Settembre 2nd, 2012 Riccardo Fucile
L’EX STIMATO MAGISTRATO ANTIMAFIA CHE ERA RIUSCITO AD AZZERARE IL DEFICIT DELLA SANITA’ SICILIANA LASCIA LA POLITICA: “LOMBARDO HA FATTO TROPPI ERRORI”… “IO E MICCICHE’ SIAMO TROPPO DIVERSI”
L’ultimo suo impegno da vice presidente sarà lunedì prossimo, quando rappresenterà la Regione siciliana alla cerimonia di commemorazione per il 30/esimo anniversario dell’uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Poi Massimo Russo, l’ex magistrato antimafia che lavorò al fianco di Paolo Borsellino, chiuderà la sua esperienza di “tecnico” prestato alla politica firmando la lettera di dimissioni.
Resterà solo alla guida dell’assessorato alla Salute – ma senza partecipare alle riunioni di giunta – fino alle prossime elezioni di ottobre.
Una richiesta avanzata dalla stesso governatore Lombardo, per garantire la continuità amministrativa, a conclusione di un lungo incontro avvenuto ieri sera.
Un “chiarimento” tra il presidente e il suo vice che non è servito per far cambiare idea a Russo, il quale ha ribadito la sua intenzione di tornare a fare il magistrato.
“E’ stato un colloquio leale, franco ed emotivamente intenso”, afferma Russo rivelando di avere dato del ‘tu’ al Governatore per la prima volta dopo quattro anni.
“Ci siamo guardati negli occhi – aggiunge – ripercorrendo le tappe di questa esperienza amministrativa che io giudico esaltante perchè mi ha consentito di lavorare per la mia terra”.
Lombardo ha riconosciuto il grande risultato ottenuto dall’ assessore che, attraverso una riforma duramente osteggiata da diverse forze politiche, anche all’interno della maggioranza, è riuscito sostanzialmente ad azzerare il deficit astronomico della sanità siciliana: 617 milioni di euro.
Ma tutto questo non è stato sufficiente a far cambiare idea all’ex Pm, che pure era stato indicato come uno dei ‘papabili’ per la corsa a Governatore: “Ho detto a Lombardo che le nostre strade si sono separate definitivamente e irrimediabilmente, che questa politica non sa coltivare la speranza e costruire un futuro”.
Russo ha spiegato a Lombardo i motivi del suo dissenso, dovuto soprattutto all’accordo siglato dagli autonomisti dell’ex Mpa che hanno deciso di sostenere la candidatura di Gianfranco Miccichè: “Con tutto il rispetto nei suoi confronti – dice – si tratta di una persona lontana da me in modo siderale. Miccichè è amico di Berlusconi e Dell’Utri, mentre i miei punti di riferimento sono Borsellino e Falcone; lui pensa di cambiare la Regione perchè amico di banchieri e imprenditori, io credo che bisogna creare condizioni di legalità , trasparenza e affidabilità perchè banche e imprese investano in Sicilia; dice di avere fatto uso di droghe pesanti da giovane mentre io, pur non essendo un bacchettone, non ho mai fumato nemmeno uno spinello; sostiene che occorre ‘derattizzare’ la burocrazia, io sono invece per una riorganizzazione in grado di rendere efficiente la macchina burocratica rispettando la dignità di chi lavora all’interno della Regione”.
Ma l’obiettivo del vice presidente sono quelli che lui definisce “avvoltoi e rapaci”, cioè “quei politici che si autoperpetuano per coltivare i loro interessi”.
Eppure in molti, anche tra i suoi colleghi, non avevano nascosto riserve e perplessità quando Russo decise di lasciare la Dda di Palermo per entrare nel governo di Raffaele Lombardo, poi coinvolto in un’inchiesta per mafia. Una situazione imbarazzante per l’ex Pm, che tuttavia riconosce al Governatore “una grande sensibilità istituzionale, visto che si è dimesso prima ancora di un rinvio a giudizio e di fronte a un’imputazione coatta decisa dal Gip dopo una richiesta di archiviazione da parte della Procura”.
Russo ribadisce, tuttavia, le sue critiche a Lombardo: “Nel corso dell’incontro di ieri gli ho detto che ha fatto molti errori, a cominciare dalla decisione di candidare il figlio e fare l’accordo con Miccichè. Lui mi ha invitato a rifletterci perchè in politica non bisogna mai dire mai, gli ho risposto che non sono un politico e che questa politica non la capisco nè la voglio capire. Per questo torno a fare il magistrato”.
