Giugno 30th, 2024 Riccardo Fucile
LO SPREAD HA MOSTRATO UNA TENDENZA AL RIALZO. E LA PRESSIONE SUL DEBITO PUBBLICO POTREBBE AUMENTARE ENTRO L’AUTUNNO… SERVE CREDIBILITÀ SUI MERCATI: UN CONFLITTO APERTO CON BRUXELLES PUO’ INDURRE GLI INVESTITORI A MOSTRARSI SCETTICI VERSO LA TENUTA DEL PAESE
La tentazione sovranista di Giorgia Meloni, trapelata nelle scorse settimane e confermata dalla svolta isolazionista in occasione dell’ultimo Consiglio europeo, è un piano ad alto rischio: attendere il voto in Francia, scommettere sul crollo di Emmanuel Macron e il trionfo di Marine Le Pen, colpire nel segreto dell’urna la candidatura di Ursula von der Leyen sperando in una sua bocciatura, preparare la strada del caos europeo d’intesa con gli euroscettici di Visegrad e i fan europei di Donald Trump.
Cosa verrebbe dopo l’eventuale sconfitta della politica tedesca, a dire il vero, è tutto da verificare: potrebbe addirittura andare peggio alla leader di Fratelli d’Italia, perché la maggioranza europeista sarebbe probabilmente costretta ad allargarsi ai Verdi. Ma l’investimento politico sarebbe evidente: posizionarsi all’opposizione a Bruxelles, coprirsi le spalle a destra in attesa di un’ondata nazionalista capace di stravolgere l’Occidente.
Va registrata una forza uguale e contraria, quella che nelle ultime ore si è attivata con l’obiettivo di portare Palazzo Chigi a sostenere Ursula, evitando lo scontro finale con l’Unione. Più che una telaè una forte spinta istituzionale e politica. Che ha iniziato a premere e continuerà a farlo per i prossimi diciannove giorni, quelli che ci dividono dal passaggio parlamentare europeo del 18 luglio.
È una somma di sensibilità. Non è un mistero, ad esempio, che il Colle ritenga necessario che l’Italia sieda nel gruppo di testa del continente. Ha messo agli atti la necessità che a Roma venga riconosciuto un ruolo centrale. Ma anche nei panni di arbitro considera necessario che Roma eviti pulsioni antieuropee e isolazioniste, costruendo una mediazione necessaria per il Paese. Questa è la linea che il Quirinale ha già consegnato e potrebbe ribadire anche nei prossimi giorni.
In questa linea si riconoscono molti dei principali attori di questa partita. Il primo a muoversi è stato Antonio Tajani. Ha mostrato un atteggiamento leale verso Meloni e negli ultimi giorni si è attivato per ricostruire un ponte con i popolari. L’obiettivo è raggiungere una formula di compromesso che consenta alla premier di restare in partita, immaginando lo scambio tra un buon portafoglio per Raffaele Fitto e un sostegno istituzionale alla nomina di Ursula. Offerto da premier e non da leader di Ecr, perché è ormai evidente che quel riconoscimento politico ai Conservatori non arriverà.
Ma anche Giancarlo Giorgetti, riferiscono da Palazzo Chigi, ha consegnato nelle ultime settimane alcune valutazioni tecniche — e non dunque politiche — che destano preoccupazione. Esiste un problema di numeri da non trascurare, è la sintesi del messaggio: senza una rete di protezione continentale, l’autunno si annuncia complesso. Si riferisce alla procedura di rientro per deficit eccessivo e al rischio di tensioni sui mercati. È lo stesso allarme che coinvolge le strutture dell’Economia e della Ragioneria, fino alla banca centrale.
Se il governo italiano dovesse rompere definitivamente con la nuova Commissione, le conseguenze sarebbero pesanti. Di recente, lo spread sui nostri titoli di Stato ha mostrato una tendenza al rialzo. E la pressione sul debito pubblico potrebbe aumentare entro l’autunno.
