Agosto 30th, 2024 Riccardo Fucile
LA GRANDE TORTA: NEL BOARD DELL’ENTE SI SONO SUCCEDUTI TUTTI I BIG DI FDI
Sui finanziamenti della Fondazione Alleanza nazionale a sigle di estrema destra e associazioni dell’area no vax in piena pandemia è calato il silenzio.
Dopo le inchieste del Domani e di Repubblica che hanno raccontato le spese della cassaforte che gestisce il patrimonio dell’ex Msi, poi Alleanza nazionale, da parte del partito della premier Giorgia Meloni nessun commento.
E sottovoce difese d’ufficio sottolineando che «non è un problema di Fratelli d’Italia perché nella Fondazione siedono tutte le anime della destra che si rifanno all’Msi». E subito si cita quindi la presenza nel consiglio di amministrazione dell’ente anche di volti come l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno o del senatore forzista Maurizio Gasparri.
Ma si tratta di una difesa debolissima: perché a ben vedere dai curriculum di chi non solo siede nel consiglio di amministrazione, ma siede anche nella società controllata che gestisce gli immobili (il vero tesoro) emerge con chiarezza come Fratelli d’Italia abbia messo le mani nel cuore della Fondazione e nei suoi gangli vitali da tempo. Un’azione partita ben prima della vittoria alle elezioni del 2022 che ha portato la leader del partito alla poltrona principale di Palazzo Chigi.
I finanziamenti a Forza Nuova e alle associazioni della galassia no vax risalgono al 2021, pochi giorni prima dell’assalto alla Cgil per il quale è stato condannato Roberto Fiore: lo stesso che, secondo una informativa della Guardia di finanza, ha fatto da tramite con la Fondazione per far arrivare fondi a società dietro le quali c’era lui.
Del 2023 è invece il sostegno da 30 mila euro ad Acca Larentia, associazione di estrema destra legata a Casapound, per l’acquisto della sede. Chi c’era nei vertici della Fondazione in questo lasso di tempo, tra il 2021 e il 2023?
La Fondazione dal 2017 è presieduta da Giuseppe Valentino, ex sottosegretario alla Giustizia nel governo Berlusconi del 2005, molto vicino a Meloni e al presidente del Senato Ignazio La Russa.
Valentino era il nome scelto da Fdi, all’inizio del governo Meloni, per entrare da laico nel Consiglio superiore della magistratura: salvo poi fare un passo indietro dopo le polemiche per una indagine legata alla ‘ndrangheta archiviata.
Fino al 2022 vicepresidente della Fondazione era poi il senatore di Fdi Roberto Menia e segretario l’attuale sottosegretario Andrea Delmastro: inoltre sedeva nel cda anche lo stesso La Russa e l’attuale ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida cognato della premier. Oggi nel cda siede la sorella della premier, Arianna.
Ma è guardando al ramo immobiliare che si capisce come la Fondazione sia stata, e sia oggi, nelle mani dei meloniani. Tornando al filo che collega l’ente a Forza Nuova, nel 2021 il partito di Fiore aveva una sede in via Giovanni Paisiello 40, in una palazzina di proprietà della Fondazione: si tratta di un immobile di grande valore della donazione ad An della contessa Colleoni. In quella donazione c’era anche la famosa casa di Montecarlo che è costata una condanna in primo grado a Gianfranco Fini per riciclaggio.
In via Paisiello c’è il bene che rendeva di più alla contessa come affitto, e che invece era di fatto occupato, gratuitamente, da Forza Nuova: lì aveva sede anche una associazione culturale di un dirigente di Fn che ha ricevuto 3 mila euro dalla Fondazione.
Bene, tutto il patrimonio immobiliare, comprese le sedi di FdI e il quartier generale di via della Scrofa, è gestito dalla società Italimmobili: il vero tesoro della Fondazione. A bilancio ha un valore di 20 milioni, ma sul mercato i beni potrebbero valere cifre molto più elevate. Ed è qui che siedono da tempo uomini di stretta fede FdI: oggi la società è presieduta da Roberto Petri, dirigente emiliano di FdI e marito della senatrice Marta Farolfi. Il secondo componente del cda della controllata è Antonio Tisci, anche lui dirigente di FdI, in Basilicata. Il terzo è ultimo componente del board è Filippo Milone, un volto legato a La Russa e al mondo dei Ligresti: oggi siede nel comitato di garanzia del partito e nel cda del Secolo d’Italia. Prima di diventare sottosegretario, in Italimmobili sedeva anche Delmastro e fino al 2020 l’avvocata Consuelo del Balzo, nominata del 2020 all’Anac e precedentemente candidata al Senato per Fdi.
Insomma, da anni il partito della premier gestisce di fatto la Fondazione An: anche quando finanziava sigle fasciste e No vax. E quindi poteva non sapere a chi andavano i soldi o chi occupava i propri immobili?
