Destra di Popolo.net

IL SEMIOLOGO STEFANO BARTEZZAGHI: “ROMANESCO, FACCETTE E SCHIETTEZZA, COSI’ MELONI INTERPRETA IL RUOLO DELLA DONNA DEL POPOLO”

Aprile 30th, 2024 Riccardo Fucile

“L’USO TEATRALE DEL CORPO HA SOSTITUITO I MODI DA IMBONITORE DI BERLUSCONI, MA AL LINGUAGGIO NON SEMPRE SEGUONO PROVVEDIMENTI ADEGUATI”

«Sono una donna del popolo», dice Giorgia Meloni. Con l’accento romano, la gestualità, la mimica che da sempre contraddistinguono la sua politica. Chi la conosce da prima che diventasse premier le ha visto fare ottime imitazioni di colleghi parlamentari. Chi ne ha seguito l’ascesa racconta di una innata “simpatia”. Il “linguaggio” di Meloni, l’uso della voce, quello del corpo, sono quindi una delle chiavi per comprendere il suo esercizio del comando. Stefano Bartezzaghi, scrittore, professore di semiotica della creatività all’università Iulm di Milano, la decodifica così: «Tutto in lei comunica schiettezza».
La posa da «donna del popolo», l’accento, l’uso di parole semplici, sono un modo per avvicinare il maggior numero possibile di elettori?
«Degli elettori non so dire. Non è mai facile comprendere quanto una comunicazione riuscita si tramuti poi in successo politico. Certo il linguaggio di Meloni è molto connaturato al suo personaggio e dice schiettezza. Come ci fosse una presa diretta tra il sé e la sua immagine. E questo in tempi così disintermediati aiuta molto».
Le dà un vantaggio sugli avversari?
«Di certo risulta più efficace del linguaggio attento di Elly Schlein, che proprio perché attento appare paludato. Non è paragonabile ai segretari di un tempo, ma non è diretto come quello della leader di Fratelli d’Italia».
Che linguaggio è quello di Meloni?
«È fatto innanzi tutto della “calata” romana. Al di là di quello che dice, potrebbe leggere anche la Costituzione italiana, il romanesco è il suo tratto distintivo».
E non è un limite?
«No, perché il romanesco è diventato lo stile locutorio dominante in Italia. Tutte le prese in giro dei milanesi che non distinguono tra “sticazzi” e “mecojoni” discendono da questo: è la lingua di Zerocalcare, la lingua franca che tutti devono essere in grado di capire».
Ci sono anche precise scelte lessicali.
«Le parole nazione, patriota, ma direi che questo viene dopo. Prima ancora ci sono il tono e la mimica, le faccette, gli occhi».
Per comunicare cosa?
«L’uso teatrale del corpo e della voce di Meloni è inclusivo. Non nel senso femminista o di genere, ma nel senso che si dà l’obiettivo di includere, di coinvolgere più persone possibili».
È capace di allargare più di quanto non sappia fare la sinistra?
«A sinistra il famoso “ma anche” di Walter Veltroni voleva essere questo. All’epoca della fondazione del Pd portò polemiche, ma era un intento sano. Solo che lì devi esplicitarlo, assume una forma verbale. In questo caso sono solo ammiccamenti».
Quali ammiccamenti?
«Quando la premier dice: sì vabbé diciamolo, siamo contro tutti i totalitarismi. Ma col tono di dover adempiere a qualcosa che le viene richiesto. Per non farselo chiedere più. E mentre lo dice, fa capire che le cose non stanno esattamente così».
Sembra un paradosso: un’ambiguità che passa attraverso un linguaggio schietto.
«Il rifiuto di pronunciare la parola antifascismo è come la fiamma nel simbolo: qualcosa su cui resiste e riesce a essere al tempo stesso istituzionale e movimentista. Si può fare solo da destra».
Perché a sinistra no?
«Sarebbe come avere un segretario del Pd che fa discorsi cercando di coinvolgere i fan delle Brigate Rosse o dell’anarchico Alfredo Cospito. Impossibile. Perché a sinistra sono capaci di essere d’accordo su tutto e litigare sullo 0,1 per cento su cui non sono d’accordo. A destra, tutto si copre»
Con un linguaggio tanto diretto quanto omissivo?
«In questo momento è il dispositivo che ha sostituito i modi da imbonitore e latin lover del grande federatore precedente».
