
PROPOSTA RAMPELLI CONTRO L’USO DI PAROLE STRANIERE BOCCIATA DAL 70% DEGLI ITALIANI
Dai dati che emergono dall’ultimo Termometro Politico, la fiducia
degli italiani in Giorgia Meloni mostra una flessione, al 42,9%, rispetto alla precedente rilevazione
Di chi è la colpa per i ritardi del Pnrr?
Per un terzo degli italiani (il 36%) la colpa del ritardo nell’attuazione del Pnrr non è da attribuire al governo Meloni (32,6%) o al precedente esecutivo guidato da Draghi (11,9%), ma alla classe dirigente italiana che “non è in grado di elaborare e realizzare progetti complessi, per incompetenza e per eccesso di burocrazia”.
Cosa pensano gli italiani di Finlandia e Svezia nella Nato?
Diverse le opinioni degli intervistati sull’ingresso della Finlandia nella Nato e quello probabile della Svezia. Per il 33% questo fatto renderà più probabile un allargamento del conflitto con conseguente allontanamento della fine della guerra; per il 30,4% ora la Russia è più isolata ma ciò non avrà un impatto sul conflitto in Ucraina; per il 15,7% invece diventa meno probabile che la guerra si allarghi, con in prospettiva la possibilità che la Russia si ritiri. C’è anche chi crede che l’ingresso dei due Paesi nordici nella Nato alla fine non avrà alcuna conseguenza concreta (16,4%).
La crociata di Rampelli contro le parole stranieri è giusta?
Oltre sei italiani su dieci bocciano l’idea dell’esponente di Fdi Fabio Rampelli di multare chi usa termini stranieri nella pubblica amministrazione. Tra questi il 31,9% ritiene che bisogna istituire semmai linee guida di buon senso sul linguaggio da usare, mentre per il 36,6% la proposta di Rampelli è “retrograda”. Solo il 30% si dice d’accordo con l’idea dell’esponente di Fdi.
(da Fanpage)
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Aprile 8th, 2023 Riccardo Fucile
LA MODIFICA ARRIVA DA UNA CIRCOLARE DI PIANTEDOSI: BASTA PATTEGGIARE UNA PENA FINO A DUE ANNI
Chi ha patteggiato una pena fino a due anni, evitando la condanna definitiva in un processo ordinario, potrà candidarsi alle elezioni. Una circolare del ministero dell’Interno risalente al 13 marzo, contenente un parere del Dipartimento per gli Affari interni e gli Enti locali, ha stabilito che la legge Severino del 2012, nata per frenare le infiltrazioni criminali e la corruzione in politica, sarà meno stringente d’ora in poi.
Il motivo tecnico è questo: la riforma Cartabia, varata dal governo Draghi, ha previsto che gli effetti non penali di una condanna, cioè quelli diversi dalla reclusione in carcere, non si applichino in caso di patteggiamento. Il patteggiamento, o “applicazione della pena su richiesta delle parti”, è un accordo tra l’imputato e l’accusa che evita di proseguire nel processo e stabilisce subito una pena, che può essere al massimo di cinque anni di carcere ed eventuali sanzioni in denaro. La riforma Cartabia ha deciso, quindi, che per chi patteggia c’è solo la parte “penale” della condanna, e non tutte le altre.
La legge Severino, approvata nel 2012 sotto il governo Monti, stabilisce che chi ha ricevuto una condanna superiore a due anni “per delitti non colposi” non può essere candidato alle elezioni per almeno sei anni. Lo stesso vale anche per una sentenza definitiva di patteggiamento. Ma l’incandidabilità è considerata un effetto non penale del patteggiamento. Quindi, secondo il governo, grazie alla riforma Cartabia chi patteggia non può perdere la possibilità di candidarsi.
Come scritto esplicitamente nel parere, l’incandidabilità “perde i suoi effetti”, perciò i condannati con patteggiamento “non incorrono più in una situazione di incandidabilità, potendo così concorrere alle prossime elezioni”. La modifica ha valore retroattivo, e si applicherà già dalle prossime elezioni amministrative.
Poiché si tratta di un parere del ministero legato al patteggiamento, la modifica riguarda solo alcuni casi: se, ad esempio, il giudice decidesse di applicare una pena accessoria come l’interdizione dai pubblici uffici, l’incandidabilità resterebbe anche in caso di patteggiamento. Può farlo solo nei casi in cui il patteggiamento sia per una pena superiore ai due anni di carcere , però. In più, il patteggiamento non è un diritto automatico: il giudice può rigettare la richiesta
Il centrodestra ha già detto che vuole cambiare la legge Severino
L’espediente tecnico ha permesso al governo Meloni di intervenire su una norma, la legge Severino, che il centrodestra ha duramente criticato fin dalla sua approvazione. Si tratta della stessa legge che ha portato, nel 2013, al decadimento di Silvio Berlusconi dal suo incarico di senatore, dato che era stato condannato a quattro anni per frode fiscale.