(Ansa)
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Settembre 2nd, 2012 Riccardo Fucile
TRENT’ANNI FA LO STATO LO LASCIO’ SOLO… ERA IL 3 SETTEMBRE 1982 QUANDO IN VIA CANINI A PALERMO VENNERO UCCISI IL GENERALE E SUA MOGLIE
Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa venne assassinato in una calda serata sciroccosa. Erano passate da poco le 21 del 3 settembre 1982 e la A112 color crema, guidata dalla giovane moglie, Emanuela Setti Carraro, imboccava la via Isidoro Carini, lasciandosi alle spalle Villa Whitaker – sede della Prefettura – diretta verso il refrigerio di un ristorante all’aperto del golfo di Mondello.
Seguiva l’utilitaria l’agente Domenico Russo, alla guida dell’Alfa blu che il generale prefetto non utilizzava, convinto che l’anonimato di una «normale macchinetta» offrisse maggiori garanzie di sicurezza dell’auto blu, immediatamente identificabile.
Precauzione inutile, perchè la task-force messa in campo da Cosa nostra monitorava da diverse ore i movimenti del bersaglio e forse aveva potuto disporre anche della soffiata partita da Villa Whitaker, da qualcuno che controllava strettamente il generale.
Due macchine e due moto rasero al suolo la A112, senza risparmio di violenza e a nulla valse la protezione offerta ad Emanuela dall’abbraccio coraggioso del marito.
L’agente Russo fu finito dal killer più sanguinario di quel momento: Giuseppe Pino Greco, detto «Scarpuzzedda».
I palermitani stavano a cena, davanti ai televisori.
La notizia, tuttavia, non l’ebbero dai telegiornali perchè arrivò prima il passaparola.
Esplose così rapida da richiamare in pochi minuti una folla di gente in piedi, impietrita in un silenzio irreale, con gli occhi rossi di rabbia.
Quando, ormai a notte fatta, fu smontata la scena e i fari, i lampeggiatori delle volanti, si spensero, rimase solo la fragile disperazione di una città , sintetizzata in un cartello che sentenziava: «Qui muore la speranza dei palermitani onesti».
Così fu spenta una luce che si era accesa appena cento giorni prima, sull’onda dell’ennesimo eccidio mafioso che aveva colpito il segretario regionale del Pci, Pio La Torre, abbattuto dalla mafia insieme con l’amico, compagno e scorta volontaria, il militante Rosario Di Salvo.
La speranza, per la verità , non era nata sotto i migliori auspici.
Il generale era stato inviato a Palermo come un’arma spuntata: Roma non aveva voluto dargli gli stessi poteri che gli erano stati dati nella lotta al terrorismo.
Prefetto senza poteri speciali: un messaggio rassicurante per la palude palermitana, preoccupata per la presenza di un uomo deciso, carabiniere nel Dna, poco incline alle pantomime sicule dell’indignazione senza conseguenze.
E infatti la città gli dimostrò immediatamente tutta la propria avversione.
La città del potere, ovviamente.
Perchè i cittadini, invece, riponevano molte aspettative sulle capacità del prefetto.
Carlo Alberto dalla Chiesa arrivò a Palermo in incognito. Ignorò l’auto che l’aspettava in aeroporto, montò su un taxi ed arrivò in Prefettura «pieno» delle notizie e degli umori strappati al tassista loquace.
Non si fidava, il generale, e con quella «presentazione» intendeva mettere subito le cose in chiaro.
Fu criticato, ovviamente, per quella scelta.
Non gli furono risparmiate ironie e commenti, pesanti allusioni sulla differenza di età con la giovane seconda moglie: insomma tutto il repertorio della maldicenza e della mafiosità locale. Persino il sindaco, l’avvocato Nello Martellucci, uomo del gruppo di potere dominante (Lima, Ciancimino, Gioia), si rifiutò di portargli il saluto con la pretestuosa motivazione che doveva essere il generale a «presentarsi» al padrone di casa.
