Luglio 1st, 2023 Riccardo Fucile
UN IMPEGNO CHE METTE IN IMBARAZZO LA MINISTRA DEL LAVORO
Non deve essere stata una seduta fortunata per il governo
quella della discussione finale sul decreto lavoro a Montecitorio.
Ora salta fuori che, subito prima dell’ormai celebre ordine del giorno del Pd Arturo Scotto contro Visibilia e Daniela Santanché, il governo di Giorgia Meloni aveva accettato anche di mettere mano in un provvedimento al salario minimo che oggi trova concorde quasi tutta l’opposizione con disappunto formale dell’esecutivo.
Questa settimana però alla Camera in quella sfortunatissima seduta il governo ha accettato come raccomandazione un ordine del giorno presentato dal Pd con la prima firma di Maria Cecilia Guerra.
Il governo ha promesso quindi di seguire la raccomandazione contenuta in quel dispositivo, che era di «adottare le opportune iniziative al fine di individuare le necessarie risorse finanziarie per rendere strutturale la misura di riduzione del cuneo contributivo a carico dei lavoratori, così favorendo parzialmente il recupero del potere di acquisto di salari e stipendi, in vista di un intervento più organico di disciplina delle retribuzioni minime applicabili».
L’imbarazzo della ministra del Lavoro
Un impegno che oggi mette in imbarazzo la ministra del Lavoro Marina Calderone, che in più occasioni ha sostenuto di non ritenere di dovere procedere per legge sul salario minimo. Cosa che invece il governo, in quel giorno dalle tante gaffes, si è impegnato a fare.
La più sorpresa proprio nell’aula di Montecitorio è stata la stessa Guerra, che ha chiesto la parola proprio per rallegrarsi del cambio di rotta: «Volevo dire che sono favorevolmente colpita dal fatto che il governo faccia questa apertura sul salario minimo e quindi accetto che il mio ordine del giorno venga accolto come raccomandazione».
(da Open)
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Luglio 1st, 2023 Riccardo Fucile
FIDUCIA ACRITICA NEI CONFRONTI DELLE FORZE DELL’ORDINE E RIMOZIONE DELLE VIOLENZE E TORTURE AVVENUTE NELLA QUESTURA DELLA CITTA’
Ieri sono stato a un incontro organizzato dal Partito Democratico di Verona dal titolo “Sicurezza, diritti, giustizia”. L’incontro si svolgeva in una sala anonima di un grosso centro sportivo, il Payanini center, era stato chiamato, dichiarava il volantino stesso, a partire “dai fatti che hanno coinvolto alcuni agenti della Questura” e dal “recente episodio d’aggressione alle Forze dell’ordine in piazzale XXV aprile davanti alla stazione Porta nuova”.
Già dall’invito poteva sembrare chiara la cornice dentro la quale era stato pensato il confronto. Probabilmente molti sanno di cosa si parla quando vengono citati i fatti della questura, ossia un’inchiesta molto estesa, in cui ventisette – su 104, più di un quarto dunque – agenti della questura di Verona sono stati accusati di reati di tortura, lesioni, falso in atto pubblico, abuso di autorità, omissione di atti d’ufficio e abuso di ufficio.
Diversi di loro sono stati arrestati o indagati per aver picchiato e torturato alcune persone, soprattutto persone in condizione di vulnerabilità, mentre erano in custodia all’interno della questura, o per non aver denunciato avvenimenti di questo tipo di cui erano a conoscenza o anche per non averli impediti quando ne avevano avuto l’occasione (qui c’è una buona ricostruzione dello stato dell’arte dell’inchiesta).
La dimensione del caso è evidentemente nazionale; per un’altra indagine così ampia che comprenda il reato di tortura, negli ultimi anni, dobbiamo andare al caso delle indagini sugli agenti penitenziari di Santa Maria Capua Vetere.
L’aggressione, citata dal volantino, davanti Verona Porta nuova, ossia alla stazione di Verona, è invece un episodio locale di lievissima entità. Un uomo fermato che si era rifiutato di dare i propri documenti, ha cercato di resistere anche fisicamente al fermo. L’episodio ha attirato l’attenzione di altre persone presenti che vedendo l’uomo a terra tenuto dagli agenti che si lamentavano, chiedevano di chiamare l’ambulanza.
Gli invitati all’incontro erano tre uomini: Davide Battisti, segretario provinciale del sindacato Siulp; don Carlo Vinco, garante delle persone detenute di Verona, e Antonino Condorelli, magistrato in pensione ex procuratore generale della corte di appello di Venezia. Tra i rappresentanti del Pd presenti c’erano Alessia Rotta, che è consigliera comunale e segretaria cittadina di Verona, Franco Bonfante che è il segretario provinciale, e Riccardo Olivieri, giovane presidente della terza circoscrizione veronese.
Proprio quest’ultimo faceva da moderatore dell’incontro. il segretario Bonfante l’aveva introdotto invitandolo a fare “domande anche imbarazzanti per fare chiarezza su quello che è successo” aggiungendo subito però, come in una strampalata par condicio, che “poi sono successe altre cose: poliziotti che facevano il loro dovere e sono stati accerchiati da decine di persone, qualcuno magari era curioso, qualcuno non con prospettive molto rassicuranti”.
Sempre secondo Bonfante, anche a causa delle indagini e soprattutto dei cinque arrestati, “oggi le forze dell’ordine si sentono meno forti di come erano prima, e anche questo non va bene”. Bonfante metteva nel calderone anche altri temi: le baby gang, e una generica “sicurezza percepita soprattutto per la microcriminalità” (nonostante i dati di reati a Verona siano bassissimi, molto al di sotto della media nazionale, e secondo quanto comunicato da poco dal questore negli ultimi mesi siano anche scesi del 4 per cento rispetto all’anno precedente). Bonfante invece glissava sul tema della criminalità organizzata, anche se solo pochi giorni fa il nucleo operativo del Ros ha dato notizia dell’inchiesta antimafia che coinvolge 43 persone appartenenti o vicine al clan calabrese dei Megna in tutta la provincia veronese.
La prima domanda che Olivieri poneva a Battisti riguardava l’indagine sulla questura: visto che sui media locali vengono riportati da settimane una serie di episodi raccapriccianti, “la prima domanda che mi viene in mente è cercare non di dare una giustificazione, ma di capire le motivazioni che possono aver portato a questi episodi di tortura da parte di quelli che dovrebbero essere deputati alla sicurezza di tutti noi”.
Se non fosse stato chiaro il senso della domanda ipersuggestiva, Olivieri specificava ancora chiedendo: “C’è una matrice umana, personale, oppure c’è un clima, c’è un sottofondo di esasperazione, c’è un sottofondo di giustificazione all’interno delle questure che va a alimentare questi comportamenti? E se sì, questo clima è aumentato per colpa di carenze di personale o per mancanza di formazione degli agenti che si trovano a far fronte a episodi in cui sono fortemente provocati, come l’episodio in stazione e tanti altri?”.
La domanda era talmente autoresponsiva che più che “anche imbarazzante”, sembrava imbarazzata o imbarazzante per chi la pronunciava, se non parodistica. Ma Olivieri non era evidentemente soddisfatto dell’acritica e sperticata dichiarazione di sostegno appena espressa nei confronti della polizia e chiosava con “una curiosità, un po’ così”, come lui stesso la definiva: “L’utilizzo del taser, può essere uno strumento valido come alternativa, come via di mezzo tra manganello e la pistola?”.
