Dicembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
“MANCA ETICA PUBBLICA, SI VEDE NEI CONFLITTI DI INTERESSE DI SANTANCHE’ E CROSETTO”
Professor Ainis, lo sgarbo al presidente di Anac è l’ennesima spia di un rapportodifficile tra il governo e gli organi di controllo. Perché la premier e i suoi sopportano poco i poteri terzi?
In Italia nessun governo ha mai avuto particolare simpatia per chi dovrebbe controllarne l’operato. La prova più eloquente è il conflitto tra politica e magistratura: dura da trent’anni, da Tangentopoli in poi, e ha riguardato anche politici di centrosinistra. Questa tensione è molto evidente nel caso del governo Meloni, il cui rapporto difficile con gli organi di garanzia è stato punteggiato da una serie di episodi: i più importanti che mi vengono in mente sono quelli con la Banca d’Italia e con la Corte dei conti, a cui è stato sottratto il “controllo concomitante” sul Pnrr. Credo che la ragione sia culturale o ideologica: per Meloni e la sua classe dirigente la sola e vera fonte di legittimità dell’azione governativa è il voto popolare. L’eredità di questa impostazione è chiara: ricorderà che Berlusconi si definiva “unto dal signore” perché era scelto dal popolo. Per loro la legittimazione a decidere è tutta e solo di chi ha ricevuto l’unzione del voto popolare.
Qual è l’interesse di fondo di chi attacca le autorità di controllo? Semplificare la vita a chi fa affari?
A mio giudizio la finalità di chi governa è sempre continuare a governare. Certamente nell’azione di questo governo c’è un’altra componente ideologica. Potremmo scomodare Thatcher o Reagan, i quali sostenevano che lo Stato non fosse la soluzione, ma il problema. Lo Stato è anche quello che ti fa pagare le tasse: da destra ci sono state dichiarazioni un po’ avventate sulle “rapine fiscali” e sul “pizzo di Stato”, oltre alle manovre per alleggerire i debiti erariali. L’incertezza del diritto è sempre un favore reso ai potenti, perché il diritto serve ai fragili: il principio di uguaglianza e di legalità sono difese per chi è più debole.
Questo governo agisce per garantire i più forti?
Torniamo al punto di partenza: se un soggetto politico è mosso da un culto religioso del potere, è normale che abbia in odio i contropoteri. Si vede anche nella riforma del premierato. Io sono tra chi non si scandalizza per l’elezione diretta, accade anche in altri sistemi democratici. Il punto è cosa viene fatto per riequilibrare il sistema: nel momento in cui aumento le prerogative del presidente del Consiglio, devo restituirne altrettante ai contropoteri. Gli Stati Uniti hanno battezzato il presidenzialismo 200 anni fa, ma il Congresso americano è forte, non c’è nomina o spesa che non debba essere approvata; sono forti anche la libera stampa e la magistratura.
L’allergia ai controlli si riflette anche nei conflitti d’interessi di alcuni ministri?
Anche la disciplina dei conflitti d’interessi serve ad arginare un uso imperiale del potere politico. In Italia vige ancora la legge Frattini del 2004, approvata da un governo Berlusconi. Assegna il compito di vigilare sui conflitti d’interessi all’autorità antitrust ma non le dà poteri effettivi, solo quello di segnalazione. In questa legislatura ci sono casi eloquenti come quello di Santanchè, imprenditrice balneare nominata ministro con competenza sulle spiagge, oppure di Guido Crosetto (attivo nel settore delle armi e finito alla Difesa, ndr). Possono pure essere degli ottimi ministri, non ne faccio una questione personale, ma c’è un principio di etica che impone una separazione rigida tra la sfera privata e quella pubblica.
Quali sono le conseguenze di questa sfida del governo ai contropoteri?
Contrappesi e controlli sono l’essenza della democrazia: il potere politico è inevitabile in qualsiasi società umana, ma va sottoposto a controlli per evitare abusi; senza controlli gli abusi si moltiplicano. Se c’è un atteggiamento di silenziosa ostilità nei confronti dell’operato dei custodi, i custodi lo percepiscono e ne sono intimoriti. Se una giudice a Catania ritiene che un provvedimento sull’immigrazione sia contrario alle regole e viene attaccata sul piano personale, magari gli altri magistrati ci pensano due volte a seguirne l’esempio. Questo vale anche per le autorità di garanzia.
In Italia però c’è chi è convinto che il controllo dello Stato e delle burocrazie sia asfissiante, un freno alla crescita.
Le leggo un passaggio dell’articolo 41 della Costituzione: l’iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. E chiudo con una battuta: in nome della libertà mica si può permettere agli imprenditori di commerciare carne umana in scatola.