In passato, lo stesso ministro della Giustizia Carlo Nordio aveva criticato la legge anticorruzione. Nel 2021, sostenendo i referendum proposti dalla Lega per abrogarla in parte, aveva definito la legge Severino “incostituzionale e inopportuna”, dicendo che era nata “per ragioni di demagogia politica e nata male come tutte le norme che nascono con questa motivazione”. Durante il suo mandato da ministro Nordio, ha già dichiarato ai sindaci che la Severino avrebbe potuto essere modificata, nella parte che prevede che gli amministratori condannati in primo grado siano sospesi per 18 mesi.
(da Fanpage)
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Aprile 8th, 2023 Riccardo Fucile
AL PRIMO GOSSIP SE LA FANNO NEL PANNOLONE TRICOLORE: IL CONCETTO ELASTICO DI FAMIGLIA TRADIZIONALE
Certo che fanno sorridere parecchio, questi politici di Fratelli
d’Italia. Non fanno che rivendicare l’italico orgoglio, il sangue freddo con cui affrontano avversari e avversità, definiscono zerbini i nemici, accusano di vigliaccheria e servilismo chi si allinea alle decisioni di Macron, dell’Europa, di chiunque non abbia la bandierina tricolore stampata sulla cravatta.
Giorgia Meloni è quella che “andremo a scovare gli scafisti in tutto il globo terraqueo”, “A volte falliremo ma non indietreggeremo, non getteremo la spugna, non tradiremo”, “Coraggio, coerenza, onestà. Sono questi i valori che Giorgio Almirante ci ha lasciato in eredità!” e poi, al primo gossip, se la fanno nel pannolone tricolore.
Perché non so se vi è chiaro, ma dalle parti di Fratelli d’Italia, nelle ultime settimane, non regnava l’imbarazzo, ma la paura. Paura che venisse fuori il pettegolezzo che circolava da tempo tra politici e giornalisti su un politico del partito e sulla deputata ascolana di Fratelli d’Italia Rachele Silvestri.
Si diceva, come lei stessa ha rivelato nell’ormai nota lettera inviata al Corriere della sera, che il figlio avuto a dicembre fosse di un pezzo grosso di Fratelli d’Italia e che lui non avesse alcuna intenzione di riconoscerlo.
La voce (arrivata anche a me), più che da commenti morbosi, era accompagnata da considerazioni sarcastiche sul concetto elastico di famiglia tradizionale, dalle parti di Fratelli d’Italia. Della serie: ormai questi per sapere se sono davvero Fratelli devono fare il dna.
Ma torniamo alla faccenda dell’eroismo così sbandierato e rivendicato dai nostri. Il protagonista del gossip, uomo di fiducia di Giorgia Meloni, temeva che qualcuno prima o poi pronunciasse il suo nome. Se la faceva, come dicevamo, nel pannolone tricolore. Del resto, capite bene che mentre Fratelli d’Italia fa la sua battaglia per bloccare il riconoscimento dei figli di coppie dello stesso sesso, non è simpatico avere uno dei volti più noti di Fdi al centro di un gossip secondo il quale quelli di Fdi non vogliono riconoscere manco i figli nati da genitori di sesso diverso.
C’è da capirli. E visto che si tratterebbe di una squallida maldicenza, ci si aspettava dunque che dal partito dei coraggiosi arrivasse una mossa coraggiosa. Si immaginava che dal partito che manda pacchetti di sanzioni e pacchi di artiglieria pesante in Ucraina, ci fosse un deciso interventismo anche in questa circostanza decisamente meno rischiosa di una guerra. E invece, appunto, hanno fatto come con la guerra: partecipiamo, sì, ma a combattere ci vanno gli altri.
Ed è così che mentre il protagonista maschile (in perfetta età per arruolarsi) se ne è rimasto sul divano, la protagonista femminile, pure neo-madre, è stata buttata in trincea a schivare bombe e proiettili.
Perché diciamolo: la lettera di Rachele Silvestri al Corriere non difende se stessa, dal gossip, ma l’altro. Il soldato sul divano. Quasi nessuno sapeva chi fosse la deputata, il grande pubblico non conosceva né il suo volto né la maldicenza.