La prima domanda insomma prescindeva totalmente dall’attenzione rispetto alle persone che hanno subito gli abusi, dalla condanna della violenza sistematica, dalla richiesta di trasparenza.
Il segretario del sindacato di polizia Siulp, Davide Battisti, aveva gioco facile nel rispondere. Premetteva che non voleva entrare nell’ambito dell’indagine e poi confezionava a uso della platea, che finora non aveva nessuna sintesi dei fatti, la sua versione: sono sette episodi, diceva, di cui quattro a partire dalle ricostruzioni delle parti offese, “a fronte, abbiamo stimato, di 5 o 6mila accessi negli uffici della questura”.
Utilizzava per tutti i suoi interventi una retorica circolare, fatta di molti preamboli, di molte concessive e di molti però. Così dopo aver minimizzato la questione, usava un’altra formula retorica: “Se poi vedremo da quello che verrà dimostrato che ci fosse stato anche un solo episodio, sarà un episodio grave, da attenzionare, che però non coinvolge il resto delle forze dell’ordine”.
Apparentemente esaurito il merito dell’indagine sulla questura in due battute, Battisti coglieva l’assist di Olivieri per spostare il fuoco del dibattito e traduceva, senza nemmeno troppo sforzo, le sue domande in una rivendicazione, a suo dire professionale, di strumenti e pratiche “negli interventi su strada, per operare in quelli che poi sono secondi o frazioni di secondi”.
Senza rifare un esplicito riferimento alle indagini, diceva che i colleghi coinvolti sono giovani e molto giovani e vengono da un percorso formativo accidentato dal covid, perché, secondo Battisti, nelle videoconferenze della formazione durante la pandemia forse non ci si è concentrati come era opportuno nella pratica degli interventi su strada.
(In realtà l’età degli indagati varia, dai 20 ai 50 anni, e la maggior parte sono in polizia da molto tempo).
Sempre premettendo che non voleva entrare nel merito dell’indagine, Battisti sosteneva che le parti offese sarebbero tutti pregiudicati e che vengono fermati “in forte stato di agitazione psicofisica”.
Piuttosto che il taser, Battisti reclamava le bodycam, “per gli agenti che vivono quotidianamente le aggressioni che ormai non solo di tipo verbale, nell’80 per cento dei casi sfociano in aggressioni di tipo fisico”.
Smentiva categoricamente qualunque tipo di sistema (di violenza o copertura) all’interno dei corpi di polizia, e – con una consecutio traballante – chiosava: “Sempre di esseri umani si tratta sia nei casi delle presunte parti offese sia nei casi dei poliziotti che si trovano a difendersi da accuse gravi”, ricordando che Verona paga un tributo di vite umane importanti: “Sono morti dei poliziotti per la sicurezza di questa città”, affermava con enfasi.
Seguendo il suo filo, scoprivamo che l’ambizione che manifestava Battisti rispetto al cittadino, “il nostro primo azionista”, è quella di “far comprendere che quando si vedono volanti di polizia accerchiate si tratta di un attacco allo Stato. E quando la polizia indietreggia di fronte a una manifestazione di violenza, è lo Stato che indietreggia”.
Se quindi non si può parlare assolutamente di sistema, si può invece parlare, secondo Battisti di un diffusissimo “grado di frustrazione che pervade le forze dell’ordine”. Uno dei pochi dati da lui forniti (ha rifiutato, a esplicita richiesta, di condividere le fonti di questi dati) è che in un anno ci sono state 400 notizie di reato per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, e che nel 94 per cento di questi casi non si è arrivati nemmeno alla fase dibattimentale.
Per Battisti, ovviamente, questo dato non significava un abuso sistematico e assolutamente distorto del ricorso al reato resistenza e all’oltraggio a pubblico ufficiale, ma al contrario mostrava e forse dimostrava l’impunità dei fermati che sarebbero aggressori.
La conclusione di Battisti era un singolare e agghiacciante capolavoro di retorica sullo stato di diritto: “Fare il nostro lavoro in una situazione del genere diventa un attimo complicato. Il rischio è quello di sovvertire l’ordinamento. Se noi non riusciamo a colpire in maniera certa coloro che aggrediscono le forze dell’ordine, ma abbiamo una risposta decisa nei confronti dei poliziotti che, per ipotesi, sbagliano; io credo che sia questo il vero focus”.
La sua tesi, che aveva potuto esporre senza nessuna richiesta di chiarimento o critica, era limpida: sono i poliziotti a essere permanentemente sotto attacco. Addirittura riportava che alle volte gli agenti, quando hanno a che fare con “una situazione borderline” (intendendo evidentemente un intervento in cui le responsabilità della violenza potrebbero non essere chiare), preferiscono magari tenersi un dito rotto, non chiarire l’accaduto, stare a casa due settimane finché recuperano la lesione.
La violenza nei confronti della polizia secondo Battisti è l’emergenza: due volte e mezza al giorno a Verona, secondo i suoi calcoli, ci sono episodi di questo tipo. Esponenzialmente di più, proseguiva il suo pseudoragionamento, che in qualsiasi altro settore, dai medici agli insegnanti.
La sua conclusione si spingeva persino verso una riflessione di tipo antropologico riguardo la “frustrazione della polizia”: “L’essere umano”, postillava, “ha un livello di tolleranza, è noto c’è chi ce l’ha più alto e chi può basso. Certo la polizia viene formata per questo, ma anche il Santo Padre, che ha fatto il giro di tutto il mondo, in un momento di nervosismo, a una fedele che gli strattonava la tonachella, si è girato in malo modo”.
A questo punto qualcuno gli faceva notare che forse l’elastico del paragone era stato tirato oltre il pensabile – gli agenti accusati di torture avvenute in un sistema di apparente impunità e connivenza avvicinati al papa che toglie nervosamente la mano da una fedele incalzante – ma Battisti insisteva e concludeva il suo lungo intervento così: “Era solo per far comprendere che l’animo umano può degenerare con la stizza in momenti di debolezza”.
A quel punto, con il papa appena citato, era Don Carlo Vinco a essere chiamato in causa dalla segretaria comunale del Pd Alessia Rotta. Don Vinco è il garante delle persone detenute, o meglio: delle persone private della libertà. Certo, è strano che sia un sacerdote a svolgere questa funzione, ma Vinco in varie interviste si è legittimato in questo ruolo per il suo rapporto “non da prete ma da amico con molti detenuti”.
Rotta gli domandava cosa abbia provato nella lettura delle notizie sulla questura di Verona, e in particolar modo riguardo la matrice razziale. (Di fatto la totalità delle vittime è straniera o di origine straniera): “Lei crede che ci sia un’intolleranza diffusa nella società?”
Don Vinco rispondeva che le questioni poste meriterebbero varie “branchie” di approfondimento, e ammetteva che secondo lui esiste un’effettiva componente razziale: chi finisce in carcere spesso sono stranieri o persone di origine straniera. Per avvalorare questa tesi faceva l’esempio dei ragazzi di seconda generazione, le baby gang evocate a inizio incontro, “anche se in questo momento in carcere una squadra di una baby gang sta vincendo il torneo di calcio”.
Sui fatti della questura sottolineava come al di là delle responsabilità individuali, non si poteva nascondere la dimensione strutturale che ha scoperchiato l’indagine, e ricordava che persino nel Vangelo c’è un momento di violenza gratuita dei tutori dell’ordine, quando prima del processo i centurioni sputano e si spartiscono le vesti di Gesù.
