Settembre 9th, 2012 Riccardo Fucile
DEMOCRAZIA DEL BROGLIO TRA PRIMARIE TAROCCARE, TESSERE INVENTATE E CONGRESSI FINTI
Chi è senza peccato scagli la prima tessera.
Da destra a sinistra, tutti contenti oggi che è esploso il “caso Favia”, ma andando a pescare nel passato recente quanto a trasparenza interna trovi storie degne di “Totò e Peppino vanno alle primarie”.
Trovi partiti con più iscritti che votanti, altri che hanno tesserato novantenni inconsapevoli, perfino avversari politici.
Sarà dura per il Pdl puntare il dito contro i grillini dopo un anno di scandali e polemiche sulle tessere del partito.
Spuntano come funghi dopo la pioggia: ieri non c’erano e oggi ci sono. Regione che vai scandalo che trovi.
Tutto comincia nel 2011, mentre nei sondaggi il Governo Berlusconi naviga sotto quota periscopica.
Eppure in due mesi il suo partito passa da poche migliaia a un milione di tessere.
Riesce a recuperare una cifra vicina ai 12 milioni di euro moltiplicando il numero delle persone iscritte ai partiti che diedero vita al Pdl (An contava 250 mila iscritti, Fi circa 400 mila).
Ma la politica in Italia, si sa, sfida le leggi di gravità : in centinaia si sono trovati iscritti al Pdl senza aver compilato personalmente la richiesta.
Tra questi, minorenni, gente che ha perso la carta di identità , allettati o malati. E poi chi ha prestato il documento a un assessore “per aiutare un amico” e perfino dipendenti di politici iscritti in blocco.
Da gridare al miracolo.
Ma non basta: prima ancora che arrivino i dati ufficiali già dentro il Pdl si cominciano a “pesare” le tessere conquistate da ogni singolo leader: nel Lazio, dove c’è circa un quarto dei tesserati al Pdl, vanno forte gli ex-An, vicini a Fabio Rampelli e Gianni Alemanno che lottano a colpi di decine di migliaia di tessere.
In Lombardia, prima ancora di conoscere i dati definitivi, Roberto Formigoni e Ignazio La Russa si contendono il primato.
Più che trasparenza sembrerebbe preveggenza.
O chissà che altro. Già , a occuparsi del tesseramento Pdl in alcune regioni — Lombardia, Puglia e Campania per dire — più che la politica sono le forze dell’ordine.
A Bari la polizia deve individuare l’uomo che ha pagato un pacchetto di iscrizioni al partito prima del congresso cittadino.
A Modena lotta in casa. La deputata Isabella Bertolini scatena l’ira dell’ex sottosegretario Carlo Giovanardi. Sembra perplessa perchè in alcune zone i modenesi parrebbero improvvisamente “rapiti” dal Pdl.
Non solo: il 99 per cento dei nuovi tesserati vengono dalla Calabria. Giovanardi, sdegnato, respinge ogni accusa.
Insomma, difficile scagliare la prima pietra.
Ma il centrosinistra non sta molto meglio.
Inutile infierire sul caso Lusi con il tesoriere della Margherita che avrebbe sottratto 25 milioni senza che praticamente nessuno se ne accorgesse.
Alla faccia della trasparenza. Già , la Margherita, passata alla storia anche perchè sembrava avere più iscritti che voti.
A Roma i seguaci passano in una manciata di anni da 20mila a 50mila.
Intere famiglie si ritrovano iscritte a loro insaputa.
A Milano l’allora segretario Nando dalla Chiesa affronta di petto la questione e si rivolge alla Procura: in uno sfogo amaro parla di partito che sa mettere insieme area cattolica e laica, ma anche “area laida”.
Al congresso del 2001 le anime dei Ds si scambiano accuse tra il teatrino della politica e quello della commedia: i sostenitori di Fassino vorrebbero l’annullamento di 1200 tessere (quasi tutti pescatori presi all’amo) che a Manfredonia, nel collegio di Pietro Folena, avrebbero fatto aumentare il partito del 600 per cento.
Il correntone risponde: “E i dirigenti della Uil arruolati in blocco dai fassiniani per esempio a Mirafiori…”. Uno pari e palla al centro.
Eccola la trasparenza sempre più invisibile.
La democrazia interna che a volte scoppia: vedi le primarie Pd, gioiosa macchina da guerra contro gli avversari che talvolta diventano arma bianca per regolare conti interni.
Do you remember Napoli e Palermo? Andrea Cozzolino era stato il recordman delle preferenze, già sognava di regnare sotto il Vesuvio.
Poi, mentre il leader Pier Luigi Bersani si complimenta con i dirigenti del Pd locale, Walter Veltroni solleva dubbi: “In un video ho notato che a Napoli votavano molti cinesi. O erano cinesi democratici, o c’era qualcosa che non va. Se c’è una sola ombra, bisogna intervenire”.
Cinesi, ma non solo, agli immigrati a quanto pare il Pd piace.