(da agenzie)
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Dicembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
L’ACCORDO VOLUTO DA BERLUSCONI VENTI ANNI FA TRA LUSSI, SPRECHI E DONI MAI CHIARITI
Anche l’Italia ha avuto la sua caccia all’Ottobre Rosso. Una lunga sfida per fare a pezzi i sottomarini sovietici, che si trovassero ancorati nei porti dell’estremo Nord o sommersi nei fondali dell’Artico. Una battaglia combattuta non con i siluri o le bombe di profondità, ma con pacchi di milioni sganciati in Russia: un’ondata di denaro pubblico gettata nei mari più freddi in un ventennio di progetti rimasti fuori dai radar, che hanno inghiottito 360 milioni di euro senza che esista un elenco dei beneficiati.
La madre di tutti gli accordi
Stiamo parlando del programma concepito dal governo Berlusconi nel 2003 per aiutare il Cremlino a smantellare la flotta di sommergibili nucleari creata dall’Urss, proseguito ben oltre la scadenza iniziale del 2013, oltre l’invasione della Crimea, oltre la guerra in Ucraina e persino oltre la scomparsa del suo ideatore: è stato chiuso soltanto la scorsa settimana. E’ la madre di tutti gli accordi, perché sulla scia di questo patto sono germogliate le relazioni politiche e d’affari tra Mosca e Roma, diventate nel corso degli anni così intense da resistere a ogni cambiamento della Storia.
Tutto è cominciato in un mondo diverso. Vent’anni fa la Russia era amica dell’Occidente, entrambi impegnati nella lotta al terrorismo islamista: proprio nella conferenza di stampa di presentazione dell’accordo, Berlusconi tolse il microfono a Putin e lo difese da una domanda sui crimini di guerra russi in Cecenia. Quella era l’epoca della “povera Russia”, precipitata negli anni del presidente Boris Eltsin in una crisi economica che aveva reso misere le istituzioni e ridotto sul lastrico l’Armata Rossa: un Paese allo sfascio, dove tutto era in vendita. Il G8 temeva che navi e sottomarini zeppi di combustibile radioattivo della flotta sovietica lasciata arrugginire potessero creare una catastrofe ambientale o finire in mani pericolose. E il nuovo leader Vladimir Putin aveva amici disposti ad aiutarlo, a partire dal Cavaliere.
Così viene lanciata la missione di soccorso tricolore per finanziare la messa in sicurezza dei sottomarini, con una dote di 360 milioni – che allora erano veramente parecchi – più altri fondi mai chiariti che sono serviti a cementare l’alleanza tra i due Paesi, consolidata da scambi di feste nella dacia del nuovo Zar e nella villa sarda del premier azzurro, con tanto di dono del celebre lettone di Palazzo Grazioli descritto dalle invitate alle cene eleganti berlusconiane.
L’Italia in cerca di discariche atomiche
Dietro la generosità nell’aiutare la flotta russa c’era pure un retropensiero, trapelato all’epoca in alcuni discorsi pubblici poi rettificati o smentiti: rifilare a Mosca le nostre scorie radioattive, che il governo in quei mesi aveva tentato di piazzare in una miniera lucana a Scanzano Jonico, salvo poi fare retromarcia dopo la rivolta di piazza. Sulla scia della bonifica dei sommergibili, rapidi e invisibili pure i bidoni con i resti di Caorso, Latina e Trino Vercellese si sperava avrebbero preso la strada delle basi segrete affacciate sul Polo Nord dove Vladimir avrebbe tenuto a bada i manifestanti. Non a caso, tutta la faccenda è stata messa in mano alla Sogin, che oltre ad avere le competenze in materia era ed è deputata alla ricerca di una stabile discarica per la nostra eredità nucleare. E se leggiamo le indicazioni dell’iniziativa – diventata operativa nel 2005 – balza subito agli occhi come in questa campagna filantropica solo 66 milioni erano destinati a smantellare i battelli della Guerra Fredda mentre ben 208 milioni venivano stanziati per realizzare sistemi di trasporto, stoccaggio e siti per il combustibile atomico esaurito che interessavano alla questione più calda per Sogin. Ma i russi per quanto in miseria non sono mai stati fessi: poco dopo la firma del patto con l’Italia, hanno introdotto regole che vietano l’importazione di residui nucleari
La bonifica spendacciona
Sfumata la prospettiva dello scambio, la macchina della bonifica made in Italy si è comunque avviata. Con qualche stranezza. E’ stata inventata un’unità di gestione progettuale italo-russa con una dote astronomica di 4 milioni l’anno. E allestita una lussuosa sede nella capitale russa di duecento metri quadrati, con un affitto mensile di novemila euro – somma straordinaria in quella stagione di fame – versato al locatario: Antonio Fallico, il plenipotenziario russo di Banca Intesa che negli anni successivi l’ha trasformata nell’istituto di fiducia del Cremlino. Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo dedicarono sul Corriere un articolo al party memorabile con cui nel 2005 fu inaugurato il quartiere generale, facendo arrivare sottosegretari e papaveri del centrodestra, con un conto finale di 400 mila euro. Nessuno si è sorpreso per la nomina nel comitato del figlio di uno dei boss di Rosatom, il colosso atomico russo e partner di Sogin. E nessun clamore per un giro di consulenti dai compiti poco chiari pagati 262 mila euro l’anno.