Questa premessa però veniva immediatamente rovesciata; Vinco concordava con Battisti che spesso è una violenza che nasce da violenza, e faceva un caso personale: “Io sto in una chiesa del centro. E anche stasera ho dovuto chiudere con una mezz’ora di anticipo, perché c’erano due che stavano rubando le cassettine. È chiaro che anche a me sarebbe venuta voglia come al papa, diciamo così, di strattonargli e magari di dargli una sberla”. Don Vinco, ricordiamolo, in questo incontro non parlava da prete di quartiere, ma da garante delle persone private di libertà, quindi – si intendeva – anche i fermati che sono stati coinvolti come parti offese dell’inchiesta.
Sul tema del carcere e del personale, Vinco metteva l’accento sulla formazione degli agenti che dovrebbe essere permanente, e oltre la bodycam richiesta da Battisti, chiedeva il codice identificativo per gli agenti.
Come riconoscere e come affrontare la violenza sistemica?, sarebbe venuto da chiedergli, ma Vinco passava a altro: descriveva le stanze pulite all’interno della questura perché inutilizzate che sarebbero dedicate alle persone straniere da rimpatriare (“Cosa che non accade mai”, brusio di indignazione in sala) e poi descriveva le sette celle, i box, le stanze di sicurezza della questura dove avviene la custodia dei fermati – e dove secondo le indagini sarebbero accaduti gli abusi e le torture – e lamentava il fatto che siano brutte, messe male, che gli andrebbe ridata una imbiancata che non vedono da decenni.
Ma aggiungeva, anche lui indulgendo in paradossali par condicio, che anche gli uffici accanto – anche questi al centro delle indagini, perché qui sarebbero stati gli agenti accusati di non essere intervenuti – suscitano pena. Questo fa parte, sintetizza Vinco, di una dimensione che definisce di “trascuratezza generale”, che accostava in qualche modo a un senso generale di violenza intesa come mancanza di cura. Ha poi presentato positivamente il fatto che insieme al questore ha incontrato gli studenti della scuola di polizia e in quell’occasione il questore ha detto a tutti di “essere gentili”.
Sulle condizioni del carcere è stato più generico. Ha accostato alla violenza strutturale evocata dalle indagini, le abitudini della polizia penitenziaria a aggiungere pene di privazione del silenzio, del sonno, del fumo.
Il terzo ospite, l’ex procuratore Antonio Condirelli, è stato chiamato in causa di nuovo dal giovane Riccardo Olivieri, con una domanda anche questa autoeloquente: “La domanda che mi viene da fargli, un po’ la vox populi è: sì, arrestano uno per il tale reato, ma poi il giorno dopo è libero! C’è da parte della magistratura italiana del lassismo? L’impressione dei cittadini è che spesso il sistema penale non funziona, che spesso non è misurato ai reati?”. Insomma Olivieri faceva sua – senza un dato, e senza più toccare il tema degli abusi della polizia – un’accanita richiesta di populismo penale.
Condirelli per fortuna provava a scartare le domande suggestive di Olivieri e a fare un discorso più ampio. Prima ricordava che esiste una convenzione internazionale datata 10 dicembre 1984, 40 anni fa, e ratificata dopo 3 anni dallo stato italiano. In quella convenzione c’era già un riferimento alla formazione rispetto al reato di tortura. Citava l’articolo 10. Lo citiamo anche noi per intero:
“Ogni Stato Parte provvede affinché l’insegnamento e l’informazione sul divieto della tortura siano parte integrante della formazione del personale civile o militare incaricato dell’applicazione delle leggi, del personale medico, dei funzionari pubblici e delle altre persone che possono intervenire nella custodia, nell’interrogatorio o nel trattamento di qualsiasi persona arrestata, detenuta o imprigionata in qualunque maniera”.
La formazione su questo campo, sosteneva Condirelli, è totalmente assente.
Poi Condirelli ricordava che la legge sulla tortura, approvata nel 2017, e già dopo pochi anni messa in discussione (il governo e il parlamento attuali vorrebbero abolirla), ha portato a indagare sia i reati di violenza privata sia un caso eclatante di tortura di Stato: quello di Santa Maria Capua Vetere.
Poi puntualizzava, per rispondere a Battisti, che il delitto di resistenza a pubblico ufficiale non è un gesto di stizza ma richiede tutta una serie di elementi costitutivi (tra cui, per esempio, l’intenzionalità), e quel 94 per cento di denunce che non arriva nemmeno in tribunale, cosa sono: reati non perseguiti, con dita rotte automedicate, oppure denunce infondate?
Poi sottolineava che l’attenzione verso i fenomeni di abusi è bassa, non è alta o esagerata, e ricorda come anche l’indagine sui fatti di Verona sia venuta fuori per un caso, ossia per un’intercettazione casuale, una di quelle che l’attuale ministro Nordio vorrebbe abolire, quelle in cui si scoprono altri reati rispetto a quelli che si stanno indagando. “Purtroppo c’è una pressione sulla polizia indebita da parte della politica”, diceva Condirelli, ricordando le condanne per la Corte europea dei diritti dell’uomo per i fatti del G8 di Genova.
Rispetto alla domanda sulla non commisuratezza delle pene ai reati posta da Olivieri, Condirelli dava una risposta di segno opposto alla brama di populismo penale di cui il rappresentante del Pd si faceva portavoce: spiegava che alcuni reati vengono giudicati con leggi che hanno un secolo. “Voi non sapete cosa rischia una persona che fa un furto in appartamento?”. I magistrati si trovano costretti spesso, secondo Condirelli, a usare il loro potere per mitigare, magari in appello, gli eccessi di pena che oggi ci paiono inaccettabili per il nostro senso di giustizia e quindi devono provare a correggere attraverso i loro strumenti giudiziari come il ricorso alle attenuanti generiche o simili.
I mancati dibattimenti e le mancate condanne per i reati di oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, argomentava sempre Condirelli, sono la normalità per fortuna, “a meno che non ci siano dei disperati senza avvocati che si ritrovano condannati anche a due, tre anni di reclusione”.
Alla fine concludeva che il rigore o il lassismo penale sono categorie determinate dal consenso politico e questo rende inutile molto spesso una riflessione sull’azione penale.
Le parole di Condirelli erano pacate e contrastavano il quadro che hanno provato a delineare e a giustificare i rappresentanti del Pd insieme a Battisti e in parte anche a Vinco.
Sembrava che l’obiettivo principale se non unico dell’incontro fosse mostrare la vicinanza del Partito Democratico agli agenti della questura di Verona dopo la crisi di credibilità per la pesante inchiesta sugli abusi in divisa.
Le tre posizioni di Battisti, Vinco e Condirelli sembrano rispondere alle uniche posizioni espresse nel dibattito sulla giustizia: il populismo penale, il paternalismo penale, l’elogio della magistratura. Tre posizioni, essenzialmente anti- o prepolitiche ognuna a suo modo, che una classe politica democratica dovrebbe interrogare e sfidare, e che invece non riesce nemmeno a fare interagire tra loro.
Negli ultimi interventi Vinco e Battisti hanno aggiunto altre questioni singolari, eludendo ancora il merito del dibattito.
Don Vinco per esempio ha detto che ci vorrebbero meno italiani tra gli agenti penitenziari per fare da mediatori – confondendo ovviamente tra non italiani e persone di origine straniera: “Siamo razzisti anche nella scelta delle forze dell’ordine. Non ho mai visto un poliziotto in carcere proveniente dal Marocco o dall’Africa”.