La schiettezza di Meloni sostituisce la seduzione di Berlusconi?
«Viene da lì. Come la modalità truce del modello Papeete di Salvini, che invece si è consumata velocemente».
Anche l’oratoria di Meloni però è quella di un capo: accentra tutto su di sé, chiede di scrivere solo il suo nome sulla scheda, non dirà di essere un capitano, ma usa parole guerresche definendosi un soldato.
«C’è una contraddizione che finora ha retto benissimo. La domenica a Pescara dice: chiamatemi Giorgia e crea un brand elettorale di tipo familiare, confidenziale; il lunedì a Roma lavora a riforme istituzionali che esautorano il Parlamento e tolgono al presidente della Repubblica il suo potere di arbitro. Queste sono le cose che inquietano perché erodono la lingua comune della democrazia».
In questo vede predecessori?
«Ha cominciato sempre Berlusconi importando in politica le tecniche della competizione e della concorrenza, non sempre leali, del commercio. Fa parte di questo schema il rifiuto di riconoscere gli avversari, che definiva tutti “comunisti”. L’appropriazione di valori comuni come la libertà, la stessa nazione (Forza Italia), che così diventavano di parte».
Dopo di lui?
«Salvini ha tentato di fare la stessa cosa con l’arroganza, che però a un certo punto è diventata troppo manifesta. Meloni è più attenta e al tempo stesso più simpatica. Ha l’aria di quella che non la mette giù dura, pur mettendola giù durissima».
Lo descrive come un incantesimo. Ha una durata
“Il limite di queste operazioni è che a un certo punto si vedono».
Tutto il discorso di Meloni è giocato contro un “loro” che sono a turno la sinistra, le istituzioni europee, i poteri forti, la farina di grillo. Come può essere un messaggio tanto credibile quando si è al potere?
«Lo è finché non si intravede che il “loro” non c’è più e che l’ambizione è quella di inglobare tutto. A quel punto dovrebbero venir fuori gli anticorpi. Alla fine neanche Berlusconi è riuscito a realizzare il suo disegno egemonico. Ha avuto successo in tutto tranne che in quello. Si tratta di vedere se il tempo logorerà questo tipo di messaggio».
L’underdog? Lo svantaggiato solo contro il mondo cattivo che difendendo se stesso difende il popolo?
«Quello. Io sono sempre stato convinto di una legge generale della tarda modernità, e cioè che le stesse doti che sono necessarie per vincere le elezioni sono quelle che escludono che tu possa governare bene».
Così però la democrazia è un comma 22.
«In questo si vede giù un’estrema difficoltà della premier. A una comunicazione azzeccata spesso non seguono provvedimenti adeguati. Nel frattempo, la sinistra è persa dentro incomprensibili liturgie interne».
Come se ne esce?
«Comincio a sospettare che siano difficoltà strutturali del discorso di sinistra, dov’è difficile immaginare qualcuno capace di parlare a tutti. C’era riuscito Prodi, ma veniva da fuori, era un professore. Le figure come la sua adesso si sono ritirate anche anagraficamente e chi resta ha una cultura istituzionale un po’ diversa, un po’ carente».
Tornando a Meloni, ci sono errori nella sua comunicazione?
«La sua è una modalità da campaigner. Ammicchi e mossette servono nel momento in cui hai bisogno di una posa istituzionale, ma devi anche tranquillizzare i simpatizzanti di Forza Nuova dicendo col corpo: voi sapete chi è la vera Giorgia. Solo che se devi rappresentare tutti gli italiani, devi essere capace di rivestire una doppia identità. Ricorda il discorso di Onna?».
Il più istituzionale di Silvio Berlusconi.
«È stato il momento in cui è riuscito a incarnare l’istituzione al di là di tutto quel che era stato fino ad allora. Non c’è ancora stata un’Onna di Meloni. Dovrebbe riuscire a essere schietta anche nel suo profilo istituzionale, ma è lì che le scappa la faccetta».
(da lastampa.it)

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L’INSOFFERENZA PER LE REGOLE

