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REGIONE LAZIO: INDAGATA ASSESSORE ALL’AGRICOLTURA, FAVORI AD AZIENDE AGRICOLE

Settembre 28th, 2012 Riccardo Fucile

ANGELA BIRINDELLI, “NEMICA” DI BATTISTONI, ISCRITTA NEL REGISTRO DEGLI INDAGATI INSIEME AL SINDACO DI VITERBO PER CORRUZIONE E TURBATIVA D’ASTA

Un altro indagato nel ciclone giudiziario che ha investito la Regione Lazio.
Non si tratta, però dell’inchiesta sui fondi del Pdl spariti e finiti in Spagna.
Almeno, non direttamente: l’assessore regionale all’Agricoltura, Angela Birindelli, risulta indagata dalla Procura di Viterbo insieme al sindaco di Viterbo Giulio Marini e ad Erder Mazzocchi, commissario straordinario dell’Arsial, l’agenzia regionale per il sostegno e lo sviluppo dell’agricoltura.
Nell’inchiesta in tutto sono indagate 10 persone tra le quali tre funzionari regionali e tre dipendenti pubblici viterbesi.
Sindaco e assessore sono accusati di corruzione e turbativa d’asta: avrebbero favorito aziende vitivinicole viterbesi – in relazione alla rassegna enologica nazionale Vinitaly, edizione 2011 – nell’aggiudicazione di commesse.
Tuttavia l’indagine sui fondi all’agricoltura si collegherebbe in parte al filone della seconda inchiesta sullo scandalo fondi, quella aperta dalla Procura di Viterbo (che vede Fiorito testimone), in merito alle false fatturazioni del Pdl in Regione Lazio.
LA GUERRA DEI VITERBESI NEL PDL
La vicenda di Angela Birindelli, 52 anni, vicina alla governatrice Polverini, si inquadra a pieno diritto nella faida interna al Pdl del lazio: l’assessore, infatti, è considerata una «nemica» dell’ex capogruppo Pdl alla Pisana Francesco Battistoni (che aveva preso il posto dell’indagato Franco Fiorito) costretto alle dimissioni dall’aut aut di Renata Polverini lo scorso 20 settembre, dopo un infuocato vertice con Angelino Alfano.
SPINTA DALL’UDC
Birindelli, come Battistoni, è originaria del Viterbese (è nata a Bolsena). E Viterbo è l’epicentro del terremoto politico che ha scosso e scuote il Pdl laziale. Birindelli, nel 2010 – su pressioni dell’Udc -soffiò il posto di assessore all’Agricoltura al conterraneo Battistoni facendo infiammare la faida viterbese.
Poi, tra beghe e feroci discussioni, esplode lo scandalo dei finanziamenti sospetti: tra questi, 18 mila euro stanziati da Birindelli. L’accusa che trapela all’inizio è pesante: concorso in estorsione.
FILONI INCHIESTA
L’inchiesta si sta dipanando in almeno due filoni principali: il primo è quello che vede l’assessore Birindelli indagata per corruzione e tentata estorsione insieme con i giornalisti Paolo Gianlorenzo e Viviana Tartaglini, rispettivamente ex direttore del quotidiano L’Opinione di Viterbo e amministratrice della cooperativa che lo produceva.
L’indagine è scaturita da una denuncia del consigliere regionale Francesco Battistoni, secondo la quale la Birindelli avrebbe commissionato 18mila euro di inserzioni pubblicitarie sull’attività  del suo assessorato, in cambio delle quali il quotidiano avrebbe orchestrato una campagna stampa contro lo stesso Battistoni.
Il secondo è scaturito da un’altra denuncia per diffamazione a mezzo stampa presentata dai legali di Battistoni e da due aziende viterbesi.
LA REPLICA DI MAZZOCCHI
Si chiama fuori dalla presunta turbativa d’asta, il commissario Arsial: «Non ho mai avuto rapporti con aziende viterbesi, nè personali nè professionali e tutti gli affidamenti sono stati fatti direttamente dall’ente fiera di Verona», dichiara Erder Mazzocchi.
Che precisa: «I fondi per la realizzazione della manifestazione vennero assegnati dall’assessorato all’Agricoltura ad Arsial soltanto alla fine di marzo 2011 con la manifestazione che sarebbe iniziata il 5 aprile».
Quanto al Vinitaly 2012, in quelal edizione il Padiglione Lazio «è stato realizzato direttamente dall’assessorato all’Agricoltura della Regione Lazio».