E come lo sbeffeggiavano quando andava nelle scuole a parlare di legalità coi ragazzi o quando faceva sequestrare agli angoli delle strade il pane prodotto e venduto abusivamente. Solo Leonardo Sciascia capì il valore di quel gesto e spiegò che non si poteva battere la mafia fino a quando i mercati di Palermo sarebbero rimasti repubbliche indipendenti.
Come a dire c’è Cosa nostra ma anche qualcosa di più subdolo, per esempio la mafiosità .
La solitudine del generale, in quei cento giorni palermitani, è stata ricordata più volte dal figlio, Nando, che non ha mai modificato il suo giudizio duro sulla politica che isolò il padre (giudizio riproposto oggi a Luciano Mirone, autore di «A Palermo per morire»).
E quando si parla dell’isolamento di Dalla Chiesa il discorso non può non cadere sul rapporto con Giulio Andreotti, a cui il generale, in partenza – «disarmato» per Palermo – anticipa che non avrà «nessun riguardo per la corrente Dc più inquinata» (quella di Salvo Lima, di Gioia, di Ciancimino e dei cugini Ignazio e Nino Salvo).
Li conosceva bene, il prefetto, quei personaggi.
Aveva redatto un rapporto destinato alla Commissione antimafia, quando era comandante della Legione a Palermo.
Ma quell’analisi – ricorda il figlio Nando – era arrivata in Parlamento molto manipolata, addirittura coi nomi «sbianchettati».
Qual era lo stato d’animo del generale e della giovane moglie, pochi giorni prima dell’eccidio? Bastano le parole dette al telefono alla madre da Emanuela: «Non posso venire a Milano, non voglio lasciare Carlo nemmeno per un momento, chi lo salverebbe? Siamo dimenticati, mamma, da chi ci dovrebbe tutelare».
Gli assassini del generale, della moglie e dell’agente sono stati condannati. Ma si tratta dei macellai.
Mancano le menti raffinatissime, per dirla con le parole di Giovanni Falcone.
Chi ha tradito Dalla Chiesa?
Quale conto hanno fatto pagare al generale sabaudo mandato nella terra degli infedeli? Persino la Chiesa siciliana, solitamente cauta, nel giorno dei funerali usò parole di fuoco e puntò il dito sul potere ignavo: «Mentre a Roma si discute sul da farsi, Sagunto viene espugnata», gridò il cardinal Pappalardo dal sagrato della basilica di San Domenico.
Fu solo mafia?
Oppure il «conto» inglobava anche i segreti del sequestro Moro e di quel grumo conseguente, conosciuto alle cronache come l’affaire del giornalista Mino Pecorelli?
Certo, dopo trent’anni è difficile andare a rovistare nei pozzi neri, forse andava fatto subito. Ma una coincidenza va sottolineata, al di là di ciò che hanno raccolto le indagini: Moro, Pecorelli e Dalla Chiesa sono vicende caratterizzate da una non frequente «sinergia» tra mafia e terrorismo.
La mafia siciliana ha ucciso (chissà perchè?) il giornalista molto intimo dei Servizi, è stata coinvolta nel tentativo di salvare Aldo Moro prigioniero delle Br e ha pianificato ed eseguito l’assassinio del generale.
Come una vera agenzia del crimine al servizio di altri.
Francesco La Licata
(da “La Stampa”)
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Settembre 2nd, 2012 Riccardo Fucile
LA PRIMA VOLTA DELLA FIGLIA DEL GENERALE ALLA CERIMONIA IN SICILIA
Quando vide la corona della Regione siciliana sulla bara del padre, la cacciò via.
Non strinse la mano al presidente dell’epoca, uomo di Andreotti. A nessun politico.
Nemmeno a Pertini, come adesso un po’ si pente di aver fatto. «Solo per Pertini. Forse».
Conosciamo il sorriso ironico e rassicurante di Rita dalla Chiesa nel finto tribunale delle sue fortunate trasmissioni, capace di velare il tormento che si porta appresso da quel 3 settembre, quando, sola a casa, a Roma, apprese che la vita di suo padre Carlo Alberto e della giovane moglie Emanuela appena sposata era finita sotto i colpi di kalashnikov, feriti a morte come l’agente di scorta, Domenico Russo, spentosi dopo qualche giorno.
LA GUERRA
Palermo apparve perfida e ostile, nell’inferno di una guerra di mafia segnata dal grido del cardinale Pappalardo su «Sagunto espugnata» e da un anonimo cartello vergato a mano, lasciato sul luogo del massacro, in via Carini: «Qui è morta la speranza dei palermitani onesti».