(da repubblica.it)
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Agosto 30th, 2024 Riccardo Fucile
DOPO IL NO AL BIS DI VON DER LEYEN, LA DUCETTA È ISOLATA. MA PUÒ RIENTRARE NEI GIOCHI ABBANDONANDO CHIARAMENTE L’EUROSCETTICISMO, VOTANDO IL MES E LASCIANDO IL “CAPITONE” A CROGIOLARSI CON ORBAN E LE PEN… CE LA FARÀ LA SORA GIORGIA A EMANCIPARSI?
C’è una ragione per la quale Giorgia Meloni aveva ordinato di mantenere nascosta la visita di
Manfred Weber a Palazzo Chigi. La premier già sapeva quanto delicato e scivoloso fosse il senso del messaggio che il Presidente del Ppe si apprestava a recapitarle. Un bivio che fonti autorevoli di governo adesso riassumono così: sganciarsi progressivamente da Matteo Salvini, oppure schiantarsi.
L’unica strada per evitare il conflitto con la nuova Commissione e non esporre l’Italia, indebolita a causa di casse vuote e deficit eccessivo, a scenari allarmanti. Non va interpretata come una pressione politica indebita: semmai, come il consiglio sincero e costruttivo di un potenziale alleato, figlio del sentimento dominante a Bruxelles in queste settimane.
Nel cuore della Ue, infatti il fronte europeista si prepara a blindare la linea sull’Ucraina. E, nel frattempo, progetta di chiudere definitivamente i conti con il fronte sovranista vicino a Putin, in attesa dell’esito delle presidenziali americane.
La scommessa è che vinca Kamala Harris. In questo caso, il cordone sanitario applicato ai Patrioti di Orbán, Salvini e Le Pen diventerebbe sfida finale agli euroscettici. Con un dettaglio non irrilevante: l’unico di questi leader a sedere al governo di uno dei Paesi fondatori è proprio Salvini. Tra l’altro escluso dagli incontri di Weber a Roma. Un assaggio di questo nuovo clima si è avuto ieri, nel corso del consiglio dei ministri degli Esteri dell’Unione, quando soltanto l’ungherese si è opposto all’invio di armi a Kiev, scatenando la durissima reazione dei presenti.
Meloni non è rimasta sorpresa. Conosce la posizione del Ppe sui Patrioti, è consapevole della necessità vitale di Pse e Liberali di evitare l’allargamento a destra della maggioranza Ursula, senza troppo distinguere tra Ecr, lepenisti e salviniani.
L’unico modo che la premier ha di rientrare nei giochi — e di non prolungare il suo isolamento — è dunque quello proposto da Weber (e poi confidato durante l’incontro a porte chiuse nella fondazione Adenauer): abbandonare le posizioni euroscettiche mostrate col no a von der Leyen, votare il Mes e lasciare al proprio destino il leghista. Solo così, l’Italia potrà garantirsi un dialogo civile con la nuova Commissione. E i popolari potranno ragionare con Ecr, anche restando fuori dalla maggioranza Ursula.
Weber tende la mano alla premier, ma con paletti chiari: «Abbandonare la linea assunta col no a Ursula» e mollare Salvini, «il vero problema di Meloni, perché è lui che le fa deviare la rotta sulle questioni europee». È evidente che al momento la presidente del Consiglio non può staccarsi dal leader del Carroccio, perché spaventata dal “nemico a destra” e a causa di un banale calcolo aritmetico: in Parlamento la maggioranza si regge sui voti leghisti.
E però, la fondatrice di Fratelli d’Italia ha rassicurato sulla volontà di restare al fianco di Kiev e assicurare la tenuta dell’Europa, nonostante Salvini. Tradotto: l’impegno è quello di contenere il suo vice, almeno sui dossier più sensibili.
Non è detto che basti a tirare fuori Meloni dal vicolo cieco nel quale si è cacciata opponendosi alla nuova Commissione, con cui dovrà concordare la procedura di rientro per deficit eccessivo. Sul punto, conta però sulla sponda di Giancarlo Giorgetti, certo non disposto ad assecondare le richieste di Salvini sulla manovra.
(da agenzie)
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Agosto 30th, 2024 Riccardo Fucile
IL RAID UCRAINO NELLA RUSSA KURSK HA SVELATO I LIMITI DI UN’AUTOCRAZIA CHE PENSAVA DI RAPPRESENTARE IL POTERE ASSOLUTO
In un antico libro russo si legge che c’è tempo per tutto: per gettare le pietre e per raccoglierle. La guerra ha poco tempo e molte forze. I carri armati rumoreggiano nella steppa di Kursk e un’erba triste ricopre i villaggi abbandonati. Dove i combattimenti infuriano le case hanno le occhiaie vuote e i fianchi piagati. Erano, in fondo, delle buone vecchie case russe, ma i proprietari le hanno abbandonate precipitosamente e ora imputridiscono come cadaveri. Cittadine muoiono lentamente. Si vive nei ricoveri tra strepiti e difficoltà di ogni sorta e si parla di quando “le difficoltà” saranno superate. I russi delle zone invase o in pericolo di attacco hanno imparato a gettare le pietre e a evitare le pietre e ciascuno salva ciò che più gli è caro.