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LA LEGA DI MARONI PROVA A METTERSI IL DOPPIOPETTO

Settembre 28th, 2012 Riccardo Fucile

CAMBIO DI PELLE A UN ANNO FA VENEZIA E IL DIO PO, MENTRE BOSSI E REGUZZONI SONO SEMPRE PIU’ ISOLATI

Venerdì e sabato la Lega prova a mettersi il doppiopetto.
A Torino, al Lingotto, terrà  i suoi «Stati generali». Il primo giorno sono previsti seminari a porte chiuse, nel secondo si tirano le somme con personaggi del calibro di Corrado Passera e Giorgio Squinzi, gente che non sarebbe neanche stato ipotizzabile vedere sul palco di Pontida o di Riva degli Schiavoni.
È passato un anno dall’ultimo rito dell’ampolla, ma sembra un’era geologica.
Maroni confida di avere faticato per spazzare via gli orpelli un po’ buzzurri di un tempo. Ma, a pochi mesi dal grande ribaltone, ormai regna sul movimento come un monarca assoluto.
Anche nel Varesotto, dove la Lega e Bossi sono sempre stati una sola cosa: basta poco per dimenticare.
Il vecchio capo vive abbandonato dal mondo, soprattutto dal suo mondo, nella casa di Gemonio, quella che ha fatto scandalo per la ristrutturazione a spese del partito ma che resta una villetta come tante altre, per di più con vista su un orribile cementificio. Solo fino a pochi mesi fa colonnelli e governatori facevano a gara per stare al suo fianco sui palchi dei comizi.
Anche se sempre più vecchio e stanco, il Senatur restava il capo indiscusso.
Più di quanto fosse Berlusconi per i suoi elettori. Era un Perà³n padano al quale tutto si perdonava, pure vent’anni di promesse non mantenute.
Oggi anche qui nella sua terra può contare appena su un manipolo di fedelissimi. Bossiana è rimasta la sezione di Busto Arsizio.
Il segretario si chiama Alessio Rudoni ma di fatto, dicono, comanda Paola Reguzzoni, sorella di Marco, ex capogruppo alla Camera fatto fuori dai maroniani.
Detestato dai suoi rivali di partito, che lo accusavano di gestire con arroganza il potere che Bossi, e soprattutto la moglie di Bossi, gli avevano delegato,
Reguzzoni ha però mostrato schiena diritta evitando di tentar di salire sul carro dei vincitori.
È vero che per uno come lui, che faceva parte del «cerchio magico», un saltafosso non sarebbe stato facile. Però molti bossiani l’hanno fatto, o perlomeno tentato. Lui no.
È rimasto deputato ma non ha più incarichi nel partito e si dedica alla sua azienda, la Biocell di Busto Arsizio, che fa ricerca sulle cellule staminali.
Bossiana è rimasta anche Rosi Mauro, che i maroniani chiamavano «la mamma Ebe della Lega» o, quando erano in vena di gentilezze, «la badante».