E qui per le commemorazioni ufficiali Rita non ha mai voluto mettere piede.
Al contrario di quanto fa quest’anno, tornando domani nella caserma del padre, insieme con il ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri.
LE COMMEMORAZIONI
«Ci sono voluti trent’anni e mi sono decisa all’ultimo momento. Accompagnata da mia figlia Giulia che non aveva mai messo piede in questa città …», come spiega arrivando in treno, avviandosi in macchina lungo un percorso che coincide con quello bloccato dagli assassini di Cosa nostra.
Primo duro impatto per Giulia, gli occhi sgranati sulle strade dove rischiò di finire anche la sua vita.
«Aveva 11 anni ed è viva per miracolo», evoca per la prima volta Rita.
«Perchè mio padre voleva la nipotina in vacanza a Palermo: “Starà con Emanuela di giorno al mare, di pomeriggio in giro con la A112 (l’auto su cui viaggiava il generale il giorno dell’agguato, ndr ), la sera insieme…”».
TRAUMA
Il «miracolo» è un no secco lanciato a pochi giorni dalla strage, per telefono: «No, papà . A Palermo no. Risposi no, dalla pancia. Non sapevo, ora so perchè. Io credo all’istinto di una madre. Altrimenti quella sera ci sarebbe stata anche Giulia nella “A 112”.
Emanuela l’avrebbe portata con sè per prendere in prefettura il nonno, per la cena all’Hotel La Torre.
E sarebbero ripartiti in macchina, verso Mondello, come fecero loro due, seguiti da Russo su un’altra auto, ma ignari del commando alle spalle».
Un trauma per Giulia, mai prima a Palermo dove ha pure portato il suo bimbo di 5 anni, entusiasta, subito a caccia della maglia rosanero, lo stadio di Zamparini ammirato come un duomo.
PALERMO
«Poche ore e si stanno innamorando di questa meravigliosa città », commenta Rita, gli occhi sulle barche colorate dei pescatori di Mondello.
«Ma io torno qui ogni anno. Non il 3 settembre. Qui ritrovo mio padre, i sentimenti più forti. Torno per il Festino, la festa di Stata Rosalia, il 15 luglio, salgo a Montepellegrino dalla Santa per una preghierina. Mi fermo poco, ma la mia vista rimane sempre su Palermo, fra speranze e delusioni».
Un riferimento diretto a quanto scoperto proprio in via Carini, sotto la lapide del sacrificio: «Un cartello scritto a mano da un semplice cittadino per chiedere di “non gettare rifiuti sotto la lapide del generale”. Qualcuno continua a offendere quel luogo. Un oltraggio che stona con i palermitani onesti, con la speranza nata dal sacrificio di tanti che a volte dimentichiamo.
LA SCORTA
Come gli uomini di scorta. Non da lei: «Due estati fa, in una delle mie incursioni solitarie a Palermo, alle due del pomeriggio, sotto il sole di via Ruggero Settimo, venni fermata da un giovane.
“Lei è Rita dalla Chiesa?”. Interdetta. “Io sono il figlio di Domenico Russo”.
Aveva appena avuto un bambino, la moglie ancora in clinica, lì a due passi, alla Candela. L’ho abbracciato. Sono andata. Un pensierino al bimbo chiamato Domenico. Un segno del destino. E mi si chiede cos’è il mio legame con Palermo… Ma quando smetterò di lavorare, questo sarà il mio posto. Io ci voglio vivere a Palermo. Bella com’è. Dico a me stessa che la speranza dei palermitani onesti non è finita. E se ci credo io…».
(da “Il Corriere della Sera”)
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Settembre 2nd, 2012 Riccardo Fucile
L’EX CONDUTTORE DEL TG4 HA ANCHE AUTISTA, CASA E UFFICIO GRATIS: “IL CONTRATTO CON MEDIASET E’ SOLO DIGNITOSO, MI AVREBBERO DOVUTO DARE MOLTO DI PIU'”
«Nel contratto con Mediaset iniziato il primo giugno c’è autista, casa, ufficio e ventimila euro netti al mese, ma neppure un euro di buonuscita dopo 24 anni. E devo fare un programma. Un contratto dignitoso, mi avrebbero dovuto dare molto di più dopo quello che ho dato all’azienda».