Battisti ha voluto tranquillizzare Don Vinco, perché tra gli agenti in forze alla questura di Verona “ce ne sono vari con fonie non italiane”.
Rispetto alla formazione ha detto che gli agenti hanno fatto sei giornate di formazione sugli interventi nell’ultimo anno, ma che poi ci sono tanti casi psichiatrici in cui sono chiamati a intervenire ed è assurdo che “la polizia debba riuscire a gestire quello che non riescono a gestire gli psichiatri”.
Sui codici identificativi, ha usato la solita formula retorica: “Non sto a dirvi che siamo contrari”, per poi dirsi contrari, citando il fatto che il riconoscimento degli agenti anche nelle indagini sul caso di Verona è avvenuto attraverso il confronto fotografico. “Ricordare un codice di sei cifre rispetto a ricordare un viso, non è più difficile?… La lancio come una riflessione, questa”.
Ha poi voluto prendersi ancora qualche minuto per assicurare che non esiste nessun razzismo tra le forze dell’ordine, e che “a molte persone sono i poliziotti durante i fermi che acquistano le sigarette, il panino, fa parte dell’abitudine dire Vuoi un caffè? La dico come nota di colore”.
Gli interventi dal pubblico, tra applausi e piccole prese di parola alla fine, confermavano che il sentimento che i militanti o – genericamente i sostenitori, gli interessati – alla questione del Pd concordavano con l’impostazione data al dibattito dall’inizio. I poliziotti sono buoni e vanno difesi. “Supereroi”, come veniva esplicitato in un intervento verso la fine di un signore che sposava lo sguardo di sua figlia piccola rispetto allo zio poliziotto.
Quando io ho chiesto se negli anni precedenti, dai vari osservatori, per caso avessero immaginato che potesse esistere una situazione simile, Battisti mi ha risposto assolutamente no, ed è proprio per questo che pensava che essenzialmente il caso si sgonfierà; mentre Vinco mi rispondeva: solo qualche sberlone, e chiedeva a me in modo un po’ inquisitorio se io ne fossi a conoscenza.
L’impressione agghiacciante che questo dibattito suscitava è quella di una duplice mancanza di cultura democratica. Da una parte l’assoluta sottovalutazione al limite della rimozione di questo gigantesco caso di denunce per abusi della polizia.
(Sia don Vinco che Battisti hanno risposto, tra l’altro, a una domanda precisa che non avevano assolutamente avuto nessun sentore della possibilità di questo sistema di violenze, ma nemmeno di casi isolati).
Dall’altra parte il degrado culturale sulle nozioni basilari stesso dello stato di diritto, dall’habeas corpus, alla divisione dei poteri, fino al principio di uguaglianza di fronte alla legge. Che questo spettacolo di diseducazione pubblica sia stato messo in scena dal Partito democratico in una città dove sta nella maggioranza di governo, in un momento di crisi democratica così grave come quello squadernato dall’indagine sulla questura, riempie di una rabbia infinita. Se fossi stato a un incontro di Fratelli d’Italia mi sarei sentito meno arrabbiato e spaesato, sono sincero.
(da Fanpage)
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Luglio 1st, 2023 Riccardo Fucile
INTERVISTA A ALEXANDER BAUNOV, SCRITTORE ED EX DIPLOMATICO
“L’età del consenso è finita”: Vladimir Putin “ha perso la
fiducia delle élite, che preferirebbero cambiare direzione”. E una delle ripercussioni “più destabilizzanti” della abortita marcia su Mosca intrapresa da Yevgeny Prigozhin è che ha scatenato la repressione tra gli stessi sostenitori del regime. Che corre “i maggiori rischi della sua storia più che ventennale”. Non siamo alla fine ma si è entrati “nella fase che normalmente precede la fine dei regimi”: Alexander Baunov, ex diplomatico russo, poi direttore delle pubblicazioni della branca moscovita del think tank Carnegie, collaboratore del quotidiano Vedomosti e di media internazionali come Financial Times e The Atlantic, non si aspetta rivolgimenti a breve termine ma ritiene che il sistema Putin sia entrato in un periodo di pre-agonia.
Baunov è l’autore di “Fine del regime”, un libro che non parla della Russia ma che in Russia, da quando è stato pubblicato sei mesi fa, va letteralmente a ruba. Evidentemente, l’autore ha toccato i sentimenti dei molti russi che leggono saggi, e proposto scenari intonati alle domande che i sudditi di Putin stanno facendosi. Il premio Nobel per la pace con l’organizzazione Memorial di cui è presidente, Oleg Orlov, sotto processo per aver espresso la propria opinione contraria alla guerra in Ucraina, nei giorni scorsi è entrato in tribunale con in mano il libro di Baunov.
Fanpage.it ha incontrato Alexander Baunov di fronte a un’insalata e a un tè freddo sulla terrazza di un bar di Firenze, dove è visiting fellow all’Istituto universitario europeo (Eui).
Dottor Baunov, Putin deve guardarsi le spalle?
Deve stare attento, come ogni dittatore. E lo fa. Ma un dittatore può esser pugnalato alle spalle solo da chi gli è molto vicino. Da chi ha molto potere. E il sistema di Putin, al contrario di quelli di altri dittatori, non prevede che ci siano persone vicine al capo. Putin è solo al comando. Il potere è tutto suo. Esiste un “cerchio magico”. Ma resta su un piano più basso. Mica sono persone poi così vicine a lui. Quindi non hanno alcuna possibilità di soppiantarlo. Figuriamoci Prigozhin.
Eppure Prigozhin ha quasi marciato su Mosca.
Certo, l’ammutinamento è stato un tradimento, un colpo alle spalle. Ma vibrato da una notevole distanza, non da vicino. Prigozhin non è mai stato davvero “vicino” a Putin. Che neanche gli parlava, ultimamente.
Quale era il vero scopo di Prigozhin?
Scuotere Putin per convincerlo ad ascoltare finalmente le sue preoccupazioni: il ministero della Difesa sta espropriandogli il maggiore asset: il suo esercito privato. E con il consenso dello stesso Putin. L’ammutinamento era finalizzato a discutere con il presidente per arrivare a una risoluzione positiva per Prigozhin dello scontro con i responsabili della Difesa. Ma Putin neanche stavolta ha parlato con lui, anche se il suo tentativo era in teoria molto pericoloso e poteva suonare convincente. Una cosa del genere in Russia non si vedeva dagli anni Novanta (il riferimento è al golpe contro Gorbaciov nell’agosto del ’91, ndr).
E quindi? Tutto come prima, per il regime?
Assolutamente no. Per la reputazione di Putin, per il consenso tra gli ultras del patriottismo e per il regime in generale il tentativo di Prigozhin è stato catastrofico.
Infatti c’è parecchio nervosismo al Cremlino: Putin ha infittito i suoi interventi pubblici. Ha addirittura fatto un bagno di folla — cosa davvero inusuale. Mentre per giorni non si è saputo nulla di esponenti di vertice delle forze armate come il generale Surovikin. Cosa indica tutto questo?
Quel che è successo è estremamente grave e senza precedenti, per Putin. Mai un periodo è stato più pericoloso, per il regime. Almeno dai tempi dello scontro con gli oligarchi, molti anni fa.
Per questo il presidente è così attivo?