Tre settimane fa Vladimir Putin pensava di portare a spasso, nella Sua Guerra fatta di paradisi, purgatori e inferni senza numero, un’altra giornata normale: l’occhio famelico, i sensi sempre in allarme, un Belikov cecoviano che ha messo fruttuosamente al servizio dell’istinto di sopravvivenza l’innato ossequio al potere e il fanatismo per l’ordine. Ma adesso, dopo Kursk?
Tre settimane fa, attorno a lui, la vita camminava e i russi credevano, discutevano, simulavano, protestavano (pochi!). E morivano: ma laggiù, in Ucraina. Alcuni volevano arricchirsi e essere primi, come sempre, altri badavano a salvare la pelle. Non c’era nessuna novità, nessuno sbalzo, tutto fluiva naturalmente, ogni cosa era legata da un filo, invisibile ma vivo.
I cortigiani e i generali venivano da lui con il rapporto, qualche avanzata qualche ritirata, l’economia di guerra ronzava… Sentiva che avevano paura di lui, come prima, lo capiva dalle vene del collo che si gonfiavano e dalle piccole gocce di sudore che si raccoglievano agli angoli della bocca quando dovevano sillabare cattive notizie. Bene: se tremavano significava che tutto era sotto controllo. Ma adesso tre settimane dopo Kursk? La Russia non comincia a sembrargli piena di misteriosi rumori e di dubbi? Così si distruggono le enormi piovre, lontano, sotto le acque profonde. Così iniziano il malcontento le rivolte, il caos. Le rivoluzioni.
Nei ventiquattro anni di incantesimo al Cremlino man mano che si imbeveva di potere, ha ricavato una solida pedagogia. Sedurre… seduzione… il seduttore Putin. C’è sempre dietro il sedurre anche in politica uno sfondo di bugia e di illusione, un far cadere in falsità. Dal Gorgia di Platone è una faccenda di simulazione, corruzione, usurpazione. Il seduttore Putin: nella sua mediocrità referendario ideologico di una condizione, non solo russa, europea, contesa nel dilemma tra bugie e realtà, onestà e inganno, parole e fatti, viltà praticata e obbligo morale disatteso. Di questo è sopravvissuto sapendo che i suoi interlocutori, i democratici d’occidente, erano troppo vili o bugiardi per risolvere il dilemma e che la sua utilità, anche di autocrate, valeva bene la spesa di molti tappeti rossi, strette di mano, inchini e l’ingoiare i mille rospi dell’abiura dei celebrati diritti umani. Che amano la lingua di granito del compromesso e hanno l’abitudine di apprezzare, sottovoce per carità!, gli utili sbirri di professione.
Al giudizio finale, che prima o poi sapeva inevitabile, si è sottratto il 24 febbraio scendendo a bruciare nel fuoco rapido della guerra le ambiguità antiche e la coscienza nel passare del tempo di un futuro incerto. Ma adesso, dopo Kursk? Adesso che la guerra è, antropologicamente, anche in Russia non ci sono in lui dubbi che iniziano a sbucare, a farsi strada da sé prima timidi e poi veementi?
Non ho mai creduto ai racconti che in due anni hanno fatto scorrere tanta saliva propagandistica in Occidente di un Putin disperato, chiuso nel bunker del Cremlino, ossessionato dalla sconfitta incombente e dai demoni della punizione e del tradimento domestico. Ma oggi dopo Kursk qualcosa è cambiato, di profondo, al di là della irrilevanza militare della incursione ucraina. Un sistema politico, tirannide o democrazia, esiste solo se risponde in maniera adeguata a ciò che lo mette in pericolo. Finché riesce a reagire e ad annientare ciò che punta alla sua fine sopravvive. Quando dimostra di non avere più i mezzi per rispondere, subito, drasticamente, muore. La Russia putiniana è forse arrivata a questo dilemma senza vie di uscita.
Il cuore del putinismo è appunto la Potenza, la promessa e la garanzia di Potenza. Tutto si gioca a partire da lì. Non la situazione economica, i diritti, la censura, i dissidenti. La Potenza tiene! Il potere è legato al suo Verbo feticcio. Quella che ha promesso ventiquattro anni fa quando da quasi nessuno è diventato lo zar delle macerie russe.
E dunque, alla fine, che cosa è questa così agognata Potenza? È la condizione di chi fa paura, di chi può far del male così a fondo e impunemente che il mondo intero ne sente il clamore e il tremore. Napoleone, l’imperialismo ipocrita inglese e poi americano, l’Urss e Stalin: tutti potenti non per l’Ottantanove, la democrazia, il comunismo. Perché hanno fatto e fanno paura. Pezzo per pezzo, lentamente, Putin ha convinto i russi e anche l’occidente di essere diventato potente, di poter far male. E non solo per le atomiche.
