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UNA NUOVA BOMBA GIUDIZIARIA STA PER ESPLODERE SUL GOVERNO: TOMMASO FOTI, CAPOGRUPPO DI FRATELLI D’ITALIA ALLA CAMERA E PASDARAN MELONIANO, È INDAGATO A PIACENZA IN UN’INCHIESTA PER CORRUZIONE E TRAFFICO DI INFLUENZE

Febbraio 19th, 2024 Riccardo Fucile

FOTI, SECONDO GLI ATTI, SAREBBE STATO A DISPOSIZIONE DELL’IMPRENDITORE NUNZIO SUSINO, PER CUI È STATO CHIESTO IL RINVIO A GIUDIZIO… LE INTERCETTAZIONI: “FOTI È UN LADRONE. NOI SIAMO GOLOSI DI SOLDI, MA LORO DI PIÙ”

Alcuni giorni fa dall’Emilia Romagna è giunta nelle stanze romane di Fratelli d’Italia una notizia poco gradevole. La procura di Piacenza […] ha chiesto il rinvio a giudizio di nove persone, tra imprenditori, tecnici comunali e amministratori locali finiti sotto inchiesta due anni fa per un giro di corruzione e appalti in Valtrebbia, nel piacentino.
Nell’elenco non c’è nessun nome del partito. Tuttavia ciò che preoccupa di più è un filone della stessa indagine non ancora chiuso e ha tra gli indagati un big del partito: Tommaso Foti, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera e membro dello stato maggiore meloniano.
Un pasdaran che difende pubblicamente l’indifendibile sui migranti, sulla giustizia, sugli scandali che hanno macchiato il primo anno e mezzo di Meloni al governo. Dal 2014 è anche socio unico del Secolo d’Italia, il giornale della Fondazione Alleanza nazionale: si tratta di un’intestazione fiduciaria
L’inchiesta su Tommaso Foti, dunque, prosegue anche dopo la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti della maggior parte dei coindagati del politico. La posizione di Foti è stata stralciata insieme a quella di Erika Opizzi, ex assessora di Fratelli d’Italia nella giunta piacentina.
I fatti risalgono al 2022, quando finirono in carcere diversi imprenditori, tecnici comunali e sindaci. I reati ipotizzati […] sono a vario titolo corruzione e il traffico di influenze, che questo governo ha messo nel mirino con lo scopo di depotenziarlo al pari dell’abuso d’ufficio. Resta da capire la strategia della procura, che potrebbe comunque archiviare Foti così come notificargli l’avviso di conclusione indagini e dunque poi chiedere il processo […]. Quest’ultima ipotesi potrebbe essere un problema serio per Meloni già alle prese con l’indagine sulla ministra del Turismo Daniela Santanchè.
Foti ha il suo feudo a Piacenza. Qui alcuni lo ricordano ancora, quasi 13 anni fa, lamentarsi in un’intervista al Fatto Quotidiano per l’eventuale taglio degli stipendi dei parlamentari: «Se mi tagliano lo stipendio da parlamentare ho le pezze al culo».
Altri invece non dimenticano le sue nostalgiche esternazioni sul fascismo: quando era consigliere regionale in regione Emilia Romagna portò in aula poster di un’adunata fascista e libri di Mussolini per protestare contro la legge per proibire la vendita di gadget del Ventennio nelle bancarelle e nei negozi. Indimenticabile anche quel 25 aprile di qualche anno fa quando il parlamentare ha indossato la mascherina anti Covid con la scritta “Boia chi molla”, salvo poi cancellare il post e la foto pubblicati sui social.
Foti è il secondo esponente di Fratelli d’Italia che a Piacenza è costretto a fare i conti con un’inchiesta giudiziaria. Alcuni anni prima, era il 2019, a finire in carcere fu Giuseppe Caruso, presidente del consiglio di Piacenza con l’accusa di associazione di stampo mafioso: per la procura antimafia di Bologna era organico alla ‘ndrangheta emiliana […]. Caruso era dello stesso partito di Foti e a lui legatissimo. Caruso alla fine dei processi è stato condannato in via definitiva a 12 anni.
Tre anni dopo la figuraccia su Caruso, Foti è finito a sua volta sotto inchiesta. Dalla procura nessun commento sui tempi di chiusura. Intanto però gli atti raccontano di un Foti che sarebbe stato a disposizione di un gruppo imprenditoriale per il quale la procura ha chiesto il rinvio a giudizio.
La richiesta di rinvio a giudizio notificata all’imprenditore che ha messo nei guai Foti, non è passata inosservata tra il gruppo dirigente nazionale di Fratelli d’Italia. In molti la interpretano come una possibile mina pronta a esplodere. I pm hanno chiesto il processo anche per l’imprenditore che sostiene di aver “pagato” il parlamentare.
Si tratta di Nunzio Susino, rappresentante legale della Cooperativa edile e forestale Altavaltrebbia. Stesso destino toccato a Carlobruno Labati, responsabile dell’ufficio tecnico di Ferriere, paese in provincia di Piacenza, al quale Susino aveva assicurato l’appoggio di Foti, dietro pagamento, per trasformare un grande appezzamento di terreno in edificabile. Susino […] è l’imprenditore che parlava così di Foti: «Io, a Foti, gli ho detto…la roba è mia…però siamo in famiglia con Labati».
Non sono […] le uniche intercettazioni inedite sul fedelissimo di Meloni. In alcune di queste si fa riferimento «all’amicizia tra Susino e Foti», sul quale i magistrati specificano: «Tra i due in quel periodo vi era una sinergia volta al conseguimento di una concessione commerciale per la quale Susino aveva chiesto l’intervento del parlamentare […], aspetto che ha riguardato un apposito approfondimento investigativo in questo procedimento»
Una costola investigativa che prende spunto da dialoghi intercettati di questo tipo: «Allora Foti gli ha detto, questa persona qua ha le palle…, questo è quello che sta dando di più per tutta la situazione e dobbiamo dare una mano sia a lui e sia diciamo alla famiglia Labati che dobbiamo finire e sistemare», è l’imprenditore Susino che riporta a un sodale il contenuto di un incontro che avrebbe avuto con il parlamentare e altri politici locali di Fratelli d’Italia. Non sappiamo se Susino millantasse, per questo abbiamo chiesto a lui e a Foti un commento. Ma entrambi hanno preferito non rispondere.
Al deputato di Fratelli d’Italia abbiamo chiesto, tra le altre cose, di spiegarci il motivo che ha spinto Susino a parlare così tanto di lui. C’è un’intercettazione che gli investigatori valorizzano: «Susino, nell’evidenziare il grado di corruttibilità dell’onorevole Foti, glissa con un eloquente:.. “Foti è un ladrone” per poi aggiungere: “Noi siamo golosi di soldi, ma loro di più…se noi siamo golosi loro sono malati».
C’è, inoltre, nei documenti dell’indagine l’intercettazione in cui Susino dice: «Mi ha chiamato il tuo amico Foti». All’indomani di quel contatto tra i due, l’imprenditore si è recato nella sede di Fratelli d’Italia di Piacenza. Non era la prima volta, i detective segnalano altre visite a Foti nella sede del partito di Meloni, anzi parlano espressamente di «ennesima volta negli uffici della sede di Fratelli d’Italia».
«Tramite Foti ho parlato con l’Opizzi, quella all’Urbanistica del comune di Piacenza», diceva Susino al suo interlocutore […]. Opizzi, appunto, era all’epoca assessora di Fratelli d’Italia all’Urbanistica e fedelissima del senatore. Il gruppo di imprenditori, infatti, brigava per ottenere dell’amministrazione la convenzione del parcheggio realizzato in città. Per raggiungere l’obiettivo avrebbero sfruttato l’influenza del big di Meloni.
Oltre ai sospetti sulle autorizzazioni relativa al parcheggio, Foti sarebbe coinvolto anche in un altro “favore” a Susino relativo a dei terreni da rendere edificabili. Ancora una volta è l’imprenditore […] a parlarne: «Susino confidava al Labati (tecnico di un comune interessato alla partita dei terreni, ndr) di avere ricevuto da Foti una richiesta economica pari a 15mila euro». Per essere precisi gli inquirenti riportano le frasi esatte dell’imprenditore: «Ti dico, sono andato da lui, e gli ho detto a me devi far passare il terreno… Cosa ti devo portare?».
Foti avrebbe risposto con una richiesta molto concreta, cioè chiedendo soldi: «Allora lui mi fa… subito, che dobbiamo sistemare la documentazione, portami 15mila euro». Così Susino, entusiasta della presunta disponibilità del politico, avrebbe rilanciato: «Te ne porto venti». Un millantatore seriale o l’esagerazione di chi si sente l’onnipotente degli appalti?
Di certo era nota un’intercettazione in cui Susino ammetteva di aver dato 3mila euro a Foti per la pratica del parcheggio, «Foti, per questo problema qua io gli ho dato 3000 euro». Resta da capire se Susino, il re degli appalti, millantasse o potesse davvero contare su rapporti con l’alta politica. Di sicuro i contatti tra Foti e l’imprenditore sono documentati. Sarà per questo che la procura piacentina non ha ancora archiviato l’indagine sul fedelissimo di Meloni.
(da Domani)