Il vero protagonista del chiacchiericcio era la parte maschile della storia. Se il gossip fosse stato su Rachele Silvestri e un qualunque deputato sconosciuto quanto lei, al massimo se ne sarebbe parlato sulla pagina Facebook “Sei di Ascoli Piceno se…”.
E quindi, le strade da percorrere in un mondo ideale, popolato da persone corrette, erano due: o si taceva o la smentita pubblica toccava a lui, che è il politico famoso e (ci sembrava) con le spalle grosse. Lui doveva difendere l’identità di Rachele Silvestri, che tra l’altro si trova in una condizione di evidente vulnerabilità.
Invece, il partito degli eroi, quello della prima donna presidente del Consiglio che è un buon segnale per tutte le donne, ha riservato alla donna (che si chiama pure Rachele, per un curioso scherzo del destino) la pubblica umiliazione.
Ed è impossibile non pensare alla lettera che nel lontano 2007 Veronica Lario inviò a Repubblica per difendere la sua dignità di moglie, non esitando a umiliare pubblicamente il potente marito Silvio Berlusconi per le sue battute ad altre donne. Lei, sì, venne allo scoperto per dire non sono “la metà di niente” e aggiunse che si era esposta per insegnare ai suoi figli i concetti di dignità femminile e di rispetto per le donne.
A distanza di sedici anni, la lettera di Rachele Silvestri sembra il frutto di uno di quei miseri compromessi da secoli bui per le donne. Della serie: fai il test del dna, mortifica te stessa e la tua famiglia, proteggi l’identità dell’uomo potente e poi taci.
Il paradosso è che la lettera di Silvestri si addentra pure in sentieri minati, sbandiera una presunta emancipazione facendo riferimento proprio al coraggio (“col partito di Giorgia Meloni condividevo da tempo le idee e il coraggio”) e al femminismo ( “…se sono stata inserita nelle liste delle elezioni politiche ha contribuito anche il fatto di essere donna in una forza politica che pratica, nei fatti, la parità di genere”).
Come no, questa è proprio una vicenda da cui Fratelli d’Italia esce come il partito del coraggio e della parità di genere.
Nel frattempo, chissà cosa pensa Giorgia Meloni della storiaccia. La Giorgia Meloni a cui si deve solidarietà per la scritta su un muro o il coro di quattro scemi, ma quando c’è da esprimere solidarietà nei confronti di una donna del suo partito, tace. Un silenzio bizzarro.
Mi aspettavo un po’ di coraggio e che lo stesso coraggio lo pretendesse dall’uomo del suo partito che sarebbe vittima del gossip tanto quanto Rachele Silvestri.
Era proprio Giorgia, in definitiva, quella che giudicava vigliacchi i migranti che secondo lei scappano da guerre e carestie lasciando donne e bambini a casa. Era lei quella che voleva gli uomini africani, siriani, afghani così eroici da caricarsi i neonati in spalla e attraversare deserto, territori minati e confini, mettendo in conto che figli e mogli potessero morire. Ora che un uomo del suo partito dovrebbe compiere l’atto ben meno eroico di non far imbarcare una donna sola sul barcone del pettegolezzo, se ne sta zitta.
Del resto, c’è da capirla, direte voi. Gli uomini di Fratelli d’Italia sono tutti impegnati in battaglie serie, tipo togliere la carne sintetica da un laboratorio per fare posto al dna di un povero bambino. Non disturbiamoli.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Aprile 8th, 2023 Riccardo Fucile
DEFINIRSI IDENTITARI DOPO AVER TIRATO A CAMPARE GRAZIE AI MEDIA BERLUSCONIANI E’ IL MASSIMO DELLA COERENZA
Che ci facevano all’hotel Quirinale gli intellettuali “meloniani” convocati per il convegno “Pensare l’immaginario italiano”, sottotitolo “Stati generali della cultura nazionale”? Lo scrittore Fulvio Abbate commenta l’uscita allo scoperto delle “teste emerse della destra” (Langone, Zecchi, Buttafuoco, Mascheroni, Veneziani…) e spiega la possibile ragion d’essere del congresso: “Leggendo le parole di Michele Serra sulla compagna di Elly Schlein, il meraviglioso mondo di tutte le Amélie di sinistra, potrebbe venire addirittura voglia di trasformarsi in King Kong aspirante carnivoro alla disinvoltura post-fascista, forse addirittura al sogno di una monarchia assoluta mitigata dal terrore”
Peccato, peccato davvero! Che mancata occasione! Sì, che mi sarebbe piaciuto, nei giorni scorsi, raggiungere l’Hotel Quirinale, in via Nazionale, dove anche questo riferimento topografico, simbolicamente, qualcosa dice circa l’evento in questione, ossia il Gran Consiglio della destra culturale italiana. Lì con le sue ragioni pressanti, lì al tempo del governo “amico” di Giorgia Meloni, lì con le sue molte varie ed eventuali lungamente attese. Immaginifico il titolo: “Pensare l’immaginario italiano”. Quasi a dire e rivendicare autarchicamente uno specifico, appunto, “nazionale”, e non semplicemente contrassegnato in senso calcistico degli Azzurri; iconica memoria di Zoff che solleva la coppa al mondiale. No, proprio tricolore identitario. Per chi fosse curioso di storia politica cromatica altrettanto nazionale, si sappia che non meno azzurra era la camicia dell’Associazione nazionalista, che infine confluirà tra i manipoli fascisti indossando rassegnata il nero d’orbace; ma son questi dettagli. Sottotitolo, se non sottopancia, come usa dire nei talk televisivi, “Stati generali della cultura nazionale”. Quasi la Vandea pronta a strappare a Robespierre e Saint-Just gli interi scranni della Convenzione.
