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INCREDIBILE CHE UN PREMIER VADA AD ACCOGLIERE UN CONDANNATO ALL’ERGASTOLO IN AEROPORTO COME FOSSE UN EROE: “FIERA DEL LAVORO DEL GOVERNO”

Maggio 18th, 2024 Riccardo Fucile

CHICO FORTI E’ STATO CONDANNATO PER OMICIDIO NEGLI STATI UNITI, L’ITALIA HA OTTENUTO CHE POSSA SCONTARE IL RESTO DELLA PENA IN ITALIA (DOVE OTTERRA’ SUBITO LA LIBERTA’ VIGILATA)… GIUSTO FARLO TORNARE IN ITALIA, MA GLI ONORI SI RENDONO SOLO AI MARTIRI, NON AI CONDANNATI PER OMICIDIO

La notizia era trapelata già nelle scorse ore e in effetti il rientro in Italia di Chico Forti è avvenuto già oggi, sabato 18 maggio. Nei giorni scorsi il 65enne trentino era stato scarcerato da un istituto penitenziario della Florida dopo una detenzione lunga 24 anni. Il Falcon 2000 del 31esimo Stormo dell’Aeronautica italiana nelle scorse ore è partito da Miami per riportare in patria l’imprenditore condannato all’ergastolo per omicidio.
«Chico Forti è tornato in Italia. Fiera del lavoro del Governo italiano. Ci tengo a ringraziare nuovamente la diplomazia italiana e le autorità degli Stati Uniti per la loro collaborazione». Queste le parole della premier Giorgia Meloni che ha accolto il 65enne trentino, atterrato oggi a Pratica di Mare dagli USA, dove era detenuto. L’uomo, condannato per omicidio, rientra oggi dopo la lunga detenzione negli Stati Uniti.
Il 16 maggio era stato rilasciato dal carcere di Miami e la premier aveva annunciato il suo ritorno il primo marzo scorso. Nel 2020 a promettere il ritorno in Italia di Forti era stato l’allora vicepremier Luigi Di Maio. Ma poi la procedura si era interrotta. Forti dopo l’atterraggio a bordo del Falcon 2000, sarà portato in un carcere della Capitale, Rebibbia, per poi esser trasferito a Verona. La destinazione veneta deve attendere perché oggi nella struttura circondariale si è tenuta una visita di Papa Francesco. L’avvocato Carlo Delle Vedove, uno dei legali che ha seguito l’iter per il ritorno dagli Usa del 65enne trentino, dice all’agenzia di stampa Ansa che «il trasferimento in Italia di Forti è il completamento di tutte le procedure giudiziarie, intraprese davanti alle autorità degli Usa. Con Forti ci siamo sentiti l’ultima volta lunedì, era un po’ ansioso, ci sentivamo tutti i lunedì. Ringraziamo tutte le autorità italiane e americane che hanno seguito il suo caso».
Chico Forti è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Dale Pike, figlio di Anthony Pike, dal quale l’imprenditore trentino stava acquistando il Pikes Hotel, a Ibiza, avvenuto nel febbraio del 1998. La condanna è arrivata nel 2000 e Forti è stato rinchiuso nel Dade correctional institution di Florida City, vicino a Miami. Lui si è sempre dichiarato innocente.
In Italia Forti sconterà ancora l’ergastolo, ma sottoponendosi alle leggi italiane, che considerano la possibilità di ottenere benefici premiali nel caso in cui siano previsti. “Dopo 26 anni dall’applicazione dell’ergastolo, se il condannato resipiscente ha dimostrato condotta irreprensibile, può ottenere la libertà condizionale”, recita la norma, e proprio a questa potrebbe appellarsi Chico Forti una volta arrivato in Italia.
E per il legale della famiglia “Forti grazie alla libertà condizionale potrebbe uscire dunque dal carcere e cominciare il periodo di cinque anni di libertà vigilata al termine del quale, se non avrà commesso ulteriori reati, potrà ottenere la piena libertà, cioè il fine pena”.
(da agenzie)

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“TOTI VOLEVA I FINANZIAMENTI ILLECITI”: CI MANCAVA SOLO IL MISTERO DEL VERBALE

Maggio 18th, 2024 Riccardo Fucile

NELLE TRASCRIZIONI DELL’INTERROGATORIO DI ROBERTO SPINELLI, FIGLIO DEL PRESUNTO “CORRUTTORE” ALDO, SPUNTA LA PAROLA “ILLECITI”. DOPO QUALCHE ORA GLI AVVOCATI DELL’IMPRENDITORE PRECISANO: “HA DETTO LECITI”… PERCHÉ AVREBBE DOVUTO SPECIFICARE, SE PARLAVA DI PAGAMENTI REGOLARI? … LA PRESA DI DISTANZA DAL PADRE: “NON MI DICEVA PIÙ DEI FINANZIAMENTI, NON NE VOLEVO SAPERE. TOTI LO CERCAVA”

