Ottobre 18th, 2010 Riccardo Fucile
FORNIVA NOTIZIE RISERVATE SUI VIP: TRA I CONTROLLATI AGNELLI, DI PIETRO, GENCHI, TRAVAGLIO E GRILLO… AVVISO DI GARANZIA PER IL GIORNALISTA DI PANORAMA GIANCARLO AMADORI, ARRESTI DOMICILIARI AL FINANZIERE PER ACCESSI ABUSIVI AGLI ARCHIVI INFORMATICI… A QUANDO IL GEMELLAGGIO CON ST.LUCIA ?
Avete presente quante località più o meno turistiche italiane sono gemellate con altrettante cittadine straniere?
Il gemellaggio è una delle principali occupazioni di tanti comuni italiani, anche perchè permette un viaggio annuale all’estero a spese dei contribuenti, con relativo seguito di segretarie, cortigiani e gonfalone.
Ovviamente contraccambiato dal sindaco o borgomastro straniero, con relative feste e ricchi cotillon.
E’ giunta l’ora che anche lo Stato italiano segua decisamente questa strada, non sappiamo se in base ai sacri principi federalisti o più semplicemente per adattarsi alla piega degli avvenimenti in cui siamo ormai precipitati ignominosamente.
Sarà opportuna anche una revisione costituzionale, con i due terzi del Parlamento, per sancire che non siamo più una Repubblica fondata sul lavoro (anche perchè il lavoro è sparito, si vedono solo precari e disoccupati in giro, a parte i maniaci), bensì sugli spioni e i dossieraggi.
E’ il momento storico di gemellarci con Stati usi alle nostre abitudini, come St Lucia, ad esempio.
Antigua per ora regge, ma St Lucia corrisponde alla bisogna.
E non parliamo della legge sulle intercettazioni: quelle operate dalla magistratura sono sacrosante, basta non divulgare fatti privati che non c’entrano nulla coi reati contestati.
Parliamo degli spioni privati che ormai sono annidati ovunque, da Montecarlo ai Caraibi, da Roccacannuccia al Guatemala.
Al servizio di faide, di lobbie, di politici che fanno killeraggio per screditare il nemico, persino quello interno allo stesso partito.
Magari attraverso equivoci giornali che impostano campagne mediatiche e monotematiche per abbattere militarmente chi la pensa diversamente.
Una fogna a cielo aperto che al confronto le dsicariche di Napoli profumano di ciclamino.
Poche ora fa l’ultima notizia: un militare della Guardia di finanzia in servizio a Pavia è stato posto agli arresti domiciliari per ordine della magistratura di Milano, per una seria di accessi abusivi agli archivi informatici delle Fiamme Gialle.
Le informazioni date a Giacomo Amadori, giornalista di Panorama, che ha ricevuto un avviso di garanzia per concorso nello stesso reato, si riferivano ad una serie di noti personaggi, tra cui: componenti della famiglia Agnelli, Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris, il giudice Mesiano, Beppe Grippo, Marco Travaglio e la escort Patrizia D’Addario.
Informazioni riservate sarebbero state raccolte e fornite anche su Gioacchino Genchi, già consulente in vari procedimenti penali alcuni dei quali diretti dall’ex pm De Magistris, e su Beppe Grillo.
Gli arresti domiciliari, eseguiti da uomini delle Fiamme Gialle, fanno seguito al provvedimento emesso dal Gip presso il Tribunale di Milano.
Secondo l’ipotesi investigativa, il militare arrestato, nel periodo gennaio 2008-ottobre 2009, ha eseguito, non per motivi di servizio, numerose interrogazioni a terminale.
Successivamente, secondo l’accusa, avrebbe poi passato le informazioni riservate, riguardanti nomi noti della politica e dello spettacolo in particolare, al giornalista di Panorama, Giacomo Amadori.
Il finanziere aveva accesso a informazioni contenute nell’anagrafe tributaria sui beni e sulle dichiarazioni dei redditi dei vip.
Avanti così per rinnovare la politica italiana.
Panorama è di Mondadori e caso strano le informative riguardano tutti personaggi dell’opposizione: da partito dell’amore a partito del delatore?