Prendete Sarzana, dove alla vigilia dello scontro Bersani-Franceschini le tessere sono esplose: nel giro di un mese aumentano quasi del trecento per cento.
Ecco romeni, albanesi, marocchini, macedoni, un libico, un olandese e un canadese.
Se il Pd è incompreso in patria, riscuote successo all’estero.
E pensare che proprio dai vertici Pd-Pdl-Udc è arrivata nei mesi scorsi la proposta di legge sulla trasparenza dei partiti.
Ferruccio Sansa
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 9th, 2012 Riccardo Fucile
I “PROPRIETARI” DEL MOVIMENTO CINQUESTELLE E LA MANCANZA DI DEMOCRAZIA INTERNA… PERCHE’ NON RESTITUIRE LA PROPRIETA’ DEL MARCHIO AI MILITANTI?
«Uno vale uno».
Milioni di italiani si sono rivolti al movimento Cinque Stelle per questo slogan, perchè da anni trovano chiuse le porte dei vecchi partiti, occupati da irremovibili burocrazie.
Beppe Grillo prometteva e ancora promette democrazia dal basso, candidati presi dalla strada, valutati sulla base delle competenze e sottoposti al consenso della base, nella fedeltà assoluta al principio sacro: «uno vale uno».
Si tratta in gran parte di discorsi già sentiti da tutti i partiti padronali che hanno affollato la scena degli ultimi vent’anni all’insegna della politica delle «facce nuove», dalla Lega in poi. Ma tale deve essere la disperazione dei cittadini di fronte all’incapacità del sistema politico di cambiare, che anche stavolta hanno voluto crederci in massa.
Man mano che il movimento di Grillo è cresciuto nei sondaggi e nei consensi reali, i comportamenti reali del capo e del suo alter ego, Gian Roberto Casaleggio, cominciavano a contraddire i principi.
«Uno vale uno», ma il marchio del partito è registrato commercialmente a nome di Grillo Giuseppe, «titolare di ogni diritto».
«Uno vale uno», ma se un esponente di spicco e della prima ora, come Tavolazzi, pretende di discutere l’assetto proprietario dei Cinque Stelle, può venire espulso da un’ora all’altra dal padrone, che lo comunica alla sottostante base in un post scriptum di due righe e «non» segue dibattito.
«Uno vale uno» e contano soltanto i voti dei cittadini, ma se il candidato Cinque Stelle più votato, Giovanni Favia, si lascia sfuggire giudizi pesanti sull’intoccabile Casaleggio e denuncia l’assenza totale di democrazia interna, diventa ipso facto un traditore, un venduto, un porco in combutta coi vecchi partiti, soprattutto col Pd, come scrive oggi il sito di Grillo.
Specificando per la prima volta che il principio «uno vale uno» è stato «completamente travisato» e «non significa l’anarchia».
Involontaria citazione da Orwell. «Tutti gli animali sono uguali. Ma alcuni sono più uguali degli altri».
Davanti a queste contraddizioni, i simpatizzanti di Grillo si dividono in due categorie.
I fideisti assoluti e coloro che coltivano un ragionevole dubbio.
Per i primi è inutile scrivere.
Qualsiasi contraddizione del loro capo è da attribuire a un complotto contro di lui da parte della partitocrazia e dei suoi servi giornalisti.
Grillo può dire e contraddire, lanciare o meno pogrom contro gli immigrati, assolvere la mafia dai peccati, inventarsi che la bomba di Brindisi era un attentato contro di lui, pagare o non pagare le tasse e giustificare gli evasori, aderire ai condoni di Berlusconi, inquinare con la sua barca mezzo golfo ligure, triplicare il reddito da quando fa politica, espellere un dissidente al giorno.
Può denunciare il giornalismo al servizio dei partiti e poi pagare spazi televisivi e usare tirapiedi giornalistici a frotte.
Oggi ce ne sono due sul sito, l’autore della scomunica a Favia, che scrive sotto evidente dettatura dei suoi capi politici Grillo e Casaleggio, dunque un portaborse, e un altro che denuncia i finanziamenti pubblici ai giornali (tema sul quale sono d’accordo), ma dimentica il più finanziato di tutti (l’Unità ), dove guarda caso lui scrive.
I fideisti sono d’accordo, a prescindere.
Come i leghisti e i berluscones di ferro. Chi contesta è un venduto.
L’altro giorno ne ha fatto le spese lo stesso Grillo, che per gioco aveva pubblicato su Facebook una finta prima pagina del Corriere con le accuse più assurde di finti compagni di classe sotto un titolo gigantesco: «Citofonava e scappava!».
Ebbene, la maggior parte delle reazioni dei grillini era di questo tenore: «Giornalisti porci, che cosa non farebbero per le sovvenzioni!».
«Vergogna, venduti!», «Lo facevo anch’io da ragazzo, sarebbe una ragione per screditare Grillo?», «Beppe, resisti!» e così via.