Ma se dopo Kursk questa convinzione vacilla? Se il Verbo non tiene più, si svela come Verbo di impotenza che non scongiura più nulla, i bombardamenti l’occupazione del suolo della Santa Russia Senza Peccati i profughi gli sfollati, che la fanno tragicamente simile alla irrilevante, scalcinata Ucraina.
Se il Grande Putin assomiglia, nei guai, al microscopico buffonesco Zelensky, allora non diventa la supposta Potenza un Verbo di colpa e quasi di crimine? Non è lui responsabile di una invasione come lo fu Stalin? Cosa è diventata, da giustificazione di un assoluto Potere, se non una terribile trappola in cui è incappato Putin? Siamo al punto in cui la legge della Potenza sbandierata, pubblicizzata, la potenza delle sfilate e delle guerre periferiche, si capovolge nel suo contrario, diventa sfacelo.
Domenico Quirico
(da lastampa.it)
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Agosto 30th, 2024 Riccardo Fucile
NATO FEDELE, GIORGIA LO COMANDA CON UNO SGUARDO, ORA LO MANDA A BRUXELLES
Raffaele Fitto se ne sta fermo in cima alle verdi valli del Pnrr nazionale, a farsi vento. È vivo e
vispo, più o meno come una pala eolica. Non solo perché ne ha la statura e la vivacità nello sguardo, ma perché produce da fermo una costante quantità di energia che gli consente, ogni anno da trent’anni, di amministrare la propria biografia grazie a un’ostinazione familiare e a un karma doroteo che lo portano sempre un po’ più in alto, senza spettinarlo mai.
Stavolta – per volontà di Giorgia Meloni, messa con le spalle al muro dalla sua ex amica Ursula – la sua destinazione sarà il nuovo parco eolico di Bruxelles, magari non proprio in prima fila, pazienza, sicuri tutti che saprà rendersi utile e ubbidiente come sempre: sbarbato, profumato, di scuro vestito, con la cravatta azzurra che indossa dalla prima comunione in poi.
Giorgia lo comanda con la sola forza dello sguardo blu, meglio di una scudisciata. Dalla seconda rata in poi del Pnrr, gli ha ordinato di annettersi tutti i rubinetti di spesa. Ha ubbidito, infischiandosene dei cento nemici che si accatastavano alla sua porta di ministro plenipotenziario, accusandolo di essere “troppo accentratore”. Proteste alle quali rispose con l’arietta del bimbo che dice “non lo fo per piacere mio”. Subito dopo la ducetta gli ha comandato di smontare le architetture contabili pensate dal geometrico Mario Draghi, stabilendo, con il decreto Sud, la sua sola titolarità su ogni finanziamento a regioni e comuni, per il massimo dispetto di Matteo Salvini che a ogni giro di pala eolica del suo rivale, riempie il tempo vuoto ideando scempiaggini sui social e costruendo castelli di sabbia sulla risacca, solidi quanto la sua Autonomia differenziata e il suo Ponte.
La storia di Raffaele, nato proprio in queste ore il 28 agosto 1969, è un apologo delle radici. Le sue sono quelle antiche e solide della Democrazia cristiana e del paesone che gli regalò i natali, Maglie, provincia di Lecce, quello che nella piazza Aldo Moro, celebra il monumento al concittadino Aldo Moro che pensa e guarda lontano, ma così lontano, da avere una copia dell’Unità in tasca, come a dire che (in fondo) Mario Moretti non aveva sbagliato bersaglio.
Babbo e mamma, Salvatore e Leda, erano democristiani di massimo potere. Il padre imprenditore, prima fu sindaco di Maglie poi presidente della Regione Puglia. Tutto cancellato dal cattivo destino di un incidente automobilistico sulla statale 7 verso Brindisi, all’ora del tramonto, morti lui e l’autista, finiti a super velocità dentro a un camion.
Raffaele quel giorno compiva 19 anni. E rovesciò il suo modo di stare al mondo, niente più calcio, motociclette, ragazzine e prepotenze di svagata gioventù. Disse: “Da quel giorno la mia vita ebbe uno scopo”. E lo scopo fu quello di riempire il vuoto familiare con la politica a tempo talmente pieno da essere eletto in Regione, in capo a un anno, diventando prima il più giovane consigliere della Puglia. Poi addirittura il più giovane presidente della Puglia, anno 2000, stesso scranno del padre, ma con un potere maggiore, vista la sua capacità di presidiare le massime turbolenze di quegli anni, migrando da un nuovo partito all’altro senza mai spostarsi troppo dal suo piedistallo: prima la Dc di De Mita, poi il Partito popolare di Martinazzoli, quindi il Centro di Buttiglione, poi la valanga azzurra di Berlusconi, fino alla fiamma di Giorgia, anno 2019, ultimo giro di pale, per il momento.