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Ottobre 18th, 2010 Riccardo Fucile
L’INCHIESTA A MILANO: “CAUSALI POCO VEROSIMILI E PRIVE DI EFFETTIVE RAGIONI ECONOMICHE”… DUBBI “SULL’EFFETTIVO BENEFICIARIO DELLA COMPLESSA STRUTTURA DI UNA SOCIETA’ OFF SHORE COSTITUITA AD ANTIGUA”
L’«assoluta opacità , circa l’effettivo beneficiario della complessa struttura all’origine» della struttura italiana di «una società offshore Flat Point costituita ad Antigua», circonda «trasferimenti di 34 milioni di euro all’estero attraverso la banca Arner», movimentati dalla Flat Point con «causali poco verosimili» e «prive di effettive ragioni economiche».
Dai decreti di perquisizioni ad alcuni commercialisti, svolte a fine aprile nell’inchiesta da tempo in corso sulla filiale italiana della svizzera Arner Bank Sa, emerge ora che la Procura di Milano sta indagando sulla strana triangolazione di 34 milioni di euro: soldi versati alla luce del sole tra il 2005 e il 2009 appunto alla rappresentanza italiana dell’offshore «Flat Point Development ltd» da acquirenti italiani di immobili caraibici di prestigio.
Da lì poi riversati su conti della società presso la filiale milanese di Banca Arner spa e infine trasferiti su conti sempre della società presso la Arner Bank Sa in Svizzera, con destino poi ignoto.
Di quei 34 milioni sotto la lente degli inquirenti, più di 20 risultano essere stati pagati da conti personali presso banche italiane e assolutamente ufficiali del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, di cui sinora era noto (come segnalato da Report il 15 novembre 2009) solo un bonifico alla Flat Point di 3,3 milioni nel 2008.
Il premier non è indagato dai pm Mauro Clerici e Roberto Pellicano, che invece hanno indagato gli ex presidente e amministratore delegato di Banca Arner spa, Nicola Bravetti e Davide Jarach, anche sulla base dell’ispezione di Bankitalia che «ha rilevato gravi e diffuse irregolarità in materia di normativa anti riciclaggio».
Di Banca Arner è noto che la filiale milanese ha come clienti alcuni collaboratori di Berlusconi, tre holding amministrate dai suoi figli Marina e Piersilvio (per circa 40 milioni), e lo stesso premier in un conto che da anni non registra grossi scostamenti attorno ai 10 milioni di giacenza.
Così come è noto che nei mesi scorsi da un lato la Procura di Como ha coinvolto l’ex presidente della banca, Bravetti, in un’inchiesta sullo «spallonaggio» in Svizzera di soldi di evasori fiscali, e che dall’altro la Procura di Palermo lo indaga per l’ipotesi di occultamento di denaro proveniente da attività illecite e intestazione fittizia di beni appartenenti a un costruttore considerato prestanome della mafia.
Uno dei soci storici di Arner, il banchiere Paolo Del Bue, è imputato nel processo sui diritti tv Mediaset (da poco congelato dalla legge sul «legittimo impedimento» del premier) per l’ipotesi di riciclaggio quale «responsabile della Arner Sa di Lugano e fiduciario della famiglia Berlusconi».
E di Del Bue si è parlato molto anche nel processo in cui l’avvocato David Mills ha appena ottenuto in Cassazione la prescrizione della condanna a 4 anni e mezzo che Tribunale e Appello gli avevano inflitto quale teste corrotto con 600mila euro nell’interesse di Berlusconi.
Infatti, fra le reticenti testimonianze contestate a Mills nei processi a Berlusconi del 1997 e 1998, c’era proprio l’«aver omesso di riferire quanto a sua conoscenza in ordine al legame diretto esistente tra Del Bue, della fiduciaria Arner, e la famiglia Berlusconi»: in particolare «che Century One Ltd e Universal One Ltd, società offshore costituite da Mills per conto di Berlusconi, avevano ricevuto dal gruppo Fininvest ingenti rimesse di denaro su conti bancari presso Bsi Lugano, poi prelevate in contanti per 103 miliardi di lire da Del Bue e altri di Arner».