Non la si vede più accompagnare il vecchio capo tenendolo sotto braccio.
Ma continua a lavorare in una sorta di repubblica sociale leghista sognando la rivincita.
La Lega l’ha espulsa, insieme all’indegno tesoriere Belsito, un altro del cerchio magico.
Ma l’ha lasciata segretaria del Sin.Pa, il sindacato padano, e questo potrebbe rivelarsi, alla lunga, un errore.
Perchè in qualità  di capo del Sin.Pa la pur espulsa Rosi Mauro ha mantenuto un ufficio in via Bellerio, dove qualcuno teme che agisca da serpe in seno.
Di certo lei non se ne sta con le mani in mano e ha già  fondato, con il senatore Lorenzo Bodega, un nuovo partito.
Il nome sembra quello di una ditta di elettronica o di meccanica: SGC. Ma vuol dire «Siamo gente comune». La sede, per ora, è a Lecco, e al nuovo partito ha aderito anche una tale Arianna Miotti, che è consigliere comunale qui ad Arcisate, provincia di Varese.
E gli altri?
Di tutti gli altri che gridavano «Bossi-Bossi» ai comizi, chi è rimasto con «l’Umberto»?
Dei sindaci di qui, solo due: Maurilio Canton di Cadrezzate e Graziella Giacon di Laveno Mombello, dove davanti al porticciolo c’è un bar nel quale Bossi ogni tanto si fa vedere e fa due chiacchiere con Renato Pozzetto.
Poi è sempre bossiano Carlo Crosti, ex sindaco di Induno Olona, uno della prima ora. Ma dopo basta.
Giancarlo Giorgetti ha difeso Bossi fino all’ultimo, ma ora è lì, un po’ nel mezzo, a tentare di ricucire.
Gli altri via, tutti.
Quando si perde il potere si perdono anche molti amici.
Allora non resta che sperare in un più o meno impossibile ritorno. Magari ascoltando i primi mal di pancia contro Maroni.
Come ad esempio quelli di chi vede in Isabella Votino, ex portavoce al ministero degli Interni, una specie di nuova Rosi Mauro: troppo presente e troppo potente.
E i mal di pancia di chi vede strane analogie fra il congresso provinciale varesino del 9 ottobre 2011, quello in cui scoppiò la rivolta anti-Bossi, e quello in programma per domenica prossima.
Un anno fa gli iscritti insorsero perchè Bossi aveva imposto un candidato unico, il suo fido Maurilio Canton.
Ebbene, anche quest’anno il congresso ha un candidato unico, Matteo Bianchi, sindaco di Morazzone: solo che è maroniano.
Dicono che qualche settimana fa, a Busto Arsizio, Bossi abbia detto ai suoi: «Maroni è bravo quando deve fare una cosa sola. Ad esempio il ministro. Ma se deve pensare a a quattro o cinque cose insieme, va nel pallone».
Come a dire che non è un segretario.
E che prove (o illusioni) di rivincita sono in corso.