Lo dice Emilio Fede, ex direttore del Tg4, a La Zanzara su Radio24.
«Ventimila euro al mese sono niente per quello che ho fatto – dice ancora Fede – mica sono stato lì a rubare. Non è che navigo nell’oro, non ho un appartamento di lusso. Non trasformiamo ventimila euro in un fondo ricchezza. Non significa essere ricchi e poi un po’ di soldi li passo a mia moglie e a mia figlia. Non è un contratto sontuoso».
Ma sono una bella cifra, dicono i conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo.
«Ma non ditemi che sono la ricchezza – risponde Fede – io ho lavorato per sessant’anni fino a 81 anni, e nell’ultimo periodo senza prendere un giorno di ferie».
Spiega: «Voglio fare un movimento, non un partito. E quando vedo che tutti fanno le liste e i politici si ripresentano senza aver risolto le cose allora ho pensato: adesso faccio qualcosa anch’io. E mi piacerebbe avere in lista Roberto Saviano, sì proprio lui. L’ho sempre criticato ma è uno che vale. Lo vorrei con me», dice il giornalista.
«Cosa farei? Legalizzerei la prostituzione, bisogna tornare alle case chiuse, per evitare lo squallore di quello che si vede in giro. Bisogna che le prostitute paghino le tasse, di sicuro guadagnano più di me».
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Settembre 2nd, 2012 Riccardo Fucile
IL LEADER UDC: “FA RIDERE IMMAGINARE RENZI E NON MONTI A PARLARE CON LA MERKEL”
L’ auto fila lungo l’autostrada tra Bologna e Reggio Emilia, Pier Ferdinando Casini è di buon umore, veste degli originalissimi pantaloni rossi e non è vero che sentirsi rispondere ad una domanda con un’altra domanda sia una cosa che lasci necessariamente insoddisfatti: soprattutto se la domanda è che succede se le primarie del Pd le vince Renzi e la risposta del leader Udc è «lei lo vede D’Alema che va alle elezioni nel partito di Matteo Renzi?». Effettivamente, si fa fatica…
«Se vince Renzi è il caos – aggiunge Casini -. Anzi: un big bang, come direbbe Matteo. Potrebbe succedere di tutto. A cominciare, naturalmente, dall’inevitabile spaccatura del Pd».
Qualcuno potrebbe considerarla una entrata a gamba tesa nelle vicende – delicatissime – di un altro partito: un’ingerenza, insomma – e anche di quelle rudi – visto che “carica” l’ipotetico successo del sindaco di Firenze alle primarie di un effetto collaterale che molti considererebbero devastante.
Ma Pier Ferdinando Casini è l’alleato numero uno di chiunque vincerà quelle primarie e la sua opinione, dunque, non è precisamente irrilevante.
Il “bel Pier” fa il tifo per Bersani: pur ammettendo che in questa scelta ci sia qualcosa di paradossale, e non nascondendo molti timori circa quel che potrebbe accadere.
«Io con Renzi ho un ottimo rapporto, intendiamoci: ci sentiamo spesso, ci scambiamo messaggini e come è evidente ho con lui, per origini e formazione, perfino più punti di contatto di quanti ne abbia con Bersani – dice Casini -. Ma ho un rapporto solido anche con Pier Luigi ed è con lui, soprattutto, che ho un percorso comune, un patto, intorno alle cose da fare». Insomma: troppo tardi per virare e cambiar rotta. E anche troppi rischi all’orizzonte in caso di vittoria di Renzi alle primarie…
«Ragioniamo – dice il leader Udc mentre la sua auto sfreccia ed è ormai quasi a Reggio Emilia, dove lo attende Dario Franceschini -. Se Matteo vincesse, sarebbe inevitabile una scissione ‘da sinistra’ nel Pd: e l’effetto paradossale sarebbe quello di rapporti ancor più stretti tra noi e il Pd targato Renzi. Ma io non me lo auguro, perchè alzo lo sguardo oltre le faccende di partito e dico che rischiamo grosso. Fa ridere immaginare che al prossimo vertice con la Merkel l’Italia non mandi Monti ma Renzi. E finchè rido io, non c’è problema: ma se cominciano a ridere in giro per l’Europa, altrochè se il problema c’è…».