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LA VEDOVA DI NAVALNY: “PUTIN HA UCCISO MIO MARITO CON IL NOVICHOL PERCHE’ NON POTEVA PIEGARLO, CONTINUERO’ IO LA BATTAGLIA DI ALEXEJ”

Febbraio 19th, 2024 Riccardo Fucile

“NEGATO L’ACCESSO ALL’OBITORIO ALLA MADRE”

Alla madre di Alexey Navalny, Lyudmila Navalnaya, è stato impedito, per il terzo giorno consecutivo, di entrate nell’obitorio per vedere il corpo del figlio, la cui morte è stata annunciata venerdì.
Lo ha reso noto l’attivista russa Kira Yarmysh, portavoce di Navalny all’estero, spiegando che la madre del leader dell’oppositore russa si è recata con i suoi avvocati all’obitorio questa mattina presto, ma le è stato impedire di entrare.
«Uno degli avvocati è stato letteralmente cacciato», ha scritto Yarmysh su X. «Quando al personale è stato chiesto se il corpo di Alexei fosse lì, non hanno risposto», prosegue il post.
Gli inquirenti russi che indagano sulla morte in carcere dell’oppositore Alexei Navalny hanno annunciato a sua madre che «estenderanno» l’inchiesta.
«Il Comitato investigativo ha detto alla madre e agli avvocati che l’indagine sulla morte di Navalny è stata prolungata e non è noto per quanto tempo durerà», ha fatto sapere la portavoce del politico, Kira Yarmysh. «La causa della morte è ancora indeterminata» ha aggiunto, «mentono, prendono tempo e non lo nascondono nemmeno». Fino a che le indagini non saranno concluse, il corpo dell’oppositore non dovrebbe essere restituito alla famiglia.
Il video della moglie di Navaln
La moglie dell’oppositore russo Alexei Navalny, Yulia Navalnaya, ha lanciato un appello pubblico in cui denuncia che «è stato ucciso da Vladimir Putin» e annuncia che continuerà il lavoro del marito, morto in carcere venerdì scorso.
«Continuerò il lavoro di Alexei Navalny. Continuate a lottare per il nostro Paese e vi esorto a stare accanto a me. Per condividere non solo il lutto e il dolore infinito che ci avvolge e non lascia andare. Vi chiedo di condividere la mia rabbia. Rabbia e rabbia verso chi ha osato uccidere il nostro futuro», è il messaggio contenuto in un video diffuso sul profilo Instagram di Navalny.
Navalnaya ha anche osservato di sapere «esattamente perché Putin ha ucciso Alexei» e che i suoi collaboratori lo renderanno noto nel prossimo futuro. La vedova aggiunge anche che Navalny «è stato avvelenato con il Novichok».
Raffica di arrest
Oltre 400 persone sono state fermate in Russia mentre rendevano omaggio al leader dell’opposizione Alexei Navalny, ha riferito un importante gruppo per i diritti umani. Lo rendono noto i principali media britannici.
La morte improvvisa di Navalny, 47 anni, è stata un duro colpo per molti russi, che avevano riposto le loro speranze per il futuro nel più feroce nemico del presidente Vladimir Putin. Navalny è rimasto esplicito nella sua implacabile critica al Cremlino anche dopo essere sopravvissuto a un avvelenamento da agenti nervini e aver ricevuto molteplici pene detentive.
(da agenzie)

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SI CANDIDA PER UN LAVORO AL SUPERMERCATO: 500 EURO AL MESE PER UN LAVORO A TEMPO PIENO E SENZA PROSPETTIVA DI CRESCITA

Febbraio 19th, 2024 Riccardo Fucile

IL RACCONTO DI AURORA: “STUDIO E MI MANTENGO DA SOLA, MA QUESTO E’ SFRUTTARE I GIOVANI”