È curioso come un movimento fondato da un comico raccolga tanti sostenitori del tutto privi di senso dell’umorismo.
Esiste poi, per fortuna, una maggioranza di potenziali elettori dei Cinque Stelle composto da cittadini dotati della facoltà del dubbio, che meritano una risposta seria e non un post affidato a un sicario.
Anzi, molte risposte.
Per esempio. Chi e con quali criteri deciderà le candidature al Parlamento del movimento? Qual è il reale ruolo della Casaleggio associati e a quale titolo?
Non sarebbe il caso di restituire la proprietà del marchio ai militanti, invece di lasciarlo depositato alla Camera di commercio come fosse il brand delle odiate multinazionali?
Non eravate contro il copyright, come i Piraten tedeschi?
Perchè sul logo deve per forza figurare il nome di un padrone, per giunta neppure candidato? Perchè Grillo e Casaleggio non rispondono mai nel merito delle accuse sulla mancanza di democrazia interna, non si dice alla stampa sporca e cattiva, ma neppure ai propri militanti (Tavolazzi, Favia) o ad autorevoli esponenti del parlamento europeo?
Per evitare equivoci, si tratta di domande molto meno gravi di quelle che abbiamo rivolto per anni ad altri leader, da Berlusconi a Bossi, da Bersani a Di Pietro o a Vendola, per la verità quasi sempre senza successo.
Ma Grillo, che proclama di essere così diverso da loro, senz’altro ci risponderà . O no?
Intanto dovrebbe almeno rispondere alla domanda lanciata sulla rete da Giovanni Favia.
La stessa che prima o poi tutti i leader di partiti padronali si sentono rivolgere dai dissidenti:
“Che fai, mi cacci?”.
Curzio Maltese
(da “La Repubblica”)
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Settembre 9th, 2012 Riccardo Fucile
“L’ESSENZA DELLA DEMOCRAZIA? REGOLARI ELEZIONI. COME I PAESI CIVILI”
Ma le elezioni sono diventate un accessorio?
Non si fa che parlare del Monti bis, lo vogliono tutti: Obama, Merkel, banchieri e manager di casa nostra.
Abbiamo chiesto a Paolo Mieli, presidente di Rcs libri, se la sovranità popolare ha ancora qualche cittadinanza in un sistema che si vorrebbe democratico.
Mieli, che pensa di questo mettere le mani avanti? Sembra un plebiscito.
Una premessa è d’obbligo. Penso che il governo Monti abbia fatto e stia facendo un eccellente lavoro: l’Italia è ancora in crisi. Ma non come un anno fa, quando il Paese era uscito di strada. Adesso è in carreggiata. Essere in crisi quando si è in carreggiata è diverso
da essere in crisi mentre sei fuori strada con il motore che fuma. Ovvio che a Monti si possono fare tutti gli esami sulle promesse mancate, ma nelle condizioni attuali sta facendo un buon lavoro. Quelli che oggi lo lodano, e a mio giudizio però sono molto nevrotici, sono gli stessi che due mesi fa quando lo spread salì sopra i 500 lo criticavano. Sarebbe augurabile un giudizio meno altalenante, senza isterismi legati alla giornata.
E del bis auspicato, annunciato, già quasi scontato che idea si è fatto?
L’esecutivo tecnico è un esperimento che ha un inizio e una fine, chiamato in una situazione straordinaria a guidare l’Italia con il sostegno dei partiti. Tra l’altro ricordiamoci che all’inizio anche l’Italia dei Valori diede il proprio sostegno a Monti. Per dire che tranne la Lega, erano con lui tutti i partiti. Salvo, come è normale, prendere una posizione diversa sui singoli atti. La maggioranza parlamentare di partenza era pressochè unanime . Ma parlare del Monti bis adesso è un gravissimo errore. E una mossa inopportuna. Perchè il governo deve durare setto-otto mesi, sino alle elezioni. Sarà un periodo in cui continueremo a stare sulle montagne russe: l’accettazione della decisione di Draghi è un passaggio fondamentale, ma non siamo fuori da questa congiuntura. Quindi il governo dovrà prendere ancora molti provvedimenti: è un’avventatezza parlare del dopo.
Ma dopo ci sono le urne?
Infatti questo dibattito è un errore in sè: se tutti i Paesi civili dell’orbe terracqueo, compresi quelli sono messi peggio di noi, fanno regolari elezioni, dove qualcuno vince e qualcun altro perde, non si vede perchè dare dell’Italia un’immagine per cui i partiti fanno tutti schifo e le elezioni vanno abolite. Chi agita questa richiesta come una bandierina della stabilità , non si accorge di fare implicitamente un’affermazione grave: questa sì che è l’antipolitica, altro che Grillo. E siamo noi che raccontiamo all’estero che i nostri partiti non sono presentabili, che chi vince non importa tanto si fa quello che decide l’establishment: un giudizio che ci ritorna di rimbalzo. Terribile procedere in questo modo.
Perchè?