Nel Patto di stabilità, infatti, è previsto un rientro di 12 miliardi all’anno per i prossimi sette anni, a partire dalla manovra del 2024. Non è tanto un tema di flessibilità da chiedere a Bruxelles (la procedura ha criteri rigidi, semmai si può lavorare per scorporare dal computo del deficit altre spese), è soprattutto una questione di credibilità sui mercati.
Un conflitto aperto con Bruxelles potrebbe infatti indurre gli investitori a mostrarsi scettici verso la tenuta del Paese, alimentando il timore di una mancata “copertura” garantita a Roma. L’effetto potrebbe essere quello di innescare una spirale negativa tra tassi di interesse sui titoli di Stato e indebitamento delle casse.
(da agenzie)
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Giugno 30th, 2024 Riccardo Fucile
MA LE SELEZIONI VANNO FATTE PRIMA, NON DOPO CHE I BUOI SONO SCAPPATI DALLA STALLA… GLI ALLIEVI SEGUONO SEMPRE LE INDICAZIONI DEI MAESTRI, INUTILE FARE FINTA DOPO DI CASCARE DAL PERO
«Quei ragazzi hanno sbagliato partito ed è giusto che vengano messi alla porta. Antisemitismo e razzismo sono incompatibili con la nostra natura, prima ancora che con il nostro progetto».
Queste le parole di Fabio Rampelli (FdI), vicepresidente della Camera, in un’intervista al Corriere della Sera dopo l’inchiesta di Fanpage sui giovani di Gioventù nazionale e dopo le parole della senatrice a vita Liliana Segre.
E priprio su Segre spiega Rampelli «la ascoltiamo con rispetto. Lei è, e resterà, un punto di riferimento di tutti gli italiani. Semmai di troppo sono coloro che hanno fatto quelle dichiarazioni deliranti». Per il vicepresidente della Camera le immagini di Fanpage provocano «rabbia, tanta rabbia. Negli anni ’70 e ’80 si sono fronteggiati a destra due mondi: uno brillante e futurista e uno reazionario. Allora i nostalgici c’erano davvero. Li abbiamo affrontati e sconfitti costruendo una destra moderna. FdI è guidato da chi ha rotto con quegli stereotipi».
In un’intervista al QN Rampelli ricorda che «la mozione dibattuta a Fiuggi fu il momento epocale che avrebbe reciso per sempre qualsiasi tentazione nostalgica, di maniera o di sostanza. La vergogna incommensurabile delle leggi razziali brucerà per sempre nella coscienza degli italiani. Per me vale ieri, vale oggi e per sempre».
E sulle difficoltà nel definirsi antifascisti replica: «Se non ci fossero stati così tanti morti ammazzati, amici, bambini, famiglie distrutte dall’antifascismo militante che ha avvelenato gli anni ’70 e ’80 questo problema non si porrebbe. Sono contro il nazismo, il comunismo e il fascismo. Penso possa bastare». Contro il razzismo, no?
(da Il Corriere della Sera)
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Giugno 30th, 2024 Riccardo Fucile
IL DISAPPUNTO DELL’AD DI AMAZON DOPO L’INCONTRO CON IL MINISTRO FITTO CHE AVEVA BISOGNO DI UN TRADUTTORE
Di sicuro per l’Italia la partita è più complessa che per altri Paesi. Sia per le scelte recenti di Giorgia Meloni, sia per la penuria di candidati validi che il governo può avanzare di fronte alle offerte che Ursula von der Leyen farà nei prossimi giorni.
C’è un dato che si sta rafforzando, nelle analisi e nelle dinamiche che si svolgono nell’asse fra Roma e Bruxelles, in queste ore: se si toglie Raffaele Fitto, che resta il nostro candidato di punta, sembra che a Palazzo Chigi al momento non abbiamo altri nomi di pari peso.
Un peso politico, che però deve avere anche delle precise competenze tecniche, oltre che linguistiche (parlare bene l’inglese), che non è stato individuato per altri esponenti.
Nella partita che si svolgerà sino al 18 luglio, il giorno in cui von der Leyen dovrà essere riconfermata, a meno di sorprese e franchi tiratori, dal Parlamento dell’Ue, un dato appare non marginale: il governo sembra non avere una rosa di nomi alternativi a Fitto, nel caso in cui le deleghe richiedessero dei know how particolari.