L’intento era dunque ponderoso, ma soprattutto fondativo: le terre, le teste emerse della destra. Finora, sì, esistenti però in forma anfibia, nel migliore dei casi a bagnomaria o semplicemente ospitate nel mezzanino mediatico berlusconiano, in realtà tenute meschinamente sott’acqua dall’egemonia altrui, cioè “comunista”. Gramsci addirittura dai relatori evocato per indicare l’emersione in corso d’opera.
Dimenticavo di dire che in quegli stessi momenti mi trovavo a Firenze per incontrare Fernando Arrabal, ultimo nume ancora vivente del più immaginifico surrealismo, presente al teatro La Pergola, con la messa in scena della sua “Lettera al generale Franco”, dove, evocando il fascismo spagnolo, si legge: “Il suo passatempo preferito è uccidere conigli, piccioni e tonni. Nella sua biografia, soltanto cadaveri! Tutta la sua vita ammuffita dal lutto. La immagino attorniata da colombe senza zampe, ghirlande nere, sogni che trasudano morte e sangue”. Un sunto di certo immaginario già caro anche alla destra italiana. Possano dunque le parole dell’anarchico Arrabal mostrare virtualmente il fondale mortuario, l’album di famiglia dei fascismi, impossibile da non evocare perfino quando la destra sceglie di mostrarsi a figura intera.
Ora, per un istante, come in un fotogramma, blocchiamo i visi presenti al Gran Consiglio di via Nazionale, nella conquistata quadricromia meloniana: il volto di Gianmarco Mazzi, sottosegretario alla cultura, dello scrittore Camillo Langone, del filosofo Stefano Zecchi, del direttore del Maxxi Alessandro Giuli, del giornalista Luigi Mascheroni, del ministro della cultura Gennaro Sangiuliano, del “figlio d’arte” Emanuele Merlino, di Federico Palmaroli detto Osho, di Francesco Borgonovo, di Luciano Lanna, di Pietrangelo Buttafuoco. Tra questi anche creature ai miei occhi stimabili, con le quali ho un rapporto di amicizia. Dimenticavo Marcello Veneziani, riconosciuto sosia di Lev Trotskij.
Ecco però che d’improvviso, a dispetto dell’attenzione doverosa da prestare all’evento fondativo del “pensiero nazionale”, la mia attenzione viene risucchiata dalle parole di Michele Serra apparse su “Repubblica” a commento di un post Instagram di Paola Belloni, disvelata compagna Elly Schlein, dove si lamenta un’indebita irruzione dei paparazzi, atto di lesa maestà giornalistica, intrusione non accettabile nel sublime edificante “di sinistra”. Così Serra: “La cosa che mi ha più colpito, nel post di Paola Belloni, è la forma. Il post di Paola è scritto in un italiano accurato e profondo, oserei dire insolito (basti quel cenno agli ‘spatriati che lasciano le loro province pieni di graffi e di segreti’, frase che dice, sull’omofobia, più di mille comizi). Sempre più spesso mi capita, quando leggo o ascolto qualcuno in televisione, di badare alla forma quasi con trepidazione: come se fosse un segnale di salute pubblica e di resistenza politica anche quello, o soprattutto quello”.
In pochi istanti sembra quasi che il meraviglioso e compito mondo di tutte le Amélie “di sinistra”, proprio attraverso le parole dell’ex direttore di “Cuore”, in nome d’ogni ironia perduta a favore invece della superiorità morale al sentore di patchouli, se non di rose, voglia affermarsi in risposta ai blazer “Davide Cenci”, alle borse “Louis Vuitton”, alle obiezioni dell’altro insieme umano, politico e antropologico in quel momento riunito all’Hotel Quirinale.