“Studio e mi mantengo da sola: 500 euro al mese per 40 ore a settimana sono troppo pochi, nessuno dovrebbe lavorare in queste condizioni”. A parlare è Aurora, studentessa di Scienze della Formazione di Roma Tre. Sta cercando lavoro a Roma, nella città dove vive e decide di rispondere all’annuncio di un noto supermercato su una delle tante piattaforme che aiutano nella ricerca di occupazione.
“Si trattava di uno stage per addetto vendita retribuito in uno dei supermercati Penny – ricorda a Fanpage.it, leggendo l’email che la piattaforma recapita subito dopo aver inviato la propria candidatura – Poche righe, soltanto le attività che che devono essere svolte, dal rifornimento degli scaffali alle attività di cassa, dal supporto alla clientela fino alla pulizia e l’ordine del negozio e qualche accenno al compenso”.
L’annuncio di lavoro
“Cerchiamo candidati e candidate, anche senza esperienza, dotati di ottime capacità organizzative, proattività e voglia di fare spirito di squadra – si legge nell’annuncio – Per un tirocinio formativo di 6 mesi con uno stipendio fra i 500 e i 900 euro al mese”.
Secondo le norme vigenti, ad esempio, è previsto un rimborso spese di 800 euro nella regione Lazio. Ma come ha spiegato Aurora a Fanpage.it, almeno nel suo caso, non sarebbe stata pagata più di 500 euro al mese.
Dopo aver risposto all’annuncio, sono passati circa un paio di giorni. “Ho trovato l’annuncio sul sito Indeed, lo uso quasi sempre nella ricerca di lavoro. E ho tentato. Dopo uno o due giorni sono stata contattata telefonicamente. Era tardi, verso le 20 e ho pensato subito che fosse strano”, spiega.
La telefonata con la store manager
“Dall’altro capo del telefono c’era una donna che si è presentata come una store manager del supermercato Penny. Mi ha spiegato un po’ di cosa si occupa l’azienda, come lavora. Mi ha chiesto se fossi interessata ad un lavoro. E io ovviamente ho detto di sì”. Così chiede maggiori dettagli: dal ruolo che dovrà ricoprire una volta ottenuto il lavoro alle prospettive di crescita.
“Per i primi sei mesi avrei dovuto lavorare con un full time di 40 ore a settimana al netto di straordinari per una paga di circa 500 euro mensili: il rimborso spese per lo stage – precisa Aurora – Poi mi ha parlato, ma stando a come lo ha detto sembrava proprio un caso remoto, della possibilità di passare da stage ad apprendistato: avrei firmato un contratto della durata di 3 anni per uno stipendio leggermente più alto con meno ore di lavoro. In pratica, 700 euro per un part time”.
Le prospettive di crescita in azienda
Insomma, dopo sei mesi a 500 euro al mese per 40 ore a settimana, il traguardo sarebbe stato ottenerne 700 per un part time. “Naturalmente l’avanzamento di carriera sarebbe avvenuto soltanto se mi avessero considerato una persona in grado di rivestire il ruolo richiesto in maniera impeccabile”, continua a spiegare Aurora a Fanpage.it.
Anche dopo il triennio l’opportunità di essere assunta sembra essere ancora molto lontana. “Se ti riteniamo una persona in grado, c’è la possibilità di assumerti come commessa”, ha continuato a spiegare la store manager ad Aurora.
“Ha specificato che non avrebbero tenuto conto dei tre anni e dei sei mesi di esperienza precedenti: in pratica si sarebbe comunque trattato di ripartire da zero con un nuovo contratto, da un livello meno esperto e con uno stipendio più basso. Soltanto dopo altro tempo, mesi o anni, avrei potuto aspirare ad uno stipendio 1200 euro”, continua.
Il rifiuto dell’offerta di lavoro
Nessuna email, fatta eccezione di quella del portale. Nessun documento scritto. Soltanto una semplice telefonata la sera. “Non mi ha chiesto chi fossi né perché volessi lavorare, mi ha solo chiesto se fossi interessata al lavoro, dopo avermi presentato le condizioni. Ma io studio e mi mantengo da sola: neanche mi ha lasciato finire che è stata lei a chiudere la telefonata, comprendendo che non avrei mai potuto accettare il lavoro”, sottolinea Aurora.
Poi ammette: “Ho già avuto delle pessime esperienze con le multinazionali, mi ricordo di orari non rispettati, straordinari non pagati. Per me è stato un trauma, una follia. Sono letteralmente scappata lasciando il mio posto in un fast food, dopo aver visto l’ultimo stipendio: non ricordo quante ore avessi lavorato, era quasi il doppio rispetto al mese prima. Ma non nel portafoglio – ricorda – Non è stata un’esperienza felice, ma sarei stata disposta lavorare nel supermercato se ne fosse valsa la pena”.
Adesso Aurora sta lavorando in un ristorante a Trastevere. “Devo finire la triennale, mi pagano decentemente, riesco a mantenermi. Non tutti possono scegliere di rifiutare un posto di lavoro, ma lavorare in queste condizioni non può essere normale”.
(da Fanpage)

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LA LEGA VUOLE VIETARE PER LEGGE LE MANIFESTAZIONI PRO-PALESTINA: MA NON ERANO PER LA LIBERTA’ DI ESPRESSIONE?