La Merkel, e gli altri governi stranieri, è chiaro che preferiscono Monti: finalmente si confrontano con qualcuno che ne capisce, anzi ne capisce più di loro. Tutto il mondo, a partire da Obama, si compiace di avere interlocutori italiani del calibro di Monti e Draghi. Due personalità di primissimo ordine: un giudizio che evidentemente non avevano dei predecessori. Ed è normale che si augurino che queste persone restino. Fossi nei loro panni, direi la stessa cosa.
Il problema è interno: se non siamo noi a tutelare il sistema democratico chi lo deve fare?
All’interno ci sono intanto i centristi, intenzionati a tornare alla Prima Repubblica, quando il voto era quasi irrilevante perchè di fatto il governo si combinava poi in Parlamento. Può darsi che se lo auguri anche la destra, nella convinzione di risultare perdente. Lo dice l’establishment perchè non si fida del centrosinistra e cerca in questo modo di provocarne un atto di responsabilità . Temono, credo, la solita vittoria del centrosinistra, che scelga per i ruoli importanti personalità che negli ultimi vent’anni hanno già fatto i ministri — non sempre con risultati degni di memoria — temono una coalizione divisa, che magari non sia in grado di mantenere i punti dell’agenda Monti.
C’è anche la questione legge elettorale…
Certo e mi auguro che il sistema elettorale sia tale da garantire la vittoria di una coalizione certa. Monti, anche per il futuro, è affidabile per la sua natura eccezionale. Così sarà anche per eventuali nuovi ruoli, come il capo dello Stato. O se ci sarà un’altra impasse, tornare a guidare il governo. Ma noi assolutamente dobbiamo rientrare nella fisiologia democratica: chi decide sono gli elettori. Dopo il voto, chi vince governa, chi perde sta all’opposizione.
E per ciò che riguarda la sovranità ?
Io sono favorevole a una richiesta rapida di aiuto all’Europa. Anche se comporta appunto una cessione di sovranità in materia economica, ovviamente all’Europa degli eletti o a un mix di eletti e Banca centrale, non alla tecnocrazia. Già vent’anni fa abbiamo scelto di essere europei. Se facciamo questa scelta sarà la nostra fortuna. Tanto più se questo succede non già quando il paese è in difficoltà estrema, come è accaduto per la Grecia, con una pistola alla tempia.
Il problema è che questo potrebbe accadere accanto a una cessione di sovranità politica.
Il percorso giusto è: non parlare di Monti bis, perchè il Paese deve avere fiducia nelle sue istituzioni politiche. È sovrano il popolo. Poi: adesso, non quando arrivassimo al punto di non ritorno, dobbiamo adottare tutte le pratiche per trasferire in materia economica il massimo di sovranità a un’entità europea eletta. Mi auguro che la crisi sia stata un tale choc per cui la sovranità economica si trasferisca dai singoli Paese alle istituzioni europee. Dopodichè vinceremo o perderemo le elezioni su scala europea.
Silvia Truzzi
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 9th, 2012 Riccardo Fucile
CASINI, COSI’ NASCE IL PARTITO DEL MONTI BIS
Con la prontezza che tutti gli riconoscono, Pierferdinando Casini ha fatto la sua mossa.
Quello che, prima di tutti gli altri, ha presentato a Chianciano, luogo di antiche nostalgie democristiane, è il partito del Monti-bis.
Come altrimenti può essere definito un partito che, nel simbolo, rinuncia al nome del suo leader per aprirsi a nuove componenti, e al momento della sua fondazione vede arrivare metà dei ministri dell’attuale governo?
Un conto è dire le cose, un’altra metterle in pratica.
Dopo aver ripetuto per mesi che per l’Italia, anche dopo le prossime elezioni, non c’è altra prospettiva che lasciare la guida del Paese a SuperMario, l’unico in grado di portarci fuori dalla crisi, il leader centrista s’è alzato dalla sua poltrona e ha fatto seguire alle parole i fatti.
E al di là delle effettive intenzioni di ciascuno di candidarsi con lui alle prossime elezioni, la fila degli «esterni», ministri e non, che si sono presentati, aderendo al suo invito, sta a significare che «la cosa» esiste.
Infatti l’ex-presidente di Confindustria Marcegaglia, il segretario della Cisl Bonanni, il presidente delle Acli (schierate fino a poco fa a sinistra) Olivero, il portavoce del Forum di Todi Forlani, il ministro Riccardi (presente anche come capo della Comunità Sant’Egidio, un altro pezzo importante di mondo cattolico), i suoi colleghi Passera, Ornaghi, Catania e Patroni Griffi, oltre all’ex ministro dell’Interno Pisanu e al presidente della Camera (e fondatore di Futuro e libertà ) Fini, non si sarebbero mossi tutti insieme se non avessero voluto far capire che il loro posto, la loro collocazione politica, non può essere, nè con il centrodestra, nè con il centrosinistra.
Ma appunto al centro.