All’inizio, sono stati magnificati dal governo obiettivi favolosi: mettere in sicurezza 117 sommergibili nucleari, addirittura “smantellare l’incrociatore lanciamissili Admiral Ushakov dando prestigio all’Italia”. Quest’ultimo però non aveva nulla di atomico ed era stato ridotto in rottami in India già nel 1992. Gli esperti norvegesi della Fondazione Bellona ritenevano che con 5 milioni – valore dell’epoca – si potesse bonificare un sottomarino. Ma l’operazione Sogin nel 2012 ne aveva sistemati solo cinque nonostante la spesa di 171 milioni.
Nel frattempo l’economia russa era risorta, con bilanci statali in crescita e colossali investimenti in nuovi armamenti. Ma questo non ha intaccato il sostegno ecologico italiano, confermato da governi di centrodestra, centrosinistra o tecnici, che non hanno mai dubitato della necessità di dare un mano al Cremlino, seppur tornato a essere molto più ricco di Palazzo Chigi
Le due navi in omaggio
Ed ecco che abbiamo donato due navi speciali – progettate e costruite da Fincantieri – per trasferire le scorie e le parti di metallo contaminato dei battelli. Sono state chiamate con poca fantasia RossIta, di 84 metri, e ItaRus, di 79 metri. La prima è costata oltre 70 milioni, tutto senza gare d’appalto: trattativa diretta e massima segretezza. Il varo è avvenuto nel 2011. La seconda invece è uscita dal cantiere nel novembre 2015, dopo il blitz in Crimea e le sanzioni contro Mosca: ai funzionari ministeriali romani non è importato e hanno festeggiato con i colleghi russi pure in quest’occasione. Attenzione però: movimenti di RossIta negli ultimi mesi hanno fatto entrare in allarme gli ecologisti scandinavi. Si teme che la “nostra” nave stia contribuendo a trasferimenti segreti di materiale radioattivo verso l’Artico: invece di pulire il mondo, aumenta la sporcizia eterna.
Poi era previsto un impianto di trattamento e stoccaggio temporaneo dei rifiuti a Andreeva Bay, in questo caso disegnato da Ansaldo. I maligni dissero che c’era lo zampino di Claudio Scajola, ministro delle Attività produttive al momento del varo dell’operazione e attento a favorire con quella cascata di milioni realtà della sua Liguria come Fincantieri e Ansaldo. Unica eccezione, la Mangiarotti di Udine che ha ottenuto la commessa per contenitori isolati concepiti da un’azienda russa, premiata con 850 mila euro. Fino al 2013 sono stati firmati “otto contratti, 69 addenda contrattuali e un accordo esecutivo per un valore complessivo di 260 milioni, già trasferiti a Sogin per effettuare i pagamenti”. Non c’è nessun documento che spieghi come siano stati spesi questi soldi. Il progetto iniziale prevedeva pure “45 milioni per protezione fisica dei siti”: l’Italia ha pagato per fortificare i depositi di uranio russi, da cui oggi i materiali dismessi vengono trasformati in testate per i missili dell’apocalisse di Putin?
Tra relitti e stipendi segreti
Tutto segreto. Come i nomi di chi ha ricevuto consulenze e gettoni per gli organismi di gestione. Le iniziative poi sono andate avanti oltre il termine del 2013. Con collaboratori pagati in media 100 mila euro l’anno e costi siderali per la sede di Mosca di Sogin. Tutto qui? A un certo punto – forse perché i russi tornati agguerriti non volevano più stranieri nelle basi strategiche – si è deciso di estendere le operazioni alla ricerca dei relitti di sottomarini nucleari colati a picco nell’Artico: una spedizione ancora più complessa che nel 2018 ha ricevuto fondi per un milione. Soldi usati per studiare il recupero con tedeschi, inglesi e norvegesi di vascelli come il K27, affondato nel 1968. L’ultima voce nota nei bilanci “variazione lavori in corso” ha ottenuto 817 mila euro nel 2019. Ma la “Global partnership” – questo il nome che compare negli atti ufficiali – con Putin è sopravvissuta pure all’assalto contro Kiev, incamerando stipendi e contratti fino alla scorsa settimana: beneficenza verso un Paese non più povero, che anzi si permette di moltiplicare la spesa militare e costruire tanti nuovi sottomarini zeppi di barre d’uranio. Forgiate riciclando quelle ripulite grazie ai compagni italiani.