Luigi Ferrarella
(da ” il Corriere della Sera“)
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Ottobre 18th, 2010 Riccardo Fucile
GLI INTRECCI DELLA BANCA ARNER: DI BERLUSCONI IL “CONTO NUMERO 1”, TRA I CLIENTI ANCHE DORIS E PREVITI… NELLA SEDE MILANESE I CONTI DELLE HOLDING CHE FANNO CAPO A MARINA E PIERSILVIO…LA BANCA E’ SOTTO INCHIESTA PER RICICLAGGIO E BANKITALIA NE HA CERTIFICATO L’OPACITA’
Lo spin è il movimento rotatorio, l’avvitamento o l’effetto ricurvo di un palla da gioco. Lo spinning è la procedura con cui il politico previene o contrasta la diffusione di informazioni imbarazzanti, è la tecnica che plasma le mezze verità per costruire storie, finzioni opportunamente orientate.
Le procedure diversive sono tipiche dello spinning.
Se sei in imbarazzo su una questione, afferrane un’altra. Se non ce l’hai sotto mano, creala, inventala e parla di quello.
Spiega chi studia e analizza i discorsi politici: “L’atteggiamento sensato di fronte alla strategia diversiva consiste nel riportare l’attenzione sulla questione principale: quali sono le domande a cui non è stata data risposta? Qual è la risposta e perchè non viene fornita? Contro la diversione sistematica c’è un solo strumento: l’iterazione, il riportare insistentemente l’attenzione sul punto principale, sui contenuti in discussione, e sul vero e sul falso che lo riguarda” (Franca D’Agostini, Verità avvelenata, Bollati Boringhieri).
Sono utili queste definizioni per comprendere l’iniziativa di Nicolò Ghedini contro Report e apprezzare il lavoro iterativo di Milena Gabanelli perchè non è la prima volta che Report affronta le opacità della banca Arner e il suo intreccio con gli affari, i soldi e gli uomini di Silvio Berlusconi.
Se l’avvocato del Capo chiede un intervento contro una trasmissione Rai si finirà per parlare di Potere e di Rai e non di quel che ha rivelato l’inchiesta televisiva. Che al contrario è la questione più importante (l’altra, pur rilevante, ne è soltanto un corollario). Cerchiamo di capire di che cosa si tratta.
Nella sede milanese della banca svizzera Arner la famiglia Berlusconi ha quattro conti correnti per un totale di 60 milioni di euro, di cui uno intestato direttamente al presidente del Consiglio per dieci milioni (è il conto n. 1 della banca) e altri tre per 50 milioni a capo delle holding italiane Seconda, Ottava e Quinta, amministrate dai figli Marina e Piersilvio.
Tra i clienti della banca ci sono molti nomi dello stato maggiore del Cavaliere: Ennio Doris, fondatore del gruppo Mediolanum; la famiglia dell’avvocato Cesare Previti, condannato in via definitiva per i casi Imi-Sir e Lodo Mondadori; Salvatore Sciascia, direttore dei servizi fiscali del gruppo Fininvest condannato in via definitiva dalla Cassazione a 2 anni e 6 mesi per la corruzione di alcuni ufficiali della Guardia di Finanza.
Alla Arner vengono gestite le società anonime Centocinquantacinque e Karsira Holding, che a cascata controllano due società amministrate dalla famiglia di Giovanni Acampora anche lui condannato per il Lodo Mondadori.
Alla Arner vengono gestiti i soldi della Flat Point Development Limited, una immobiliare con proprietari misteriosi che sta costruendo ville ad Antigua per Silvio Berlusconi.
Infine, last but non least, la Arner ha avuto tra i suoi fondatori Paolo Del Bue che, nella sentenza che ha condannato David Mills, è definito l’amministratore di società (Century One, Universal One) riconducibili “direttamente a Silvio Berlusconi”.
La presenza di Berlusconi, dei figli, degli amministratori del patrimonio personale del Capo, degli amici del cerchio strettissimo – come Previti, Sciascia, Acampora: uomini che si immolano per salvare il Capo – lasciano credere che la Banca Arner sia nel cuore del Cavaliere.
Così vicina alla sua attenzione che alcuni arrivano a sussurrare che Arner sia del Cavaliere.
La questione merita una domanda diretta: signor presidente, la banca Arner è sua?
L’interrogativo che, un anno fa, Milena Gabanelli propone al premier è però un altro.
Report, nel novembre del 2009, dà conto delle opacità della Arner e illustra per quali ragioni e circostanze la banca vicina a Berlusconi è sotto il torchio dagli ispettori della vigilanza della Banca d’Italia che vi rintracciano “gravi irregolarità a causa delle carenze e delle violazioni in materia di contrasto del riciclaggio”.