Subisce una crisi di fiducia. Deve cercare di riconfermare la fiducia dei suoi sudditi. Anche se in fondo non ha molto da dire, deve proiettare l’immagine del leader che ha la situazione sotto controllo. Ecco il motivo delle performance pubbliche.
Una di queste performance ha avuto una grande coreografia: La medievale Piazza delle Cattedrali del Cremlino, le cupole d’oro, i soldati in alta uniforme, la scalinata da cui lo zar scende su un tappeto rosso per rivolgersi alla Russia. Patria, ortodossia ed esercito: era questa lo slogan implicito?
Al di là degli slogan, mi ha colpito l’arcaicità della scena. Il condottiero medievale con i suoi soldati che sconfigge la rivolta del condottiero che si è ribellato. Una corsa indietro nel tempo.
Lo scrittore Vladimir Sorokin dice che la Russia di oggi “è il Medioevo” e la guerra di Putin in Ucraina “la guerra degli zombie contro il futuro”. Sorokin è un artista dell’assurdo. Ma c’è forse del vero in quel che dice?
Putin distrugge la modernità in nome di un presunto passato glorioso, e sta ora conducendo una guerra del passato. Piena di caratteristiche del passato. Con tanto di condottieri mercenari, cospirazioni e ammutinamenti. Putin ha aperto la porta al passato e ora il passato torna e rischia di travolgerlo. In modi simili a quelli che hanno decretato la fine di tanti regnanti nel passato.
Ed è vicino il momento in cui “il passato” travolgerà Putin? Il regime “è in pericolo”, ci ha appena detto. Ma durerà ancora o cadrà?
La visione politica dei russi è conservatrice. Non amiamo cambiare i nostri governanti. Se lo facciamo, ciò avviene in situazioni estreme: con una rivoluzione o con la dissoluzione dello Stato. Come nel 1917 e negli anni Novanta. Guardiamo ai leader politici come alla miglior garanzia della continuazione dell’esistenza. Vita e potere statale non sono due concetti separati, per i russi. La distruzione del potere e dello Stato è considerata disastrosa dai normali cittadini. È una sorta di trauma originario che la nostra società si porta dietro.
Ma mica può dirmi che nella Storia della Russia non ci siano stati rivolgimenti. Penso alla Rivoluzione comunista. Ma anche all’ascesa al potere di Yeltsin. Non è in contraddizione con ciò che lei dice?
Prima di accettare un cambiamento, i russi devono riconoscere un capo di cui si possano fidare. Yeltsin era un leader popolare in cui i russi si sono riconosciuti. Sapevano bene chi fosse: un funzionario del partito come quelli da sempre visti dappertutto nell’Urss. Con idee liberali, sì. Ma era una figura familiare. Non era certo un intellettuale né un dissidente. Altrimenti quali la popolazione avrebbe diffidato di lui.
Tornando all’oggi: la Wagner si è ritirata da Rostov tra gli applausi. Prigozhin piace ai russi?
Ha avuto un atteggiamento molto “presidenziale”, un po’ come quello di Yeltsin. I cittadini ordinari hanno apprezzato che non avesse idee sovversive o comunque complesse, e che proiettasse un’idea di potere. Ispirava fiducia nella sua capacità di gestire un cambiamento. Al di là di ogni agenda politica, che in effetti non ha mai avuto.
Quindi se fosse andato avanti avrebbe potuto avere sostegno tra la popolazione?
Penso di sì. Dava l’idea di qualcuno che poteva portare giustizia. Il suo stile, la sua personalità, l’aura di eroe militare e il controllo di un esercito privato, oltre che di una vera e propria galassia mediatica (le agenzie e i siti propagandistici del gruppo Ira, ndr), gli davano un appeal popolare.
Ma è davvero finita la rivolta di Prigozhin? O c’è da aspettarsi un seguito?
Quasi certamente è stato del tutto esautorato. non sappiano che ne sarà di lui. Buona parte del suo esercito privato verrà assorbito dalle forze armate regolari russe. E né Putin né il leader bielorusso Lukashenko vogliono utilizzare quel che rimane della sua Wagner con lui al comando. Prigozhin è tagliato fuori.
E i presunti sostenitori del capo della Wagner nelle forze armate russe? Ci sarà una purga?
Ci saranno senz’altro investigazioni a tutti i livelli tra i militari, nei servizi di sicurezza e negli apparati dello stato. Fa parte della natura degli uomini del Cremlino vedere cospirazioni ovunque. Non crederanno mai all’ipotesi che Prigozhin si sia mosso da solo e per motivi personali e contingenti. Pensano al complotto e daranno la caccia ai complottisti. E ci saranno promozioni, aumenti di paga e stelle al merito per chi troverà colpevoli o presunti tali.
Ci saranno ulteriori repressioni anche nella società civile?
Ma la società civile non c’è più. Liberali e dissidenti sono quasi tutti emigrati all’estero o in prigione. E il resto tace. Sì, ci sarà ancora repressione, ma di un nuovo tipo: si cercheranno i nemici tra i sostenitori stessi del regime. E questo è una delle conseguenze più destabilizzanti del tentativo di Prigozhin.
Un suo libro sta andando a ruba in Russia. Titolo: “La fine del regime”. Non parla di Putin. È uno studio sulla fine delle dittature in Spagna, Portogallo e Grecia. Ma è indicativo che sia un best seller nelle librerie di Mosca. In che fase si trova il regime in Russia?
Siamo alla fine del periodo del consenso. Come successe per Franco a Madrid, per Salazar a Lisbona e in parte per Papadopoulos ad Atene, anche per Putin c’è stato il periodo della lotta per il potere, poi il periodo del consenso e adesso si è arrivati al periodo della fine del consenso. Non significa la fine del regime. Ma il modo in cui è guidato il Paese, il modo in cui vengono presentati pubblicamente gli obbiettivi politici, sono entrati in crisi. Si è nella fase che potrebbe precedere la morte del regime.
Ma Putin ha sempre goduto di un consenso che i leader politici europei se lo sognano.
Il consenso c’è stato eccome per Putin. E non solo da parte della maggioranza dei russi, ma anche da parte dei capi di stato e di governo mondiali. Ecco, quella fase si è consumata.
Parliamo di fine del consenso anche nelle élite russe?
Putin non è più una figura di consenso per le élite. Né lo sono i suoi obbiettivi e la sua visione. Si capisce dalle dichiarazioni pubbliche e private di chi lavora per il regime. E che continua a lavorare perché andarsene è troppo rischioso e comunque non saprebbe che fare. Ma in molti sarebbero ben contenti di andare in direzioni diverse da quelle attualmente imposte da Putin.
C’è da aspettarsi una rivolta da parte di qualche alto papavero scontento?
Putin resta l’unica garanzia di posizioni e privilegi. Il declino però è iniziato. Per ora le élite aspettano. Potrebbe esserci una lotta per il potere in futuro. E non è detto che le cose vadano peggio, per la Russia, prima di andare meglio.
Ma che aspettano le élite, di preciso? Che Putin muoia di vecchiaia, come Franco in Spagna?
Forse c’è chi aspetta proprio questo.
Il regine russo potrebbe finire “alla spagnola”, con una transizione indolore verso una democrazia moderna?
Sarebbe forse lo scenario migliore. Non dal punto di vista morale, perché molti dei protagonisti del regime resterebbero impuniti. Ma dal punto di vista della sicurezza sarebbe auspicabile, visti la grandezza del Paese, l’entità della sua popolazione e il suo arsenale nucleare.