Lui e lei si conoscono nel 2008, durante il quarto governo Berlusconi, lei ministro della Gioventù, lui degli Affari regionali, lei a recitare il copione dell’Underdog indisciplinato, lui quello del bimbo quieto. Talmente ubbidiente da assecondare Berlusconi anche quando dirà che Vittorio Mangano – il sicario mafioso assunto a Arcore – “è stato un eroe”. Al punto che Silvio lo battezza “pupillo”, nominandolo “mia protesi”, come fosse un favore.
Raffaele cresce a immagine del Capo anche nel comparto giudiziario: accumula 14 imputazioni in carriera, per corruzione, peculato, falso e abuso d’ufficio. Reagisce denunciando i suoi giudici, come gli ha insegnato la politica. E quando i magistrati gli contestano 500 mila euro di finanziamento della famiglia Angelucci nella campagna elettorale del 2005, versati alla sua lista “La Puglia prima di tutto”, lui replica: “È un contributo regolarmente contabilizzato”, proprio come faranno tutti gli amministratori a seguire, compreso il collega e amico Giovanni Toti, presidente della Liguria, tanti anni dopo.
Strategia vincente, visto che fatta salva qualche condanna in primo grado, Raffaele viene assolto e qualche volta prescritto da tutto, con massimo onore della Camera dei deputati e dei suoi difensori, tra i quali l’immancabile Francesco Paolo Sisto, avvocato di Berlusconi e sottosegretario alla Giustizia.
Ma se immacolato resta il suo colletto bianco, tre inciampi scheggiano la sua rotante carriera anche se solo momentaneamente. Due volte viene sconfitto nella corsa alla rielezione della Regione Puglia, prima da Nichi Vedola, anno 2005, poi da Michele Emiliano, anno 2020. E una terza, quando si dimette dall’ombra del Capo, dichiarandosi contrario al cosiddetto “Patto del Nazareno”, l’imbroglio ideato nel 2015 dal macellaio Denis Verdini e dal suo allievo Matteo Renzi, che intendevano insaccare il Partito democratico e cuocerlo alla brace.
Per il morbido Fitto è un colpo inaspettato di orgoglio e di pala eolica. Al quale Berlusconi risponde con uno stizzito “vaffanculo!” in pubblico, battezzandolo “parroco di Lecce”, e sentenziando: “Se ne va? Meglio. Ogni volta che va in tv, perdiamo il 4 per cento”.
“Sono introverso e non sorrido”, replicò lui, senza perdere il suo grigio umore. Ogni volta rigenerandolo alla fonte battesimale “della Puglia, la mia terra”, intesa non solo come famiglia gelosamente custodita – una moglie, tre figli, nessun pettegolezzo – ma anche come collegio elettorale, alla maniera dei vecchi democristiani che mai si scordavano del bicchier d’acqua agli amici che attendevano in anticamera con le immancabili liste di collocamento in tasca.
La terra è il Salento, incorporato da un accento così marcato che Giorgia gli ha appena comandato un corso full immersion di inglese, per prepararsi alle piogge di Bruxelles. Ha ubbidito, ci mancherebbe: Fitto è una risorsa della Repubblica, specialmente la sua.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Agosto 30th, 2024 Riccardo Fucile
UN CASO DA SINDROME DI STOCCOLMA?
La sindrome di Stoccolma è quella particolare forma di innamoramento che le vittime nutrono nei riguardi dei propri aguzzini. Fu coniata all’indomani di un episodio avvenuto in Svezia, quando alcuni impiegati di banca sequestrati per sei giorni dai rapinatori, cominciarono a nutrire sentimenti di empatia verso i criminali, fino a testimoniare in loro favore al successivo processo. Risultarono affetti da una sintomatologia ansiosa, disturbi fisici e psicofisici e sintomi depressivi.
E’ la stessa patologia che ha colpito, non da ora, una quota non irrilevante di dirigenti, militanti e simpatizzanti del Partito democratico nei confronti di Matteo Renzi che oggi si ripropone al partito e al cosiddetto “campo largo” come novello alleato, essendosi facilmente liberato di ogni imbarazzo o senso di colpa, se mai ne abbia sofferto, per tutti i danni arrecati con le sue scelte precedenti, allo stesso partito, al centro sinistra e al paese, se oggi ci ritroviamo, soprattutto grazie a lui, al peggior governo di destra che l’Italia abbia mai patito, dall’avvento della Repubblica parlamentare.