(da La Repubblica)
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Dicembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
“MI ERO MESSA A DISPOSIZIONE DOPO IL FEMMINICIDIO DI GIULIA CECCHETTIN”
«Questa minoranza silenziosa di destra e di sinistra ha alzato un muro». Con queste parole Anna Paola Concia commenta con la Repubblica la revoca della nomina per il progetto sull’educazione all’affettività nelle scuole. Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara l’aveva scelta – insieme a suor Anna Monia Alfieri e all’avvocato Paola Zerman – come garante del piano Educare alle relazioni. Ma è stato costretto a fare marcia indietro dopo le opposizioni di FdI, FI e Lega. Concia, al telefono da Francoforte dove vive con sua moglie, ha raccontato di aver saputo del ritiro della nomina direttamente da Valditara: «Mi ha chiamato lui, era dispiaciuto», afferma.
Per l’ex parlamentare del Pd «a destra evidentemente non sopportavano una donna lesbica e femminista in questo ruolo. Però anche a sinistra non piace il fatto che io sia una donna del dialogo, ho sempre costruito ponti e non muri, non ho pregiudizi e quindi non sono mai stata troppo amata, è stata una delle ragioni per cui non sono tornata in Parlamento», spiega Concia sottolineando inoltre di non «aspettarsi un esito così feroce».
Nessuna teoria gender
Alla domanda del giornalista Matteo Pucciarelli se Valditara avesse fatto marcia indietro per le pressioni da destra, Concia risponde «Sì, nel senso che lo hanno sottoposto a pressioni tremende che non poteva eludere». Magari «l’hanno messo – continua – di fronte ad un aut aut e finisce così». La collaborazione tra Concia e il ministero dell’Istruzione va ormai avanti da 7 anni: «Quando ho portato nel nostro Paese Didacta Italia, lo spin off di Didacta in Germania, l’evento più importante del mondo sulla formazione degli insegnanti. A marzo hanno partecipato 30 mila insegnanti italiani».
E per questo nuovo progetto, di educazione all’affettività nelle scuole, Concia aveva già le idee chiare: «Dovevamo formare degli insegnanti referenti – spiega – per fare dei gruppi di discussione nelle classi, guidate appunto dai professori. Non lezioni frontali, ma un ragionamento aperto. Dove la teoria gender non c’entrava nulla». Per questo è dispiaciuta: «perché mi ero messa a disposizione di una richiesta sincera, per il Paese, – conclude – per dare una mano e una risposta a questa ennesima tragedia che è stata il femminicidio di Giulia Cecchettin».
(da agenzie)
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Dicembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
“MANCO A MOSCA AI TEMPI DELL’UNIONE SOVIETICA”… REPLICA IL COMUNE DI ROMA: “SPIACE PER LA SUA REAZIONE, IL SUO BABBO NATALE SARA’ VESTITO DI NERO”
Fabio Rampelli non ci sta. La stella in cima all’albero di Natale del Campidoglio è troppo rossa. L’onorevole di Fratelli d’Italia su Instagram ha dichiarato: «Incredibile ma vero (maiuscolo). Solo la Città metropolitana di Roma, governata dal Pd, poteva scegliere una stella rossa al posto di un puntale, una sfera di cristallo, una stella d’argento o d’oro, un fiocco».
«Chissà quale illuminato dirigente avrà scelto questo tocco “d’originalità”. Manco a Mosca ai tempi dell’Unione sovietica», ha chiosato, non è chiaro se stesse scherzando o meno. Probabilmente no.
Il Corriere della Sera oggi ha raccolto i commenti più belli in rete. «Eh già, voi la stella la volevate nera». «Hasta la navidad, siempre», «Del resto Babbo Natale con quella barba alla Marx e i vestiti rossi non me l’ha mai raccontata giusta».
Qualcuno gli fa notare che «sembra la stella sul berretto del Che». Non è la prima critica estetica che Rampelli fa. Il Corriere ricorda la stroncatura dell’onorevole alla Nuvola di Fuksas: «Un palloide tutto ferro e vetro». O all’Ara Pacis di Meier: «Una pompa di benzina». Insomma, dati gli accostamenti a vere e proprie opere d’arte stavolta il Campidoglio potrebbe andarne fiero.