Non è meno facile la partita che Meloni giocherà in vista del voto che dovrà confermare o meno il bis di Ursula. Le variabili sono tantissime, ed esiste anche la possibilità che i tedeschi del Ppe non siano così compatti, che si possano spaccare nel segreto dell’urna, cosa che moltiplicherebbe il valore di un sostegno eventuale di FdI alla conferma della politica tedesca. Potrebbe essere un’arma in più per Meloni, in sede di negoziati per la formazione della Commissione, ma anche un bel rebus, visto che in Italia un vicepremier come Salvini parla della von der Leyen come se fosse il diavolo, più o meno come Orban, mentre Tajani non può che sostenere un candidato che rappresenta la famiglia politica del Ppe.
In ogni caso la premier dispone di una delegazione italiana di 24 deputati e di una europea, quella dell’Ecr, che supera ad oggi gli 80 deputati: possono essere numeri ininfluenti, ma anche strategici e da far pesare, visto che von der Leyen ha bisogno di garanzie parlamentari.
Tornando ai posti nella Commissione non è un segreto che nel governo ci sia un deficit abbastanza diffuso rispetto alla lingua inglese, che a Bruxelles è indispensabile per lavorare: lo stesso Guido Crosetto, che pure è circolato come candidato nel caso in cui le deleghe offerte a Roma fossero la Difesa e lo sviluppo di un’industria militare della Ue sembra che non sia proprio fluente nella prima lingua che viene utilizzata nei palazzi della Ue.
Lui in ogni caso dice di non essere interessato, come del resto Giancarlo Giorgetti, che però da alcuni mesi sta facendo, come Fitto, una full immersion di lezioni della prima lingua parlata al mondo. Sono considerazioni che possono apparire marginali, ma che non lo sono se si sommano alle esperienze professionali pregresse e al fatto che dovranno superare un esame meticoloso di fronte al Parlamento di Strasburgo.
Un aneddoto di qualche mese fa, inedito, racconta che l’ad di Amazon, in visita a Palazzo Chigi, ne uscì un’ora dopo insoddisfatto, perché Meloni aveva accanto a sé il ministro Urso, che a sua volta aveva bisogno di un traduttore, cosa che dimezzò i tempi del confronto.
(da Il Corriere della Sera)
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Giugno 30th, 2024 Riccardo Fucile
IL 57% DGLI ITALIANI PENSA CHE ALL’ESTERO SI POSSANO COSTRUIRE UNA CARRIERA E UNA VITA MIGLIORE… IN 10 ANNI PIU’ DI UN MILIONE HANNO LASCIATO IL PAESE
Viviamo tempi difficili. Soprattutto per i giovani. Perché il mondo intorno a loro – e a noi – è sempre più “critico”. Agitato da guerre e da “crisi” economiche ricorrenti. Così è difficile, per loro, pensare a progetti di vita (e lavoro) stabili oltre confine. Come in passato. Quando la “migrazione” dei giovani dall’Italia, per motivi di studio e lavoro, ha costituito un progetto ricorrente. Secondo le stime dell’Istat, infatti, gli italiani fra 20 e 34 anni emigrati verso i principali Paesi europei, dal 2011 al 2021, sarebbero circa 400 mila.
Ma la cifra, delineata da altri istituti statistici europei, è quasi tre volte superiore. Cioè, oltre un milione. E la differenza si spiega con la prudenza dei giovani espatriati nel segnalare la propria presenza all’estero, quando non si tratta di un trasferimento definitivo. Per non perdere alcuni benefici essenziali, come l’assistenza sanitaria italiana. Questi dati sono sufficienti a suggerire come le preoccupazioni sollevate da molte parti – politiche e non solo – di fronte al fenomeno migratorio siano inadeguate. Perché si riferiscono, principalmente, all’immigrazione “esterna”. Agli stranieri che provengono da altri Paesi. Mentre sottovalutano l’e-migrazione dei nostri giovani, che vanno altrove. Per motivi di studio e lavoro. E spesso non rientrano. Il problema, peraltro, è accentuato dal declino demografico che accentua il declino del nostro Paese. Il numero medio di figli per donna, infatti, in Italia è 1,2 mentre in Europa, dove pure risulta in calo, si attesta su 1,46.