Nell’arco di una manciata di ore il destino giudiziario di Giovanni Toti sembra prima sprofondare nel baratro. Poi, improvvisamente, appare sospeso, congelato.
Le trascrizioni della registrazione dell’interrogatorio di garanzia di Roberto Spinelli davanti alla gip raccontano una risposta dell’imprenditore che più chiara non si può.
Il governatore, racconta il figlio del grande elemosiniere scio’ Aldo , faceva le «sceneggiate» perché «voleva i finanziamenti illeciti».
Per la già complessa posizione del presidente della Liguria, è una scure. Il magistrato stesso appare forse sorpreso, come se volesse approfondire il tema in altra sede, e in udienza taglia il discorso: «Va bene, basta ». Ma qualche ora dopo aver ricevuto trascrizioni così scottanti, dallo studio legale di Andrea Vernazza, l’avvocato presente all’interrogatorio e difensore degli Spinelli insieme ad Alessandro Vaccaro, parte una Pec.
È indirizzata alla giudice Paola Faggioni e al pm Luca Monteverde: «Con la presente nego di aver utilizzato l’aggettivo “illeciti” e ritengo, come ho fatto, di aver detto “leciti”».
Tutto chiarito? Fino a un certo punto. Perché è la Procura che deve stabilire, in questa fase preliminare, se i finanziamenti fossero leciti o illeciti. A prescindere dal parere dell’indagato.
Appare comunque quantomeno insolito che Spinelli junior abbia pronunciato la parola “leciti”. Se intendeva davvero parlare di pagamenti regolari, avrebbe potuto usare la sola parola finanziamenti, senza specificarne, per così dire, la “tipologia”.
È solare, invece, che nell’interrogatorio Roberto prenda le distanze dal padre Aldo: «Mio padre ormai non mi diceva più dei finanziamenti perché io gli avevo detto “io non ne voglio più sapere”… perché io non volevo finire sui giornali, né in un’aula di tribunale.
Ogni volta che c’era un articolo di giornale, se voi li andate a riprendere, penso che questo comitato Change (uno dei due creati da Toti, ora chiuso, ndr ) sia stato finanziato da mezza Liguria, da tutta Genova. Se voi andate a vedere le uniche persone che uscivano eravamo noi e quindi gli ho detto “guarda, io non voglio più sapere di finanziamenti soci” e quindi mi dribblava. Lo sapevo poi a posteriori dall’amministratore finanziario quando poi venivano fatti».
Roberto dunque si chiama fuori — «se c’è una chiamata mia e di Toti… io non ho neanche il numero di Toti» — ma tiene ben dritta la barra su “chi cercava chi”. Il pm chiede «lei dice “non ricordo se è stato mio padre a offrire sua sponte un finanziamento o è stato Toti a chiedere un finanziamento”». E lui: «Ma figuriamoci, lui diceva: “Ci sono le elezioni, ricordati delle elezioni”». «Lui chi? Toti?». «Toti ». E ancora: «A parte che non è mio padre che chiama, ma Toti che chiama mio padre».
Da una parte la richiesta pressante di soldi, dall’altra le promesse al vento. Già Aldo Spinelli aveva raccontato al gip che Toti «millantava », quando prometteva di impegnarsi per trasformare da pubblica a privata la spiaggia di Punta dell’Olmo, a Varazze, dove la società degli Spinelli ha acquistato e venduto immobili di pregio
Il figlio Roberto circostanzia il ragionamento: «Quando Toti diceva “accorpiamo, facciamo” glielo giuro io ridevo perché dicevo “Cosa sta dicendo questo signore?”. È come promettere che domani costruiamo sulla Torre Eiffel».
(da la Repubblica)

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LA RIVOLUZIONE ORA PASSA DA “ABBATTERE IL SISTEMA” ALLA DISTRUZIONE DEGLI AUTOVELOX

Maggio 18th, 2024 Riccardo Fucile

IL FLEXIMAN DI ROVIGO E’ UN ATTIVISTA DI FORZA NUOVA: DALLA GUERRA AL “NUOVO ORDINE MONDIALISTA” AL SEGARE I PALETTI DELL’AUTOVELOX