La replica, Michetelli delegata al Bilancio e Patrimonio: «Spiace per la sua reazione, il suo Babbo Natale sarà vestito di nero»
«Finalmente, dopo anni di mortificazione, anche Palazzo Valentini, sede della Città Metropolitana, torna ad esibire il suo albero di Natale. Il nostro Ente, anche con l’imponente restauro di questo palazzo storico, così come con quello di Villa Altieri e delle Domus romane, sta conoscendo una fase di rilancio artistico-culturale, insieme a quella della sua azione amministrativa in favore del territorio metropolitano», ha replicato la Delegata al Bilancio e Patrimonio della Città Metropolitana di Roma Capitale, Cristina Michetelli. «Spiace che una stellina rossa dell’addobbo, peraltro selezionata dalla società che ha fornito l’albero, abbia suscitato una reazione spropositata in un noto esponente della destra romana, che ha confuso il rosso natalizio con ragioni politiche. Immaginiamo a questo punto che il suo Babbo Natale sarà vestito di nero e i suoi regali saranno solo sacchi di carbone per confermare, anche cromaticamente, la sua antica fede cameratesca. Al di là dell’ironia, ricordo che, al contrario, per la nostra comunità il rosso è anche il colore del cuore e della passione che da sempre scalda le case delle famiglie durante le festività natalizie. La Città Metropolitanaè la casa di tutti i cittadini e le cittadine dei comuni del nostro territorio e certamente il Natale per tutti noi vuole essere un momento di calore e unità collettiva», conclude.
(da agenzie)
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Dicembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
CORTO CIRCUITO TRA I DUE MINISTERI
Il 21 novembre quando il ministro Lollobrigida fu fatto scendere a Ciampino, nella tratta Roma-Napoli il ministro Matteo Salvini, numero uno dei Trasporti e Infrastrutture, non fu informato della vicenda.
Del corto circuito ne parla oggi il Fatto Quotidiano, testata che sollevò per prima il caso, spiegando che la mancata comunicazione tra vertici Trenitalia, Lollobrigida e Salvini è stato uno dei motivi per cui il ministro dei Trasporti ha rifiutato di rispondere della vicenda in Parlamento.
Strano, perché, spiega il giornale diretto da Marco Travaglio, Salvini è responsabile delle Ferrovie, che fa capo al ministero dell’Economia e Trenitalia, controllata Fs.
Per ora nella Lega Nord sono stati fatti mandare avanti sul caso il capogruppo al Senato Massimiliano Romeo che parlò di «comportamento da evitare» e il vicepresidente del Senato Gianmarco Centinaio che ha precisato come «fortunatamente non tutti sono come il ministro».
Ieri, manco a farlo apposta, Salvini ha polemizzato con alcuni sindaci che vorrebbero fermate dell’alta velocità nei loro comuni: «I progetti per l’alta velocità ferroviaria, le fermate, non sono figli di scelte politiche, ma tecniche e infrastrutturali che fanno gli ingegneri. L’alta velocità è alta se non fa troppe fermate, se ha un tracciato omogeneo. Questo vale in Calabria ma anche in Toscana. Secondo me occorre ragionare per sfoltire un po’ l’eccesso di presenza che a volte in caso di guasto o malfunzione crea ritardi a catena».
Chi ha orecchie per intendere, intenda.
(da Open)
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Dicembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
“SENZA DIRITTI E TRATTATI COME LIMONI DA SPREMERE E POI GETTARE”… GOVERNO AL SERVIZIO DEGLI SFRUTTATORI
Licenziabili da un giorno all’altro, spesso malpagate e senza contratto, e con nessuno che di fatto controlli i loro datori di lavoro. Sono tutte le persone che svolgono il lavoro di badante e colf, rimaste bistrattate anche nella recente proposta di legge sul salario minimo, affossata alla Camera in un clima politico di alta tensione. Il testo presentato dai partiti di opposizione prevede, infatti, di istituire un minimo salariale legale per tutti pari a 9 euro. Esclusi – esplicitamente – i lavoratori domestici, la cui fissazione di un minimo viene rinviata a un Decreto Ministeriale. Sono diverse le ragioni che si celano dietro questa scelta, a partire dal potenziale aumento vertiginoso dei costi per le famiglie, che provocherebbe di conseguenza una crescita esponenziale del lavoro in nero, già problematico per il settore domestico. «E così, badanti e colf vengono sempre lasciati indietro. Ma la dicitura di esclusione nella proposta sul salario minimo ha a monte una serie di problemi ben più ampi. E tutto parte dalla nostra Costituzione». A dirlo e a spiegarne le ragioni a Open è Marco Peverada, Segretario Nazionale dell’Associazione Sindacale Panca del Mutuo soccorso, a tutela di badanti, colf, e affini.