È, quindi, significativo e inquietante osservare i dati del sondaggio condotto da Demos. Che rileva come quasi il 60% degli italiani (per la precisione, il 57%) intervistati sia d’accordo con l’affermazione: “per i giovani che vogliano fare carriera l’unica speranza è andare all’estero”. Si tratta di una misura in calo rispetto al decennio scorso, quando aveva superato il 70%. Ma appare comunque molto elevata. Troppo, per un Paese che invecchia. E non riesce a motivare i giovani, che continuano a (pre)vedere il proprio futuro altrove. Oltre i nostri confini.
Il grado più elevato di consenso all’idea migratoria, riferita ai nostri giovani, si osserva presso coloro che hanno più di 30 anni. Fra i quali supera il 70%. Circa tre persone su quattro, fra gli “adulti” (30-64 anni) pensano, infatti, che occorra lasciare l’Italia. Migrare altrove, per costruire un progetto professionale pro-positivo. Solo gli anziani, con 65 anni e oltre, esprimono un’idea diversa. Probabilmente, pensano a se stessi. Non tanto per motivi egoistici. Ma perché non sopportano l’idea di essere circondati da vecchi – come loro.
Anche il livello di istruzione influenza gli atteggiamenti sull’argomento. La vocazione migratoria, alla ricerca di percorsi di studio e lavoro che favoriscano le possibilità di carriera, cresce fra quanti dichiarano un livello di istruzione – e dunque un titolo di studio – più elevato. Tuttavia, non si osservano grandi differenze sulla base della professione svolta. È interessante, peraltro, osservare come la convinzione più ampia, al proposito, emerga fra gli operai e, in misura un po’ più ridotta, fra i tecnici e i lavoratori autonomi. Comunque, tra figure professionali con posizioni diverse, più e/o meno elevate, su base professionale. Appare significativo, invece, il sostegno limitato verso l’idea di spingere i giovani a studiare e fare esperienza professionale in altri Paesi, fra i liberi professionisti. E i disoccupati. Per ragioni, probabilmente, opposte. I liberi professionisti: perché pensano che il loro ambiente costituisca un luogo di formazione e di perfezionamento efficace. E utile. Senza ri-volgersi altrove. I disoccupati: perché vedono la migrazione dei giovani come una fuga da un Paese che dovrebbe affrontare la questione del “non lavoro”, anzitutto, in casa propria.
È, comunque, necessario valutare la questione del lavoro giovanile in relazione stretta con la questione europea. Perché i giovani sono una “generazione europea”. Che considera l’Europa la propria casa.
Più che una “generazione Z”, infatti, si tratta di una “generazione E”. Europea. Sulla quale investire le nostre speranze per un futuro diverso. E migliore. Perché i giovani sono “il nostro futuro”. Anzi. Sono “il futuro”. E senza di loro rischiamo di rassegnarci a “un eterno presente”. Che scivola indietro. Verso il passato.
(da La Repubblica)
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Giugno 30th, 2024 Riccardo Fucile
DALLA SPAGNA AGLI STATI UNITI LA PAROLA D’ORDINE E’ “DISASTRO”… “UNA NAZIONALE SMARRITA, CON POCA QUALITA’ E UNA GUIDA INCERTA”
Come ovvio, della sconfitta dell’Italia con la Svizzera hanno scritto tutti i giornali del mondo, sportivi e non. E il giudizio è unanime: un disastro. Nei titoli della stampa estera c’è la misura di una nazionale “smarrita, con poca qualità e con una guida incerta”, per citare uno dei tanti articoli sul tema dell’edizione online del quotidiano tedesco Bild.
Il nervosismo di Spalletti
Il quotidiano fondato nel 1952 da Axel Springer, sempre sul web, si concentra sulla rispostaccia data da Spalletti a un giornalista svizzero nella conferenza stampa post partita: visto che il ct italiano aveva parlato di una Svizzera più veloce rispetto all’Italia, il cronista aveva paragonato la nazionale elvetica a una Ferrari e gli azzurri a una Panda. Spalletti ha risposto stizzito, definendo “di cattivo gusto” il confronto. La Bild sull’episodio titola: “Questione Ferrari: l’allenatore dell’Italia si accanisce contro il giornalista”.