Febbraio 19th, 2024 Riccardo Fucile

IL RAZZISMO (ETNICO E RELIGIOSO) E’ GIA’ PREVISTO DALLA LEGGE MANCINO CHE PROPRIO LA LEGA VOLEVA ABOLIRE

L’ultima trovata della Lega per scavalcare a destra Fratelli d’Italia è vietare l’antisemitismo (o presunto tale) per legge. O, per essere esatti, la sua manifestazione in pubblico. Ieri è stata depositata da alcuni senatori del Carroccio una proposta sulla “definizione operativa di antisemitismo” e il “contrasto agli atti di antisemitismo”, che autorizza le questure di polizia a negare il permesso a raduni o cortei “per ragioni di moralità” (sic) nel caso di “grave rischio potenziale per l’utilizzo di simboli, slogan, messaggi e qualunque altro atto antisemita”. E per antisemita, i leghisti intendono “una determinata percezione degli ebrei che può essere espressa come odio nei loro confronti, le cui manifestazioni, di natura verbale o fisica, sono dirette verso le persone ebree e non ebree, i loro beni, le istituzioni della comunità e i luoghi di culto ebraici”. Nella relazione illustrativa, si spiega meglio il concetto riferendosi ai “focolai che si sono già estesi sotto la veste di antisionismo, dell’odio contro lo Stato ebraico e del suo diritto a esistere e difendersi. La moltiplicazione di episodi antisemiti si è in parte fondata sul negazionismo delle violenze perpetrate il 7 ottobre e su un radicale rifiuto di Israele che ripropone, proiettandolo sulla dimensione statuale, pregiudizi antisemiti ancora troppo diffusi”. Si propone poi di creare una banca dati ad hoc, ossia una schedatura sugli episodi incriminati, e di sensibilizzare scuole e forze dell’ordine sul tema. Il progetto legislativo potrebbe anche essere incluso come emendamento al disegno di legge sulla sicurezza in arrivo al Senato. Diciamolo subito: la pensata degli zelantissimi censori salviniani è sbagliata alla radice, tragicomicamente incoerente, e anche politicamente cretina.
È sbagliata di per sé poiché proibire l’espressione di idee dovrebbe essere proibito, in una democrazia che ne stabilisca l’invalicabile limite nel solo codice penale. Chiunque dovrebbe poter dire pubblicamente quel che pensa, purché non lo faccia ricorrendo o istigando alla violenza fisica. Purtroppo in Italia esistono ancora i reati d’opinione, e perciò quel limite è stato valicato, anche se, intendiamoci, va comunque rispettato, come tutte le altre leggi: brutta lex, sed lex. Si dà il caso, però, che fra i suddetti reati in sé liberticidi ci sia quello introdotto dalla legge Mancino del 1993 che fa divieto di compiere “manifestazioni esteriori” a movimenti o associazioni che incitino alla “discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”. È la famosa norma mirata a reprimere il razzismo in tutte le sue forme, anche solo simbolico, inteso come “idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico”. Detto che il razzismo, non soltanto biologico ma in tutte le accezioni, è un insulto all’intelligenza prima ancora che alla dignità, la destra ha sempre osteggiato la legge Mancino. E l’ha fatto su una duplice spinta. Da un lato, in base a un principio corretto: odiare verbalmente o per iscritto, al di là dell’oggetto, dovrebbe essere lecito. Vero è che generalizzare e semplificare è sempre stupido, ma io devo poter dire lo stesso che odio, poniamo – anche se non è vero, sia chiaro – i turchi per la persecuzione dei curdi o, con tutte le strampalate ragioni possibili, i cristiani, o l’etnia vattelappesca. Dall’altro lato, per una esigenza discutibile e, nello specifico, ipocrita: cercare di coprire certo razzismo che alligna nelle frange di estrema destra e, in parte, nel popolo della destra tout court. Ancora nel 2018, cioè ieri, la stessa Giorgia Meloni voleva stracciare la Mancino: “Siamo sempre stati contrari ai reati di opinione – dichiarava all’Ansa il 3 agosto di quell’anno – perché riteniamo la libertà di espressione sacra e inviolabile”. E si diceva pronta a riproporne “l’abrogazione”, che in quel momento era stata rilanciata proprio da un leghista, Lorenzo Fontana (oggi presidente della Camera), d’accordo con Matteo Salvini (“alle idee si contrappongono altre idee, non le manette”).
La Lega, va ricordato, nel 2014 propose pure un referendum per abolirla. Oggi invece si inventa un quasi-reato per comprimere il diritto di manifestare a chi è tacciato di antisemitismo, cioè di odio per gli ebrei in quanto tali, giocando sulla scorretta confusione con l’antisionismo, che è l’odio per lo Stato di Israele, colpendo magari chi non abbraccia né l’uno né l’altro ma scende in piazza per denunciare la “carneficina” (cit. monsignor Pietro Parolin: antisemita anche lui?) in corso a Gaza. Ecco perché la proposta ha anche un’incoerenza da guinness dei primati. Ora, va bene che la politica insegue le contraddizioni della realtà, ma qui siamo a livelli da sputo in faccia agli elettori. E infatti, la mossa è controproducente anche sul piano elettorale. Domanda: ma secondo questi geni da think tank, poco think e molto tank, gli elettori del loro stesso bacino di voti sono davvero tutti schierati come un sol uomo, a prescindere, con quanto stanno combinando l’esercito e il governo israeliano, che per ritorsione all’uccisione e al sequestro di centinaia di propri civili hanno massacrato, e continuano a massacrare, con le bombe o per fame, decine di migliaia di civili palestinesi? E inoltre, messa su di un meno urgente ma dirimente piano ideologico, sono proprio sicuri, i signori leghisti, che recitare ora la parte dei guardiani del politicamente corretto, sposando l’identica logica della Mancino che fino a ieri schifavano, farà guadagnare consensi rubandoli al partito della premier? Ma che gli dice il cervello, a questi fini strateghi?
Proviamo una risposta: non c’è nessuna strategia se non quella di accodarsi, attribuendosi il ruolo di pasdaran, alla corrente dell’ossequio reverenziale a Israele dominante a destra, e solo un po’ meno a sinistra. In particolare utilizzando come arma “operativa” l’argomento morale, ricattatorio, dell’antisemitismo e sparare così nel mucchio, non solo per delegittimare, ma adesso pure per impedire il diritto alla contestazione. Difatti, per perseguire il famigerato “odio” di tipo razzista, e quindi eventuali reati penali, vale già la Mancino, che come per magia, oplà, ora di fatto rivalutano. Scrivere quel testo di legge a metà fra il predicozzo e l’ordine di caserma, invece, tradisce solo una volontà di parte di bollare con il marchio infamante dell’antisemitismo opinioni contrarie alle proprie, per inibirle e interdirle. Del resto, viviamo sotto una tale cappa persecutoria che nemmeno più è consentito il libero uso delle parole, per cui si è arrivati al punto di considerare il termine “genocidio” una proprietà esclusiva degli israeliani, che mediante ambasciata si permettono di redarguire a destra e a manca chi si azzarda a denunciare quello di cui è vittima il popolo palestinese. Tirando le somme: la destra si rimangia vent’anni di polemica contro i reati d’opinione, introducendo l’idea autoritaria di una verità definita dall’alto, fin nei giudizi sulla cronaca di questi mesi e, quel che è peggio, imposta tramite le questure. Il tutto per un miserabile calcolo elettoralistico, il quale, molto presumibilmente, è pure cannato. La situazione, come sempre, è grave, gravissima, ma non granché seria – se non fosse che di mezzo ci sono la vitale libertà di espressione e i morti, palestinesi e israeliani. Strumentalizzati per fare, come noi italiani siamo usi fare dalle servili e aberranti leggi razziali del ’38, i più realisti del re.
(da mowmag.com)

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IL CASO ANAS: TUTTO SULL’INCHIESTA CHE PREOCCUPA IL GOVERNO

Febbraio 19th, 2024 Riccardo Fucile

LE CONSULENZE DEL SUOCERO E DEL COGNATO DI SALVINI, GLI INCONTRI CON IL COLOSSO CINESE HUAWEI CUI HA PARTECIPATO PURE IL LEADER LEGHISTA