Da Serra in breve l’ennesima apoteosi del tacco basso e della zuppa di farro e d’ogni altra delizia letteraria del beauty-case civile per ceti medi riflessivi, parole al cui semplice sentore, non sembri un paradosso, per contrasto e necessaria ironia ad alcuni potrebbe venire addirittura voglia di trasformarsi in King Kong aspirante carnivoro alla disinvoltura post-fascista, forse addirittura al sogno di una monarchia assoluta mitigata dal terrore.
Insomma, tragicamente l’idea persistente di una sinistra “con prenotazione obbligatoria”, mossa dalla preoccupazione di ben ripiegare il tovagliolo della misura sembra infine, se non legittimare, far comprendere l’intento antagonistico di quel Gran Consiglio in corso d’opera, la voglia di virare il concetto gramsciano di egemonia verso, se non l’opera al nero, comunque in direzione della tinta antracite; o piuttosto del grigio topo. Come segno di finalmente fuoriuscita dalle “fogne”; si sappia che, per antifrasi e contrasto, il giornale di un apprezzabile intellettuale di destra, Marco Tarchi, purtroppo assente al Gran Consiglio di via Nazionale, prendeva, appunto, nome “La voce della fogna”.
Chissà come, chissà perché, o forse è facile intuirlo, pensando proprio alle ragioni di un’assemblea identitaria al tempo ritrovato delle occasioni, delle opportunità, delle commende, delle cooptazioni, degli strapuntini, perfino dei buoni-pasto, i voucher pubblici di Giorgia Meloni, tra incarichi nei media di Stato e partecipate, pensando invece a una destra eroicamente elegante mi tornano invece in mente alcune figure di intellettuali francesi che, sebbene i prossimi al collaborazionismo con i tedeschi occupanti, mostravano, appunto, un’eleganza invidiabile, un proprio bisogno di alterità.
Intendiamoci, non penso esattamente a Robert Brasillach, le cui opere furono in Italia furono prefate addirittura da Giorgio Almirante, infine fucilato al Forte di Montrouge nel 1945, nonostante un appello per la grazia cui aderirono molti resistenti antifascisti tra cui Albert Camus. Penso semmai, perdonate la citazione colta, allo scrittore Roger Nimier, curatore presso Gallimard delle opere di Louis-Ferdinand Céline, Nimier a bordo della sua Aston Martin, Nimier autore di un romanzo assente a ogni retorica borghese quale “L’ussaro blu”, Nimier lì ad affermare un sentimento individualistico e, se proprio vogliamo, anche dandistico invidiabile, intellettualmente lussuoso, sontuosamente mosso dall’Eros.
Leggo invece che alla fine, a incoronare l’intera giornata del Gran Consiglio della destra, spiccava l’ideatore del cabaret del “Bagaglino”, Pier Francesco Pingitore, il suo immancabile borsalino da capannello al bar “Vanni” di viale Mazzini, avamposto d’ogni conciliabolo per la conquista del Palazzo della Rai e del suo Cavallo.
Quanto alla brama per le cariche che adesso prospettano al tempo della Fiamma mai occultata giunta intatta a Palazzi Chigi, nulla di più prosaicamente umano. Dove il consenso alle urne serve ad affermare che finalmente, a dispetto di Nanni Moretti e della stessa edificante narrazione “radical chic” dell’amore tra Elly e Paola, altri si apprestano a ballare, bosco di braccia tese sullo sfondo della tavernetta, del grottino, se non dello “scortico” del potere infine ottenuto.
Nulla infine esclude che a partecipare come oratore ufficiale alle celebrazioni dell’ormai impronunciabile 25 aprile possa essere incaricato, dopo lunghe ponderate e opportune riflessioni, grazie a un provvidenziale ordine del giorno Veneziani, l’amico Pino Insegno.
Fulvio Abbate
(da mowmag.com)
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Aprile 8th, 2023 Riccardo Fucile
ITALIA VIVA NON SI SCOGLIE
Al quartier generale di Azione un leggero sospetto che «questo
matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai» lo avevano già da qualche settimana. Cioè da quando — nello scambio di bozze sul percorso per arrivare al partito unico dei centristi — non era previsto lo scioglimento di Italia viva.
La questione non è solo politica, ma anche economica. Il partito, di cui Matteo Renzi è stato eletto anche presidente (e quindi plenipotenziario) nel dicembre scorso, nel 2022 ha incassato quasi un milione grazie al 2 per mille.