L’uomo accusato di essere Fleximan si chiama Enrico Mantoan, ha 42 anni ed è stato segretario provinciale di Forza Nuova. Era residente a Este in provincia di Padova ma ora sta in un B&B ad Ariano Polesine. I carabinieri di Adria gli attribuiscono 5 colpi dei 15 con cui sono stati abbattuti degli autovelox in provincia di Rovigo.
Di mestiere fa l’operaio manutentore per una ditta emiliana che realizza impianti a gas. Ad incastrarlo la telecamera vicina all’autovelox assaltato a Rosolina (Rovigo), sulla Romea, la notte del 3 gennaio 2024. Ma anche qualche post su Facebook: «Che sia un 2024 esplosivo», augurava il primo gennaio scorso. «Se sono rose fioriranno, se son velox… taglieranno», aggiungeva successivamente.
Il terrore degli autovelox
Enrico Mantoan fa parte anche dell’associazione Soccorso Nazionale, nata un anno fa (si legge nella pagina Facebook del movimento) «per l’idea di dignità, soprattutto, italiana, che i governi cercano sempre più di sradicare per inculcare politiche di un nuovo ordine mondiale».
I reati che gli contesta la procura sono danneggiamento aggravato a beni esposti alla pubblica fede e interruzione di pubblico servizio. La sua avvocata Giorgia Furlanetto dice che ad oggi il suo assistito «è semplicemente indagato. Attendiamo pertanto lo sviluppo delle indagini in corso. Valuteremo successivamente ogni opportuna iniziativa». Più precisamente, parliamo di cinque diversi danneggiamenti. Ovvero quelli di Bosario il 19 maggio e il 19 luglio 2023, quelli di Corbola e Taglio di Po il 24 dicembre e quello di Rosolina del 3 gennaio 2024. Proprio quello che ha consentito agli investigatori di identificarlo.
Ripreso dalle telecamere
L’ironia della sorte infatti vuole che Fleximan sia stato ripreso proprio da alcune telecamere di videosorveglianza. Si riconosce la sua stazza e si vede la sua auto, dicono le forze dell’ordine. Che per arrivare a lui hanno anche incrociato i dati delle targhe delle auto con il codice Imei dei telefonini che si agganciavano alle celle della zona. A quel punto sono arrivati al sistema Alert Alloggiati che raccoglie i nomi di chi sta nelle strutture ricettive. Ma il suo veicolo è stato registrato in tutti e cinque i casi come vicino agli autovelox poi recisi «tramite uno strumento da taglio». Così come il suo telefonino. Nell’ultimo anno però gli autovelox danneggiati soltanto in Veneto sono stati sedici. Per questo gli inquirenti pensano che Mantoan non agisse da solo.
La rete
D’altro canto una rete di giustizieri contro le vessazioni dei limiti di velocità è esattamente quello che si sospettava ci fosse dietro Fleximan sin dall’inizio. Sono altre tre in Veneto le Procure che hanno avviato gli accertamenti su attentati a pali degli autovelox: Belluno, Padova e Treviso.
La modalità dei vandalismi è la stessa: il palo che sorregge la telecamera viene segato alla base con la mola elettrica – il “flex”‘” – e abbandonato a terra. In qualche episodio l’autore ha lasciato anche un volantino di rivendicazione. In Lombardia il palo è stato trovato abbattuto e buttato in una scarpata in provincia di Bergamo, sulla statale 42 ad Albano Sant’Alessandro.
E In Piemonte invece è stato denunciato un 50enne che avrebbe sradicato, nella notte tra l’11 e il 12 novembre scorso, due colonnine per il rilevamento della velocità lungo la strada statale 337 della Val Vigezzo, nel comune di Druogno.
(da agenzie)

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LA SALUTE NON E’ UNA PRIORITA’ DEL GOVERNO MELONI

Maggio 18th, 2024 Riccardo Fucile

LA NUOVA MISURA SUI MEDICINALI FARA’ AUMENTARE IL PREZZO A CARICO DEI PAZIENTI: EVVIVA LA DESTRA ASOCIALE

Spacciata come semplificazione prima dal sottosegretario-farmacista Marcello Gemmato (FdI), che ha dettato la linea, e poi da Aifa, che l’ha messa in atto, una nuova misura sui medicinali fa infuriare le Regioni.
Non solo, anche altre novità nel campo della farmaceutica contenute nella Finanziaria hanno portato gli assessorati alla Salute a protestare e a denunciare il rischio di un aumento di spesa di almeno 600 milioni.
La Commissione salute della Conferenza delle Regioni prepara anche una lettera di protesta per il ministro Orazio Schillaci. Il nuovo sistema aumenta la remunerazione alle farmacie, favorite (insieme all’industria) anche dal meccanismo di distribuzione di alcuni medicinali che non saranno più comprati dalle Asl a prezzo calmierato.
«Favorire l’accesso in termini di prossimità attraverso le farmacie territoriali » ad alcuni farmaci. È questo secondo Aifa, e Gemmato, il motivo di uno dei provvedimenti discussi dalle Regioni.
L’impatto economico della misura, al momento, non è alto ma si teme per il futuro. Si è deciso di interrompere, per alcuni farmaci, la cosiddetta “distribuzione per conto”, detta Dpc. È un sistema che prevede l’acquisto dei medicinali da parte delle Asl, attraverso gare nelle quali visti gli alti volumi si spuntano prezzi vantaggiosi.
Le aziende sanitarie poi consegnano le confezioni alle farmacie, che le danno ai pazienti. Il sistema funziona bene ma in Finanziaria è previsto che vengano tolti, un po’ alla volta, molti medicinali dalla Dpc. Li acquisteranno direttamente le farmacie, che pagheranno un prezzo più alto, rimettendo comunque il conto alle Asl. Si inizia con le gliptine, prodotti contro il diabete.
Le Regioni spenderanno 35 milioni di euro in più per pagarle alle farmacie con il nuovo sistema, poi dovranno rivolgersi alle aziende produttrici per farsi restituire il valore del cosiddetto “sconto confidenziale” che veniva applicato nelle gare pubbliche e che l’industria dovrebbe comunque riconoscere. Così la spesa in più diventerebbe di 8 milioni. Ma tanti altri farmaci verranno tolti dalla Dpc, facendo lievitare costi e impegno amministrativo.
I cittadini, poi, dovranno pagare il ticket sulla ricetta (dove c’è ancora) e il rischio è che sborsino ancora di più se sceglieranno il farmaco di marca invece del generico, usato finora per la Dpc.
L’aumento di spesa più importante deriva però dal cambiamento del tetto del payback per gli acquisti diretti dei medicinali da parte delle Regioni. Il sistema, adottato ormai da anni, fissa un tetto di spesa per i medicinali. Se viene superato, i maggiori costi li pagano per metà le Regioni e per metà le aziende.
Si calcola che con la modifica del tetto decisa in Finanziaria le amministrazioni locali avranno una minore entrata di 400 milioni. Il governo ha inoltre cambiato il sistema di remunerazione delle farmacie per la distribuzione dei farmaci a carico del servizio sanitario e per gli assessorati questo comporterà un aumento di spesa di circa 190 milioni.
(da Repubblica)