Dunque, prudenza e piedi di piombo: anche perchè lo scenario immaginato da Casini in caso di vittoria di Renzi non pare fantapolitica…
Pierluigi Castagnetti, per esempio, concorda con l’ex compagno di viaggio degli anni democristiani.
E’ seduto in prima fila ad ascoltare il faccia a faccia tra Casini e Franceschini e dice: «Il Pd non tiene se vince Renzi: si spacca. Capisco che è un argomento ai limiti della correttezza, se fatto piombare sulle primarie magari per condizionarle, ma è così. Molti tra noi che provengono dalla Magherita non sono certo contenti del Bersani ultima versione, ma ripeto: lo vede lei un Pd che resta compatto dietro Renzi? Io no, e aggiungo che restare uniti – invece – oggi è fondamentale. Non per niente anche i “quattro dell’Avemaria” – Bindi, Fioroni, Letta e Franceschini – pur pensadola diversamente su tante cose restano assieme dove stanno…».
Insomma: con Bersani per restare uniti, con Renzi per un gigantesco big bang.
Ma in ogni caso, l’orizzonte di Casini – in questa confusa ripartenza autunnale – resta lo stesso: e continua a escludere ipotetiche alleanze con gli antichi partner del Pdl. «Il riapparire in campo di Berlusconi – dice il leader Udc – ci riporta all’età della pietra… Ora temo una radicalizzazione nelle posizioni del Pd, e non sarebbe una buona cosa, anche se aprirebbe a noi moderati uno spazio immenso».
E’ lo spazio che vorrebbe occupare la cosiddetta “cosa bianca”, l’ennesimo tentativo di “parto centrista” che, inizialmente, era parso perfino concorrenziale – se non conflittuale – proprio con l’Udc.
Casini non nega: «Qualcuno ci ha pensato, ma poichè nessuno è autolesionista, alla fine ha capito che è difficile prescindere dall’Udc e dai suoi voti».
L’Udc, dunque, è dentro il progetto.
Che il leader centrista spiega così: «Lo spazio politico è quello, enorme, che va da Berlusconi a Bersani; la forma potrebbe essere quella della lista alle elezioni e non certo quella di un nuovo partito, per il quale non c’è tempo; il contenuto è un’alleanza tra cattolici dell’associazionismo e del sindacato, e laici moderati; i nomi quelli più o meno noti, da Passera e Bonanni in giù; l’obiettivo, almeno il mio obiettivo, è fare in modo che l’esperienza del governo Monti sia ripetibile, come espressione politica, nella prossima legislatura. Il che avrebbe molti effetti: compresa la liquefazione del Pdl, perchè lei li immagina giovani come Fitto e altri restare a fare l’opposizione per altri cinque anni…?».
E queste, dunque, sono le preoccupazioni, le speranze e la rotta lungo la quale Pier Ferdinando Casini organizzerà la ripartenza autunnale.
Ripartenza che solo l’effervescenza di Matteo Renzi sembra turbare.
Non a caso, in un incontro col sindaco di Firenze svoltosi qualche settimana fa, il “bel Pier” provò a convincerlo: «Dai Matteo, tu sei giovane. Facci fare l’ultimo giro e poi tocca a te». Attese speranzoso una risposta.
Attese. Ma la risposta non arrivò…
Federico Geremicca
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Settembre 2nd, 2012 Riccardo Fucile
“DALLA CRISI SI ESCE METTENDO AL CENTRO UNIVERSITA’ E RICERCA…PIU’ TASSE SOLO AI FUORICORSO CON REDDITI ALTI… PRESTITI D’ONORE SUL MODELLO ASIATICO DA RESTITUIRE IN 5 ANNI QUANDO SI LAVORA”
Il ministro Francesco Profumo, 59 anni, savonese, già professore, già rettore, già presidente di Cnr, ha appena chiuso l’ultimo dibattito, alla Festa della scuola del Pd, nel cortile del Collegio Raffaello di Urbino.
“In aprile tornerò a fare il professore sperando di lasciare un’Italia migliore di quella che ho trovato. Ritorneremo un grande Paese”.
Come, ministro?
“Smettendo di vivere al di sopra delle nostre possibilità , di creare debito. Il nostro non è un governo ossessionato dallo spread, è un governo consapevole che cento punti di spread sono 15 miliardi tolti al paese”.