Aprile 30th, 2024 Riccardo Fucile

LA DERIVA ILLIBERALE DELLA DEMOCRAZIA ITALIANA

Certo, gli episodi di censura (da ultimo Scurati). E le querele per Saviano e Canfora. E l’occupazione militare della Rai. E la pappatoia sulle partecipate pubbliche. E i boiardi di Stato in riga su un palco con la t-shirt del partito di governo. E il direttore di un giornale d’opposizione (Fittipaldi) convocato in Antimafia. E i nuovi reati contro l’ordine pubblico (dai rave al blocco stradale). E la galera per i cronisti che diffamano. E le manganellate agli studenti. E le parole non dette sul fascismo. E una morsa che stringe al collo i dissenzienti, i disobbedienti, i dissidenti.
C’è tutto questo, certo, nel clima plumbeo che s’addensa alle nostre latitudini. E contro quest’andazzo si levano le voci di protesta.
Ma la deriva illiberale della democrazia italiana si consuma al tempo stesso mediante una catena d’episodi per lo più ignorati dall’opinione pubblica. Giacché hanno a che fare con le regole, con le procedure — altrettanti oggetti misteriosi, per chi non abbia un paio di lauree in giurisprudenza nelle tasche. Eppure la sostanza della democrazia viene innervata dalla sua forma specifica. La democrazia, diceva Kelsen, non è che una modalità procedurale. Se non la rispetti, potrai anche dichiararti antifascista, ma in realtà ti riveli antidemocratico. Ed è antidemocratica un’azione di governo trasmessa attraverso la continua violazione o distorsione delle regole vigenti.
L’ultimo misfatto è tra i più gravi. Succede nella commissione Affari costituzionali della Camera, dove si sta cucinando la legge sull’autonomia differenziata.
Il 24 aprile la maggioranza va sotto su un emendamento firmato dai 5 Stelle; due giorni dopo la votazione viene ripetuta, la maggioranza serra i ranghi, l’emendamento già approvato ora è bocciato. Come se l’arbitro ti facesse ripetere un calcio di rigore perché la palla è andata fuori. Ma non si può: lo vieta l’istituto della preclusione. Disciplinato dai regolamenti parlamentari, ma in ultimo dettato dal buon senso. Altrimenti ogni legge diverrebbe una tela di Penelope, fatta e disfatta finché l’eroe non torni vincitore.
Non è l’unico caso. Sempre in aprile — il mese più crudele, diceva Thomas Eliot — il Consiglio dei ministri ha licenziato il Def. Significa «Documento di economia e finanza», e contiene le previsioni economiche nonché il piano d’azione del governo per l’anno in corso e per il triennio successivo. Per la prima volta, però, manca il quadro programmatico, ossia i numeri utili a valutare l’impatto delle misure fin qui varate dall’esecutivo. Non sanno calcolarlo? Non vogliono farcelo sapere? Di certo si sono messi sotto i tacchi una legge (n. 39 del 2011) che viceversa imporrebbe questo adempimento. D’altronde sull’economia non si va mai per il sottile. Nell’ottobre scorso la maggioranza ha rispedito in commissione (per affossarla) la proposta di legge sul salario minimo, mentre ormai ne stava discutendo l’aula di Montecitorio; invertendo così la procedura regolare. Negli stessi giorni un vertice di maggioranza si era concluso con un diktat per i parlamentari: nessun emendamento alla legge di bilancio. Giacché il Parlamento può parlare, lo dice pure la parola. Tuttavia a decidere è il governo, con buona pace delle regole costituzionali.
E il governo sceglie, nomina, promuove. Lasciando all’opposizione soltanto qualche briciola, benché le prassi osservate nel passato fossero ben più generose. 7 posti su 10 al Csm. 9 su 12 nei Consigli di presidenza delle magistrature speciali, dopo uno stallo durato vari mesi (tanto che alla fine il Pd non ha partecipato al voto). E il progetto di un en plein a dicembre, quando il Parlamento dovrà eleggere quattro nuovi membri alla Consulta. Anche se in realtà un giudice costituzionale (Silvana Sciarra) ha già lasciato libero il suo posto l’anno scorso. E anche se una legge costituzionale (n. 2 del 1967) prescrive che ogni giudice venga rimpiazzato «entro un mese dalla vacanza».
Le regole del gioco subiscono perciò un’azione corrosiva — lenta, inesorabile, letale. Che avviene sottotraccia, ma scava nel profondo. Non deriva tuttavia da un’esplicita avversione verso le procedure democratiche, dal desiderio di cambiarle. No, il sentimento da cui muove è l’indifferenza, anzi: la strafottenza.
(da repubblica.it)