Intercettazioni, affari, politici, grandi aziende. Da fine dicembre, giorno in cui si sono accesi i riflettori sul Sistema Verdini è stato un continuo di rivelazioni che hanno coinvolto leader di partiti di governo, dirigenti di imprese, presidenti di multinazionali, commissari di grandi opere nominati dai ministri. Di seguito troverete tutto ciò che è stato scoperto – nelle carte giudiziarie e attraverso le inchieste giornalistiche di Domani – sulle società di Denis e Tommaso Verdini, e del loro socio Fabio Pileri, e sui loro legami con la politica che conta.
GLI INDAGATI
Il 27 dicembre 2023 la Procura di Roma dispone gli arresti domiciliari per cinque persone, accusati a vario titolo di corruzione e traffico di influenze. Tra gli arrestati ci sono Tommaso Verdini, figlio del potente ex senatore Denis, e il suo socio Fabio Pileri. I due sono soci nella società di consulenza Inver, al centro delle indagini dei detective della Guardia di Finanza. Attraverso pedinamenti e intercettazioni – svolte in particolare a Pastation, ristorante di famiglia – gli investigatori hanno ricostruito un sistema per favorire nelle gare d’appalto dell’Anas una serie di società che pagavano ricche fatture alla società di Verdini e Pileri.
Le prime notizie sull’inchiesta erano però dell’estate 2022, quando i finanzieri avevano svolto delle perquisizioni all’interno dei locali della Inver a via della Scrofa, nel centro di Roma, in un palazzo a due passi dal Senato.
Oltre a Tommaso Verdini e al socio Fabio Pileri, sono indagati anche Denis Verdini: l’ex coordinatore del Pdl, che sta scontando ai domiciliari una condanna per bancarotta, era un socio ombra della società dei due che utilizzavano le sue entrature nei palazzi del potere in cambio di un ricco compenso mensile. C’è poi Massimo Simonini, ex amministratore delegato di Anas e attuale commissario straordinario del Ministero delle Infrastrutture per la Statale Jonica e la Grosseto-Fano, l’imprenditore ed ex europarlamentare Vito Bonsignore, e altri importanti dirigenti di società di Stato e proprietari di imprese del campo delle infrastrutture.
LA SOCIETÀ E LA COMPAGNA DI SALVINI
Al centro dell’inchiesta c’è la Inver, società di consulenza di proprietà di Tommaso Verdini e Fabio Pileri. La società è stata fondata nel 2017 da Tommaso insieme a sua sorella Francesca, la compagna del vicepresidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini. Francesca Verdini ha venduto le quote della società nel luglio del 2021, poco prima dell’inizio dell’inchiesta della Guardia di Finanza.
IL SOCIO DI VERDINI E IL FIGLIO DI CARMINATI
Quando dalla Inver esce Francesca Verdini, al suo posto entra Fabio Pileri. Umbro classe 1977, Pileri nel 2022 ha aperto anche un’altra società di consulenza, Pica Consulting. Il socio al 50 per cento era Andrea Carminati, 33 anni, figlio di Massimo, “er Cecato” che dal 2020 sta scontando ai domiciliari i 10 anni di condanna per l’inchiesta “Mondo di mezzo”, che ha travolto il potere romano, con accuse pure di mafia poi cadute negli ultimi due gradi di giudizio. Carminati è un ex dei Nuclei armati rivoluzionari, erede di una storia che affonda le radici nella banda della Magliana e arriva all’oggi segnato da rapporti con i boss della camorra romana.
Il figlio, invece, è incensurato. Lo ritroviamo nella Pica insieme al socio di Verdini. Costituita il 26 gennaio 2022 con un capitale sociale di 100 euro è stata liquidata il 19 ottobre 2022, a pochi giorni dal giuramento del governo Meloni. Carminati jr, un mese prima di aprire la Pica, aveva costituito, sempre dallo stesso notaio, un’altra società di consulenza: la 10 A&C. Capitale sociale di 100 euro, sede ai Parioli. La 10 A&C, ancora attiva, nell’ultimo bilancio ha ricavi per quasi 55mila euro e un utile di quasi 7mila
SALVINI E IL COMMISSARIO INDAGATO
Secondo la ricostruzione della procura di Roma, i Verdini in cambio di lauti compensi aiutavano gli imprenditori a vincere le commesse di Anas. Per farlo erano in contatto con i dirigenti della società, a cui promettevano avanzamenti di carriera o riconferme nei ruoli più prestigiosi. Uno degli uomini più vicini ai Verdini è Massimo Simonini, ex amministratore delegato di Anas. Dopo la fine del mandato a dicembre 2021, Simonini ha continuato a ricoprire il ruolo di commissario straordinario per la SS106 e la E78 che gli era stato dato dal governo Draghi ad aprile. Due opere strategiche, soprattutto la prima in Calabria, da svariati miliardi di euro. Nonostante l’inchiesta il ministro Salvini non ha revocato la sua nomina: al contrario gli ha affidato la possibilità di spendere 3 miliardi di euro per la realizzazione della Statale Jonica. Un budget simile, ma non ancora stanziato, è quello per la Grosseto-Fano che collega Tirreno e Adriatico, altra opera sotto la sua amministrazione. «Parliamo di un indagato, non di un condannato», ha dichiarato il numero uno della Lega.
LA SOCIETÀ OMBRA
Una volta uscite le prime notizie sulle indagini, i Verdini si adoperano per non perdere nessuno dei loro clienti. Il 27 settembre 2021, Denis Verdini e il figlio Tommaso parlano di riorganizzazione degli affari. «Seguendo accorgimenti suggeriti da un loro avvocato […] Tommaso Verdini anticipa al padre di voler concludere un accordo con la Pda in modo da simulare l’interruzione del rapporto di consulenza con la Inver». La Pda è la Political Data Agency, società fondata nel 2018 da Niccolò Macallè e Lorenzo Salusest. Pda si occupa «di rapporti istituzionali e di monitoraggio e analisi dei dati» per partiti – Fratelli d’Italia, Forza Italia, Lega, ma anche Pd e Scelta Civica – enti istituzionali e importanti multinazionali. «Lo faccio fare alla Pda a Niccolò (Maccallè, ndr), mi rifanno il contratto […] non vogliono perdere neanche un minuto di rapporto con noi perché è fondamentale», dice Tommaso Verdini al padre.
È Denis a ricordare poi che una volta scemata l’attenzione degli inquirenti avrebbero rilevato le quote della Pda: «Quote però cedute da Macallè si fa dopo… Ci vuole solo grande pazienza, solo grande pazienza. Ci vorrà perché ci fanno impazzire su tutto adesso». Gli investigatori ritengono questa sia «un’altra conferma della natura fittizia dei contratti di consulenza» stipulati dai Verdini con gli imprenditori che si rivolgono a loro.
Inver e Political Data Agency condividono tra l’altro l’indirizzo della sede: via della Scrofa 64, a pochi passi dal Senato e dalla sede di Fratelli d’Italia. Niccolò Maccallè è socio fondatore e amministratore unico: 33 anni, consigliere comunale di Montespertoli (in provincia di Firenze), presidente dell’unione dei comuni della Valdelsa, è anche nella segreteria del gruppo di Fratelli d’Italia in Regione Toscana. L’altro socio, Lorenzo Salusest, giornalista, è anche responsabile della segreteria politica del portavoce dell’opposizione in Regione Toscana, il leghista Marco Landi. Senior partner di Pda è Riccardo Mazzoni, un verdiniano di ferro.
L’AFFARE DELLA RAGUSA-CATANIA