Occorre dire che il popolo democratico, anche quando si denominava “diessino” o “pidiessino” e in parte ancor prima quando era “comunista”, ha sempre nutrito nei riguardi del capo, il segretario, uno smisurato amore, che un tempo affondava le sue radici nella mitologia rivoluzionaria, nell’identificazione totale nel partito, nella sua ideologia e nell’ incrollabile certezza che avrebbe raggiunto la meta palingenetica del socialismo, della società liberata dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il paradiso in terra. Da allora tra crolli, fallimenti, delusioni, ripensamenti e revisioni, abiure e nuovi giuramenti sull’insostituibilità del capitalismo e della società liberale, ne è passata d’acqua sotto i ponti.
Cionondimeno alcuni riti del passato permangono: la fiducia smisurata nei confronti del segretario come il migliore possibile, nella condizione data. Mai e poi mai il popolo ora democratico ha mai abiurato la scelta compiuta anche dopo sonore sconfitte e clamorosi fallimenti. Il senso di appartenenza, dopo aver perso il cemento marxista e leninista, ha acquisito quello democratico ancor più forte, anche perché liberato dalla fastidiosa pratica dell’autocritica, in una situazione antropologico-culturale ben diversa, dal momento che la composizione del partito si è contaminata con le più svariate correnti politiche della Prima e della Seconda repubblica.
Tutti i segretari, da Togliatti in avanti, hanno ricevuto analogo trattamento: folle innamoramento testimoniato e registrato dagli abbracci calorosi con le cuoche davanti ai fornelli delle feste de l’Unità (che nel frattempo non c’è più). La foto è sempre la stessa da Togliatti (escludiamo Bordiga e Gramsci perché ai fornelli non sembra siano transitati), passando per Berlinguer, Natta, Occhetto, D’Alema, Veltroni, Fassino, Franceschini (primo esponente proveniente dalla DC), Bersani, Epifani (socialista), poi Renzi (ex Dc anche lui), brevi intermezzi di Orfini e Martina ma sempre con foto d’obbligo, infine Zingaretti, Letta e dulcis in fundo Elly Schlein.
Non pochi hanno provocato dolori a causa di insuccessi e prove non brillanti, ma verso nessuno c’è mai stato un sentimento di rifiuto, perfino nei confronti di Matteo Renzi, il peggiore di tutti: ha compiuto il tradimento massimo, dopo la sconfitta, uscirsene dal Partito e fondarne un altro con il dichiarato scopo di arrecare ulteriori danni e perdite elettorali al partito di cui è stato segretario. Renzi si può definire un “lanzichenecco” della politica, un soldato di ventura se vogliamo usare un termine più empatico. Dotato di una indiscussa abilità tattica, privo di visione, tantomeno di alcun freno inibitorio, disinvolto fino all’estremo di una recitazione politica, è un personaggio che nella fauna nostrana ha conquistato, approfittando del declinante panorama culturale e morale del Paese e soprattutto della politica, un indiscusso ruolo di protagonista mediatico, pur se privo di qualsiasi consenso elettorale.
Egli rappresenta la leggerezza del male, la simpatia della cattiveria, il fascino dell’irresolubile traditore. Nell’immaginario cinematografico è lo sposo che non si presenta alla cerimonia, quello che investe il pedone e scappa via, il simpatico che ti stringe la mano e con l’altra ti sfila il portafogli. E’ per questo che nonostante una parte consistente di gente normale lo detesti, diciamo pure che lo schifa e con lui non prenderebbe un caffè, c’è una quota di orfani che non resiste all’attrazione fatale del pericolo e vuole sfidare la sorte di rimetterlo in gioco.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Agosto 30th, 2024 Riccardo Fucile
“NON È POSSIBILE CHE SI CONTINUINO A FARE QUESTE STRONZATE GIÀ VECCHIE NEGLI ANNI ’90. MI RICORDA BERLUSCONI ALLA FINE DELLA SUA CARRIERA: CON LUI NON CI SI POTEVA PIÙ NEMMENO INCAZZARE MA CI SI CHIEDEVA SOLO DOVE FOSSE LA SUA BADANTE”
Dal suo arrivo in televisione, il mondo food ha acquisito sempre più rilevanza dal punto di vista
mediatico. E non è un caso, dunque, che i social pullulino di aspiranti chef pronti a farsi notare nel marasma digitale. Non solo, anche l’aspetto economico del cibo è sempre al centro di polemiche e dibattiti tra gli utenti. [ Di questo e altro ne parla lo chef Guido Mori, intercettato dai microfoni di Mowmag.
E sul caso sempre dibattuto dei prezzi ritenuti eccessivi dal grande pubblico, Mori parla anche della famosa polemica sui costi proposti dal Crazy Pizza di Briatore: “Ma perché la pizza margherita a quel prezzo non se la mette nel cu*o? È un qualcosa che non ha senso. L’idea che il cibo debba essere caro perché lui è figo è vecchia – ribatte inviperito lo chef -. Io quando lo guardo lo sento parlare gli direi molto volentieri di andare in pensione, non è possibile che si continuino a fare queste str*nzate che erano vecchie già negli anni ’90, figuriamoci nel 2024. Ecco, mi ricorda Silvio Berlusconi quand’era alla fine della sua carriera, con cui non ci si poteva più nemmeno incazzare ma ci si chiedeva solo dove fosse la sua badante. Se posso dire, caro Briatore, faccia un salto nel presente che è meglio”.