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LA VILLA DEL FIGLIO DI DANIELA SANTANCHE’ E’ A RISCHIO DEMOLIZIONE: “SENZA SANATORIE PARTIRA’ L’ORDINANZA”

Aprile 30th, 2024 Riccardo Fucile

PRESCRITTA L’ACCUSA DI ABUSI EDILIZI, MA IL COMUNE POTREBBE PRENDERE UNA DECISIONE A BREVE

La villa di 270 metri quadri di Lorenzo Mazzaro, figlio di Canio e Daniela Santanchè, è a rischio demolizione. La casa che si trova immersa nel parco della Versiliana in provincia di Lucca è stata oggetto di richieste di sanatorie per abusi edilizi. Che però non sono andate a buon fine. Anche se un fascicolo aperto nel 2015 ed estinto nel 2020 ha portato Lorenzo sul banco degli imputati per poco tempo, fino all’intervento della prescrizione. Ma la dichiarazione di estinzione del reato non ha portato a successivi ordini di ripristino. Che spettano al comune di Pietrasanta. La pratica all’Ufficio Lavori Pubblici del comune risulta “in corso” dal 2014. Ma la “casina rossa” dovrebbe essere insanabile.
Abuso paesaggistico
Per questo, spiega oggi Il Fatto Quotidiano, ora è a rischio demolizione. Il 28 agosto 2014 i vigili si presentano nella villa per accertare la presenza del proprietario. Non lo trovano per due volte. Ma notano i manufatti e mandano una segnalazione alla procura di Lucca. Che nel 2015 apre un fascicolo con l’ipotesi di reato di abuso paesaggistico. La pubblica ministera Lucia Rugani chiede il rinvio a giudizio nel 2017. Il giudice onorario Lucrezia Fantecchi nota che i reati sono prescritti perché sono passati cinque anni. Nell’ottobre 2020 arriva la prescrizione. E nessuno ordina la demolizione delle opere abusive. Mazzaro risulta residente in via Apua 302. L’ufficio sta riesumando la pratica. La dirigente Valentina Maggi conferma di averla ritrovata in archivio dove giaceva da 10 anni. Conferma al quotidiano di non aver trovato esiti di sanatoria approvati. E conclude: «Se anche dalla paesaggistica di Forte dei Marmi non emerge un’autorizzazione, prescrizione o meno dei reati, partirà l’ordinanza di demolizione».
(da Open)

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GIORGIA E THOMAS MANN

Aprile 30th, 2024 Riccardo Fucile

“BASTA CHIAMARE LA FOLLA “POPOLO” PER INDURLA A MALVAGITA’ REAZIONARIE”

Stavo cercando il modo meno retorico (dunque meno vago) per spiegare la profonda ostilità che mi ha suscitato il discorso — ennesimo — della presidente del Consiglio Meloni, in arte Giorgia, a proposito del suo essere «una del popolo». In contrasto, bene inteso, con la masnada di fighetti e debosciati che le si oppone, i famosi radical chic (numericamente, stando ai votanti, circa la metà degli italiani: che dunque, a milioni, sarebbero esclusi, anzi autoesclusi, dal concetto stesso di popolo).
Ci stavo pensando, dicevo, quando mi arriva una preziosa mail della lettrice Olga (ometto il cognome per tutelarla da eventuali rappresaglie social), con questa citazione di Thomas Mann, da Doctor Faustus: “Per chi è di idee progressiste la parola e il concetto di ‘popolo’ conservano un che di arcaicamente apprensivo. Egli sa che basta apostrofare la folla chiamandola ‘popolo’ per indurla a malvagità reazionarie… Lo strato arcaico c’è in ognuno di noi, e non credo sia la religione il mezzo più adeguato per tenerlo sotto chiave. A tale scopo servono la letteratura, la scienza umanistica, l’ideale dell’uomo libero e bello”.
Quel libro è stato scritto negli ultimi due anni della Seconda Guerra, e pubblicato nel ’47. In quanto intellettuale e in quanto antinazista (esule negli Stati Uniti), Thomas Mann è ampiamente sospettabile di essere stato un radical chic ante litteram. Ma l’idea che solo letteratura e scienza umanistica possano salvare gli umani dal loro “strato arcaico” lo qualifica, più precisamente e con il senno di poi, come un rivoluzionario. E la sedicente Giorgia, ma già lo si sapeva, come una reazionaria, che dello “strato arcaico” ha fatto il suo motore politico. Chi vincerà? Golia, ovvero il populismo, o Davide, ovvero la democrazia?
(da repubblica.it)