Le pare uno scenario realistico, per la Russia?
Certo. È già successo qualcosa di simile, con la pacifica transizione che pose fine al sistema sovietico. E fu l’avverarsi del migliore scenario possibile, dati i presupposti.
(da Fanpage)
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Luglio 1st, 2023 Riccardo Fucile
“ITALIANI NON DEPREDARONO L’AFRICA, LA NOSTRA E’ STATA UNA CULTURA CIVILIZZATRICE”
Gli “italiani brava gente”, che durante il periodo del colonialismo nei Paesi africani (Eritrea, Somalia, Libia, Etiopia) non fecero poi nulla di male, a differenza degli “altri” colonizzatori. Un mito nazionalista e smentito più e più volte dalla ricerca storica, che il viceministro agli Esteri Edmondo Cirielli, esponente di Fratelli d’Italia, ha riportato in auge ieri intervenendo a Fenix, la festa del movimento giovanile di FdI, Gioventù nazionale.
“L’italiano è da sempre nel suo complesso una persona corretta, che rispetta il prossimo. Lo dico senza fare vaneggiamenti ideologici e culturali”, ha detto Cirielli dopo pochi minuti del suo discorso, prima di iniziare quello che è molto vicino a un vaneggiamento ideologico e culturale, radicato in una visione della storia italiana senza fondamento. “Gli italiani sia nel periodo pre-fascismo, sia durante il fascismo… quindi voglio dire il governo italiano, l’Italia nei suoi cento anni di colonie, in Africa ha costruito e ha realizzato”, ha spiegato Cirielli.
Una cancellazione di tutti i crimini – comprovati, dimostrati e ormai di dominio pubblico da decenni – del colonialismo italiano nel continente africano. A puro titolo di esempio, basta pensare all’episodio in cui, nel febbraio del 1937, italiani (civili e soldati) uccisero oltre trentamila civili etiopi in tre giorni nel massacro di Addis Abeba, tra cui molte donne e bambini. In molti casi bruciati vivi, impiccati o fucilati, nella rappresaglia per un attentato a un vicerè. Sempre in Etiopia gli italiani non esitarono a utilizzare le bombe all’iprite, armi chimiche già vietate dalle regole internazionali sulla guerra.
Eppure per Cirielli tutto ciò non importa, a quanto pare, perché “noi non siamo per natura gente che va a depredare e a rubare al prossimo. Anche per un fatto culturale, perché la nostra cultura antica e millenaria non ci fa essere un popolo di pirati che vanno in giro a depredare il mondo. Quella è una cultura che per chi ce l’ha pesa in negativo”. Al contrario, noi italiani abbiamo “una cultura civilizzatrice. Cioè non esiste nella nostra mentalità che tu vai da una parte, fai il deserto e la chiami pace, come qualcuno diceva per insultare l’impero romano”.
Cirielli ha poi proseguito, facendo una sorta di paragone tra il colonialismo italiano (quindi “buono”) e il Piano Mattei per l’Africa su cui il governo Meloni ha tanto insistito negli ultimi mesi. “Il punto è che l’Africa è una nazione ricca di materie ed energia”, ha detto il viceministro degli Esteri, dimenticando che non si tratta di una nazione ma di un continente composto da 54 Stati diversi. “Quindi noi, come europei, abbiamo sempre preso e continuiamo a prendere. Solo che l’Italia, Giorgia Meloni, con il Piano Mattei sostiene che se noi prendiamo materie prime da quel popolo dobbiamo lasciare qualcosa per le generazioni future che arriveranno: strade, porti, zone industriali, scuole, ospedali, perché noi ci prendiamo oro, uranio, ferro, petrolio, gas e altre cose”.
(da Fanpage)
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Luglio 1st, 2023 Riccardo Fucile
COME FARE? SEMPLICE: NUOVI TITOLI DI STATO – A SETTEMBRE VANNO EMESSI 432 MILIARDI (CONTRO I 316 DELL’ANNO SCORSO), A CUI VANNO AGGIUNTI 70-85 MILIARDI DI INTERESSI, PIÙ ONEROSI
Il Tesoro studia nuove emissioni di debito pubblico per
fronteggiare i ritardi nell’erogazione della terza rata del Pnrr. Salvo sorprese, circa 20 miliardi di euro di nuovo debito non previsto, spiegano sei diverse fonti, saranno collocati entro la fine di settembre.
Un blitz necessario. Specie perché prima dell’inizio dell’autunno non arriverà l’erogazione dei 19 miliardi di euro della terza tranche del Recovery. E visto che il Mef non vuole intaccare il conto di liquidità (ovvero la disponibilità del Tesoro, l’equivalente di un conto corrente bancario, ndr) presso la Banca d’Italia, lunedì scorso c’è stata una riunione per stabilire la linea delle nuove aste.
Ed è emersa la necessità – «non l’urgenza», spiegano fonti interne del Tesoro – di trovare soluzioni alternative. Anche in vista dell’impatto delle strette monetarie della Banca centrale europea (Bce). E che avranno implicazioni anche sul portafoglio titoli della Banca d’Italia. «Stiamo prendendo precauzioni, non vi è alcuna preoccupazione».
Si è discusso non soltanto dell’operazione di concambio via sindacato, con cui il Mef ha affidato a un gruppo di istituti di credito (Banca Mps, Bnp Paribas, Intesa Sanpaolo, Unicredit) l’esecuzione. Vale a dire, il riacquisto di titoli di Stato da parte di un piccolo pool di banche, funzionale a tenere basso il tasso d’interesse generale. Bensì, si è parlato anche «della possibilità di emettere nuovo debito per fronteggiare le esigenze di liquidità da qui a fine anno», come spiegato da quattro fonti del Mef dietro anonimato.
La necessità arriva dal fatto che «in settembre, ottobre e novembre il collocamento di titoli di Stato è più significativo». Nel complesso l’Italia dovrà emettere 432 miliardi di euro nel 2023, contro i 316 dello scorso anno. A cui vanno aggiunti gli interessi passivi sul debito. Che, con il rialzo dei tassi d’interesse da parte della Bce, sono diventati più onerosi. Una cifra che viaggia tra i 70 e gli 85 miliardi l’anno. Di qui la scelta di nuove emissioni di titoli.
«L’erogazione della terza rata del Pnrr non ci sarà fino a settembre, almeno. Ed è corretto pensare a delle alternative», dice una fonte governativa. Motivo per cui il direttore del Debito pubblico del Mef, Davide Iacovoni, vuole essere tranquillo e si sta portando avanti, tra istituti di credito e fondi d’investimento, con i collocamenti. L’obiettivo, duplice, è quello di proteggere il debito pubblico italiano dalle fluttuazioni, da un lato. E dall’altro, evitare che il contraccolpo dei rialzi dei tassi d’interesse della Bce vadano a impattare sul sistema bancario nazionale.
«Il flusso di cassa, tra riscossione delle imposte e Btp Valore, è molto buono», sottolinea una fonte bancaria. Il problema sono le conseguenze degli aumenti dei tassi, che stanno deteriorando il sistema del credito italiano. Oltre a ciò, rimarca un’altra fonte finanziaria, «ci sono necessità di cassa che vanno ben oltre il conto di disponibilità del Tesoro presso Banca d’Italia». Una di queste è legata al Pnrr. E ogni ritardo, specie se non conteggiato, potrebbe essere deleterio.