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LOLLO ALL’ULTIMA CENA

Maggio 18th, 2024 Riccardo Fucile

QUANDO AI TEMPI DEI BORGIA I NEMICI VENIVANO ELIMINATI A TAVOLA

Non si era ancora dispersa l’eco del suo grido di dolore contro gli olandesi, accusati di voler affamare l’Europa per rifondare l’Impero, che l’onorevole Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura con delega al varietà, ha sentito il bisogno di dispensare un’altra perla di saggezza. Stavolta in rima: «Quante guerre non ci sarebbero state, di fronte a cene bene organizzate!»
l rapper di governo, che parlava a un evento culinario, intendeva magnificare i miracoli della convivialità.
Come non averci pensato prima? Bastava mettere Zelensky dall’altro capo del tavolone di Putin con una buona scorta di bottiglie di vodka e ci saremmo risparmiati tante tragedie.
Netanyahu a colazione da Cracco con lo stato maggiore di Hamas sembra un’ipotesi più audace, ma perché nessuno ha provato almeno a sondarlo, ovviamente con la promessa che del menu si sarebbe occupato Lollo in persona?
Certo, i precedenti non aiutano, e non mi riferisco solo ai cenoni di Natale con i parenti, che anche nelle persone più miti alimentano l’impulso di faide tribali.
Napoleone invitava a pranzo gli ambasciatori delle nazioni rivali e consegnava la dichiarazione di guerra dopo il dessert.
Forse soltanto le cene dei Borgia erano così ben organizzate da rendere superflue le guerre: i nemici venivano eliminati direttamente a tavola.
Andando sempre più a ritroso, ci sarebbe poi quell’Ultima Cena finita con un tradimento.
Però Lollobrigida, appresa la notizia, ha detto di avere piena fiducia nella magistratura.
(da corriere.it)

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LA GROTTESCA CARICATURA DEL GARANTISMO

Maggio 18th, 2024 Riccardo Fucile

PER I SOVRANISTI GARANTISMO SIGNIFICA SOTTRARSI AL CONTROLLO DI LEGALITA’

Incapace di emanciparsi dal rancore politico figlio del ventennio berlusconiano e sprovvista di un orizzonte e di una cultura compiutamente riformatrici, la destra ha aggredito il già fragile e malfermo pilastro della nostra democrazia che chiamiamo giustizia con la sgangherata frenesia e incoerenza di chi si sente investito del compito di saldare i conti con la storia repubblicana recente per definirne un nuovo inizio. Un’avventura annunciata e accompagnata in questo anno e mezzo di governo dall’appropriazione e dall’uso fraudolento ed enfatico di una parola d’ordine che, storicamente, alla destra non appartiene — garantismo — e dalla necessità di dissimulare l’incompatibilità, all’interno della maggioranza, di culture politiche e di un’idea della giustizia molto diverse tra loro. Parliamo del sostanzialismo panpenalistico di FdI (come dimenticare che il primo decreto legge del governo venne speso per introdurre il reato di rave party, o il decreto Caivano), della concezione classista della giustizia di FI, del populismo giudiziario dalle radici giustizialiste della Lega.
L’effetto prodotto da questa commistione è stata un’agenda politica incoerente e ideologica di cui il ministro di giustizia, Carlo Nordio, è stato ed è, di fatto, un semplice ventriloquo. È accaduto così che Forza Italia abbia avuto campo libero nel dare corso all’ossessione del suo fondatore: la resa dei conti con le Procure della Repubblica e la definizione di un processo penale implacabile con i deboli e disarmato con i forti. E di cui gli interventi sulle intercettazioni telefoniche, la separazione delle carriere dei magistrati, la prescrizione, la cancellazione dell’abuso di ufficio, i test psicoattitudinali per i magistrati sono altrettanti corollari. Ed è accaduto che mentre si vendeva tutto questo al Paese come la realizzazione di una nuova stagione di riformismo “garantista”, di affrancamento dall’“uso politico della giustizia penale”, FdI e la Lega utilizzassero il terreno della giustizia penale per colpire l’opposizione con un grado di spregiudicatezza che non ha precedenti. Pensiamo al caso degli ascolti in carcere dell’anarchico Cospito utilizzati dal sottosegretario alla Giustizia Delmastro per calunniare parlamentari del Pd. O all’insediamento strumentale della commissione di accesso agli atti del Comune di Bari disposta dal ministro Piantedosi per colpirne il sindaco uscente e candidato alle elezioni europee Decaro e intossicare, facendola deragliare, la campagna elettorale per il suo successore.
La verità è che in questi diciotto mesi di governo, abbiamo di fatto assistito a uno svuotamento del principio di uguaglianza di fronte alla legge e allo spettacolo di una destra convinta che la costruzione e consolidamento del consenso, che la definizione della propria legittimità politica alla guida del Paese passino attraverso un regime speciale di garanzie che la sottragga al controllo di legalità o, quantomeno, che renda quel controllo privo di ogni efficacia sostanziale. Che l’uso del Trojan sia dunque legittimo nei confronti del sospettato di mafia, ma non del politico o dell’amministratore corrotto. Alla base di questo convincimento, evidentemente, c’è un’idea peculiare della politica e della democrazia. Quella in cui il voto popolare diventa il lavacro di ogni possibile responsabilità, oltre che il viatico a una condizione di immunità permanente, e il sistema di bilanciamento e controllo dei poteri — di cui la giustizia è uno dei cardini — degrada a semplice corollario del potere esecutivo. Salvo che non si adegui a farsene strumento.
Tutto questo, evidentemente, non ha nulla a che vedere con il garantismo. O con una concezione liberale della giustizia. Ne è soltanto una grottesca caricatura. Che trova oggi terreno fertile a valle di un trentennio in cui i pochi tentativi di riforma della giustizia o sono stati annichiliti nella culla o sono stati sapientemente smontati e sfigurati da successive controriforme. Nella sua declinazione “giudiziaria”, il populismo della destra capitalizza e trasforma in agenda politica l’umore di quella parte di Paese che nel principio di legalità e uguaglianza di fronte alla legge vede un ostacolo, un’imposizione e non uno strumento di coesione che definisce la qualità di una democrazia. Non è un caso che è nella aggressione e riscrittura degli istituti che definiscono il sistema giudiziario di un Paese e le norme del suo diritto sostanziale (penale, civile e amministrativo), nello svuotamento dei poteri di controllo e bilanciamento del potere esecutivo che affondino le fondamenta di ogni progetto autocratico. Ignorarlo, in questo delicatissimo passaggio della nostra storia repubblicana, equivale a rassegnarsi a un futuro da cittadini meno uguali e meno liberi.
(da agenzie)