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L’ALTRA AUTO RUBATA AD ANDREA GIAMBRUNO E I SOSPETTI SUGLI 007: “UNA STORIA BRUTTISSIMA”

Aprile 30th, 2024 Riccardo Fucile

COSA NON TORNA NELLA VERSIONE DEI GIORNALI… IL RICONOSCIMENTO SBAGLIATO E IL CAMBIO DI VERSIONE DELLA POLIZIOTTA

Il giornalista Andrea Giambruno deve essere davvero sfortunato con le auto. La storia del tentativo di furto della sua Porsche parcheggiata sotto casa di Giorgia Meloni al Torrino a quanto pare va verso l’archiviazione. Anche se non è stato ancora identificato il secondo uomo che si aggirava vicino alla vettura nella notte tra il 30 novembre e il primo dicembre, mentre la premier era in volo per partecipare a Cop28.
E rimane l’incredibile mistero della prima identificazione da parte dell’agente che ha visto i due uomini: prima aveva riconosciuto due uomini della scorta della premier. Poi ha cambiato versione.
Intanto però a Giambruno di auto ne hanno rubata un’altra. Una 500 usata in passato anche da Meloni. Mentre emerge che i due agenti accusati quel giorno non ricoprivano più quell’incarico.
Cosa non torna
La notte del 30 novembre, ricostruisce oggi il Corriere della Sera, viene avvicinata da due persone con fare circospetto. Si trova in zona Eur Torrino, periferia sud di Roma.
Alcuni agenti che sono lì fermi con le auto vicino alla casa per questioni di sorveglianza li notano. Ed è curioso che invece le due persone, se davvero volevano rubare la vettura, non si siano invece accorti della presenza di poliziotti, anche se in borghese, appostati lì vicino.
Poi succedono altre cose ancora più curiose. La prima è quando gli agenti intervengono i due mostrino un tesserino e si allontanano. Una poliziotta però prende il numero di targa e il giorno dopo racconta l’episodio nel verbale di fine servizio. A quel punto scatta l’allarme: la Digos informa il capo della polizia Vittorio Pisani che fa sapere tutto al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi.
Il riconoscimento sbagliato
Anche il sottosegretario ai servizi Alfredo Mantovano e i vertici dell’Aisi vengono informati. E naturalmente fanno sapere tutto a Meloni. La poliziotta effettua un riconoscimento fotografico. Le vengono mostrati, tra gli altri, i volti di due uomini della scorta di Meloni. Lei conferma una somiglianza.
Ma il 16 novembre quei due agenti avevano chiesto di essere trasferiti. Il 30 non ricoprivano più l’incarico. Il 15 dicembre sono stati trasferiti all’Aise (ovvero ai servizi segreti esteri) e mandati uno in Tunisia e uno in Iraq. Anche perché, hanno fatto sapere i giornali, pure la premier li aveva «puntati» lamentandosi del loro comportamento, anche se per motivi sconosciuti.
La Digos indaga sulle celle telefoniche e scopre che i telefonini dei due sospettati si trovavano in altre zone. Questo basta a scagionarli?
La poliziotta cambia versione
Ad occhio parrebbe proprio di no. In primo luogo andrebbe spiegato perché alla poliziotta che doveva effettuare il riconoscimento sono state mostrate le foto di quei due agenti. Tanto più che la polizia non poteva non sapere che all’epoca non facessero parte della scorta. In secondo luogo la prova delle celle telefoniche pare piuttosto ballerina, visto che non stiamo parlando di una baby gang ma di poliziotti che conoscono i metodi d’indagine e quindi, in teoria, sarebbero anche in grado di sapere come aggirare i riscontri “classici” come quelli delle celle telefoniche.
A questo punto le indagini virano sui ladri d’auto. La poliziotta riconosce un’altra persona, che ha precedenti specifici. Ma anche qui è strano che una professionista abituata ai riconoscimenti abbia così clamorosamente sbagliato una delle due volte. Senza voler ipotizzare quale.
L’altro furto
Infine c’è il secondo furto. Lo racconta oggi Il Foglio e riguarda una 500 che in passato sarebbe stata usata anche dalla premier. Il collegamento con il primo episodio è piuttosto labile. Anche se questo avvalora di sicuro più la seconda pista d’indagine rispetto alla prima. Anche se dentro Fratelli d’Italia invece c’è chi pensa che tutto sia collegato. E che si tratti di «una storia bruttissima».
(da Open)