(da agenzie)
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Luglio 1st, 2023 Riccardo Fucile
DOPO IL DANNO DI UN ACCORDO INFELICE, LA BEFFA DI DOVERLO DIFENDERE CON I SOVRANISTI
Oltre al danno di un compromesso infelice, la beffa di doverlo difendere, per di più con gli alleati Morawiecki e Orban che alla fine non hanno accettato. Chi l’avrebbe detto? E se solo un anno fa, in campagna elettorale, invece di gridare “blocco navale subito” Giorgia Meloni avesse promesso “nessun obbligo di ricollocazione per gli altri Paesi europei e complicati tentativi di accordo con gli Stati africani”, cosa avrebbero pensato i suoi elettori? Con tutta probabilità, che si trattava di uno scherzo. Eppure, a un’estate di distanza l’orizzonte del suo governo è tutto qui, mentre gli sbarchi hanno superato quota 61 mila (al 28 giugno), più del doppio rispetto ai primi sei mesi dell’anno scorso. “Negli ultimi otto mesi l’Europa ha cambiato approccio”, ha rivendicato Meloni prima di partire alla volta del Consiglio europeo, dove però la questione migranti non trova la quadra per i veti di Polonia e Ungheria, contrari alla “solidarietà obbligatoria” sulla quale gli altri si sono accordati a inizio giugno. Una accordo che non obbliga nessuno a ricollocare anche uno solo dei migranti che arriveranno in Italia, e che pure tocca difendere perché al nostro governo servono i soldi dell’Europa per scommettere sulla collaborazione dei Paesi africani. Ma se Meloni vuole i soldi per comprare i servizi degli Stati extra Ue, sembrano dire gli altri partner europei, se li guadagnasse. A partire dall’impresa di convincere i suoi cari alleati Morawiecki e Orban nella fallimentare mediazione che la presidenza del Consiglio Ue ha voluto affidare proprio a Giorgia Meloni. “Non sono delusa dal no di Polonia e Ungheria”, ha detto Meloni, intestandosi così il fallimento della mediazione su un accordo già povero per gli interessi dell’Italia. Alla fine ci si accontenta di lasciare il Consiglio “da protagonisti”, rilanciando il nuovo slogan della “dimensione esterna”: “Se la Ue offre una scelta alle popolazioni che tentano di lasciare l’Africa si cambia approccio”. Peccato che già l’offerta fatta alla Tunisia stenti a decollare.
Giorgia Meloni si è dovuta assentare dai lavori del Consiglio per incontrare i suoi storici alleati, il polacco Mateus Morawiecki e l’ungherese Viktor Orban, e cercare di farli ragionare. Del resto, il suo governo si è già rivenduto come un successo l’accordo che lascia l’Italia a bocca vuota sul fronte della solidarietà europea. Un cambio di approccio, ha detto Meloni, che ha finalmente reso quello dell’immigrazione un problema di tutti che va affrontato a partire dalla “dimensione esterna”, cioè scommettendo che i Paesi di transito accetteranno di bloccare o confinare i migranti in cambio di soldi. Un’altra versione della storia dice che il cerino è rimasto ancora una volta in mano all’Italia. Chi mente sapendo di mentire non dice che le soluzioni inserite nel Patto immigrazione e asilo, sulle quali dovrà esprimersi il Parlamento europeo, ci penalizzano. Le procedure di frontiera accelerate e la previsione di hotspot lungo le frontiere esterne non potranno che aumentare le domande di asilo di cui l’Italia e non altri si dovrà occupare. A questo si somma la cosiddetta solidarietà obbligatoria, che in nessun caso obbliga gli altri Paesi Ue a prendersi parte dei migranti arrivati in Italia: la ricollocazione è assolutamente volontaria, se non li vuoi basta pagare 20mila euro per ogni migrante che non si intende accogliere, con in più l’assicurazione che la competenza a valutare le domande d’asilo resta in capo ai Paesi di primo ingresso come il nostro.
E allora di cosa si sono lamentati Orban e Morawiecki tanto da impedire al Consiglio europeo di tirare le somme sull’immigrazione? Intanto contestano la forma dell’accordo del 9 giungo: nel 2018 il Consiglio Ue aveva stabilito che il Patto immigrazione e asilo andava adottato per consenso mentre il recente compromesso è stato approvato a maggioranza qualificata. E poi, a beneficio delle loro opinioni pubbliche, preferiscono chiamare “multe” quella che gli altri chiamano “solidarietà obbligatoria”. Ecco perché dire di no alla Meloni: Polonia e Ungheria possono continuare a dire che l’Europa è brutta e cattiva e vuole obbligarli a occuparsi dei migranti. Non solo: allo stesso tempo gli altri Stati possono continuare a prendere le distanze da Orban e Morawiecki, che sono intransigenti mentre loro sono buoni e solidali anche se si sono ben guardati da autoimporsi l’obbligo di accogliere anche un solo rifugiato.
Resta da capire, di fronte a tanta generosità, di cosa sia tanto soddisfatto il governo italiano. Per evitare che i Paesi di primo ingresso, oggettivamente penalizzati dall’accordo che ha ipotecato il Patto immigrazione e asilo, si lamentassero troppo, gli altri Stati hanno iniziato a guardare con sempre maggiore favore alle soluzioni “innovative” proposte da alcuni di loro. In sostanza si tratta di delegare a Stati extra Ue la gestione delle domande di protezione rivolte all’Europa. Ma la soluzione non piace a tutti e al momento si tratta solo di proposte. Alla base di quella che a noi piace chiamare “dimensione esterna” c’è in realtà una barca di soldi che l’Unione dovrà investire per evitare che le rotte dei migranti arrivino a toccare i nostri confini. Va chiarita una cosa: se la strategia, come già accaduto in passato, non dovesse funzionare, per i Paesi solidali come per gli intransigenti non cambia nulla. Lo ha detto anche Meloni dopo il fallito tentativo di mediazione: “La loro priorità non è la dimensione esterna”. Al contrario, per l’Italia col cerino in mano il problema diventerebbe anche politico: se sfuma anche l’ultima strategia, cosa dirà chi prometteva di bloccare gli arrivi e adesso parla di bloccare le partenze mentre il centro di Lampedusa scoppia?