Michele Brambilla
(da “La Stampa”)

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CARO DI PIETRO MA TUTTI QUESTI CHE C’AZZECCANO?: CHE RUOLO AVEVA L’IDV NELLA REGIONE LAZIO?

Settembre 28th, 2012 Riccardo Fucile

COME MAI IL GRUPPO DIPIETRISTA HA ACCETTATO I FONDI STANZIATI NELLA GESTIONE POLVERINI?

“Ti posso fare una domanda semplice semplice? Ma tu dov’eri sant’Iddio?”.
Prima che i suoi occhi cascassero sulle mani giunte di Renata Polverini, due sere fa in tv, un sorriso ha allargato il volto di Antonio Di Pietro.
Dov’era Renata quando i suoi colleghi facevano merenda?
Il leader dell’Idv avrà  pure una prosa rocciosa, e spesso preda di periodi apocalittici, ma è un retore di prima grandezza.
Ci sa fare, si fa capire, arriva al punto. E da quel punto non si sposta.
Volendo restare anche noi immobili sul punto, potremmo chiedergli: “E tu Di Pietro dov’eri?
Dov’erano i tuoi rappresentanti, i tuoi amici che siedono in consiglio regionale, militanti del bene comune, onestissimi lavoratori al servizio della democrazia? ”.
Hanno visto e contestato. Ma poi anche un po’ intascato il ben di Dio di quattrini che la Regione girava a tutti, destra e sinistra, alti e bassi, conservatori e innovatori. Dov’era Di Pietro, dov’era il suo partito, dov’erano le bandiere, dov’erano i militanti?
Non pervenuto, come quelle notifiche mai registrate.
Il mal comune non è mai mezzo gaudio e se le ultime rivelazioni demoscopiche garantiscono che gli italiani non fanno più alcuna distinzione tra Fiorito e il resto del mondo (“tutti uguali sono!”) è anche merito della falange dipietrista, un tempo volitiva, oggi invece pigra.
Successe con l’aspirante deputato De Gregorio e fu teatro dell’assurdo.
In un mesetto circa di campagna elettorale l’aspirante mutò simbolo e politica, passò da destra a sinistra. Lo accolse infine un distratto Di Pietro. De Gregorio aveva i voti a Napoli, proprio quelli che a lui servivano.
“Mi sono sbagliato”, disse poi il capo. Certo che ammise l’errore. E certo che si dispiacque quando fu nota la caratura della personalità  eletta.
Fu uno straordinario effetto ottico.
Di Pietro accentuò la sua desolazione: “È colpa mia”. Succede di sbagliare valutazione, anche se sarebbe bastata una rapida ricognizione dei luo-ghi per capire e soprassedere.
La selezione delle candidature è certamente la prova più difficile che un leader deve sostenere, e se ne accorgerà  anche Grillo quando ci sarà  da disboscare la giungla di nomi che gli pioveranno fino in camera da letto.
Però Di Pietro è tornato dal luogo del delitto senza imparare alcunchè.
In Sicilia scovò il campione dei campioni del trasformismo italiano: Domenico Scilipoti. “Oramai sono divenuto un brand”, disse felice Scilipoti quando si accorse dell’attenzione e della vasta eco che le sue gesta avevano prodotto.
“È un Giuda!”, sentenziò il leader ammettendo per la seconda volta nel modo più plateale e solenne la sua sconfitta. Un Giuda, un grandissimo Giuda. Un Giuda zampillante, pirotecnico, compulsivo.
Se è vero, come sembra, che alla tavola degli apostoli di Giuda ce ne fosse uno soltanto, e qui già  stavamo a due, è anche giusto osservare che se anche Scilipoti non avesse fatto lo Scilipoti (“sono un brand!”) sarebbe stata intatta la sorpresa nel descrivere la multiforme personalità  e il larghissimo raggio di convizioni politiche espresse da costui.
Non si sa in base a quale confuso segno del destino l’onorevole Scilipoti ricevette la benedizione di combattente dipietrista.
E forse nemmeno Di Pietro sa o ricorda quanti ha benedetto, senza conoscere esattamente lo stato di famiglia, la provenienza geografica e anche, purtroppo, in alcuni casi senza neanche dare un’occhiata al certificato dei carichi pendenti.
Si dirà . E gli altri? Appunto, gli altri, ma Di Pietro no.
A Vasto, nelle prime esibizioni dei muscoli dell’Italia dei Valori la platea spesso si divideva in due parti uguali: di qua cravattone democristiane; di là  giovani militanti, generosi e determinati, vogliosi di cambiare il mondo.
A parte che anche la Dc un po’ ha cambiato l’Italia, e forse i genitori di Tonino, e persino lui, in giovane età  avranno fatto la croce sul simbolo della croce, come i preti di paese consigliavano ai parrocchiani devoti.
Non c’è colpa e non c’è reato. Ed è sempre bello vedere fiorire una nuova vita e nuovi ideali.
A Vasto però colpì il numero spropositato di ex, troppi e troppo convinti di essere al posto giusto al momento giusto.
Detto ciò, si è sempre innocenti fino a prova contraria.
E rilevato, qui solo per cronaca, che un terzo incidente di percorso ha interrotto la comunione di ideali con Antonio Razzi, deputato operaio integerrimo che sebbene avesse denunciato un tentativo di corruzione ad opera del partito di Berlusconi (“Volevano pagarmi il mutuo, ma io ho rifiutato. Meglio povero che traditore! ”), scelse poi comunque di correre a gambe levate verso la casa del nemico.
E con lui fanno già  tre di Giuda.
Per evitarne un quarto, un quinto, un sesto, sarebbe forse necessario che il leader, ascoltata la posizione del capogruppo laziale Maruccio nella delicata questione delle altrui ostriche, si faccia almeno questa domanda: “Ma io, in tutto questo sfacelo, dov’ero?”.