L’inchiesta di Report in quell’occasione si chiude con un appello, diciamo così. Milena Gabanelli si chiede “se non sarebbe opportuno, per il premier, prendere i suoi 60 milioni di euro, spostarli dalla banca Arner e depositarli in un’altra banca italiana un po’ più trasparente”.
L’appello cade nel vuoto. E la Gabanelli ora ci ritorna su.
Questa volta scopre che il 20 settembre 2007 Berlusconi ha comprato quattro acri di terra da una società di Antigua, la Flat Point Development, impegnata a costruire sull’isola caraibica ville e villoni su un’area di 160 ettari.
Report spiega che di questa Flat non si conoscono i proprietari effettivi.
Sono protetti da un sistema di scatole cinesi che sfocia a Curacao, Antille olandesi, e da un rosario di prestanomi e fiduciari con nomi italiani.
Legittimo quindi, anche in questa occasione, la seconda domanda che Milena Gabanelli pone a Silvio Berlusconi: “I 22 milioni di euro portati dal nostro premier ad Antigua corrispondono al reale valore di mercato di ciò che ha acquistato?
E a chi li ha versati e chi è il proprietario di mezza isola? Un imprenditore catanese? Lui medesimo?
Un’opacità che il presidente del Consiglio avrebbe il dovere di dissipare”.
Siamo allora al nocciolo della questione.
Anche in questo caso, lo si può riassumere con qualche domanda.
Chi è il proprietario effettivo della Banca Arner? E’ di Silvio Berlusconi?
Se non lo è, il Cavaliere ne conosce l’identità ?
Se Silvio Berlusconi è soltanto uno dei correntisti – anche se il numero 1 – quali sono i motivi che lo spingono a utilizzare un istituto di credito di pessima reputazione, sotto inchiesta per riciclaggio, cosi oscuro da convincere Bankitalia a sostenere “l’impossibilità di accertare i beneficiari economici di alcune società che hanno il conto alla Arner Italia” e, fra queste, la Flat Point Development Limited di Antigua?
A chi Berlusconi ha versato il denaro per acquistare i terreni di Antigua? Conosce i proprietari della Flat Point di cui i pubblici ministeri di Milano segnalano “l’assoluta opacità dell’effettivo beneficiario” e rilevano le “causali poco verosimili” di “trasferimenti di somme all’estero” tra Flat Point, la filiale italiana di Arner Bank (che ha due dirigenti indagati per riciclaggio) e poi la Arner svizzera?
Può Berlusconi smentire pubblicamente che la Flat Point Development Limited sia una sua proprietà ?
Ecco queste sono le questioni imbarazzanti che hanno convinto Ghedini a giocare una palla ad effetto per parlar d’altro.
Giuseppe D’Avanzo
(da “la Repubblica“)
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Ottobre 18th, 2010 Riccardo Fucile
INUTILIZZATE 19 CASETTE COSTRUITE PER ALLOGGIARE I TERREMOTATI… A MAGGIO IL TAGLIO DEL NASTRO, HANNO MOBILI E CONFORT PER OSPITARE 80 PERSONE, MA NESSUNO CI ABITA… E GLI SFOLLATI SONO ANCORA IN ALBERGO A CARICO DELL STATO
Diciannove moduli abitati provvisori (Map), inaugurati lo scorso 22 maggio, sono ancora vuoti, mentre cinque famiglie di Montorio ad un anno e mezzo dal terremoto sono ancora in albergo.
Ecco gli sprechi del terremoto.
Il caso Montorio è stato denunciato dal quotidiano locale “Centro” prima dell’estate, ma non è cambiato nulla.
Lo spreco di soldi pubblici continua
Dei 57 Map realizzati nel comune alle porte del Parco, costati quanto una casa in muratura e cioè oltre 1000 euro al metro quadrato, contando gli oneri di urbanizzazione, gli allacci delle utenze domestiche e l’arredo completo, ne resta un terzo inoccupato.
Eppure cinque famiglie montoriesi, per un totale di dodici persone, vivono ancora in albergo e costano allo Stato circa 50 euro pro capite al giorno. Potrebbero usufruire di quei map vuoti, ma la burocrazia li fa restare in hotel.