Le intercettazioni su Political Data Agency conducono a un altro grande affare. Parlando con il padre, scrivono i detective, «Tommaso Verdini riporta lo stato dei pagamenti vantati da Inver, informando gli interlocutori di aver dovuto rinunciare alla somma di 3.000 euro, assai verosimilmente collegata ai compensi per la carica di componente del consiglio di amministrazione della Sarc Spa».
La gran parte delle quote di Società Autostrada Ragusa Catania, ora in liquidazione, è della Silec Spa di Vito Bonsignore. Anche lui ha subito la perquisizione di un anno e mezzo fa. Come riportato dal Fatto Quotidiano, Bonsignore ha incontrato Denis Verdini nell’autunno 2022, quando il suocero di Matteo Salvini era agli arresti domiciliari nella sua casa fiorentina. Gli incontri avvenivano nel ristorante romano dei Verdini, dove gli indagati si ritrovavano tra di loro e con dirigenti di società pubbliche e politici come il sottosegretario all’Economia, il leghista Federico Freni (non indagato).
La Ragusa-Catania è una grande incompiuta del nostro paese: la Sarc aveva ottenuto la concessione nel 2014 senza però realizzare nessun tipo di lavoro. L’Anas poteva tornare sui suoi passi nel 2019, senza sborsare un euro. Ma nel 2020 (governo Pd-M5S) stanzia 37 milioni come buonuscita per Bonsignore. L’anno successivo Verdini jr diventa consigliere nel Cda della Sarc. Un regalo a Bonsignore cui non si è opposto un altro indagato nell’inchiesta sul “Sistema Verdini”: l’ex ad di Anas Massimo Simonini, considerato manager di riferimento dei Verdini e che Salvini ha lasciato con tutti i suoi incarichi nonostante l’inchiesta.
HUAWEI E IL GOVERNO
Le società dei Verdini non avevano clienti solo nel settore delle infrastrutture. C’era anche Huawei, il colosso cinese delle telecomunicazioni. Un’inchiesta giornalistica di Domani ha svelato che negli scorsi mesi i vertici della società di Shenzen avevano incontrato diversi esponenti del governo Meloni, delle istituzioni e di grandi aziende, grazie alle consulenze delle società sotto indagine. Riunioni che sono avvenute anche quando ormai la notizia delle indagini era di dominio pubblico.
L’incontro più recente è quello con Matteo Salvini, a inizio dicembre 2023 al ministero delle Infrastrutture. Il numero uno della Lega ha incontrato il presidente europeo di Huawei, Jim Lu, e l’amministratore delegato italiano, Wilson Wang. Ci sono poi gli incontri con l’ex ad di Tim, Luigi Gubitosi, e con l’ex direttore dell’agenzia per la cybersicurezza, Roberto Baldoni. E poi quelli con il ministro della Difesa Guido Crosetto (che però ci ha detto: «Mai incontrato nessuno»), il presidente del Senato Ignazio La Russa, il sottosegretario all’Economia Federico Freni.
E i tentativi con il ministro degli Esteri Antonio Tajani e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alessio Butti, che però hanno declinato non appena hanno sentito il nome Verdini.
I LEGHISTI E IL GOVERNO MELONI
Uno dei leghisti con cui i Verdini si incontravano e facevano incontrare i loro clienti era il sottosegretario leghista Freni. Ma non c’è solo lui. Nelle informative della finanza emerge un dato: Salvini sarebbe stato il manubrio politico che Denis Verdini girava a piacimento per avere ‘amici’ nei posti di comando. I finanzieri annotano che nell’ufficio di Fabio Pileri, lui e il socio Tommaso Verdini parlano di ‘Matteo’ (Salvini) e ‘Denis’ (Verdini). È il 19 ottobre 2022, sono giorni frenetici perché le destre hanno vinto le elezioni e la futura presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, si prepara al giuramento davanti al presidente della Repubblica.
La squadra nei ministeri è ancora da comporre e il suocero di Salvini, ex coordinatore del Pdl, pregiudicato per bancarotta fraudolenta, non è affatto uscito di scena, ma teleguida il genero. Così emerge dalle conversazioni. Gli indagati non sanno che gli uffici sono imbottiti di microspie, piazzate dalla guardia di finanza. Verdini jr cita alcuni possibili sottosegretari alle infrastrutture: «Poi c’abbiamo a Lucchini, Rixi, Morelli, Freni e Siri», tutti della Lega, specificando che ha chiesto «tutte le infrastrutture». Pileri chiede: «Sono ministro Lega e due…sottosegretari Lega?», Verdini risponde: «Non ho detto glielo danno, ho detto che lui li ha chiesti».
Di certo questi dialoghi dimostrano una profonda conoscenze delle trattative in corso all’epoca per la formazione dell’esecutivo. Lo schema si realizza visto che Salvini diventa ministro alle Infrastrutture, Rixi vice e Freni, invece, si conferma al ministero dell’Economia.
UN “UFFICIO POLITICO” A CASA VERDINI
Non ci sono solamente le carte giudiziarie a raccontare il “sistema Verdini”. Con un’inchiesta giornalistica Domani ha svelato l’esistenza di un “ufficio politico” di Salvini a casa Verdini. Un’abitazione in via Barberini utilizzata da Tommaso Verdini e dal gruppo sotto inchiesta per riunioni e accordi, che era frequentata anche dal ministro delle Infrastrutture e leader della Lega.
«Una casa di transizione per Salvini e Francesca Verdini», scriveva il settimanale Chi nel 2020. Il sottosegretario Freni, che frequentava l’abitazione, lo ha definito solamente «un appartamento utilizzato dalla Lega per riunioni politiche».
LE “CENE GOLIARDICHE” IN UMBRIA
Un’altra inchiesta giornalistica di Domani ha raccontato invece i legami dei Verdini in Umbria. Nell’ex roccaforte rossa, attraverso il ternano Fabio Pileri, i Verdini si procacciavano affari. E così ci sono stati una serie di incontri a cui hanno partecipato la governatrice, l’ex ad di Anas Massimo Simonini, il re dei cementifici umbri Carlo Colaiacovo e il presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Terni Luigi Carlini. Loro a rotazione, presenze fisse, invece, erano Tommaso Verdini e Pileri.
Il più delle volte erano presenti anche altri imprenditori locali dei lavori pubblici. Gli incontri si svolgevano ad Arrone, cittadina poco distante da Terni, nella taverna di Fausto Bartolini, storico esponente del centrosinistra umbro in ottimi rapporti con Tesei. Qualcuno che ha frequentato quegli incontri le ha definite cene di potere per agevolare i rapporti tra la politica umbra di centrodestra, l’imprenditoria e Anas. Non è dato sapere quanto fossero incontri conviviali fini a sé stessi o quanto riunioni con scopi precisi
FRANCESCA VERDINI
Oltre agli incontri nella tavernetta in provincia di Terni, i Verdini in Umbria hanno fatto buoni affari. Come quello di Francesca Verdini con la Fondazione Cassa di Risparmio di Terni. La figlia di Denis e compagna di Salvini ha ottenuto un assegno di 85.400 per la sua società La Casa Rossa, per «la realizzazione di un documentario dal titolo provvisorio “Terni e i suoi tesori” da collocare su Sky come promozione turistica e culturale del territorio», si legge nel bilancio della fondazione.
L’assegnazione dei fondi è avvenuta nel 2021 con quattro delibere del 30 settembre, 13 ottobre, 25 novembre e 30 dicembre. «Ci hanno fatto una proposta. È stato un bel filmato mandato su Sky Arte e Sky Tg24 per la promozione del nostro territorio», ci ha spiegato il presidente Carlini.
(da editorialedomani.it)