Il discrimine già nella Costituzione
«Dato il trattamento politico discriminatorio a cui sono da sempre abituati, i lavoratori domestici – di cui la gran parte sono donne -, dovremmo chiamarli “i diversamente inclusi”», premette Peverada che per decenni ha fatto il sindacalista, prima dentro la Cisl dal 1989 al 2015, e poi dentro la Panca del Mutuo soccorso, da lui fondata. «Schiavi, serve. Lavoratori e lavoratrici domestiche sono dipendenti di terza classe, spesso usati come limoni da spremere e poi gettare». Così il sindacalista sintetizza le condizioni in cui versano badanti e colf, evidenziando come nelle leggi e nei decreti vengono sì, sempre inclusi, ma con la formula al negativo: «Escluso il lavoro domestico». Peverada racconta come queste categorie di dipendenti non godano degli stessi diritti degli altri lavoratori. «Se da un lato, l’articolo 3 della Costituzione si assume il compito di rimuovere gli ostacoli di ogni ordine economico e sociale che […] impediscono il pieno sviluppo della persona umana, l’articolo 14 stabilisce che il domicilio è inviolabile. E questo nei fatti da sempre limita la possibilità degli ispettori del lavoro di entrare nelle case degli italiani e verificare le condizioni in cui versano le badanti».
La minaccia incombente di essere licenziati
Ma non solo. Sono numerosi i diritti che sono solo apparentemente tutelati a badanti e colf. «Su di loro – spiega Peverada – pende quotidianamente la minaccia di essere licenziati. Il loro datore, ovvero la famiglia dell’assistito, può recedere il contratto ad nutum. Pertanto, senza giusta causa, ma solo con il preavviso previsto dalla legge. Inoltre, non deve neanche rispettare la forma scritta». Condizioni che non permettono al dipendente di contestare nulla sul suo licenziamento e che fa da deterrente, per il datore di lavoro, al rispetto delle norme contrattuali. «C’è sempre il rischio – commenta – che con un cenno gli venga indicata la porta per andarsene»
Il carico sulle famiglie
Quanto ai salari, Peverada ritiene che la retribuzione minima debba coinvolgere anche il settore domestico. Ma con una serie di interventi statali che mitighino ricadute negative e non lascino tutto il carico economico alle famiglie. «Se, invece, si applica il salario minimo a 9 euro senza considerare questi aspetti, allo stato attuale dei fatti, in pochissimi applicherebbero il contratto. La domanda che noi poniamo è: perché fanno ancora fare i contratti alle famiglie? Coloro che necessitano di un aiuto economico, dovrebbero fare affidamento su badanti che rispondono a un contratto del Comune e del servizio sanitario». Ma il sindacalista riconosce che si tratta di proposte che la politica, di ogni fazione, fatica ad accogliere. «Se questi lavoratori e lavoratrici, la maggior parte sono stranieri, potessero avere diritto di voto, allora sì che farebbero gola. Al momento, includerle nel salario minimo o fare luce su questi aspetti, crea solo problemi alle famiglie degli italiani, e politicamente non conviene. Tutto questo fa comodo, altrimenti le soluzioni le avrebbero già trovate», commenta Peverada. «Ecco perché – chiosa – il vero problema di tutto questo è che c’è un grande assente: lo Stato».
Chi controlla?
Le condizioni di lavoro in cui versano badanti e colf sono quindi lasciate alla buona coscienza del datore di lavoro. «L’ambiente in cui lavorano queste persone da contratto non può essere nocivo, ma se così non è, chi controlla? Se mandi una segnalazione agli ispettori, al massimo chiamano il datore di lavoro. Ma in casa non ci possono entrare», spiega Peverada. «La formazione di questi lavoratori è, inoltre, un’optional. Hanno a che fare con persone fragili e a rischio, eppure non vengono quasi mai formati. Anzi, il più delle volte, le famiglie assumono appositamente persone di origine straniera, senza particolare qualifica e che faticano anche solo a parlare italiano. Per di più in nero», aggiunge. «Queste donne e questi uomini assistono ogni giorno i nostri cari, che spesso ci dimentichiamo o, date le loro condizioni, talvolta accusiamo come un peso da delegare. Eppure – conclude il sindacalista – lavorano in condizioni spesso pietose, senza tutele effettive e dignitose, e con una politica volutamente cieca alle loro istanze».
(da Open)
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Dicembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
TRA LE CAUSE IL DEFINANZIAMENTO MA ANCHE LA LENTEZZA IN CUI SI SPENDONO RISORSE PER LA RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA E L’AMMODERNAMENTO TECNOLOGICO
«Con il drammatico incendio di Tivoli la casistica dei decessi ospedalieri si arricchisce di un evento la cui probabilità in un luogo di diagnosi e cura dovrebbe essere pari a zero». Così sul quotidiano La Stampa il presidente del Gimbe Nino Cartabellotta. «In tutti i sistemi complessi – aggiunge – possano verificarsi situazioni che portano a eventi anche catastrofici. La presenza dei buchi di per sé non è sufficiente a determinare un evento avverso, che accade solo quando i buchi si trovano perfettamente allineati». «In quest’ottica di sistema – prosegue Cartabellotta – la tragedia di Tivoli rappresenta solo la punta dell’iceberg di innumerevoli rischi latenti che oggi potrebbero causare ovunque eventi catastrofici».