Fra tattica e valigie da fare
Se il New York Times analizza la disposizione della difesa italiana sul secondo gol svizzero, in un articolo dal titolo “Il disastroso calcio d’inizio dell’Italia”, i francesi de L’Equipe ci vanno meno per il sottile: “La Svizzera demolisce l’Italia” scrive il giornale giallo nella sua analisi online. Nell’articolo si spiega come la vittoria svizzera sia stata “logica”, visto che la nazionale di Yakin rispetto a quella di Spalletti è stata “migliore in tutto”.
Simile la lettura dell’inglese Daily Mail, che nella sua edizione cartacea titola: “La Svizzera sconvolge la debole Italia”. E subito sotto: “I detentori del titolo vengono mandati a fare le valigie”.
La severità degli spagnoli
Particolarmente severa è la stampa spagnola, abituata alla qualità di Rodri, Pedri e Morata. Marca, quotidiano di Madrid, in un articolo online titolato “La Svizzera stende la campionesse d’Europa” parla di “passeggiata elvetica in faccia a una nazionale italiana impotente”. E sulla prima pagina dell’edizione cartacea titola: “Una Svizzera molto superiore elimina giustamente il campione in carica”. E i concorrenti di As infieriscono: “Mourinho ci ha preso”. Lo Special One, prima dell’inizio del torneo, aveva denunciato la mancanza di talento fra gli azzurri.
Badola e svizzerotti
Infine, la stampa ticinese. Oltre a gioire per una vittoria storica della nazionale svizzera, il Corriere del Ticino ha pubblicato un commento ironico a firma di Marco Ortelli, già autore di libri satirici, dal titolo “Che scornata per i badola contro i prodi svizzerotti”, dove i badola sono i “badilatori”, gli operai del Nord Italia che passavano (e passano ancora) la frontiera per andare a fare gli operai. L’articolo chiude così: “Appena ti prendi una remenata, ridici sopra. Poi il calcio giocato lasciò il posto ai coloriti commenti di stamattina nei bar: Tiè!”.
(da agenzie)
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Giugno 30th, 2024 Riccardo Fucile
PER UN ESTABLISHMENT CHE SI È SEMPRE VANTATO DELLA SUA “LEGITTIMITÀ POPOLARE”, È UN ALLARME… MA UNA VITTORIA DI PEZESHKIAN NON CAMBIEREBBE MOLTO
La notte elettorale di Teheran, nel primo turno delle presidenziali, consegna due notizie all’establishment clerico-militare che guida la Repubblica Islamica, nessuna delle due buona.
Chiamati a votare per scegliere il successore di Ebrahim Raisi, morto in un incidente a maggio, la maggioranza degli iraniani è rimasta a casa: 40% di affluenza, il dato più basso dalla rivoluzione khomeinista del 1979, sebbene questa volta i Guardiani, gli anziani religiosi che decidono chi può candidarsi, abbiano consentito la partecipazione di un riformista, dopo anni di confino politico. […]
L’altra notizia è che al primo posto si è piazzato proprio il riformista moderato, Masoud Pezeshkian, 69 anni, che con il 43% dei voti sfiderà al ballottaggio l’ultraconservatore Saeed Jalili, fermo al 38%. il conservatore pragmatico Mohammed Qalibaf, è rimasto fuori dalla corsa. Insieme, Qalibaf e Jalili, hanno perso 8 milioni di voti rispetto ai due candidati conservatori di punta delle precedenti presidenziali, quelle del 2021.
Tutto questo, dice Ali Vaez del Crisis Group, brillante analista di cose iraniane, racconta «un malcontento socioeconomico profondamente radicato» nella società e una «profonda disillusione nei confronti del sistema politico». Per un sistema «che si è sempre fatto vanto della sua legittimità popolare», il risultato di venerdì è «un allarme – ragiona Vaez – ma in questo momento l’apparato sembra più preoccupato che ci sia omogeneità ideologica ai vertici, per garantire una successione senza intoppi al prossimo leader supremo, che della legittimità dal basso».