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SPARO DI CAPODANNO, LA VERSIONE DEL CAPOSCORTA: “LA PISTOLA L’HA SEMPRE AVUTA POZZOLO”

Febbraio 19th, 2024 Riccardo Fucile

LA SPIEGAZIONE SULLA PRESENZA DEL DNA SULL’ARMA

L’arma da cui è partito il colpo che la notte di Capodanno, a Rosazza, nel biellese, ha ferito Luca Campana, 31enne, genero del capo scorta del sottosegretario Andrea Delmastro, «è sempre stata in mano ad Emanuele Pozzolo». A dirlo agli inquirenti è stato l’ispettore della polizia Pablito Morello, come raccontato dal quotidiano La Stampa. Nelle sue parole, contenute negli atti dell’indagine, c’è la ricostruzione della scena dopo lo sparo. Il caposcorta era «l’unico a fianco a lui (Pozzolo) dal lato sinistro, in piedi al di sopra del tavolo». Subito dopo lo sparo «Pozzolo, spaventato e sorpreso ha come lasciato cadere la pistola sul tavolo».
A quel punto, e soltanto in quel momento, Morello ha preso l’arma: «Istintivamente l’ho presa in mano per evitare che urtasse il tavolo. Essendo ancora calda e fumante ho percepito il calore sulla mano e l’ho appoggiata sul piano del tavolo». La testimonianza di Morello serve anche a spiegare perché sull’arma c’era il Dna di suo figlio Maverick: «Me l’ha consegnata dicendomi di ritirarla per sicurezza. L’ho presa e non sapendo dove custodirla l’ho poggiata in una mensola in alto». Il test dello Stub effettuato su Pozzolo conferma la dinamica. Il Ris di Parma ha precisato come i rilievi fossero «uniformemente distribuiti sul soggetto e i suoi indumenti» e questo «avvalori l’ipotesi di una esposizione diretta». Ora manca solo la perizia balistica dell’esperta Raffaella Sorropago per chiudere l’inchiesta.
(da agenzie)

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GIUSEPPE CONTE (M5S): “UN PATTO CON IL PD PER MANDARE A CASA GIORGIA MELONI”

Febbraio 19th, 2024 Riccardo Fucile

FORSE E’ RIUSCITO A CAPIRE CHE L’OPPOSIZIONE UNITA E’ MAGGIORANZA NEL PAESE

«A me interessa mandare a casa Giorgia Meloni. E la Sardegna può essere un primo passo». A dirlo, in un’intervista a Repubblica, il leader del Movimento Cinque Stelle Giuseppe Conte.
Il leader del M5s dice che non gli piace «parlare di laboratorio, perché penso sia irrispettoso verso gli elettori sardi, però è chiaro che qui con il Pd abbiamo messo in campo una proposta forte, incarnata da una candidata credibile, competente e onesta. Dobbiamo farlo anche a livello nazionale, io chiedo solo che ci sia un progetto serio e autentico e non un cartello elettorale dettato dalla necessità e dall’ansia di potere degli apparati».
Secondo Conte con i Dem «bisogna sedersi a un tavolo e affrontare le questioni per arrivare a una sintesi, là dove partiamo da posizioni più distanti». Quanto alla morte di Navalny, il presidente M5s dice: «Ho parlato con chiarezza non ora, ma già dopo l’avvelenamento. Se fossi un consigliere di Putin gli suggerirei di lasciar lavorare una commissione internazionale per indagare cosa è accaduto, ma è ovvio che non lo farà».
(da agenzie)

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LE MOSSE DI FRANCESCO ROCCA SONO FINALIZZATE ALL’OBIETTIVO PER CUI È STATO ELETTO: CONSEGNARE LA SANITÀ LAZIALE AGLI ANGELUCCI

Febbraio 19th, 2024 Riccardo Fucile

IL PRESIDENTE DELLA REGIONE LAZIO HA DESTINATO 10,2 MILIONI DI EURO SU UN TOTALE DI 23 ALLE STRUTTURE DEGLI EDITORI PER ACQUISTARE ALTRI POSTI LETTO … ROCCA ERA, FINO AL 2022, NEL CDA DELLA FONDAZIONE SAN RAFFAELE, E ALLA PRESIDENZA DI CONFAPI SANITÀ PROPRIO INSIEME A GIAMPAOLO ANGELUCCI

Presidente e assessore alla sanità. Un uomo solo al comando. Il suo nome è Francesco Rocca, il governatore che si è dato pieni poteri in un settore che nel Lazio drena il 70% del bilancio regionale, 12 miliardi su 18.
Condividendo le scelte solo con il suo cerchio magico e assicurando che non farà sconti ai privati, nonostante abbia lavorato per anni proprio nella sanità privata e sia stato a lungo al vertice della Croce Rossa, realtà a cui da presidente ha subito destinato ingenti fondi. E gli stessi partiti di destra? Devono accontentarsi delle briciole
Rocca, cresciuto negli ambienti del Fronte della gioventù e dopo aver incassato una condanna per narcotraffico quando aveva appena 19 anni, si è laureato in giurisprudenza, durante la legislatura regionale dell’amico Francesco Storace ha iniziato la sua carriera da manager della sanità ed è poi approdato in Croce Rossa, assumendone la guida prima a livello nazionale e poi internazionale, mollando l’ultimo incarico soltanto nel dicembre scorso.
Il governatore, 58 anni, già durante la campagna elettorale ha battuto molto sulla salute, giurando che avrebbe azzerato le liste d’attesa ed eliminato le lunghe code nei pronto soccorso. Promesse che è ancora lontano dal riuscire a mantenere. Ha mantenuto invece la delega alla sanità e ha fatto spallucce davanti a chi gli ricordava che fino a pochi mesi prima della candidatura decisa dalla Meloni, oltre che nella Cri, lavorava all’interno della sanità privata, in particolare nella Fondazione San Raffaele del deputato leghista Antonio Angelucci, e presiedeva la Confapi, il sindacato della sanità privata. Chi ambiva a quell’assessorato, come il presidente del consiglio regionale Antonello Aurigemma, di FdI, si è dovuto arrendere
Quando si parla di sanità Rocca si confronta solo con i suoi più stretti collaboratori: Andrea Urbani, commercialista messo al vertice della Direzione salute, Alessandro Ridolfi, scelto come direttore generale della Regione, e Giuseppe Pisano, capo di gabinetto. Tre uomini che negli anni hanno stretto un legame fortissimo con il governatore. Ridolfi è stato segretario di Rocca nella Confapi Sanità, dove sedeva anche Giampaolo Angelucci, figlio di Antonio.
Gli stessi che a Capodanno si sono ritrovati insieme a Cortina, dove hanno festeggiato il nuovo anno nella villa del senatore azzurro Claudio Lotito, che ha poi incassato da Rocca 300mila euro per far sponsorizzare la sua Lazio dalla Regione. Anche Ridolfi è stato uno stretto collaboratore di Storace, grazie a Rocca ottenne la guida della Sise, una società della Croce Rossa siciliana, e al pari dell’amico presidente ha lavorato per gli Angelucci, essendo stato membro del collegio sindacale sia della San Raffaele che della finanziaria Tosinvest, senza contare che al momento della nomina risultava titolare del 90% delle quote della Morgan Ingest, società impegnata nella gestione della sanità, parte del Gruppo Garofalo.
Urbani invece, in passato collaboratore di Renata Polverini e Beatrice Lorenzin, ha collezionato anche qualche grana giudiziaria, finendo indagato nell’inchiesta della Procura di Bergamo sulla gestione dell’emergenza Covid e nelle indagini a Catanzaro sugli emolumenti aggiuntivi riconosciuti al personale sanitario.
Pisano infine fa parte degli uomini scelti dal presidente all’interno della Croce Rossa, che i detrattori chiamano Croce Rocca, dove era e, stando alla dichiarazione da lui presentata, è ancora presidente del collegio sindacale, senza contare che al momento della nomina sedeva su 36 poltrone e aveva partecipazioni in 3 società. Oltre al cerchio magico ad avere un certo peso – seppur limitato – anche sulla sanità è infine la sorella della premier, Arianna Meloni.
Un potere quello di Rocca e dei fedelissimi destinato ad aumentare essendo in scadenza le nomine di diverse aziende sanitarie. Finora il governatore si è dovuto fermare a qualche commissariamento, ma a breve potrà scegliere manager di sua fiducia a cui dare incarichi duraturi e non si dovrà più confrontare con quelli scelti dal suo predecessore di centrosinistra Nicola Zingaretti.
Dovrà presto nominare un nuovo direttore generale nella grande Asl Roma 2, attualmente guidata da Giorgio Casati, azienda dove è direttore sanitario Giuseppe Gambale, esponente della sinistra, ex deputato ed ex sottosegretario del Governo D’Alema.
Sarà poi la volta della Asl Roma 5, una poltrona delicatissima dopo l’incendio la notte dell’Immacolata dell’ospedale di Tivoli, costato la vita a tre pazienti, e dove a semplificare la vita al centrodestra c’è stata la scelta del direttore Giorgio Giulio Santonocito di accettare un incarico a Messina. E di Tor Vergata, attualmente diretta da Giuseppe Quintavalle, scelto sempre da Zingaretti ma da sempre vicino alla destra e a uomini come l’ex missino Domenico Gramazio, tanto che Rocca lo ha voluto anche come commissario dell’Asl Roma 1. Direttore che ultimamente ha perso quota, sembra per aver ambito al posto che è di Urbani.
Rocca e il cerchio magico hanno problemi però anche a trovare validi manager di area. Tanto che all’Umberto I hanno confermato Fabrizio d’Alba. Occorrerà vedere quale sarà il destino del manager del San Camillo, Narciso Mostarda, in passato anche assessore a Frosinone in una giunta di centrosinistra, e di Tiziana Frittelli, che lascerà il San Giovanni, dove potrebbe andare Maria Paola Corradi, attualmente al timone dell’Ares 118, apprezzata anche a destra e legatissima all’assessore al bilancio Giancarlo Righini, anche se la stessa c’è chi la vuole al Ptv.
Allo Spallanzani il governatore ha scelto Angelo Aliquò, considerato sia a destra che a sinistra un ottimo tecnico, mentre resta da vedere cosa accadrà al Sant’Andrea, attualmente retto da Daniela Donetti, e all’Ifo, dove è facente funzioni Laura Figorelli.
A godere intanto come sempre sono i privati, che assorbono quasi la metà del bilancio sanitario regionale, e Angelucci più degli altri, a cui appena insediato Rocca ha destinato 10,2 milioni di euro su un totale di 23 per acquistare altri posti letto. E quando ha investito, dopo l’incendio dell’ospedale di Tivoli altri 10,3 milioni sui posti letto, 826mila euro sono andati al San Raffaele di Montecompatri. Il governatore però non ha dimenticato neppure l’organizzazione che gli ha dato enorme potere in Italia e nel mondo: la Croce Rossa ha appena ricevuto otto milioni di euro. Il motivo? Garantire l’accoglienza dei pazienti nei pronto soccorso.
(da agenzie)