Antonello Caporale
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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ALLARME TRA I GOVERNATORI: ADESSO TAGLIAMO TUTTO

Settembre 28th, 2012 Riccardo Fucile

LE PROPOSTE DEI PRESIDENTI DI REGIONE AL GOVERNO: VIA 300 CONSIGLIERI, TRASPARENZA E CONTROLLO. FORSE UN DECRETO

Presi dal dubbio di non riconoscere qualcuno dei presidenti di Regione meno noti alle cronache, i giornalisti fermano qualunque uomo di mezza età  in giacca e cravatta esca dal palazzo romano di via Parigi, dove si sta tenendo la conferenza dei governatori.
E non tutti la prendono bene.
“Non mi scambi per un presidente della regione che la querelo”, sbotta uno.
Sarà  che hanno capito che l’aria che tira è questa, se ieri sera, dopo i colloqui con il capo dello Stato e il sottosegretario Antonio Catricalà , i 20 eletti hanno deciso di annunciare il loro piano di riforma.
Via 300 consiglieri regionali (un terzo del numero attuale), tetto alle indennità , trasparenza, controllo della Corte dei Conti e sanzioni per chi non sforbicia.
Il loro compito è finito: ora, chiedono, il governo adotti “un provvedimento legislativo concordato urgente, da emanare entro la prossima settimana”.
Un decreto, forse.
Qualsiasi cosa ripulisca in fretta la faccia dei presidenti infangati dal caso Lazio e da quello della Lombardia.
Paradossalmente, fa un certo effetto vedere che il più loquace dei governatori, ieri, era proprio Roberto Formigoni (in un inedito abito tutto nero).
E che fosse Renata Polverini (nel consueto nuovo ruolo, di bianco vestita) a consigliare ai colleghi meno avvezzi alla stampa come affrontare le domande insistenti: “Purtroppo non ti fanno vivere. Ti perseguitano”.
Praticamente impossibile trovare qualcuno che parli male di lei.
Tutti dicono che anche loro, al posto suo, si sarebbero dimessi.
Ma poteva non sapere?
“Secondo me sì — sentenzia Giuseppe Scopelliti, presidente della Calabria — È come se chiedete a me come spende i soldi un consigliere regionale”.
Non lo sa, ma è certo che un altro Franco Fiorito non si annidi tra Reggio e Cosenza: “Non credo proprio, anche perchè da noi i soldi sono molto meno”.
Mentre resta a valutare la differenza di prezzo tra la ‘nduja e le ostriche, dietro di lui sfilano il campano Stefano Caldoro, l’abruzzese Gianni Chiodi, il trentino Lorenzo Dellai, il marchigiano Gian Mario Spacca: tutti d’accordo, la Polverini poteva non sapere.
Così come non sconvolgono le altre notizie circolate in questi giorni. I “fuori busta” in Veneto e Piemonte, per esempio.
“È roba del consiglio. E va avanti così dal 1984”, dice il governatore Luca Zaia. E pure lui esclude categoricamente che tra Verona e Rovigo si aggiri un altro Fiorito: “Anche perchè siamo andati subito a controllare”.
I tecnici delle regioni che sono venuti ad accompagnarli scuotono la testa.
Quelli delle regioni a statuto speciale ce l’hanno con la Sicilia, che non è d’accordo con la loro proposta di riforma e con il Friuli che temporeggia.
Difficile trovare accordi sui 20 punti all’ordine del giorno, tanto che qualcuno se ne va sconsolato per questa “farsa indegna”.
Il presidente della Puglia Nichi Vendola, a margine dell’incontro, annuncia che si taglierà  50 mila euro dallo stipendio annuo.
Sperava nei complimenti, si è trasformato in un mezzo boomerang: tutti a chiedergli, su Facebook, quanto mai avrà  guadagnato finora se può permettersi un risparmio del genere. “Non siamo tutti uguali”, si sfoga anche il governatore toscano Enrico Rossi.
Mentre il palazzo di via Parigi si svuota, dal quarto piano traslocano poltrone.
Una gru le riporta a terra.
Qualcuno le guarda preoccupato.