Ora, che in questa fase non ci sia una corsa a mettersi con Berlusconi, è scontato. L’annuncio del ritorno in campo del Cavaliere come candidato premier ha semmai convinto i più incerti dei suoi alleati a prendere il largo.
E in Sicilia, in vista delle prossime regionali, s’è addirittura formata dentro il centrodestra una coalizione di antiberlusconiani.
Ma che proprio nel momento in cui il Pd è considerato nei sondaggi il più accreditato vincitore delle prossime elezioni, e mentre Bersani ragiona sulla composizione del suo probabile prossimo governo, i membri di quello attuale si spostino da un’altra parte, rappresenta un fatto politico importante.
E lo è altrettanto che una parte consistente del mondo cattolico, da cui è venuta negli ultimi mesi la rivendicazione di una nuova classe dirigente, invece di rafforzare la componente cattolica del centrosinistra, scelga il centro.
Va ancora aggiunto che la Marcegaglia, come ex-presidente degli industriali, porta a questo composito schieramento l’appoggio di un mondo produttivo, magari non tutto, finora tiepido nel complesso verso la politica.
Potrà ben dire, Casini, di aver portato a casa un risultato superiore alle sue aspettative.
Il sostegno senza riserve da lui dato all’esecutivo tecnico e il lavoro sottotraccia compiuto nell’ultimo anno hanno convinto un arco di forze più largo delle sue stesse ambizioni. Occorrerà vedere, però, se la mutazione genetica centrista troverà nella società civile e sul piano elettorale un appeal uguale a quello che ha dimostrato dal punto di vista mediatico.
La novità ha molti aspetti positivi, ma vanno messe in conto alcune evidenti criticità .
La prima è che fare il partito del Monti-bis senza Monti è un problema.
Va da sè che il presidente del Consiglio tecnico non può schierarsi politicamente in alcun modo: per questo SuperMario, a chi glielo chiede, continua a ripetere che il suo tempo sta esaurendosi e comincia ad assaporare l’idea di andare in vacanza.
Che invece al contrario debba restare al suo posto non è escluso; ed è auspicabile, per come stanno andando le cose.
Ma le condizioni politiche della sua permanenza, dovranno essere i partiti a crearle. Finora Casini è il solo che si sia mosso in questa direzione.
Quanto ai ministri tecnici presenti a Chianciano, che tutti già immaginano come capilista del partito nascituro, va ricordato, come ha spiegato Passera, che nessuno di loro potrebbe scendere in campo mentre è al governo.
Se lo volesse, dovrebbe dimettersi per tempo. E le dimissioni di un gruppetto di ministri per motivi elettorali non sarebbero certo un toccasana per il governo tecnico.
Nel fuoco di una campagna elettorale già cominciata, verrebbero tirati in mezzo. E ci sarebbe anche chi potrebbe accusarli di aver fatto una scelta di convenienza.
Le possibilità di successo di un partito centrista, cattolico-liberale, disposto a collaborare con sinistra e destra, ma senza rinunciare alle proprie convinzioni e al proprio programma, sono inoltre legate all’avvento di una legge elettorale proporzionale, di cui si parla da mesi ma che al momento non esiste.
Una legge che chiuda, come Casini ha fatto in anticipo, la stagione dei partiti personali, dei candidati-premier con il nome sulla scheda e sul simbolo, e dei governi scelti dagli elettori, cancellando per sempre le coalizioni rissose degli ultimi anni e riportando in Parlamento, alla trattativa tra i partiti, dopo e non prima del voto, la scelta di chi deve governare.
Se questa legge si farà – Casini, paradossalmente, ha più possibilità di realizzarla con il suo atavico avversario Berlusconi, che non con il suo potenziale alleato Bersani – il nuovo centro potrà decollare.
Altrimenti sarà più difficile che ci riesca.
Alla fine il problema del nuovo partito, fondato alla vigilia di un appuntamento delicato come quello del 2013, resta quello di quanti voti riuscirà a conquistare.
Di questi tempi, l’idea di costruire un’altra Dc, a cui il progetto è chiaramente ispirato, forse è fin troppo ambiziosa.
Ma se il centro non cresce e resta ai livelli degli ultimi anni, la premiata capacità politica di Casini potrebbe non bastare.
E anche le buone idee di Chianciano restare nel libro dei sogni.
Marcello Sorgi
(da “La Stampa”)
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Settembre 9th, 2012 Riccardo Fucile
CENTINAIA SONO I MINORI SBARCATI A LAMPEDUSA DALL’INIZIO DELL’ANNO
Partono spesso senza i familiari, piccoli uomini che sfidano il mare e la solitudine quando arriveranno a destinazione: sono stati 183 dall’inizio dell’anno, su 184 arrivati, i «minori non accompagnati» sbarcati a Lampedusa.
E anche fra i 56 naufraghi dell’isolotto di Lampione, c’erano 5 adolescenti, subito mandati in un’area destinata a loro e alle donne, all’interno del Cpsa, il centro di prima accoglienza e soccorso.