«C’è un definanziamento, infermieri e medici ridotti e demotivati»
Secondo il numero uno del Gimbe la prima colpa va «all’imponente definanziamento: se nel 2010 la spesa sanitaria pubblica pro-capite era pari alla media dei Paesi europei, nel 2022 abbiamo raggiunto un gap di oltre 830 euro a testa, ovvero circa 48 miliardi». Questo aspetto «è stato ammortizzato soprattutto dal capitale umano. Infatti, la persistenza del tetto di spesa sul personale sanitario fissato nel 2004 ha prima ridotto la quantità di medici e soprattutto di infermieri, poi li ha progressivamente demotivati». Inoltre a gravare è «la lentezza con cui vengono spesi i fondi per la ristrutturazione edilizia e l’ammodernamento tecnologico. Rimangono da utilizzare circa 10,5 miliardi con notevoli differenze tra Regioni». «La riorganizzazione dei servizi territoriali prevista dal Pnrr è stata fortemente ridimensionata con la rimodulazione», sottolinea Cartabellotta. «Il Sistema sanitario nazionale è stato istituito nel 1978 per tutelare un diritto costituzionale – conclude – Il suo progressivo indebolimento, oltre a ledere tale diritto, può generare tragedie come quella di Tivoli».
(da Open)
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Dicembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
“NEL BUIO CON I TELI BAGNATI SULLE PORTE PER NON FAR ENTRARE ALTRO FUMO”… INFERMIERI EROICI, HANNO SALVATO PAZIENTI ATTACCATI A MACCHINARI SALVAVITA
«Sono stati momenti atroci. I sei pazienti della rianimazione erano tutti intubati, tranne una donna giovane che abbiamo cercato di rassicurare. Ma non sapevamo nulla di ciò che stava accadendo, era buio pesto, i telefoni non funzionavano, con i cellulari abbiamo chiesto che ci venissero a salvare».
A parlare a Repubblica è Maria Grazia Angelucci, anestesista. Era di turno di notte nelle ore del rogo dell’ospedale di San Giovanni Evangelista, a Tivoli. Quello che racconta sono attimi drammatici. «Abbiamo sentito un odore acre di bruciato. Non sapevamo da dove venisse. Abbiamo aperto la porta della Rianimazione e ci siamo trovati dentro una nube di fumo denso, impenetrabile. Ci siamo barricati dentro, abbiamo sigillato le porte con lenzuola bagnate, asciugamani, cerotti, con tutto quello che trovavamo, per impedire ad altro fumo di entrare e salvare i nostri pazienti», spiega.
Quando sono arrivati i soccorsi non si vedeva ancora nulla. «Come fosse la notte più nera. Per terra il fumo – racconta Angelucci – aveva creato una coltre quasi liquida. Ho avuto subito un laringospasmo, gli occhi che bruciavano, dolore al petto. Tanto che siamo tutti tornati indietro, cercando un’altra via di fuga. I miei infermieri sono stati straordinari, salvare pazienti attaccati a macchinari salvavita è qualcosa di eroico».
«È stata l’alba più terribile della mia vita. Sono andata a casa, ho fatto una doccia per togliermi il nero che avevo sui capelli, sulle mani, poi sono tornata qui. In questo ospedale c’è un pezzo della mia esistenza, vederlo bruciare è un dolore che non dimenticherò», conclude.
(da Open)
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Dicembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
IL ROGO È INIZIATO TRA I RIFIUTI ABBANDONATI. UNO DEI CONTAINER HA PRESO FUOCO E LE FIAMME HANNO RAGGIUNTO IL PRONTO SOCCORSO… L’IMPIANTO ANTINCENDIO, MAI TESTATO DAL 2016, NON HA FUNZIONATO
Sono le 22.30, Tivoli è immersa nel freddo e nel torpore di una giornata di festache sta per concludersi. L’ospedale San Giovanni Evangelista è un casermone costellato di luci. In sala operatoria è in corso un intervento, nei reparti di terapia intensiva i malati respirano con l’ossigeno, nel Pronto soccorso dodici persone aspettano di essere visitate quando nell’aria inizia a diffondersi un odore di plastica bruciata.
«Era molto fastidioso», racconta Paolo Gabrielli 39 anni, che era nel reparto in attesa. «Sono uscito fuori per prendere aria ma l’odore era ancora più forte. Sono rientrato e dopo qualche secondo è andata via la luce». In quel momento le fiamme stavano già divampando e gli impianti di controllo e di sicurezza avevano già fallito il loro compito.