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SLITTANO GLI ACQUISTI PER LA DIAGNOSTICA, DAI TAGLI DEL GOVERNO ALTRA BEFFA ALLA SANITA’ PUBBLICA

Febbraio 19th, 2024 Riccardo Fucile

TAC, RISONANZE MAGNETICHE, RADIOGRAFIE: LA SOSTITUZIONE DEGLI APPARECCHI NEGLI OSPEDALI SLITTA DA DICEMBFRE 2024 A GIUGNO 2026: L’ENNESIMO FAVORE AI PRIVATI

Con la rimodulazione del Pnrr, l’acquisto di oltre 3.100 apparecchiature moderne come Tac, risonanze magnetiche, radiografie che andranno a sostituire quelle datate attualmente utilizzate negli ospedali italiani, slitta da dicembre 2024 a giugno 2026.
Per il sottosegretario alla Salute, Marcello Gemmato, “il differimento della scadenza massima prudenziale del Target M6C2-6” che riguarda la sostituzione delle apparecchiature ospedaliere “è reso necessario per rispondere ad alcune esigenze sollevate dalle Regioni/Province autonome. Il cronoprogramma del sub-investimento in questione, infatti, era stato costruito, in fase di prima programmazione, sulla base delle sole tempistiche dettate dall’adesione a convenzioni Consip per l’affidamento delle apparecchiature, senza tener conto dei lavori, in taluni casi necessari, per l’installazione delle grandi apparecchiature oggetto dell’obiettivo europeo”, ha spiegato Gemmato in commissione Affari sociali alla Camera rispondendo all’interrogazione presentata da Simona Bonafè (Pd) sul tema
Quasi l’intero fabbisogno (3.133 su 3162) per la sostituzione dei macchinari ospedalieri indicato dalle Regioni avrebbe dovuto essere sostituito per metà settembre 2023 e per il resto entro la fine di quest’anno. Non è un problema da poco.
All’ultimo rapporto del ministero della Salute (nel lontano 2017) risulta che in Italia in media negli ospedali pubblici e privati convenzionati il 36% dei macchinari ha più di 5 anni e il 32% oltre 10.
Le ragioni sono note: attrezzature obsolete espongono il paziente a più radiazioni e a diagnosi meno precise. L’obsolescenza incide anche sui tempi di indisponibilità delle apparecchiature per l’aumento dell’incidenza dei guasti e malfunzionamenti con tac, risonanze e mammografi: ambulatori che si fermano e costi di manutenzione che crescono.
Il ministero della Salute aveva chiesto alle Regioni quanti e quali macchinari con oltre 5 anni d’età hanno bisogno di sostituire negli ospedali pubblici. La risposta sono complessivamente 3.162 fra tac, risonanze magnetiche, angiografi, macchinari per scintigrafie, radiografie, ecografie e mammografi.
L’Associazione italiana degli ingegneri clinici interpellata da Milena Gabanelli per Dataroom ha spiegato che non esiste un riferimento univoco su quella che dovrebbe essere l’età di riferimento dei macchinari e che, per ciascuna tipologia, occorre fare valutazioni specifiche ma di certo la differenza di radiazioni fra una Tac con meno di 10 anni di vita e una di ultima generazione arriva fino all’80%, una risonanza magnetica all’avanguardia dà una migliore qualità di immagini in tempi inferiori e un maggiore comfort, un mammografo con meno di 5 anni permette di effettuare biopsie in 3D più precise perché l’immagine viene ottenuta con la tomosintesi e i nuovi acceleratori lineari per la radioterapia irradiano la parte malata con più precisione salvando i tessuti sani.
Tutto rimandato Rimangono alcune certezze: il mancato acquisto dei macchinari intaserà per altri due anni le liste d’attesa già ingolfate, aumenterà sensibilmente i costi per manutenzioni e riparazioni e soprattutto aumenterà il divario tra i servizi offerti dalle cliniche private rispetto a quelle pubbliche.
(da agenzie)

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