Ministro Profumo, l’esecutivo taglia la funzione pubblica e riduce i dipendenti statali, lei nella stagione 2012-2013 porterà 55 mila nuovi insegnanti nelle scuole. Come riesce ad applicare politiche alla Hollande all’interno di un governo tutto rigore e liberismo?
“Il governo Monti sa che si esce dalla crisi mettendo al centro scuola, università e ricerca. Io non sto facendo miracoli, sono solo riuscito a ripristinare il turnover dopo anni di blocco: tanti insegnanti vanno in pensione e tanti ne entrano. E ho riattivato un antico modo di reclutare personale che trovo modernissimo: il concorso. Ecco, vorrei lasciare in eredità ai giovani una nuova fiducia nei concorsi di Stato. Quelli che faremo noi saranno puliti e porteranno i vincitori a una cattedra”.
Dettagliamo i numeri, in tutti e tre i gradi di scuola.
“Ventunomila nuovi docenti entrano in classe fra tredici giorni, presi dalle graduatorie storiche. Altri ventiquattromila saranno insediati a settembre 2013, metà dalle graduatorie, metà dal nuovo concorso che stiamo organizzando. Altri diecimila insegnanti in primavera: metà assunti dalle graduatorie, metà con un bando”.
In primavera avremo un nuovo concorso? Due nella stessa stagione dopo che il mondo della scuola è stato senza per tredici anni?
“Dobbiamo fare uno sforzo per recuperare i buchi del passato. Abbiamo due necessità : svuotare una graduatoria dove sono iscritti in 163 mila e dare continuità ai concorsi, farli tornare un’abitudine di questo paese. Dopo la primavera 2013 ogni due anni ci sarà una nuova prova”.
I precari storici, che hanno vinto i concorsi del 1990, del 1994, del 1999, lamentano la lesione di un diritto e chiedono tutti i posti disponibili. E’ notizia di oggi che sono entrati in ruolo un precario di 63 anni e una di 65.
“Ho ereditato una situazione pesante e sto cercando di mettervi rimedio. E poi dobbiamo portare insegnanti giovani nelle scuole, questo si può fare solo con i bandi pubblici. Devo anche dire che abbiamo fatto un accordo con l’Inps che ci permetterà di valutare chi fra quei 163 mila iscritti alle vecchie graduatorie ha ancora bisogno di un posto di lavoro nella scuola. Alcuni, nel frattempo, si saranno sistemati altrove”.
Per il prossimo concorso, quello che sarà reso pubblico il 24 settembre, si attendono 200 mila candidati per 11.892 posti. Gli altri 190 mila entreranno in una nuova graduatoria?
“Mai più graduatorie. Da adesso in avanti avremo vincitori pari ai posti disponibili. Chi non riuscirà a passare, ci riproverà in primavera e poi ogni due anni avrà un’occasione. Non formeremo più nuove graduatorie, cercheremo solo di svuotare quella esistente che tante frustrazioni ha creato”.
Il test preselettivo sarà a quiz, i contestati quiz.
“Il test, che si terrà a inizio dicembre, serve come setaccio. E’ necessario avere un numero di esaminando non superiore ai 60-70 mila per preparare dei buoni orali e dei buoni scritti. Faremo i test con domande di carattere logico-deduttivo, alcuni in lingua, inglese, francese, tedesco e spagnolo, e le altre per misurare le competenze informatiche. Dobbiamo avvicinarci all’Europa”.
Lei dovrebbe essere più severo con i suoi collaboratori: un concorso per presidi e una prova per i tirocini formativi sono diventati campi di battaglia. Un errore ogni cinque domande di test, impresentabile. E centinaia di ricorsi in tutta Italia.
“Ho ereditato anche la preparazione di quei test. Avrei potuto interromperli, ma avremmo perso un altro e fermato un ciclo virtuoso. La prossima prova sarà inattaccabile”.
Ripartono le università con le tasse aumentate.
“Noi non le abbiamo aumentate, non so i singoli atenei”.
Neppure per i fuori corso?
“Gli studenti lavoratori pagheranno meno degli altri, come sempre. Gli studenti che prolungano gli studi per vari motivi, e io non li chiamo bamboccioni, avranno un aumento di cento euro il mese solo se superano la soglia dei 90 mila euro familiari”.