Paola Zanca
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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CRISI: UN ITALIANO SU TRE RINUNCIA A FRUTTA E VERDURA

Settembre 28th, 2012 Riccardo Fucile

NEL 2011 OGNI FAMIGLIA HA ACQUISTATO 5 CHILI DI FRUTTA E 3 DI VERDURA IN MENO… RIDOTTO ANCHE IL CONSUMO DEGLI ORTAGGI SURGELATI

Fa bene alla salute, è varia, colorata, di qualità .
Eppure con la crisi, gli italiani hanno deciso di «tagliare» proprio l’ortofrutta.
Nell’ultimo anno una famiglia su tre ha alleggerito il carrello alimentare e, di questi, il 41,4% ha ammesso di aver ridotto gli acquisti di frutta e verdura.
Colpa dei prezzi al consumo troppo variabili, dell’educazione a una sana alimentazione non ancora radicata, della minore capacità  di spesa che induce a considerare la frutta un «lusso» e a comprare cibi dal basso costo ma dall’elevato contenuto calorico.
È quanto emerge da un’analisi di Cia (Confederazione agricoltori), Confagricoltura, Fedagri-Confcooperative, Legacoop agroalimentare e Agci-Agrital, presentata oggi al Macfrut 2012 a Cesena.
Così, nel 2011, ogni famiglia ha acquistato 5 chili in meno di frutta, 3 chili in meno di verdura e 1 chilo in meno di ortaggi surgelati, portando a un calo complessivo dei quantitativi del 2,6 per cento tendenziale, per un totale di 8,3 milioni di tonnellate – spiegano le organizzazioni.
In realtà , però, la crisi dei consumi di ortofrutta parte da più lontano: in 11 anni, infatti, gli acquisti sono diminuiti del 23 per cento, passando dai 450 chili a famiglia del 2000 ai 347 chili del 2011.
Vuol dire che in poco più di un decennio si sono persi per strada oltre 100 chili per nucleo familiare, con conseguenze dirette sulla dieta degli italiani e soprattutto sui redditi dei produttori. Oggi infatti la spesa annua per l’ortofrutta si attesta mediamente sopra i 13 miliardi e i prezzi al consumo, anche con i consumi in discesa, aumentano invece di diminuire (rispettivamente +5,8% la frutta e +4,8% i vegetali freschi in termini tendenziali ad agosto, ultimo dato disponibile), con il risultato che gli agricoltori non ne traggono alcun vantaggio.
Oggi il settore ha bisogno di un vero piano di ristrutturazione che si fondi su una visione strategica.
L’ortofrutticoltura – ricordano le cinque organizzazioni- rappresenta circa un terzo dell’intera Plv (produzione lorda vendibile) agricola del Paese e, con una produzione di circa 35 milioni di tonnellate l’anno, l’Italia si contende con la Spagna l’appellativo di «orto d’Europa».

(da “La Stampa”)

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