Il viavai è continuo: poco prima dei nuovi arrivi c’erano state sedici partenze di ragazzi tra 14 e 15 anni.
Erano 15 somali, 13 arrivati nei giorni scorsi, altri due sbarcati a Lampedusa mercoledì, più un tunisino.
Sono stati mandati nei centri sparsi in Italia, in attesa di una destinazione definitiva.
Prime vittime dei mercanti di uomini, i ragazzi sono destinati a peregrinazioni e problemi, ma hanno la certezza di non poter essere rimpatriati.
Tante volte — ed è successo anche nel naufragio di giovedì — si tratta pure di morti: il mare, l’altro ieri, stando al racconto dei superstiti, avrebbe inghiottito sei minorenni, tra cui un bimbo di 5 anni.
Versioni ancora confuse, da verificare. Ma il dramma rimane tale.
Lo sanno bene gli operatori di Save the Children, l’organizzazione umanitaria che lavora sul campo, a Lampedusa e non solo.
«Stiamo seguendo anche i nuovi arrivati — dice Michele Prosperi, uno dei dirigenti dell’associazione — per supportarli e incoraggiarli. Sono molto provati per quanto hanno affrontato. Dato che sono tunisini è probabile che vorranno raggiungere i loro familiari in altri Paesi, soprattutto in Francia».
L’estate scorsa l’ex base Loran di Lampedusa, destinata ai minorenni privi di familiari, era stata trasformata in una sorta di centro di detenzione: fu chiusa dopo le proteste dei suoi ospiti e al suo posto oggi funziona il Cpsa, la cui ristrutturazione dev’essere però completata.
Aggiunge Valerio Neri, direttore generale di Save the Children Italia: «Deve essere immediatamente revocata la dichiarazione di “porto non sicuro” per Lampedusa, cosa che garantirebbe a tutti i migranti immediato soccorso e prima accoglienza».
Solo dal 18 agosto scorso i nuovi arrivi sono stati 803, per la maggior parte eritrei, somali e tunisini, dei quali 65 donne e 95 minori, di cui 87 non accompagnati. I tunisini sono arrivati soprattutto dal 29 agosto in poi: tra i 118 migranti una donna e 7 ragazzi senza familiari.
«Le famiglie — spiega Prosperi — per spedire i figli oltremare, pagano i trafficanti di uomini. Gli stessi ragazzi devono lavorare per questo. Noi cerchiamo di non farli sparire, li seguiamo, ad esempio a Roma, al centro “Civico Zero”, per farli inserire in un percorso d’integrazione, ma non è facile».
Assieme all’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, all’Oim e alla Croce rossa, Save the Children ha dato vita al progetto Praesidium.
L’anno scorso fu individuato un caso emblematico: quello di Mohamed (nome fittizio), un somalo oggi 17enne, che aveva provato quattro volte, sempre da solo, dopo avere raggiunto la Libia, a imbarcarsi per la Sicilia.
Le prime tre gli andò male e nell’ultimo caso fu uno dei 40 superstiti di un naufragio che fece oltre 500 vittime.
Pochi giorni dopo ripartì e a maggio del 2011 sbarcò a Lampedusa.
Oggi non si sa più dove si trovi.
Riccardo Arena
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Settembre 9th, 2012 Riccardo Fucile
LE VOCI DI UN PATTO DELLA CRAVATTA (NEGATO) TRA MICCICHE’ E CROCETTA
Una cravatta arancione. Su una giacca celeste. I gusti sono gusti, ma anche al brutto c’è un limite (tranne che in politica, dove ormai tutto, o quasi, è permesso).
Cefalù, giovedì scorso, Festival del gelato artigianale.
Prima uscita pubblica per i candidati alla presidenza della Regione Sicilia.
Gianfranco Miccichè, ex ambasciatore berlusconiano dell’isola, ora leader di Grande Sud, sostenuto da Fli, da Mps e dal Partito dei siciliani del governatore dimissionario Raffaele Lombardo (tenete a mente Lombardo, che nel racconto di questa campagna elettorale resta centrale, potente, strategico) di cravatte arancioni si intende.
Le indossa da quando decise che l’arancione dovesse essere il colore del suo partito: e, per questo, ha imparato ad abbinarle.
L’uomo che ha avuto il coraggio di sfoggiarne una su una giacca celeste è invece Rosario Crocetta, 61 anni, ex sindaco antimafia di Gela, europarlamentare e candidato del Pd (alleati: Udc e Api).
Miccichè (abbronzato, di ottimo umore, ammiccante): «Miii… Ma che cravatta elegante ti sei messo…».
Crocetta: «Ti piace, eh? Come mi sta?».
Flash dei fotografi.
Poi polemiche, accuse, un sospetto.
Tra Crocetta e Miccichè ci sarebbe un accordo, un patto per il dopo-voto.
Il patto della cravatta (involuzione di quello assai più chic della crostata, inventato da Francesco Cossiga nel settembre del 1997 per indicare l’accordo informale sulle riforme costituzionali tra D’Alema, Fini e Berlusconi).