«Perché rinunciare al nostro contenitore?», è l’interrogativo che si è posto più di un renziano, dubbioso sul fatto di dover condividere il salvadanaio con quello di Carlo Calenda, che, alla medesima voce, ha raccolto 1,2 milioni.
La situazione, insomma, era già critica di per sé. Tanto che più di un parlamentare, di entrambi i fronti, aveva iniziato a nutrire forti dubbi sul fatto che a giugno si riuniranno davvero le assemblee per sciogliere Azione e Iv in un unico partito.
Ma ad accelerare la crisi tra «Carlo» e «Matteo» — costretti a diventare «amici per forza» alle ultime elezioni per scongiurare il rischio di «sparire» — è poi arrivata la malattia di Silvio Berlusconi. L’eventualità di un suo allontanamento dalla scena politica rimescolerebbe radicalmente il quadro, con molti voti moderati in ballo e le Europee alle porte. Renzi, questo, lo sa bene.
«Non è che lui punta ad essere il nuovo federatore di quel mondo?», è l’ipotesi sussurrata proprio da qualcuno degli «amici per forza». Di certo, seppur apparentemente in silenzio, l’ex premier ha avviato un’altra delle sue operazioni «alla Renzi», per rimanere (nel bene e nel male) al centro della scena. Prima ha ripetuto come un mantra: «Il leader è Calenda, io starò un passo indietro». Nel frattempo ha proseguito la sua discussa attività di conferenziere in giro per il mondo ed è pure riuscito ad accaparrarsi due delle pochissime poltrone in palio: Ernesto Carbone membro laico al Csm e Maria Elena Boschi vicepresidente alla Vigilanza Rai.
Poi ha fatto sapere che si sarebbe «inabissato» per qualche tempo, prendendosi una pausa dalle tv. Pretattica, prima del colpo a effetto: «Sarò il nuovo direttore del Riformista». La notizia l’aveva comunicata a «Carlo» solo poco prima di renderla pubblica, circostanza che il leader di Azione non ha affatto gradito. È iniziato così un gioco del cerino, che, a fronte di risultati elettorali ben lontano dalla doppia cifra, rischia di far naufragare il partito unico dei riformisti-moderati. Perché adesso, da entrambi i fronti, la domanda sorge spontanea: «Chi si intesterà la responsabilità di questa rottura?».
E il clima, anche ieri, si è confermato più che ostile. «Le parole di Carlo Calenda su Berlusconi sono davvero pessime. Capisco l’indignazione del forzista Barelli», sbotta il deputato Roberto Giachetti, fedelissimo di Renzi.
La miccia? Intervistato a Tagadà, su La7, Calenda aveva detto: «Penso che sia la chiusura di fatto della seconda Repubblica, perché la seconda Repubblica è Berlusconi, nel bene e nel male».
A Giachetti, e non alle accuse di Forza Italia, risponde Matteo Richetti: «Calenda ha augurato pronta e piena guarigione a Berlusconi, riconoscendogli di essere protagonista di un’intera stagione politica italiana e definendolo un “leone” — ha ribattuto il capogruppo di Azione-Iv a Montecitorio —. Nonostante questo è stato bersagliato da attacchi e fuoco amico senza mai riportare una sua parola fuori posto. Chiedetevi perché».
(da agenzie)
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Aprile 8th, 2023 Riccardo Fucile
BENEFICI SOLO PER LE REGIONI RICCHE…. LA DESTRA ASOCIALE SEMPRE AL SERVIZIO DEI POTERI FORTI
Sappiamo bene che la Sanità pubblica in Italia è un malato grave e per questo dal governo di turno ci si aspetta sempre una cura miracolosa. Non fa eccezione l’esecutivo di Giorgia Meloni che chiamato a dare una svolta al settore, tanto più per la presenza dei fondi del Pnrr che potrebbero davvero fare la differenza, anziché predisporre una ‘terapia’ adeguata – a suon di investimenti e assunzioni – sembra fare di tutto per rendere ancor più grave la malattia della Sanità pubblica.
Già perché malgrado ci ripetono da anni che in fatto di tutela della salute esiste un divario crescente tra nord e sud, anziché ridurlo si sta pensando di ingrandire il gap con il decreto Calderoli sull’autonomia differenziata. A dirlo non è un politico dell’opposizione o qualche prezzolato giornalista ma un esperto come Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, che prevede tempi duri per l’intero settore in quanto “stiamo andando di fatto verso una Sanità a doppio binario” con l’aggravante “che le regioni più povere, ossia quelle del Centro Sud, rischiano di diventare clienti di quelle del centro nord”.