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TOTI E LE AREE PROTETTE: DAL PIANO CASA 2015 ALLO SVILUPPO DELLA PALMARIA

Maggio 18th, 2024 Riccardo Fucile

STORIA DI UN DECENNIO DI INTERVENTI TRASFORMATI IN SPECULAZIONE

I casi della ricerca del titanio nel geoparco Unesco del Beigua o del ritorno alla caccia con arco e freccia, sono solo la punta dell’iceberg. Che Giovanni Toti non fosse esattamente un ambientalista, lo si era capito fin dai tempi del piano casa approvato dalla sua giunta neanche quattro mesi dopo l’insediamento, a ottobre del 2015. Il provvedimento tra le varie cose autorizzava l’ampliamento degli edifici esistenti nei Parchi protetti della Liguria, per di più togliendo ai Comuni il presidio di controllo e verifica sugli interventi.
“Saranno mantenuti tutti gli strumenti di controllo ambientale, la difesa del suolo e del paesaggio”, aveva però garantito Toti, iniziando tuttavia a mettere le mani avanti sul tema delle aree protette. “I Parchi sono troppi, provvederemo in seguito a ridefinirne i confini e a variare le normative specifiche. Ma non si dica che daremo via libera alla cementificazione. Certo se un tedesco vuole ristrutturare un casale in territorio di parco lo potrà fare”, aveva detto. Non solo. “I Parchi hanno bisogno di una nuova governance, di manager che sappiano mettere a profitto le bellezze naturali e attirare investimenti”, preannunciava il neo governatore, dicendosi “particolarmente orgoglioso” di un piano che, “eliminando fonti di confusione e di freno agli investimenti privati”, avrebbe reso la Liguria “all’avanguardia per la riqualificazione dell’esistente e per gli interventi legati a nuovi investimenti nell’edilizia”.
Troppo anche per il governo di Matteo Renzi, che impugnò il piano per fare marcia indietro solo a seguito di alcune modifiche in tema di giurisdizione delle eccezioni sulle aree protette. Nei fatti, però, la Regione guidata da Toti ha continuato per la sua strada. Anzi, è andata ben oltre le dichiarazioni di intenti iniziali, di quando l’ex giornalista viareggino diceva che il piano casa “non prevede piscine né piste per gli elicotteri, ma solo una riqualificazione dell’esistente e una legislazione urbanistica più chiara e con meno burocrazia che darà una vera scossa al settore dell’edilizia”.
Nove anni dopo si può dire senza tema di smentita che la scossa c’è effettivamente stata, ma ha portato anche elicotteri e piscine. Esemplare il caso della Palmaria, da cui è partita l’inchiesta giudiziaria che ha travolto la Liguria. Sull’isola patrimonio dell’Unesco che si trova di fronte a Portovenere, Matteo Cozzani – il braccio destro del governatore finito anche lui ai domiciliari – con il placet dello stesso Toti ha cavalcato con ogni mezzo il progetto di trasformazione (il Masterplan con protocollo d’intesa del 2016) da zona militare a resort di lusso per un turismo d’elite, con sottostante dismissione del patrimonio immobiliare della Marina. In questo contesto Cozzani, che giocava con la doppia veste di sindaco di Portovenere e di capo di gabinetto di Toti, ha agevolato in ogni modo gli affari sull’isola dei fratelli Paletti, imprenditori immobiliari milanesi e proprietari del Grand Hotel di Portovenere, che sulla Palmaria hanno rilevato un’area, la ex Cava Carlo Alberto, per farne uno stabilimento balneare con ristorante, solarium e, appunto, piscine.
Le carte del filone spezzino dell’inchiesta raccontano dettagliatamente il percorso accidentato con cui il sindaco di Portovenere spiana la strada al progetto dei due Paletti, che per l’operazione sono assistiti da un esercito di consulenti del calibro dell’avvocato Ada Lucia De Cesaris, l’ex vicesindaco di Milano della giunta Pisapia, dove era assessore tecnico con delega all’urbanistica. Se non fosse che di mezzo c’è lo sfruttamento di un’isola protetta dall’Unesco e che i due imprenditori sono finiti ai domiciliari, mentre la proprietà è stata posta sotto sequestro, le avventure di Cozzani all’assalto della Palmaria sarebbero degne di un film di Totò, tra commedie al telefono con la Sovrintendenza, errori boomerang nelle delibere comunali che vengono approvate per gli amici e perfino la suspance per lo stato di salute del venditore della ex Cava ai Paletti. Capita infatti che quando l’operazione ha le carte in regola per partire e cade l’ultima condizione che sospendeva la conclusione della compravendita, l‘anziano Emilio Moreschi proprietario della ex Cava “sta male”, quindi “le cose peggiorano”, come riferisce Raffaele Paletti a Cozzani: potrebbe non essere più in grado di sedersi davanti a un notaio per il rogito e nemmeno di rilasciare una procura. Il momento è da panico, ma poi l’operazione, non si sa come, va avanti e il progetto parte, salvo arenarsi ai giorni nostri, come invece sappiamo.