Porterà avanti la questione dei prestiti d’onore agli universitari?
“Sì ispirandomi ai paesi asiatici, negli Stati Uniti i prestiti sono troppo onerosi. Si inizierà a restituire dopo aver trovato lavoro e per cinque stagioni”.
Ministro, come sarà la scuola del futuro?
“Presente nell’intera vita di una persona. Chi lavora deve tornare a studiare, aggiornarsi. Basta una volta a settimana. E dovrà usare di più gli strumenti del sabbatico, rappresentano il distacco, il rinnovamento”.
Corrado Zunino
(da “La Repubblica”)
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Settembre 2nd, 2012 Riccardo Fucile
TENSIONE ALLE STELLE IN GERMANIA CON IL PRESIDENTE DELLA BUBDESBANK CHE STAREBBE PENSANDO ALLE DIMISSIONI
La guida della Bundesbank sta sempre più stretta a Jens Weidmann.
Dopo essersi giocato sulla stampa le ultime cartucce contro le misure di emergenza anti-spread che la Bce di Mario Draghi vorrebbe attuare, il presidente della Banca Centrale tedesca starebbe infatti seriamente valutando le dimissioni.
A dare sempre più corpo all’ipotesi è stata ancora una volta la stampa tedesca, la stessa che nei giorni scorsi ha dato voce alle preoccupazioni di Weidmann per la politica dell’Eurotower.
In particolare secondo la Bild Weidmann avrebbe preso in considerazione l’ipotesi di dimettersi per rimarcare la sua opposizione al nuovo piano di acquisto dei titoli di Stato dei Paesi in difficoltà da parte della Bce, ma sarebbe stato fermato dal governo di Berlino.
Per il quotidiano, in particolare, il banchiere avrebbe deciso per il momento di restare e difendere la sua posizione nella riunione del direttivo della Bce del 6 settembre poichè ritiene che far sentire la sua voce in quell’occasione rappresenta il modo migliore per battersi per l’indipendenza dell’Eurotower e la stabilità dell’euro.
Linea analoga per il Frankfurter Allgemeine Zeitung secondo cui il governatore della Bundesbank avrebbe discusso più di una volta il tema con i suoi più fidati collaboratori e avrebbe per ora deciso di tener duro.
Nessun commento ufficiale, però, nè da parte dell’interessato nè dal governo tedesco, il cui portavoce Georg Streiter, puntualizza comunque che Weidmann e la cancelliera Angela Merkel, si sentono regolarmente al telefono.
“Posso solo ribadire — dice – quanto detto dalla cancelliera nella sua intervista alla tv Ard, quando ha assicurato che è un bene che i politici vengano continuamente messi in guardia e che dentro la Bce c’è sempre discussione”.
Inoltre, aggiunge, la Merkel “ha detto che che ovviamente appoggia Jens Weidmann come nostro banchiere centrale e che lui dovrebbe avere la massima influenza possibile nella Bce”.
Anche perchè si tratterebbe del terzo abbandono illustre nel giro di un anno e mezzo.
L’uscita di Jurgen Stark dal board della Banca centrale europea, proprio in polemica con le scelte di sostegno finanziario ai Paesi a rischio, risale infatti al settembre scorso.
E allora Weidmann aveva promesso di “difendere l’ortodossia monetaria” della banca centrale tedesca, e di “impegnarsi nel Consiglio direttivo in favore della stabilità monetaria e dell’indipendenza della Bce”.
Il 43enne economista della scuola monetarista di Bonn, nonchè ex-consulente della Merkel era a sua volta da poco subentrato al banchiere centrale Axel Weber, che a febbraio 2011 aveva lasciato l’incarico dopo essersi opposto all’acquisto di titoli di Stato da parte dell’Eurotower.
E nonostante le parole distensive del suo portavoce, è chiaro che la situazione è particolarmente tesa per la Merkel che due giorni fa a Berlino ha rilasciato inequivocabili dichiarazioni di sostegno a Draghi e, secondo le indiscrezioni trapelate a margine del summit e rilanciate stamattina dal quotidiano El Mundo, avrebbe suggerito tanto al premier spagnolo Mariano Rajoy quanto italiano Mario Monti di temporeggiare sull’eventuale richiesta di aiuti comunitari, per darle il tempo di risolvere il nodo Bundesbank.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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