SITUAZIONE DRAMMATICA
Eppure la Costituzione, all’articolo 32, garantisce il diritto alla tutela della salute su tutto il territorio nazionale. Proprio per questo Come spiega lo stesso presidente di Gimbe il nostro “servizio sanitario nazionale è basato sui principi di equità, di uguaglianza e di universalità” ma ora a queste parole chiave se ne stanno sostituendo altre ossia “la rinuncia alle cure, la fuga verso il privato, la mobilità sanitaria e l’impoverimento” del sistema.
Tutta una serie di problematiche che si ripercuotono sui pazienti, finendo per corrodere irrimediabilmente la sanità pubblica, ma contro cui il governo di Centrodestra sembra fare poco e niente. Anzi stando a quanto sostengono il ministro Roberto Calderoli e la premier Meloni, la situazione appare destinata a peggiorare perché il decreto autonomie prevede, anche in materia di sanità, che le regioni abbiano “una duplice opportunità: gestire direttamente materie e risorse e dare ai cittadini servizi più efficienti e meno costosi”.
Si tratta di belle parole che, però, non la dicono tutta su cosa sta davvero avvenendo. Le regioni più ricche, le quali hanno già ora ospedali migliori, finiranno per avere più fondi da investire nel settore mentre quelle più povere, concentrate al Centro-Sud, non saranno in grado di rispettare i Livelli essenziali di assistenza (Lea) ossia, come si legge sul sito del ministero, “le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale (Ssn) è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket), con le risorse pubbliche raccolte attraverso la fiscalità generale (tasse)”. Che questo sia l’andazzo lo spiega Cartabellotta secondo cui il decreto Calderoli, con l’autonomia differenziata, presenta enormi criticità e rischia di dare “il colpo di grazia al Sistema sanitario nazionale.
“L’Italia è un Paese spezzato in due rispetto a quello che riguarda la performance nella erogazione dei livelli essenziali di assistenza con tutte le regioni del Centro Sud, a parte la Basilicata che peraltro nell’ultimo anno ha peggiorato le proprie performance, che sono in piano di rientro e due, ossia Molise e Calabria, che sono commissariate” spiega il presidente di Gimbe. Carenze per le quali si viene a creare “una mobilità sanitaria verso le regioni del nord. E non è un caso che le tre regioni che hanno già avanzato e siglato con il governo gli accordi per le autonomie differenziate siano Lombardia, Emilia Romagna e Veneto” visto che sono quelle che “nel 2020 hanno fatto il 94% del saldo attivo della mobilità”.
Con il decreto Calderoli questa dinamica è destinata ad enfatizzarsi ulteriormente visto che l’autonomia “finirà per mettere più benzina in macchine che corrono molto più veloce e sono molto più avanti delle altre, lasciando indietro tutte le altre regioni”. Insomma “così come scritto il decreto Calderoli rischia di dare il colpo di grazia al Servizio sanitario nazionale” proprio per questo “la nostra richiesta è quella di espungere la materia della Sanità da quelle che saranno inserite nella legge sull’autonomia differenziata”.
Se non lo si facesse, puntando a un rilancio della Sanità pubblica, secondo Gimbe il Governo non potrà fare altro che “prendersi la responsabilità di dire che stiamo privatizzando” il settore “e guidare questa privatizzazione in maniera strutturata col pubblico”. Ma l’amarezza maggiore è che tutto ciò si sarebbe potuto evitare visto che i fondi per risollevare il settore ci sono e sono contenuti nel Pnrr. Per questo, conclude Cartabellotta, “il Pnrr è un organo prezioso da trapiantare in questo sistema” sanitario pubblico. Peccato che, a quanto pare, il governo sembri pensarla diversamente.
(da La Notizia)
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Aprile 8th, 2023 Riccardo Fucile
“CAMBIAMO IN DOLLARI O EURO”
Non si arresta la caduta del rublo, che dopo essere crollato in
seguito all’introduzione delle sanzioni contro la Russia, per poi risalire nei mesi centrali del 2022, dallo scorso novembre è tornato a diminuire di valore. E di fronte agli sportelli delle banche si formano di nuovo lunghe file di persone che si affrettano a cambiare i propri risparmi in rubli con una valuta più stabile: euro o dollari statunitensi.
Questo è quello che si vede nei video che arrivano da San Pietroburgo, dove, dopo l’ulteriore impennata nel tasso di cambio vista da fine marzo in avanti, un dollaro statunitense si compra a 83 rubli, mentre un euro va a 91.