Ma l’isola di fronte a Portovenere è solo uno dei tanti episodi della saga in cui Cozzani, a sua volta, riceve dai Paletti favori a getto continuo, come gli ordini per l’acqua in brick distribuita dal fratello Filippo (anche lui indagato e messo ai domiciliari), che sarà poi coinvolto nell’affare Palmaria. Ma anche i biglietti per il Gran Premio di Monza o per le finali di Champions con suite incorporata e ospitalità di lusso, tanta, per i suoi “invitati”, ma anche per se stesso, suo padre Carlo e la sua compagna (e addetta stampa della Regione, non indagata) Elisa Mangini.
Toti non sembra aver nulla da eccepire, anzi, quando nel 2023 il cantiere dei Paletti viene temporaneamente sequestrato salta sulla seggiola e si lambicca per capire su chi potrebbe intervenire per sbloccare la cosa. Del resto lui era un grande fan del Masterplan. Nel 2020 a un dibattito pubblico lo ha definito “un disegno che si integra nella storia e nel futuro di questo territorio” e ha rivendicato come “l’isola Palmaria non sarebbe potuta cambiare se non avessimo cambiato il suo assetto amministrativo ponendo dei prerequisiti, reinserendolo in una vita civile ovvero sotto un’autorità comunale che decidesse le destinazioni d’uso con tutti i vincoli”. Il tutto per “creare valore, che vuol dire creare posti di lavoro e futuro, questo passando per la valorizzazione del territorio, non per la cementificazione. Recuperiamo con il coraggio di innovare e di utilizzare la nostra storia per il bene dei nostri figli”.
Però poi rispunta il tandem piscine ed elicotteri. Come quelli per cui vengono richieste continuamente delle piazzole nei Parchi o quelli utilizzati per portare i materiali ai cantieri dove la viabilità è inadeguata. Esemplare il cantiere sui ruderi della collina di fronte alla Palmaria, dietro Portovenere, un’area vincolata dove la famiglia dell’amministratore delegato di Autostrade per l’Italia, Roberto Tomasi, ha progettato di costruire un resort dove non ci sono strade. Resta da capire come proseguirà la costruzione, non tanto per la viabilità che non c’è, quanto perché a febbraio di quest’anno, il cantiere si è fermato in seguito ai rilievi delle autorità che hanno chiesto il ripristino di alcune parti dei manufatti originari.
Ma, per quanto si tratti di luoghi di rara bellezza, in Liguria non ci sono solo la Palmaria e Portovenere. Per esempio il Parco Nazionale di Portofino sembra essere stata una vera e propria ossessione per il governatore della Liguria che in questi anni ha cercato in ogni modo di ridurne i confini a suon di carte bollate. E ce l’ha fatta, dato che la montagna alla fine ha partorito quello che le associazioni per la tutela dell’ambiente hanno battezzato il “parco francobollo”. Salvo il buon esito dei ricorsi pendenti o altri fatti al momento imprevedibili, il Parco sarà il più piccolo d’Italia, con una superficie di un migliaio di ettari, vale a dire un quinto di quanto inizialmente previsto dal ministero per la Transizione ecologica con una già notevole riduzione rispetto alla proposta originaria dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, mentre sarà pari a un terzo dell’attuale più piccolo, il contiguo Parco delle Cinque Terre. Per la gioia dei cacciatori che dall’estate scorsa, grazie a una nuova norma regionale, sono liberi di cacciare con arco e freccia, oltre che di costruttori e proprietari di immobili o attività.
A scansare ogni dubbio sulle intenzioni, è arrivato poche settimane fa lo studio di fattibilità per la costruzione di un tunnel per collegare Paraggi a Portofino. “Un sogno”, secondo Toti che a fine aprile è intervenuto alla presentazione dichiarando di credere che “in questi anni la Liguria abbia dimostrato di saper dare concretezza ai progetti in cui crede: dalla diga del porto di Genova al Terzo valico, dal tunnel sotto il porto al tunnel della Fontanabuona. Credo che questa sia la strada giusta per rendere il Tigullio sempre più fruibile per tutti, senza chiuderlo a nessuno e far aumentare ancora il nostro turismo”. Già, il turismo, come quello che fa esplodere il Parco delle Cinque Terre, dove Toti ha appena imposto un rialzo esponenziale delle tariffe del Cinque Terre Express per l’alta stagione, bollando come “tafazziano” l’atteggiamento di chi pensa di risolvere il problema del sovraffollamento con il numero chiuso chiesto da alcuni Comuni. Fatto sta che a Genova i non turisti sono furibondi e parlano di “tassa 5 terre”, mentre i primi dati sul traffico con le nuove tariffe parlano di un sensibile calo dei viaggi tra Spezia e Levanto e degli acquisti delle Cinque Terre Card. Rispetto al 2023, mentre il confronto con il 2022 è ancora positivo, sicché l’ottimismo serpeggia ancora in Regione. Nonostante tutto.
(da ilfattoquotidiano.it)