Sono famiglie che rientrano nei casi di tipologie di danno classificate come “B” e”C”, ovvero la loro abitazione è temporaneamente inagibile o parzialmente inagibile, per cui non possono occupare i moduli, secondo quanto spiegato dal sindaco di Montorio.
I Map vuoti sono così tornati nelle “mani” della Protezione Civile prima e poi in quelle del commissario per la ricostruzione Gianni Chiodi, e sono a disposizione di chi ne facesse richiesta.
Ma il bando per l’assegnazione, scaduto lo scorso maggio, è andato quasi deserto.
Nessun terremotato dell’Aquila si è voluto spostare nella cittadina dell’entroterra teramano, se non due famiglie residenti nel comune di Crognaleto.
«Ho sollecitato più volte gli organi competenti sulla questione», ha detto il sindaco Di Giambattista, «e ho anche proposto di spostare gli sfollati, che vivono ancora negli alberghi, nelle casette. Ma allo stato attuale delle cose, mi è stato risposto che ciò non è possibile. Attualmente i map vuoti non sono più nella disposizione del nostro Comune».
Ma il primo cittadino non si arrende: «Spero», aggiunge, «che questa situazione possa sbloccarsi al più presto come da noi prospettato».
Secondo quanto dichiarato dagli uffici comunali occorre un ulteriore decreto per poter assegnare i Map a chi ha danni minori, poichè i moduli sarebbero destinati a chi abitava in edifici catalogati totalmente inagibili (tipologie “E” ed “F”).
Così, per un intoppo burocratico, le diciannove casette con giardino e posto auto, dotate di cucina, salotto, camere da letto, bagni arredati, televisore e tendaggi restano vuote mentre lo Stato continua a pagare gli alberghi, a chi è ormai stanco di vivere in spazi angusti.
(da il Centro)
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Ottobre 18th, 2010 Riccardo Fucile
L’ACCUSA CONTRO MARINO FINOZZI E’ DI NON AVER SALDATO UN DEBITO DI CIRCA 10.000 EURO, CONTRATTO COME IMPRENDITORE, NEI CONFRONTI DEL FOTOGRAFO AUTORE DEL CATALOGO DELLA SUA ATTIVITA’…QUANDO I GIUDICI HANNO DISPOSTO IL PIGNORAMENTO LA SOCIETA’ ERA SPARITA
Marino Finozzi non avrebbe pagato il fotografo autore del catalogo della sua attività imprenditoriale.
La procura di Vicenza ha indagato per il reato di truffa l’assessore regionale al Turismo Marino Finozzi (Lega Nord).
Un’accusa che il politica condivide con altri due imprenditori.
La notizia è stata pubblicata dal Corriere del Veneto.
L’inchiesta coordinata dalla procura di Vicenza nasce da un esposto presentato da un fotografo: Finozzi e i suoi soci non avrebbero saldato un debito contratto nell’ambito dell’attività imprenditoriale.
Quando, però, i giudici hanno deciso il pignoramento, la società era sparita.
Marino Finozzi, a capo di un’impresa produttrice di sedie, fallita nel 2009, dal 2005 si era impegnato nella Venice Tecnologies srl, società attiva nel settore dei mobili.
Un fotografo era stato incaricato dall’allora capo del consiglio d’amministrazione di preparare un catalogo con immagini dei prodotti.
Dopo due anni di lavoro il fotografo si era presentato in ditta per riscuotere il compenso superiore a 10mila euro. I soldi per pagarlo, però, non c’erano più.
In quello stesso periodo l’ad aveva ceduto la carica a Finozzi.
Come rappresentante legale della società , l’assessore, si apprende dal quotidiano veneto, aveva sottoscritto un piano di rientro del debito, che però non era stato onorato.
A quel punto il fotografo si era rivolto all’ avvocato.
Finozzi e i due soci con cui era stata avviata l’attività , si erano giustificati adducendo come causa del mancato pagamento, il contraccolpo della crisi che aveva investito il settore mobiliero nel 2008.
L’avvocato del fotografo era riuscito a ottenere un decreto ingiuntivo per pignorare i beni della società , ma secondo l’accusa, quando il provvedimento è diventato esecutivo, la sede della Venice Tecnologies era desolatamente vuota.
Secondo il fotografo questa “sparizione” sarebbe una vera e propria truffa.
A seguito dell’esposto, la magistratura ha avviato le indagini coordinate dal pm Claudia Dal Martello.