Insomma, un altro Consiglio Ue concluso col solito gioco delle parti. Unico fuoriprogramma, la paradossale mediazione con due di picche finale tra Meloni e gli amici Orban e Morawiecki. E’ la legge del contrappasso, con Meloni vittima di quella che in Germania chiamano “salvinisierung“, la “salvinizzazione delle politiche di asilo”. In altre parole, a dire che l’Italia si deve arrangiare è il tanto amato sovranismo. La vendetta è un piatto freddo e in Europa più di qualcuno starà sorridendo. Poco male, diranno a Bruxelles. Tanto il lavoro sul Patto immigrazione e asilo continua, sempre a partire dall’accordo del 9 giugno poi finito sul tavolo dei triloghi con Commissione, Consiglio e Parlamento a confronto sul testo. In attesa di vedere cosa approverà il Parlamento europeo e se farà in tempo, anche nella “dimensione esterna” le cose non vanno benissimo. Nonostante i viaggi della premier, anche in compagnia di Ursula Von der Leyen e del premier olandese Mark Rutte, del famoso memorandum con la Tunisia ancora non c’è traccia. Avrebbe dovuto essere pronto prima di questo Consiglio europeo, ma le visite a Tunisi del commissario Ue per l’Allargamento, Oliver Varhelyi, continuano ad essere rinviate una dopo l’altra. Del resto Paesi come la Germania non vedono di buon occhio l’assegno in bianco promesso al presidente tunisino Kais Saied, non senza che si sblocchi la questione del programma di salvataggio da 1,75 miliardi di dollari che Tunisi non accetta di sottoscrivere alle condizioni del Fondo Monetario Internazionale, a partire dalla soppressione di una serie di sussidi statali. Se e quando sarà firmato, poi, con tutta probabilità i flussi si sposteranno verso le coste libiche, forse anche dalla stessa Tunisia. Dopo il Consiglio europeo il bilancio rimane magro: “Continuerò a lavorare per una mediazione tra Polonia, Ungheria e gli altri 25, ma sarà più difficile”, ha detto Meloni annunciando che il 5 giugno sarà a Varsavia.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Luglio 1st, 2023 Riccardo Fucile
CI MANCAVA LA TESI DELLA MINISTRA ROCCELLA SECONDO CUI GLI ITALIANI FANNO MEGLIO FIGLI PER COLPA DEI CANI
Ogni volta che si reca ai giardinetti in compagnia del suo
cagnolino, la ministra Roccella sente apostrofare le altre creature al guinzaglio con nomi umani: Giovanni, Eugenio, Giovanni Maria.
Ne ha dedotto che sarebbe in atto un tentativo di trasferire l’affettività dai bipedi ai quadrupedi, con inevitabili riflessi sul calo delle nascite.
Pur bazzicando parchi da decenni, non mi è ancora capitato di incontrare un Giovanni Maria in passeggino, né umano né canino, però mi guardo bene dal mettere in dubbio che esista.
Continuo invece a non capire questa moda di tirare in ballo i cani per spiegare come mai in Italia non si fanno più bambini.
Da un ministro della Famiglia mi aspetto che ponga l’accento sulle cause serie del fenomeno: la precarietà economica delle coppie giovani, la scarsa tutela dei diritti delle donne sul lavoro, la latitanza di servizi sociali di supporto e non ultimo il mutamento antropologico per cui, fin dai tempi della Roma di Augusto, le società benestanti tendono a fare meno figli perché meno disposte alle rinunce che l’accudimento della prole inevitabilmente comporta.
Sono problemi giganteschi, ma il governo della ministra Roccella potrebbe provare ad affrontarli lasciando in pace i cani e cominciando, per esempio, a fare qualche asilo nido in più: intitolato, naturalmente, a Giovanni Maria.
(da Il Corriere della Sera)
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Luglio 1st, 2023 Riccardo Fucile
VERSIONE UFFICIALE DI PALAZZO CHIGI: “E’ IN MISSIONE PER IL PROSSIMO G7″… INVECE DI TORNARE A ROMA LA PREMIER SI RITAGLIA DUE GIORNI DI VACANZA
Il volo di Stato parte da Bruxelles alle 15.43 e atterra a Brindisi alle 17.45, certifica Flightradar24. Una breve sosta e riparte alle 18 dalla Puglia, in direzione di Ciampino. È il velivolo su cui viaggia Giorgia Meloni.
La presidente del Consiglio, trapela dalla Puglia, scende nello scalo brindisino. È reduce dal Consiglio europeo che si è tenuto in Belgio. E invece di tornare nella capitale, preferisce ritagliarsi un paio di giorni e recarsi in una masseria pugliese in cui è già stata ospite in diverse occasioni, anche nel recente passato.
Solo per una breve vacanza? A sera, Palazzo Chigi lascia trapelare che è “in missione in vista della preparazione del prossimo G7”. Che, è noto, sarà ospitato proprio in Puglia.
Non è la prima volta che accade. L’8 giugno scorso la presidente del Consiglio viene ospitata da Bruno Vespa nella sua masseria per un’intervista pubblica. Resta fino al 9, poi riparte in auto. E invece di rientrare a Roma, resta per un giorno e mezzo in Puglia, assieme alla figlia e al compagno. Una circostanza anche in quel caso rivelata dal sito che traccia i voli: quello di Stato su cui viaggia la presidente del Consiglio e che deve condurla domenica 11 giugno a Tunisi in visita al presidente Saied, infatti, atterra a Brindisi alle 7.51. Meloni sale a bordo e alle 8.54 il velivolo riparte alla volta della Tunisia, dove atterra alle 9.09.
La Puglia è da anni il luogo eletto da Meloni per le sue vacanze, ma questa volta – fanno sapere da Chigi – è per il G7, come riferisce l’Ansa con una indiscrezione battuta una ventina di minuti dopo le 19. In ogni caso, il volo che conduce la presidente del Consiglio a Brindisi è quello di rientro da una missione internazionale già in agenda da tempo e non organizzato per il viaggio pugliese.
Un altro dato certo è che la presidente del Consiglio è, come detto, affezionata frequentatrice di una masseria pugliese in valle d’Itria, dove si reca spesso in vacanza. Spesso la leader di Fratelli d’Italia è stata ospite anche di amici che hanno casa nel brindisino. Uno è un parlamentare di Fratelli d’Italia, di cui la presidente del Consiglio è stata spesso ospite a cena.
(da La Repubblica)
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Luglio 1st, 2023 Riccardo Fucile
LA PRIMA SCISSIONE DI FORZA ITALIA
In Puglia va in scena la prima scissione di Forza Italia dalla
morte di Silvio Berlusconi. Dopo l’annuncio dell’uscita di Michele Boccardi, altri otto lasciano il partito. Per approdare alla lista civica del presidente della Regione Michele Emiliano. Il congedo, fa sapere l’edizione pugliese di Repubblica, è arrivato tramite un messaggio su Whatsapp nella chat del partito. Pierpaolo Ruggiero, capogruppo di Fi nel municipio 2 di Bari, ha annunciato l’addio. Insieme a Francesco Natale, Gianfranco Iannola e Gino Mari, tutti e tre candidati alle precedenti elezioni amministrative di Bari. E poi Rino Carelli (già coordinatore cittadino di Casamassima) con tre amministratori di Turi: l’assessore con funzione di vicesindaco Stefano Dell’Area, l’assessore Maurizio Coppi e la consigliera comunale Tiziana Di Bari.
Tutti aderiranno al movimento civico “Con” di Emiliano. Che nelle prossime amministrative ospiterà nelle sue liste Stefano Lacatena, eletto in Fi nel 2020. «I motivi di questa decisione sono ben chiari a tutti», spiega Ruggiero nel suo messaggio. «La mancanza di considerazione è stata evidente da parte dei vertici del partito. Ci abbiamo provato fino alla fine a salvare il salvabile, ma non è servito». «I motivi di questa decisione sono ben chiari a tutti», spiega Ruggiero nel suo messaggio. «La mancanza di considerazione è stata evidente da parte dei vertici del partito. Ci abbiamo provato fino alla fine a salvare il salvabile, ma non è servito».
Gli ex dicono che «lo dovevamo soprattutto al presidente Silvio Berlusconi, che sarà per sempre nei nostri cuori. In questi ultimi frenetici giorni qualcuno ha provato, inutilmente, a ridare dignità al nostro gruppo». È lo stesso capogruppo ad annunciare l’adesione al movimento civico. «Dispiace molto che siano stati altri a proporci un’alternativa che è totalmente civica e vede al centro la Puglia e Bari. Una nuova strada che non smetteremo mai di credere e sperare potrà incontrarsi con la vostra».
(da agenzie)
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