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IL GOVERNO VA IN TILT SU GAY, LESBICHE E TRANS: L’ITALIA, ASSIEME A UNGHERIA, BULGARIA E ROMANIA, NON HA FIRMATO LA DICHIARAZIONE SUI DIRITTI UMANI DELLE PERSONE LGBTIQ IN EUROPA, PROMOSSA DALLA PRESIDENZA BELGA DEL CONSIGLIO UE E SOTTOSCRITTA DA 18 PAESI

Maggio 18th, 2024 Riccardo Fucile

MA IL MINISTRO DEGLI ESTERI, TAJANI, SI DISSOCIA: “LA LOTTA CONTRO OGNI FORMA DI DISCRIMINAZIONE È PARTE DEL NOSTRO IMPEGNO ANCHE IN AMBITO UE E IN CONSIGLIO D’EUROPA”

L’Italia, assieme a Ungheria, Bulgaria e Romania, non ha firmato la Dichiarazione sul continuo progresso dei diritti umani delle persone Lgbtiq in Europa promossa dalla presidenza belga del Consiglio Ue e sottoscritta da 18 paesi Ue.
L’Italia è l’unico grande paese Ue a non aver voluto firmare la dichiarazione, mentre Repubblica ceca, Lituania, Lettonia, Slovacchia e Croazia non hanno ancora comunicato la loro risposta.
La firma è avvenuta oggi nel contesto della conferenza ad alto livello organizzata a Bruxelles dalla presidenza di turno belga, in occasione della Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia, la transfobia e l’intersexofobia (Idahot). L’evento ha riunito la commissaria europea per l’uguaglianza, i ministri e i segretari di Stato competenti di diversi Stati membri dell’Ue, membri del Parlamento europeo, altri esperti e organizzazioni della società civile.
Gli Stati firmatari di questa dichiarazione si impegnano in particolare ad attuare le strategie nazionali Lgbtiq e a sostenere la nomina di un nuovo Commissario per l’Uguaglianza quando sarà formata la prossima Commissione. Invitano inoltre la Commissione a perseguire e attuare una nuova strategia per migliorare i diritti delle persone Lgbtiq durante la prossima legislatura, stanziando risorse sufficienti e collaborando con la società civile.
Intanto, proprio nella Giornata mondiale contro l’omofobia, la transfobia e la bifobia (Idahot), il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani ha voluto incontrare i rappresentanti dell’Associazione “Globe Mae”, rete costituita da dipendenti Lgbti della Farnesina.
Nel corso dell’incontro, Tajani ha ricordato come «la lotta contro ogni forma di discriminazione sia parte integrante dell’impegno dell’Italia per la protezione e la promozione dei diritti umani a livello internazionale, in ambito Nazioni Unite, Unione europea e Consiglio d’Europa», dissociandosi di fatto dal “no” italiano espresso dalla sua stessa maggioranza in sede Ue.
(da La Stampa)

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TU EVADI, E IO PAGO: IN ITALIA OGNI ANNO LA SPESA PUBBLICA TOTALE AMMONTA A 871 MILIARDI DI EURO, OVVERO 14.500 EURO PER ABITANTE. PECCATO CHE SOLO IL 5% DEGLI ITALIANI VERSI UN’IRPEF SUPERIORE AI 15MILA EURO