La procura vuole stabilire se la cessazione dell’attività sia stata una manovra strategica per aggirare il creditore, o se, invece, i tempi necessari per l’ottenimento del pignoramento dei beni aziendali e la conclusione delle attività della società siano solo una coincidenza temporale, favorita dalla crisi generale che ha messo molte imprese in ginocchio.
In questo secondo caso, la questione diventerebbe risarcitoria.
L’assessore sarà sentito a breve.
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Ottobre 18th, 2010 Riccardo Fucile
IL NUOVO INTERESSANTE SAGGIO DI GIORDANO BRUNO GUERRI SU BRIGANTI, PATRIOTI E ILLUSI: PROVE DI GUERRE CIVILI 1860-70
Pubblichiamo l’introduzione del libro di Giordano Bruno Guerri “Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio 1860-70 (Mondadori, pagg. 302, euro 20)” in uscita martedì prossimo.
Un saggio anti-retorico che diventa un’occasione – in questo 150 º anniversario dell’Unità d’Italia – per sfatare molti luoghi comuni che orientano il nostro giudizio sul Risorgimento.
Ciò che accadde nel 1861 realizzava il sogno secolare di poeti, politici e intellettuali.
L’Italia «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor», invocata da Alessandro Manzoni, non era più un’astrazione.
Ma in che modi e con che spirito fu compiuta l’impresa? Quali tragedie e ingiustizie la accompagnarono?
Realizzata dalla classe dirigente piemontese grazie soprattutto all’abilità diplomatica di Cavour e al temperamento incendiario di Garibaldi, l’Unità integrava davvero identità , culture, tradizioni, persino lingue diverse?
Oppure si raggiungeva soltanto l’unità politica?
«Si è fatta l’Italia, ma non si fanno gli Italiani», recitava la celebre sentenza di Massimo d’Azeglio, con retorica sufficiente a velare un’intenzione che non c’era – almeno non in tutta la classe dirigente – e non ci sarebbe stata.
Lo stesso d’Azeglio scrisse, in una lettera privata: «La fusione coi Napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso».
Una parte del nuovo Stato era già «italiana», l’altra non lo era affatto.
Occorreva dunque educarla a essere diversa da sè, a costo di snaturarla.
Ai primi segni di insofferenza del Sud, nacque subito una contrapposizione rancorosa: «noi» contro «loro». «Noi», i civilizzatori; «loro», i brutali indigeni. «Noi», i portatori di giustizia e legalità ; «loro», i briganti.
A dividere gli uni e gli altri, c’era una diversità radicale e radicata, non un’inconciliabilità momentanea. Qualcosa di molto simile a un’estraneità , che si finì per aggravare.
La storia – a partire dalla Rivoluzione francese – aveva insegnato che, appena si annunciano grandi cambiamenti, dal cuore antico di masse amorfe e analfabete prorompe l’animus di un’opposizione sanguinaria.
Per sminuirne la portata, tale opposizione veniva svilita – dagli intellettuali, dai politici e dall’opinione pubblica – a una viscerale manifestazione di rancori e pulsioni irrazionali.
Si trattava, invece, di una resistenza ideologica e politica, oltre che sociale. Ma, per liquidarla, i maestri della Rivoluzione francese avevano già capito che il segreto stava nell’accomunare la rivolta al delitto comune.
Anche in Italia la ribellione – di reazionari, contadini e clericali – contro lo Stato appena costituito fu etichettata «brigantaggio». Al Sud c’erano banditi veri, criminali comuni, prima, durante e dopo l’Unità .
A questi delinquenti vennero equiparati i «briganti», come vennero chiamati i meridionali in lotta per scacciare gli «stranieri» che sbandieravano una fratellanza forzata; dall’altra parte non c’erano parenti, affini, connazionali, bensì un popolo nemico, un invasore brutale e arrogante, venuto da lontano.
Nessuna solidarietà , nessuna vicinanza, nè culturale, nè umana, nè politica: i briganti non si sentivano «italiani».
I nemici erano usurpatori, colonizzatori arrivati per conquistarli e per cancellare la loro storia, i costumi, i legami e le appartenenze. Due mondi erano in conflitto tra loro. Perchè l’uno venisse a patti con l’altro occorreva che il vincitore riconoscesse le differenze e cercasse di cancellarle realizzando una maggiore giustizia sociale.