Le difficoltà economiche, la frustrazione per il malgoverno e la repressione spiegano la ritirata degli elettori, ma non rendono meno cruciale la sfida del prossimo venerdì, giorno di preghiera, quando si affronteranno due visioni dell’Iran e del suo ruolo nel mondo: l’ideologia intransigente e autarchica di Jalili e la spinta moderata al cambiamento di Pezeshkian. Il medico di Tabriz, non è un radicale, ha ribadito la sua lealtà a Khamenei e non parla di modificare la Costituzione
Ma ha promesso aperture sui diritti, a cominciare da un atteggiamento più morbido sull’obbligo di indossare il velo, e vuole riaprire il dialogo con l’Occidente per provare a rimuovere almeno in parte le sanzioni. «Non è il candidato che vorrei, ma è il meno peggio», ci dice Hassan, un grafico trentenne di Teheran.
Alili, ultraconservatore sia in politica interna che estera. Come molti rivoluzionari islamici della prima generazione si è formato ideologicamente in trincea, adolescente al fronte durante la guerra Iran-Iraq. Perse una gamba in battaglia.
Il sostegno che gli Stati Uniti e l’Occidente diedero allora a Saddam contro l’Iran è sempre stata una sua ossessione. Durante la presidenza Ahmadinejad, fu capo negoziatore sul nucleare, i suoi interlocutori ricordano lo zelo ideologico e la indisponibilità al compromesso. Fiero oppositore dell’accordo nucleare siglato nel 2015. Se dovesse vincere Trump a novembre, con il “Trump islamico” dall’altro capo del mondo sarebbe arduo pensare a nuovi negoziati e a una de-escalation diplomatica Usa-Iran.
(da agenzie)
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Giugno 30th, 2024 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE TIRA DRITTO DOPO IL DISASTROSO DIBATTITO CNN
Lasciare? Manco per idea. Joe Biden avrà pure una serata disastrosa giovedì nel dibattito alla Cnn contro Donald Trump, ma sembra aver già metabolizzato il “passo falso” e pronto a procedere senza ripensamenti verso la sfida per la Casa Bianca. Opponendo un testardo rifiuto alle dozzine di appelli pervenutigli nelle ultime 48 ore dal mondo progressista Usa perché lasci, avendo dimostrato la sua incapacità di servire ancora come presidente della prima potenza mondiale. «Non ho avuto una grande serata, ma nemmeno Trump», ha detto serafico stasera Biden parlando a un evento di raccolta fondi a New York.
Il candidato dei Democratici pare sordo alle pressioni, e perfino del drammatico editoriale apparso stamattina sul New York Times pare aver preso solo le parti che lo interessano Il presidente: quelle in cui si sottolineava ancora una volta la pericolosità di Trump, che per tutta la sera ha proferito una bugia dietro l’altra. «Donald Trump è una vera minaccia: distruggerà la democrazia. Io la difenderò», ha ripetuto imperterrito ancora una volta Biden. «Credo ancora che questa nazione sia onesta e dignitosa: vinceremo queste elezioni», ha addirittura rilanciato, cercando di scaldare il pubblico.
Il ruolo della first lady
A guardare le spalle al presidente-candidato, d’altra parte, c’è sua moglie Jill. Che non solo fa spallucce agli appelli di stampa e donatori vicini ai Democratici, ma sprona l’81enne coniuge ad andare avanti con più forza che mai: «Joe non è solo la persona giusta per questo lavoro, è l’unica persona per questo lavoro», ha detto la first lady all’evento di New York. Dopo che già ieri a un comizio ad Atlanta aveva lodato con parole suonate al limite del surreale la performance nel dibattito del marito: «Hai risposto a tutte le domande! Bravissimo! E cos’ha fatto invece Trump? Mentito!». Per tutte le pressioni esterne, nessuno, se non l’interessato, può decidere il ritiro dalla corsa di Joe Biden. Non pare proprio aria, almeno fino a prova contraria.
(da agenzie)
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