(da Mowmag)
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Agosto 30th, 2024 Riccardo Fucile
NON PAGO HA PUBBLICATO L’IMMAGINE DI BIDEN, BILL GATES, ANTHONY FAUCI E NANCY PELOSI IN DIVISA ARANCIONE DA CARCERATI E INVOCATO IL TRIBUNALE MILITARE PER OBAMA…LO SCAZZO TRA TRUMP E L’ESERCITO PER AVER FATTO CAMPAGNA ELETTORALE NEL CIMITERO DI ARLINGTON
Ha rilanciato il post di un follower che accusava Kamala Harris di aver fatto carriera attraverso prestazioni sessuali. Accusato i democratici di aver candidato la vicepresidente con un colpo di Stato
Pubblicato l’immagine di Joe Biden, Bill Gates, Anthony Fauci, Nancy Pelosi in divisa arancione da carcerati, invocato il tribunale militare per Barack Obama, postato il messaggio di un sostenitore che chiedeva di arrestare i membri della commissione del Congresso, a maggioranza dem, che aveva avviato l’inchiesta sull’insurrezione del 6 gennaio 2021, sdoganato le teorie cospirazioniste di Qanon, offerto ai sostenitori brandelli del vestito indossato durante il dibattito tv con Biden.
E pubblicato immagini legate alla sua controversa partecipazione, due giorni prima, al cimitero nazionale di Arlington (dove sono vietate riprese e fotografie a uso elettorale), per l’anniversario della scomparsa dei tredici soldati americani morti durante l’attentato all’aeroporto di Kabul nel 2021
E tutto questo, Donald Trump lo ha messo insieme non in un mese, ma in poco più di una giornata. A meno di settanta giorni dalle elezioni presidenziali, il tycoon ha passato tutta la mattina di mercoledì postando in modo compulsivo sulla sua piattaforma social, Truth.
(da agenzie)
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Agosto 30th, 2024 Riccardo Fucile
“SE SARO’ ELETTA NOMINERO’ ANCHE UN MINISTRO DI FEDE REPUBBLICANA, HO PASSATO LA MIA VITA AD INCORAGGIARE LA DIVERSITA’ DI OPINIONE”… UN’IMMAGINE MODERATA PER CONQUISTARE IL VOTO DEGLI INDECISI
Kamala Harris nominerà un “ministro” di fede Repubblicana se sarà eletta prossima presidente
degli Stati Uniti. Lo ha detto la stessa candidata dei Democratici ai microfoni della Cnn, nella prima intervista tv rilasciata da quando Joe Biden ha abbandonato la corsa e le ha ceduto il testimone, poi confermato formalmente dalla convention democratica della scorsa settimana. «Penso sia davvero importante», ha spiegato Harris alla giornalista Dana Bash. «Ho passato tutta la mia carriera ad incoraggiare la diversità d’opinione, e penso sia importante avere gente attorno al tavolo delle decisioni che contano con visioni ed esperienze diverse. E penso che gli americani ne beneficerebbero se avessi un membro repubblicano del mio Gabinetto».
Già nel discorso di accettazione della candidatura a presidente Usa tenuto una settimana fa esatta dal palco della convention di Chicago, Harris aveva fatto molte aperture al centro, insistendo su temi come sicurezza e lotta all’immigrazione, oltre che su una guida forte negli affari internazionali. La candidata Dem ha comunque rifiutato di indicare sin d’ora un nome di chi tra i conservatori includerebbe nella sua squadra di governo: «Mancano 68 giorni al voto, non metto il carro davanti ai buoi».
Cambiare idea per il bene del Paese
L’intervista completa a Kamala Harris, e al suo vice designato Tim Walz seduto al suo fianco, andrà in onda sulla Cnn alle 21 di questa sera E.T. – le 3 di notte in Italia – ma l’emittente Usa ha anticipato sul suo sito alcuni passaggi chiave dell’intervista.
Oltre all’apertura ai Repubblicani, nell’intervista Harris cerca anche di difendersi dall’accusa di aver cambiato posizione negli anni su alcuni temi chiave. O meglio, di spiegare perché ciò sia avvenuto. Perché su questioni sensibili come il via libera o meno al fracking (trivellazioni) o la depenalizzazione del reato di immigrazione clandestina le posizioni della Harris candidata di quattro anni fa si sono capovolte quando è andata al governo degli Usa (e ora che punta a guidarli? «I miei valori non sono cambiati», ha parato il colpo Harris. Ma, ha spiegato, i quattro anni da vicepresidente le hanno dato una nuova prospettiva su alcune questioni chiave per il Paese.