Si preferì l’azione repressiva, determinata a stroncare, soffocare, estirpare.
Una logica che alimentò se stessa: la violenza ne generò altra, sempre più crudele.
Ufficiali e soldati italiani si sentirono avamposti in pericolo, esploratori in una terra popolata da una razza diversa, percepita come inferiore .
Con la legge Pica, dell’agosto 1863, il governo italiano – in pieno accordo con il Parlamento – impose lo stato d’assedio, annullò le garanzie costituzionali, trasferì il potere ai tribunali militari, adottò la norma della fucilazione e dei lavori forzati, organizzò squadre di volontari che agivano senza controllo, chiuse gli occhi su arbitrii, abusi, crimini, massacri.
Mentre accadeva tutto questo, c’era chi vedeva dietro il brigantaggio l’intervento del Papa, chi la longa manus borbonica, e in parte avevano ragione.
Ma ne aveva di più chi suggeriva, inascoltato, che la causa principale andasse ricercata nelle oggettive condizioni di minorità sociale e di miseria della plebe meridionale.
La verità su cui al Nord tutti concordavano è che, appena nata, l’Italia era già madre di due figli diversi: uno di cui andare fieri, l’altro bisognoso di severe lezioni.
Per gli uomini dei Savoia, i briganti erano l’emblema di quel figliastro malato e depresso, geneticamente tarato.
Ma non basta l’approccio razzistico a spiegare l’atteggiamento tenuto nei suoi confronti, c’è dell’altro: potremmo chiamarla la sindrome del «chi ce l’ha fatto fare?».
Si spiegano così prima la spietatezza della repressione, poi l’adozione di una politica economica e sociale del tutto inadeguata ai problemi del Mezzogiorno; più tardi la perseveranza con cui quei problemi vennero liquidati come sintomi indelebili di arretratezza e di parassitismo.
Il brigantaggio rappresentava il segnale d’allarme di un guasto grave, e non solo per l’ordine pubblico.
Il modo in cui fu combattuto sviluppò quella che sarebbe diventata la «delinquenza organizzata», e accrebbe a dismisura la gravità di una questione meridionale destinata a incancrenire la vita politica del Paese perpetuando la contrapposizione Nord-Sud.
I contadini saliti sui monti furono – con le sole armi che avevano a disposizione, la disobbedienza e il banditismo – i ribelli di una storia che li aveva ignorati, di un processo che aveva sancito la rimozione della loro cultura e della loro tradizione.
Furono la spina nel fianco del potere, almeno per cinque lunghissimi anni.
Saranno sconfitti, ma grazie alla loro rivolta, si rafforzò la sensazione che la terra abitata da quel popolo sarebbe stata la «palla al piede» della nazione.
«Ci avete voluti, imponendoci la vostra volontà : ora pagate le conseguenze».
Ecco cosa sembrava dire il Sud al conquistatore.
Tutto ciò rivela gli errori e le colpe di una classe dirigente a cui dobbiamo riconoscere i meriti storici di avere realizzato un processo unitario non più rinviabile.
Allo stesso tempo, i padri della patria devono essere giudicati anche sui piedistalli dove, intangibili, li ha collocati la retorica di un Risorgimento popolato solo da piccole vedette lombarde, tamburini sardi e giganti del patriottismo.
È una retorica che vuole il nostro Risorgimento fatto solo di eroi, di martiri, di Bene opposto al Male.
È una storia alla quale tuttora manca una profonda opera di revisione storiografica .
Perciò il brigantaggio postunitario è stato, lungo il secolo e mezzo di storia nazionale, poco più di una parentesi della quale si sono perse le tracce, quasi un incubo da rimuovere e censurare, una pagina vuota, una tragedia senza narrazione.
I briganti scontano, oltre alla sconfitta, anche il destino della damnatio memoriae.
A loro, non spetta l’onore delle armi. Gli sconfitti sono scomparsi nella zona d’ombra in cui li ha relegati la cattiva coscienza dei padri della patria.
Una guerra in-civile come quella andava dimenticata, rimossa o almeno ridimensionata alla stregua di una semplice, per quanto sanguinaria, operazione di polizia.
C’è solo da sperare che, con le prossime celebrazioni dei 150 anni di Unità nazionale, si rinunci almeno in parte al conformismo retorico e patriottardo: aggettivo molto diverso da «patriottico».
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