Miccichè smentisce.
Crocetta (la cui candidatura è stata accettata senza un fiato dall’intero Pd, che dopo i disastri delle ultime comunali stavolta ha prudentemente evitato di indire primarie) giura: «È purissima fantapolitica».
Aggiungendo però di essere pronto a dialogare con chiunque, nel caso fosse eletto senza avere un numero sufficiente di deputati (qui si chiamano deputati) nel consiglio regionale.
L’ipotesi di dover dialogare non è remota.
Tecnicamente funziona così: si vota domenica 28 ottobre, sbarramento al 5%, scheda unica, viene eletto presidente chi prende un voto in più; tuttavia, se chi vince non raggiunge i 46 deputati (su 90), per governare è costretto a cercare alleanze.
E poichè un po’ tutti i sondaggi danno intorno al 30% sia Crocetta che Nello Musumeci, il candidato de La Destra di Storace, scelto anche dal Pdl e dal Pid, è chiaro che o prima, o dopo, qualche inciucione sarà inevitabile.
Musumeci, con lo stile che gli viene riconosciuto, ma anche con inevitabile apprensione, ha detto: «Voglio credere e sperare che questo accordo tra Miccichè e Crocetta non ci sia. Anzi, spero che Miccichè possa tornare nella nostra coalizione».
Insomma, sembra che senza Miccichè sarà impossibile governare la Sicilia.
E chi è l’uomo forte nella coalizione di Miccichè?
Raffaele Lombardo, proprio lui, il governatore incalzato dalla procura di Catania con l’accusa di «concorso esterno in associazione di tipo mafioso» e, per questo, costretto alle dimissioni: 62 anni, laurea in medicina, specializzazione in psichiatria forense, un politico furbo, cinico, spregiudicato; riesce a rimpastare la giunta di Palazzo dei Normanni per cinque volte, nomina 36 assessori, in quattro anni il suo parlamentino approva 98 leggi, ciascuna delle quali costa 7,5 milioni di euro.
Pregio riconosciuto anche dai nemici: non perde mai il controllo della scena.
Così affronta le dimissioni come un passaggio politico spiacevole ma non drammatico.
Sa di poter spostare consenso, voti, potere: e quando capisce che il suo eterno rivale Miccichè, per faide interne al Pdl locale, non sarà il candidato di Berlusconi, non si fa scrupoli e lo chiama.
Un ragionamento semplice e lucido: lasciamo stare il passato, uniamo le forze. Diventiamo ago della bilancia.
«Non ci sono prove che Lombardo e Miccichè abbiano già stretto un accordo con il candidato del Pd, Crocetta: certo sarebbe nella logica di un certo modo di fare politica» (questa è la voce amareggiata di Claudio Fava, candidato di Sel, Idv e Fds).
Lombardo, sempre lui.
«Gli è stato consentito di dimettersi quando e come ha voluto. E adesso sta lì, che decide, tratta, impone candidati. Sì, in un certo perverso meccanismo di potere siciliano conta ancora tanto».
Crocetta sostiene che…
«Lasciamo stare Crocetta. Ho letto che è tentato di arruolare anche un personaggio come Massimo Russo, assessore alla Salute e vice-presidente della Regione, il volto più noto del governo Lombardo…».
Claudio Fava è dato intorno al 10%, più o meno come Giancarlo Cancelleri, il candidato di Beppe Grillo.
Percentuali assai più basse per Mariano Ferro (i Forconi) e Davide Giacalone (Movimento indipendente).
Ferro, l’altro giorno, a Cefalù, mentre Miccichè si complimentava con Crocetta per la cravatta arancione, se ne è uscito dicendo che «forse la vera mafia è nello Stato».
Qualcuno ha applaudito. In generale, per strappare applausi, i candidati dicono però cose meno gravi.
Crocetta, gay dichiarato, ha promesso che, se dovesse essere eletto, si asterrà «da ogni attività sessuale».
Miccichè ha replicato che a lui sarebbe impossibile, «diventerei troppo nervoso».
Poi ha fatto il punto sul suo rapporto con le sostanze stupefacenti. «Sono a favore della legalizzazione delle droghe leggere, ma da giovane ho anche provato quelle pesanti».
Quindi ha suggerito al pianeta che non conviene mai troppo puntare sul sentimento della riconoscenza: «Sì, ho fatto parte del governo Berlusconi, e l’ho appoggiato, e ci ho creduto. Ora, però, me ne pento. E lo ammetto: sono, letteralmente, scappato».
Musumeci, meno astioso: «Se vinco, il mio assessore alla Cultura sarà Pippo Baudo. Abitiamo nella stessa strada a Militello, non potrà dirmi di no… E poi basta con questa storia che sono fascista: pensate che per fare contento un mio coinquilino, certe volte mi siedo al pianoforte e suono Bandiera rossa. Non solo: sono anche capacissimo di mettermi a cantare Bella ciao. Però, per riuscirci, devo essere in compagnia».