Secondo quanto sostiene l’economista Michele Boldrin, si tratta di un’ulteriore contraccolpo delle sanzioni che stanno mettendo in difficoltà l’economia russa. Nello specifico, a dare il via al crollo della valuta di Mosca era stato il blocco delle transazioni internazionali con la Banca Centrale Russa e l’esclusione del Paese dal circuito Swift. Il risultato è proprio la caduta a picco del rublo, dato che la Russia non può rifinanziare il proprio debito sfruttando le sue riserve monetarie all’estero, e non ha quindi fondi per acquistare rubli mentre tutti vogliono venderli. Una situazione simile si era verificate anche lo scorso ottobre.
(da agenzie)
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Aprile 8th, 2023 Riccardo Fucile
LA LAVORATRICE DELLE SERRE CHE SI E’ RIBELLATA AGLI ABUSI IN SICILIA: TURNI MASSACRANTI E ABUSI SESSUALI
Si chiama Ludmitza e oggi ha un lavoro regolare. Con stipendio, documenti e diritti. Ma prima ha lavorato nelle serre del ragusano in Sicilia. Per sette anni. Con turni massacranti e ricatti sessuali.
La sua storia la racconta oggi l’edizione palermitana di Repubblica: «È stata dura, 8 o 9 ore di lavoro al giorno spesso pagata solo 15 euro.
«Il padrone ci aveva dato una stalla e pretendeva persino che gli pagassimo la luce. Ogni lavoratore o coppia aveva una stanza, il bagno era in comune, la cucina non più di un fornello da campo. Non c’era riscaldamento e d’inverno faceva freddo. C ’era chi dormiva con i fitofarmaci accanto al letto».
Dice anche che si caricava in spalla una bombola da dieci chili per irrorare i pomodori «senza sapere cosa fosse». Ludmitza ne è uscita rivolgendosi al sindacato Usb.
Ludmitza dice che non sapeva di avere dei diritti e di poter usufruire, per esempio, della malattia: «I padroni approfittano di questo per non farti il contratto e non versarti i contributi». In caso di incidenti gravi invece «nella migliore delle ipotesi ti lasciano davanti all’ospedale. Ma non devi dire di esserti fatto male sul lavoro. Ti ricattano. Soprattutto se sei sola o hai bambini». Per anni lei è andata in farmacia a chiedere «una bustina» per alleviare i sintomi dei malanni: «Non sapevo di avere l’assistenza medica e di averne diritto», sostiene.
Le pressioni sessuali
Ludmitza afferma di aver subito anche pressioni di tipo sessuale: «“Se stai con me, ti pago di più”. Inizia sempre così. È successo anche a me, ma ho avuto la forza di andarmene. C’era mia sorella, mi sono rifugiata da lei. Chi è sola, non ha alternative di lavoro, magari ha figli, è ancora più esposta». Secondo lei i bambini vengono usati come arma di ricatto: «E chi alla fine cede, anche dopo ha paura, vergogna per denunciare. Non è semplice far emergere queste situazioni».
Alla fine ne è uscita: «Hanno iniziato a non pagarmi neanche le giornate. E lì ho detto basta. Dopo sono stata minacciata, il padrone più volte mi ha detto “se ti vedo per strada, ammazzo te e il tuo compagno”. Lui è stato aggredito. Ma sono andata fino in fondo. E mi si è aperto un mondo, ho capito di avere dei diritti».
(da agenzie)
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Aprile 8th, 2023 Riccardo Fucile
PER LO SFRATTO ESECUTIVO ERA ARRIVATA ANCHE UNA GAZZELLA DEI CARABINIERI
Carmine Belfiore, 62 anni, è il questore di Roma. Ieri un ufficiale
giudiziario accompagnato dal fabbro ha fatto irruzione a casa sua sfondando la porta.
Con loro, in caso di problemi di sicurezza, c’erano i carabinieri che però sono rimasti all’esterno del palazzo. Belfiore, che è in città solo da qualche mese non aveva fatto nulla di male. L’ufficiale giudiziario, racconta l’edizione romana di Repubblica, ha semplicemente sbagliato porta. Doveva infatti notificare uno sfratto nel condominio di Ostia dove abita anche Belfiore.
La proprietaria di casa era una studentessa che voleva cacciare un inquilino che occupava la casa della nonna senza pagare l’affitto. L’ufficiale giudiziario è andato dritto verso un indirizzo. Poi è intervenuto il fabbro, ma una volta dentro la studentessa si è resa conto dell’errore: «Non è questa casa di mia nonna. Dove siamo?». L’abitazione era proprio quella di Belfiore e sul posto è arrivata anche una pattuglia della polizia che ha incrociato la gazzella dei carabinieri ferma all’esterno dell’edificio. Dopo un certo imbarazzo, l’incidente è rientrato e il questore ha chiuso l’equivoco cambiando la serratura.
(da agenzie)
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