Maggio 18th, 2024 Riccardo Fucile

UNA MINIMA PARTE DELLA POPOLAZIONE SI RITROVA A PAGARE PER TUTTI, GRAZIE AI CONDONI ELARGITI DAI SOVRANISTI AI DISONESTI

È vero: la ricchezza di un Paese dovrebbe essere prodotta da imprenditori, aziende, lavoratori e cittadini, non dallo Stato. A quest’ultimo compete una parte di questa ricchezza prodotta che, sotto forma di imposte, ha il compito di redistribuire come un buon padre di famiglia a quella parte della popolazione che è in stato di bisogno, necessità e rischio (per utilizzare una definizione di welfare state).
Se da queste ottime enunciazioni passiamo a quello che effettivamente oggi avviene nel nostro Paese, qualche riflessione occorre pur farla anche perché il livello di assistenza sociale è degenerato e ha perso le connotazioni per cui era stato progettato.
La prima domanda è: «Quanto denaro viene redistribuito in Italia e a chi?». Sulla base delle fonti citate possiamo calcolare il valore della redistribuzione per l’anno 2021, ultimo dato fiscale disponibile.
Iniziamo con la sanità la cui spesa totale nel 2021 è stata di 117,834 miliardi pari a 1.989 euro per ogni cittadino italiano (pro capite). Per garantire i servizi sanitari al 55,75% di italiani che in totale versano 12,9 miliardi di Irpef, occorrono 52,749 miliardi che sono a carico soprattutto del 13,94% della popolazione che dichiara redditi da 35 mila euro in su e che versa il 62,5% dell’Irpef.
Assistenza sociale e istruzione
Poi viene la spesa per assistenza sociale a carico della fiscalità generale che nel 2021 è ammontata a 144,215 miliardi, pari a 2.434,57 euro pro capite. Si tratta di un pro capite tutto teorico e sottostimato in quanto non ne beneficiano i redditi sopra i 35 mila euro e che serve per garantire tutte le assistenze alla famiglia, ai soggetti privi di reddito, ai pensionati assistiti (circa il 47% dei 16,1 milioni di pensionati), ai disoccupati e agli invalidi con bonus, sussidi e reddito di cittadinanza.
Per finanziare la parte di spesa non coperta dal 42,59% degli italiani senza redditi e da quelli che versano una imposta inferiore a 4.424 euro (sanità più assistenza fanno 4.424 euro) occorrono altri 78,19 miliardi che sono a carico prevalentemente del solito 13,94% cioè di 5,783 milioni di contribuenti pari a 8.254.759 di cittadini e in parte del 22,10%, che autosufficiente per la sanità con una imposta media di 2.935 euro, concorre all’assistenza per il 39% cioè 946 euro su 2.435, lasciando il resto ai contribuenti di fascia più elevata.
Potremmo proseguire ma ci fermiamo all’istruzione, una spesa pari al 4,1% del Pil, che vale circa 73,1 miliardi con un costo pro capite di 1.233 euro, questa volta a totale carico del 13,94%, per una redistribuzione pari a 62,9 miliardi.
Effetto ridistribuzione
Per queste sole tre funzioni, seppur di rilevante importo (le pensioni sono escluse in quanto quelle vere pagate dai contributi sono in equilibrio), la ridistribuzione totale è pari a 193,84 miliardi su circa 598,941 miliardi di entrate al netto dei contributi sociali (dato relativo al Def 2021) di cui 253 di imposte dirette (il valore è relativo ai redditi 2021); in pratica viene redistribuito il 75,6% di tutte le imposte dirette che va totalmente a beneficio del citato 55,75% di popolazione.
Poi c’è tutto il resto: ordine pubblico, giustizia, amministrazione, viabilità ecc, tutto a carico di pochi cittadini e del debito pubblico che ogni anno aumenta spaventosamente tra la totale indifferenza. È una enorme ricchezza di cui i cittadini beneficiari, probabilmente non si rendono nemmeno conto sentendo i politici che continuano a proporre sussidi e parlare di disuguaglianze al solo scopo di poter promettere ulteriori agevolazioni per guadagnare consensi elettorali.
Facendo la riprova, sulla spesa pubblica totale pari, per il 2021 a 871,003 miliardi, la spesa pro-capite è di 14.561 euro per abitante e solo il 5,01% dei cittadini versa un’Irpef da 15.042 a 177.701 euro e che quindi sarebbe più che autosufficiente.
La riduzione del carico
Se si considera che le restanti imposte dirette (Ires, Irap e Isost) sono prevalentemente a carico di poco più del 13% dei contribuenti e che le imposte indirette sono proporzionate ai redditi dichiarati, la percentuale di redistribuzione aumenta ancora. La ridistribuzione non è solo tra cittadini ma anche tra zone geografiche; la Lombardia con circa 10 milioni di abitanti versa più Irpef di tutto il Mezzogiorno (8 regioni e oltre 20,2 milioni di abitanti).
Alla luce di questi dati ha ancora senso parlare di riduzione del carico fiscale e di redistribuzione per mitigare le disuguaglianze?
O sarebbe meglio aumentare i controlli, parlare di doveri e non solo di diritti e «prendere in carico» i cittadini che si dichiarano bisognosi (5,6 milioni di poveri assoluti e 8,6 di poveri relativi) e assisterli al fine di farli uscire dalla povertà?
(da Il Corriere della Sera)

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