L’incendio è scoppiato sul retro dell’ospedale in un’area dove sono immagazzinati i rifiuti speciali. Uno dei container ha preso fuoco e le fiamme hanno camminato rapidamente verso il Pronto soccorso, nei corridoi, nelle scale. In pochi istanti hanno raggiunto i cavi dell’energia elettrica e hanno gettato l’ospedale nel buio più totale.
Ormai sono le 23, l’ospedale è un casermone scuro illuminato dalle fiamme che si levano su un lato. Dai piani alti le finestre sono aperte e ci sono persone che chiedono aiuto. I Vigili del fuoco hanno iniziato a lottare contro le fiamme e a montare le scale antincendio. «Le abbiamo montate lungo i due lati dell’ospedale e siamo saliti», racconta il comandante Adriano De Acutis.
Nel frattempo sono giunti anche i primi volontari. «Ci siamo trovati di fronte a una situazione molto difficile da gestire», ammette Andrea Biddau presidente dell’Associazione volontari pronto soccorso di Tivoli, una delle due associazioni di volontari che sono state tra le prime a intervenire.
«Le scale principali dell’ospedale non erano utilizzabili perché si erano riempite di fumo tossico, gli ascensori non funzionavano perché non c’era energia elettrica. Per andare a salvare i pazienti rimasti ai piani superiori bisognava usare le scale di emergenza, In questa situazione era impossibile servirsi delle barelle. Abbiamo organizzato le prime squadre per l’assistenza al servizio sanitario. I malati sono stati trasportati con tutto quello che è lecito usare in base alla situazione clinica di ciascuno».
Alla catena umana che si crea per portare via i malati si aggiunge Veronica Fortuna, arrivata insieme con i volontari di San Polo dei Cavalieri circa un’ora dopo che l’incendio aveva iniziato ad aggredire l’ospedale. «In 12 anni di volontariato e 32 di vita, purtroppo è stata una delle notti più tristi. Ho visto la paura negli occhi dei malati, li ho sentiti urlare, piangere. Ho risposto alle telefonate dei loro cari che volevano avere rassicurazioni. Ho consolato una signora, si chiama Antonietta, aveva una frattura al femore, non poteva muoversi e non voleva andare via, aveva paura.
IL ROGO È INIZIATO TRA I RIFIUTI ABBANDONATI
Era uno degli ospedale peggiori d’Italia, quello di Tivoli. Dal monitoraggio dell’Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, il vecchio nosocomio “San Giovanni Evangelista” di Tivoli era in fondo alla classifica, uno degli ultimi 8 peggiori d’Italia. Sotto osservazione erano soprattutto l’area di nefrologia, osteomuscolare e chirurgia generale. Forse avrebbe meritato un capitolo anche il sistema antincendio.
«Abbiamo aperto un fascicolo con le ipotesi di reato di omicidio colposo plurimo e incendio colposo», spiegava ieri il procuratore capo di Tivoli, Francesco Menditto. Un dato l’ha già acquisito: l’ultima manutenzione dell’impianto antincendio dell’ospedale risale al 2016. Sette anni fa. Se è trascorso poco o troppo da quell’intervento, lo dirà l’inchiesta
L’incendio è partito tra i rifiuti accatastati nel retro dell’ospedale. Sono più che evidenti le lingue di fumo sulle pareti. Il rogo sarebbe dunque partito dall’esterno, in linea con il terzo piano seminterrato, coinvolgendo dapprima un container zeppo di scarti ospedalieri, per poi propagarsi al piano interrato, e da lì fino a raggiungere il pronto soccorso.
Nei cumuli di rifiuti abbandonati, complice forse anche il Ponte dell’Immacolata, c’erano materiali particolarmente infiammabili e tossici. Ed è stata questione di minuti. Quando sono arrivati i primi pompieri del distaccamento di Tivoli, la cui sede è poco distante, il fuoco era già molto diffuso all’interno dell’edificio e sono occorse molte ore per domare i vari focolai.
Dalle telecamere di sorveglianza, già esaminate dagli agenti della polizia, si vede che nessuna persona era vicina ai rifiuti al momento del rogo. Così il procuratore Menditto può affermare: «Escludiamo la matrice dolosa».
Se l’innesco è stato casuale, allora, magari causato da una cicca lanciata a terra da qualche finestra, resta da capire la catena di eventi che è seguita. Il piano di evacuazione esiste sulla carta ma pare che mai si siano fatte esercitazioni. Dopo pochissimi minuti dall’inizio dell’incendio, poi, il sistema elettrico è andato in tilt: uno dei quesiti riguarda il quadro elettrico. «Nessuno è morto bruciato», precisa infine il procuratore Menditto. Le tre vittime sarebbero decedute per asfissia. Ma sarà l’autopsia, fissata per domani, a dire una parola definitiva.
(da La Stampa)
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