Fabrizio Roncone
(da “il Corriere della Sera”)
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Settembre 9th, 2012 Riccardo Fucile
E UN’ALTRA “STRANA MAGGIORANZA” AVREBBE PIU’ CONSENSI DI OGNUNO DEI DUE POLI
Un Monti dopo Monti? Molti lo auspicano.
Anzi, al Workshop Ambrosetti in corso a Cernobbio la larga maggioranza degli imprenditori presenti lo ha richiesto fortemente.
La natura del governo che si formerà dopo le elezioni è ormai un tema centrale della campagna elettorale, che è di fatto iniziata.
Tutte le forze politiche in campo – e anche quelle che si apprestano a entrarvi – stanno valutando le alleanze e, al tempo stesso, impostando le strategie di comunicazione ritenute più efficaci e le tematiche su cui fare maggiormente leva.
Le proposte dei partiti e il giudizio degli elettori
I veri elementi discriminanti nelle proposte dei partiti saranno due, peraltro collegati tra loro: il grado di cesura verso il passato (per fronteggiare la concorrenza di Beppe Grillo da un lato e il pericolo rappresentato dall’astensione dall’altro) e, appunto, il livello di continuità e di supporto per l’«agenda Monti».
Oltretutto, quest’ultimo è l’aspetto maggiormente sotto osservazione da parte dei vertici economici e finanziari del resto dell’Europa, che si interrogano sempre più di frequente sul dopo Monti, auspicando un proseguimento delle politiche (e forse anche dello stile) portato avanti dal Professore e temendo, invece, una «retromarcia» da parte dei vecchi partiti.
Ma cosa pensano gli italiani di un Monti bis?
Pur essendo talvolta critici verso l’esecutivo, sono molti gli elettori che guardano con favore a una politica di continuità .
Tanto che al quesito se sia meglio, a seguito delle prossime consultazioni, un esecutivo «politico» o un nuovo governo tecnico, magari guidato proprio da Mario Monti, quasi quattro su dieci (il 37 per cento) dichiarano di preferire una riedizione della gestione «tecnica».
Le divisioni per età e orientamento politico
Si tratta di un orientamento particolarmente diffuso tra i giovani sotto i 35 anni e tra i laureati, fra i quali raggiunge quasi la metà del campione.
È naturalmente comprensibile che una percentuale lievemente maggiore di intervistati (il 46 per cento) opti invece per un governo «politico», spinti dall’appartenenza o dalla simpatia per questo o per quel partito o dall’insoddisfazione per la politica di rigore (atteggiamento questo inevitabilmente sempre più diffuso).
Questa predilezione per un governo politico è più frequente nelle regioni meridionali e varia ovviamente in relazione alla preferenze politiche.
È infatti assai più diffusa nell’elettorato del Popolo della libertà , ove raggiunge il 68 per cento (ma anche qui il 27 per cento vuole un governo tecnico).
Viceversa, il Partito democratico appare sostanzialmente spaccato in due tra le alternative proposte.
Nell’Udc vi è, come era prevedibile, una maggioranza favorevole a un nuovo governo Monti.
Maggioranza trasversale per un elettore su tre
Nell’insieme è comunque significativo – e in qualche modo indice dell’avversità verso i partiti politici tradizionali – che così tanti arrivino ad auspicare la prosecuzione di fatto dell’esecutivo attuale.
Questo orientamento è confermato anche dalle preferenze verso il tipo di maggioranza parlamentare che, nei desideri degli italiani, dovrebbe sostenere il futuro governo.
Ancora una volta, molti optano per un esecutivo sostenuto dai soli partiti di centrosinistra (23 per cento) o di centrodestra (18 per cento).
Ma una percentuale ancora maggiore di intervistati (32 per cento) dichiara di preferire una soluzione simile a quella attuale, vale a dire la «strana maggioranza» comprendente sia il Pd, sia il Pdl.
Quest’ultima alternativa è indicata in particolare (36 per cento) dagli elettori che si dichiarano oggi indecisi su cosa votare (o, in certi casi, tentati dall’astensione): è a costoro, peraltro, che si deve anche il numero particolarmente alto di «non so» (28 per cento) rilevabile per questo quesito.
Ma la «strana» maggioranza è auspicata anche dalla maggioranza relativa degli elettori dell’Udc e trova comunque un consenso significativo tra i votanti per il Pd (31 per cento) e il Pdl (24 per cento).
Insomma, l’attuale soluzione di governo tecnico e la direzione impressa da Mario Monti sembrano persuadere un’area vasta di cittadini, tale da poter condizionare significativamente l’esito delle prossime consultazioni.
L’opzione per un nuovo esecutivo composto di tecnici stimati in Europa, anzichè di politici tradizionali, oltre a essere richiesto dalla leadership economica, è supportato da una quota consistente di elettorato.
Renato Mannheimer
(da “Il Corriere della Sera”)
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