«Uno degli aspetti cruciali da questo punto di vista è stato viaggiare nel Paese in lungo e in largo. Penso sia importante costruire consenso, e trovare un punto comune d’intesa sul quale possiamo realmente risolvere i problemi». La campagna per Usa 2024 si vince al centro, è la scommessa (evidente) di Kamala Harris. Cui i sondaggi danno concordemente ora un lieve vantaggio. Ma la cavalcata è ancora lunga e irta di possibili insidie.
Durante il colloquio di 27 minuti la dem e l’aspirante vice Tim Walz hanno parlato di Medio Oriente, cambiamento climatico, middle class e immigrazione
Un’intervista attesissima, ma privi di rischi e senza sorprese. Quella rilasciata ieri, giovedì 29 agosto, dalla candidata dem alla presidenza Usa Kamala Harris e dal suo vice Tim Walz. Merito, o colpa, anche del network amico Cnn e della giornalista Dana Bash, poco incalzante.
Nei 27 minuti di intervista, Harris ha difeso l’operato di Joe Biden, ma ha anche affermato che «gli americani sono pronti a voltare pagina».
La politica estera
Sul fronte della politica estera, nessuna domanda sull’invasione russa in Ucraina. Mentre sulla situazione a Gaza, Harris ha ribadito che «si deve arrivare a un accordo per il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi» israeliani nella mani di Hamas. «Io e il presidente lavoriamo giorno e notte per un accordo», ha aggiunto, ribadendo il diritto di Israele a difendersi e rilanciando la soluzione dei due stati. Sulla fornitura d’armi americane a Israele non ci sarà invece alcun cambiamento. Nessun embargo, quindi. Harris ha poi fatto sapere di voler inasprire le politiche sull’immigrazione. E si è impegnata a far «rispettare e applicare le leggi sulle persone che attraversano illegalmente la nostra frontiera», anche se in passato era per la depenalizzazione. «Ci dovrebbero essere delle conseguenze», ha precisato la dem, attaccando Trump per aver affossato il rigido accordo bipartisan per rafforzare la sicurezza al confine.
I cambiamenti climatici e la middle class
Ai repubblicani che l’accusano di cambiare spesso le sue posizioni politiche, Harris ha assicurato che «i suoi valori non sono cambiati». Ad esempio, ha esemplificato, lei ha sempre creduto che «la crisi climatica sia reale, una questione urgente», citando le leggi e gli investimenti dell’amministrazione Biden in materia. E ha promesso, cambiando opinione, che non vieterà il “fracking”, ovvero la controversa tecnica per estrarre gas e petrolio dalle rocce che alimenta un settore chiave nello stato in bilico della Pennsylvania. «Possiamo sviluppare una energia pulita senza vietarlo», ha sottolineato.
Ma la priorità, se eletta a novembre, sarà una: sostenere la middle class. «Nel mio primo giorno alla Casa Bianca le priorità saranno rafforzare la classe media, sviluppare un’economia delle opportunità, investire nel business, nella catena di approvigionamento, nelle famiglie. Le persone sono pronte per andare avanti, spinte da speranza e ottimismo», ha concluso.
(da agenzie)
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Agosto 30th, 2024 Riccardo Fucile
LA MELONI STA PENSANDO DI RIDIMENSIONARE L’ASSEGNO UNICO PER I FIGLI… I FAVORI SI FANNO SOLO AD EVASORI, TASSISTI E BALNEARI
Nell’Italia di Giorgia Meloni essere poveri, anziani, giovani, donne, e a maggior ragione madri, pare essere una colpa.
Se invece sei un imprenditore di un lido, un tassista, uno che evade le tasse o una banca, tutto è perdonato. L’operazione di smantellamento del Reddito di cittadinanza ha svelato una ferocia sociale delle destre che rischia di ripetersi con l’assegno unico per i figli. Benché abbia smentito di voler mettere mano alla misura di Draghi, con la scusa dell’Europa che ne ha criticato l’impianto, il governo sta pensando di ridimensionarla. Siamo sempre alle solite: far cassa sul welfare state.
Ma smontare l’assegno unico, in presenza di buste paga da fame anche per l’ostinazione del governo a dire no al salario minimo, significa aggravare l’inverno demografico dell’Italia.
Alla faccia dei proclami della premier e della sua ministra Roccella sulla guerra alla denatalità e sul quoziente familiare. Smontare l’assegno unico sarebbe l’ultimo tassello di politiche inaugurate da questo governo che vanno in direzione ostinata e contraria alle donne e alle famiglie.
Prima ci sono state le picconate a Opzione donna, gli asili nido fantasma, i bonus per le madri lavoratrici che tagliano fuori le precarie e le autonome, l’inasprimento della tassazione su pannolini, latte in polvere, assorbenti. Una lunga sfilza di misure emblematiche di quanto Giorgia, madre e cristiana, non solo non abbia fatto nulla per le donne, ma anche di quanto abbia remato contro di loro.
(da lanotiziagiornale.it)
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