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“COSI’ BERLUSCONI HA PAGATO DELL’UTRI PER COMPRARE IL SUO SILENZIO SULLE STRAGI”

Aprile 30th, 2024 Riccardo Fucile

LA PROCURA DI FIRENZE CHIUDE LE INDAGINI SULLE STRAGI DEL 1993

La Dda di Firenze accusa Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. L’ex presidente del Consiglio ha effettuato bonifici milionari per l’amico allo scopo di comprare il suo silenzio sulle stragi del 1993. L’atto di chiusura indagini, che di solito precede la richiesta di rinvio a giudizio, è stato consegnato anche alla moglie separata dell’ex Publitalia Miranda Ratti. Perché secondo i magistrati il loro divorzio sarebbe stato fittizio e sarebbe servito a impedire o rendere più difficile il sequestro dei beni. Per questo i pubblici ministeri di Firenze Luca Tescaroli e Luca Turco contestano anche il reato di intestazione fittizia di beni. Un reato legato ai 15 bonifici per un totale di 8 milioni di euro versati da Berlusconi a Ratti. Con l’obiettivo, secondo gli inquirenti, di «eludere le leggi sulle misure di prevenzione».
La chiusura indagini
Secondo i pm Dell’Utri ha agito «con l’aggravante di aver commesso i delitti di trasferimento fraudolento al fine di occultare la più grave condotta di concorso nelle stragi ascrivibile a Silvio Berlusconi e allo stesso Dell’Utri, per la quale Berlusconi è stato indagato unitamente al medesimo Dell’Utri, sino al momento del suo decesso avvenuto in epoca successiva all’ultima elargizione contestata, costituendo le erogazioni di quest’ultimo il quantum percepito da Dell’Utri per assicurare l’impunità a Silvio Berlusconi». Il senatore ha avuto incrementi patrimoniali per 42 milioni di euro in totale. 28 milioni sono arrivati tra 2012 e 2021. La procura lavora sulle somme raccolta a partire dal 2017 perché il resto è coperto da prescrizione. Ha sequestrato 10,8 milioni, parte dei quali bloccati dai conti di Marina e Pier Silvio Berlusconi. Agli atti anche le intercettazioni in cui Ratti si diceva portatrice e titolare di interessi economici nei confronti di Berlusconi.
Il filone principale
Proseguono, spiega oggi Repubblica, anche le indagini sul filone principale. Che si basa soprattutto sulle frasi dette da Giuseppe Graviano a un camorrista: «Mi ha chiesto questa cortesia. Per questo è stata l’urgenza (…). Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa». Nell’informativa gli investigatori scrivevano: «In corrispondenza dell’espressione Graviano dapprima percuote la spalla sinistra di Adinolfi con la mano destra, in posizione cosiddetta a taglio, dopo di che la chiude a pugni e la muove ritmicamente due volte orizzontalmente, per indicare con tutta probabilità un evento esplosivo, per poi appoggiare la mano a palmo aperto sul petto di Adinolfi».
(da agenzie)

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PIERO FASSINO, SONO SEI I TESTIMONI PER IL FURTO DEL PROFUMO

Aprile 30th, 2024 Riccardo Fucile

I DUE PRECEDENTI E LA FRASE: “LEI NON SA CHI SONO”

