IL RITORNO DI TRUMP COSTERA’ CARO AL MADE IN ITALY: I DAZI COMMERCIALI CHE “THE DONALD” HA PROMESSO DI IMPORRE ALLE MERCI CHE ARRIVANO DAL MESSICO COLPIRANNO ANCHE LE 1.800 AZIENDE ITALIANE PRESENTI NEL PAESE
COLOSSI E PMI TRICOLORI CHE PRODUCONO SUL SUOLO MESSICANO PER SFRUTTARE I COSTI PIÙ BASSI E POI ESPORTARE VERSO I RICCHI STATI UNITI E NON SOLO … RISCHIANO DI PAGARE UN CONTO SALATO FERRERO, ENI, PIRELLI, BREMBO, STELLANTIS E CAMPARI
C’è già stata una prima “vittima” del clamoroso, ma di certo non imprevedibile, ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. La mattina dopo la rielezione del magnate americano a presidente: il Messico, che di fatto vive di export verso i vicini Stati Uniti. Le scosse hanno subito colpito Città del Messico: il peso, termometro del paese, è crollato ai minimi da due anni contro il dollaro.
Se Trump alzerà davvero il ponte levatoio di dazi, il vicino di casa, da sempre serbatoio di manodopera (ma anche di criminalità) e di delocalizzazione, sarà quello che pagherà il conto più salato. Nel mondo globalizzato, gli Stati Uniti sono un grande consumatore che produce ben poco (o nulla) e che importa quasi tutto.
Quella vulnerabilità, però, non si ferma alla terra dei sombreri, ma arriva a toccare anche l’Italia: il Messico conta 1.800 aziende tricolori, secondo un censimento della CaMexItal, la camera di commercio Italo-Messicana.
Di queste, una grossa fetta ha anche stabilimenti: circa 300. Quello che succederà al Messico avrà presenti contraccolpi in Italia: molti di quei 300 stabilimenti sono stati costruiti su suolo messicano per sfruttare i costi più bassi e poi esportare verso i ricchi Stati Uniti, data anche la vicinanza geografica. È un Made in Italy in Mexico che serve a tenere i prodotti concorrenziali (e a fare più margini).
L’Italia non è l’unico paese ad aver sfruttato l’asimmetria: anche colossi americani si sono trasferiti a sud del confine, dove producono per poi vendere a casa loro. È su quelli che l’ira di Trump si vuole abbattere, con l’arma dei dazi. Eventuali nuove tasse sulle merci importate, per favorire il ritorno di produzioni estere in casa (reshoring), rischiano tuttavia di essere una tegola per le aziende tricolori.
Scorrendo la lista dell’Italia in Messico, ci sono tutti i grandi colossi industriali del paese: da Eni a Leonardo, dalla Ferrero dei dolciumi alla Pirelli; da Brembo alla Campari.
La fetta più grossa della torta è composta dalle aziende italiane che hanno delocalizzato: primo su tutti la Ferrero di Alba. Nel 2012, il gigante mondiale dei dolciumi, inaugurò uno stabilimento a San Josè. Da quella fabbrica escono ogni anno 45mila tonnellate di Nutella e cioccolata Kinder: il 40% prende la via del NordAmerica. Lo stesso vale anche per le classiche pmi: Elica produce in Messico le sue famose cappe da cucina per gli Usa (si veda intervista a lato).
Pirelli è un caso a metà ed esemplare: la storica azienda di pneumatici di Marco Tronchetti Provera possiede uno stabilimento dal 2012, da cui escono oggi 8 milioni di pezzi, i quali sono venduti sul mercato domestico e in USA, in base a una strategia industriale “locale su locale”, che mitiga impatti di questo tipo. Negli Stati Uniti, peraltro, il gruppo ha un altro stabilimento, in Georgia: è però un impianto molto più piccolo di quello di Silao.
La ex FCA, oggi Stellantis, costruisce in Messico i furgoni RAM 1500, marchio del gruppo Chrysler che salvò nel 2009, e con un tempismo fatidico, poche settimane prima della vittoria di Trump ha annunciato che aumenterà la produzione ma allo stesso tempo investirà oltre 200 milioni di dollari per fare la versione elettrica dello stesso veicolo negli stabilimenti in Michigan, anch’essi eredità di Chrysler, marchio americano.
Lo scorso anno, Brembo, la multinazionale dei freni, ha investito mezzo miliardo in Messico per raddoppiare la capacità dello stabilimento di Escobedo: per il gruppo italiano l’area Nafta vale 1 miliardo di ricavi, un terzo del totale. Ha anche 2 fabbriche in Michigan che potrebbero compensare l’impatto dei dazi.
C’è chi, poi, dal Messico non si può proprio muovere, dazi o non dazi. Perché è lì per forza, non per una scelta di costi: è il caso di Campari ed Eni. La casa milanese dello Spritz e degli alcolici ha una distilleria di Tequila, il marchio Espolòn: dal Messico la esporta in tutto il mondo (ma gli Usa sono per ora il principale mercato). Anche volendo, se i dazi fossero insostenibili, l’industria di Luca Garavoglia non potrebbe spostarsi, perché la Tequila si può fare solo lì.
Nemmeno Eni può muovere le sue piattaforme nel Golfo del Messico: da lì estrae 16mila barili di petrolio al giorno (dato del 2023), che prendono la via del mercato globale e una parte viene venduta anche agli Stati Uniti, dove però Eni ha pure lì trivelle ed estrae circa 17 milioni di barili l’anno.
Il cibo italiano, che tutti nel mondo vogliono, è uno dei settori esposti al rischio della tegola della dogana: l’azienda di salumi Parmacotto produce in Messico e vende negli Stati Uniti, un mercato in forte crescita per il marchio (30 milioni di ricavi, il 30% del totale). In realtà già da prima di Trump, ci sono forti limiti sull’importazione di insaccati: possono entrare negli Usa solo prodotti con meno di sei mesi di stagionatura.
Sempre in zona Parma, Barilla è un’eccezione: la marca di pasta più famosa al mondo è entrata nel paese più di venti anni fa e produce pasta per il mercato domestico. E, in ogni caso, Barilla ha un’enorme fabbrica negli Stati Uniti, in Iowa. In caso di dazi, non avrebbe problemi. Non tutti, però, hanno la forza del colosso emiliano.
(da il Sole 24 Ore)
Leave a Reply