Sei testimoni per il furto del profumo di Chanel. Almeno altri due precedenti tentativi nel duty free del Terminal 1 dell’aeroporto di Fiumicino nel mese precedente. Di cui uno riuscito. E il «lei non sa chi sono» rivolto al vigilantes il 15 aprile. La storia del furto del profumo di cui è accusato il deputato del Partito Democratico Piero Fassino si complica. Soprattutto per lui. Che attraverso il suo avvocato continua a parlare di un equivoco e a difendersi sul cellulare in mano o in tasca. Proprio mentre la Polaria consegna gli incartamenti alla procura di Civitavecchia. Tra cui c’è il video che smentisce la versione dell’ex sindaco di Torino. Ma non quello di uno dei due furti precedenti che sarebbe servito a contestare la recidiva. Perché Aelia Lagardére, che lo gestisce, ha la prassi di cancellarli.
Precedenti e recidivo
Sono sei i testimoni che confermano il tentativo di furto della boccetta di Chance, del prezzo (scontato di 130 euro). Si tratta dei dipendenti e dei vigilantes del duty free. Sono guardie giurate, addetti alla control room e commesse. Ma soprattutto, i testimoni hanno raccontato i precedenti. Tutti nell’ultimo mese. Nelle scorse settimane e sempre durante l’attesa di un volo per Strasburgo Fassino ha passato il perimetro delle casse senza pagare. Gli addetti alla vigilanza lo hanno fermato e l’onorevole ha messo mano al portafogli per pagare. Pochi giorni dopo, nello stesso negozio, stessa scena. Ma stavolta a causa della presenza di molti altri clienti nel negozio, Fassino esce senza pagare. Di questo secondo episodio non esisterebbe il filmato. La vigilanza decide di lasciar correre.
«Lei non sa chi sono»
Poi c’è l’episodio del 15 aprile. In questa occasione il filmato lo riprende mentre fa scivolare la boccetta in tasca. Le mani non sembrano impegnate, nemmeno a tenere in mano un cellulare come da versione dell’ex sindaco di Torino. Quando i vigilantes intervengono, scrive il Corriere della Sera, Fassino dice: «Lei non sa chi sono». E stavolta i proprietari del negozio optano per la denuncia. L’avvocato Nicola Gianaria, che rappresenta il deputato, dice che un tentativo di furto non sarebbe così goffo. E soprattutto nessuno sarebbe così stupido da effettuarlo in favore di telecamera. Soprattutto se ci sono stati dei precedenti. Anche Il Messaggero e Il Giornale confermano la frase «Lei non sa chi sono» detta agli addetti alla sorveglianza. Le ricostruzioni divergono sui precedenti: nel primo caso sarebbe scattato l’allarme antitaccheggio ma Fassino sarebbe riuscito a dileguarsi.
Colto in fragranza
Nel secondo caso invece sarebbe stato «colto in fragranza» e si sarebbe scusato, pagando il prodotto. Fassino ha smentito questi presunti precedenti, dicendo di non ricordare nulla.
Nel filmato disponibile, quello del 15 aprile, Fassino sembra anche guardarsi intorno con fare circospetto prima di mettersi il profumo in tasca. Secondo La Verità i sei testimoni sono cinque donne e un uomo e non avrebbero invece confermato la frase detta al vigilante. I precedenti, secondo questa versione, risalirebbero a dicembre e al 27 marzo. In entrambi i casi Fassino stava andando a Strasburgo.
(da Open)

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FRANCESCA PASCALE: “I SOVRANISTI MI HANNO SEMPRE ODIATA”

Aprile 30th, 2024 Riccardo Fucile

“UNA PERSONA VICINA A BERLUSCONI E A SALVINI MI FECE PAPARAZZARE CON PAOLA TURCI”

Il matrimonio con Paola Turci, il rapporto con Berlusconi, le battute su Marta Fascina. Nella puntata di Belve in onda stasera Francesca Pascale ha svelato a Francesca Fagnani alcuni aspetti inediti del suo privato.
A cominciare dalle foto paparazzate con Paola Turci: “Fatte fare da una persona vicina a Berlusconi, di Forza Italia, vicina all’area sovranista, che mi ha sempre particolarmente odiata”.
Fagnani ha poi chiesto se si trattasse di un politico o di un fotografo, Pascale ha precisato: “Erano mandati da una persona vicinissima a Matteo Salvini che voleva regalare tutto il pacchetto di Forza Italia a Salvini. Io questa cosa la sopportavo malissimo. C’è stato un disegno ben preciso per fare di me un problema da risolvere e quindi mi ha seguito e hanno infranto le regole della morale per farmi male”. Fagnani ha poi chiesto se da quelle si fosse sentita solo violata o anche liberata: “Mi sono sentita violentata”.
Capitolo Berlusconi. Fagnani ricorda a Pascale una sua dichiarazione: “Lei ha dichiarato che chiedeva tutti i giorni a Berlusconi di sposarla”. “No, affatto – ha risposto Pascale – non ho mai sentito la voglia di sposarmi, anche perché poi magari mi sposava ed era finto (con riferimento a Fascina, ndr) e francamente, piuttosto che finto, meglio niente”.
Fagnani le ha poi ricordato di aver detto che se fosse stata invitata ci sarebbe andata fumando un joint e Pascale, ridendo, ha ammesso: “Sì, mi sarebbe piaciuto fumarmi un cannone”. Per poi aggiungere: “Berlusconi era lucido, certe sciocchezze con me non le ha mai fatte”.
Il padre
L’intervista è poi scivolata sulla vita privata di Pascale e sui rapporti familiari. Quando Fagnani le chiede se la sua sia stata “un’infanzia più felice o piu infelice”, Pascale spiega: “Felice, anche se come tutte le bambine sono stata anche io innamorata di mio padre, ma quella fiducia che una bambina ha verso il proprio papà è stata ingannata, tradita, mortificata dal suo modo violento e disamorato di trattarci”. A quel punto Fagnani insiste “lei mi parla di violenze?” e la Pascale confessa: “Ci sono stati atteggiamenti violenti, ma preferisco tenerlo per me”.
Ed infine alla domanda della giornalista “mi dica solo com’è oggi il rapporto con suo padre?”, Pascale ammette: “Non esiste”.
(da Open)

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COME SI MUORE IN IRAN: NIKA SHAKARAMI, LA 16ENNE SCOMPARSA DURANTE LE PROTESTE E RITROVATA 9 GIORNI DOPO IN UN OBITORIO, È STATA “AGGREDITA SESSUALMENTE” E UCCISA DA TRE AGENTI DELLA “POLIZIA MORALE” DI TEHERAN

Aprile 30th, 2024 Riccardo Fucile

UN DOCUMENTO “ALTAMENTE CONFIDENZIALE” OTTENUTO DALLA BBC HA SMENTITO LA VERSIONE DEL REGIME IRANIANO, CHE SOSTENEVA CHE LA RAGAZZA SI FOSSE SUICIDATA

La sedicenne iraniana Nika Shakarami, scomparsa durante una manifestazione nel settembre 2022 e ritrovata morta nove giorni dopo, è stata aggredita sessualmente e uccisa da tre uomini che lavoravano per le forze di sicurezza. Emerge da un documento “altamente confidenziale” trapelato dalle stesse forze di sicurezza di cui ha preso visione la Bbc.
Il governo aveva affermato che si era uccisa, ma per la famiglia la morte era stata provocata dagli agenti. “Nika è stata portata su un furgone della sicurezza, uno degli uomini l’ha molestata mentre era seduto su di lei. La ragazza ha reagito, è stata picchiata con i manganelli”.
Poco prima di scomparire, Nika era stata ripresa in un video la sera del 20 settembre 2022 vicino al Laleh Park, nel centro di Teheran, in piedi su un cassonetto mentre dava fuoco all’hijab. Altri intorno a lei gridavano “morte al dittatore”, riferendosi al leader supremo dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei. Nika Shakarami è diventata un simbolo delle proteste e della lotta delle donne in Iran, il suo nome viene gridato durante le manifestazioni contro le rigide regole del Paese sul velo obbligatorio. La famiglia dell’adolescente ha trovato il suo corpo in un obitorio nove giorni dopo la scomparsa.
(da agenzie)

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