Settembre 8th, 2012 Riccardo Fucile
RICCARDI : “RACCOGLIETE L’EREDITA’ MORALE DEL GOVERNO”…. MERCEGAGLIA: “SONO CON VOI PER UN NUOVO, GRANDE PROGETTO”
Doppia mossa di Casini.
Innanzitutto, fa saltare il suo nome dal simbolo elettorale del partito, nell’epoca della politica iper personalizzata.
In secondo luogo, mette nel simbolo la parola «Italia», sottraendo questa chance a Berlusconi, che l’ha troppo a lungo riaccarezzata (dopo aver cancellato Forza Italia per il Pdl). Casini, per non esagerare, lascia nel simbolo «Unione di centro» e lascia pure il vecchio scudo crociato.
Perchè, come spiegano i suoi collaboratori, cambiare va bene, ma in un momento di incertezza non si può buttar via tutto.
Almeno finchè non si capisce quale sarà la legge elettorale e cosa succede nelle altre famiglie politiche.
Casini ha convocato le «primarie delle idee», meno impegnative e rischiose di quelle per decidere chi guiderà un partito.
E rimette la barra del suo timone al centro, dopo aver dato l’impressione, in un paio di passaggi, di puntare a un’alleanza, post elettorale beninteso, con il centrosinistra. Presentando il nuovo simbolo, il segretario Udc, Cesa, ha lanciato un appello a «quanti credono sia necessario presentare una lista per l’Italia».
E ha poi gridato: «Non siamo una costola della sinistra. Che c’entra Vendola con noi?».
GLI ACCORDI
Insomma, Bersani andrebbe anche bene nella chiave di un accordo fra socialisti e popolari all’europea, ma Vendola no.
Addirittura, si riapre una porta sulla destra: se Berlusconi fosse d’accordo a dare continuità alla politica di Monti, sarebbe benvenuto.
Anche se la speranza di fondo è l’erosione dell’elettorato del Pdl in favore del Centro.
E se poi nel Pd dovesse vincere Renzi, in quel caso–dicono i dirigenti Udc – «ci sarebbe il big bang». Casini si è già pentito di aver detto: «Fa ridere immaginare che al vertice con la Merkel l’Italia mandi Renzi e non Monti…».
Ecco, l’«agenda Monti» non si chiude con la convocazione delle elezioni.
Udc-Italia fa suo il programma del governo in carica e la platea di Chianciano applaude in piedi anche i nomi di Napolitano e Draghi.
E qui hanno accettato di venire molti ministri del governo Monti. Ieri Andrea Riccardi, ministro per la Cooperazione ha detto: «Spero che una realtà come la vostra sappia in pieno recepire l’eredità morale di questo governo ».
Riccardi, leader della Comunità di Sant’Egidio, dice anche che il governo «lascia un linguaggio politico diverso», dopo anni di contrapposizioni violente.
E poi: «Non si può lavorare adesso sotto l’incubo della campagna elettorale. Prima del voto bisogna creare una rete: l’antipolitica nasce da un mondo spaventato, che chiede una politica buona».
Hanno parlato inoltre il ministro Ornaghi e il viceministro Martone, Passera (e il sottosegretario De Vincenti), Catania, Patroni Griffi, Clini.
Poi, ci sono gli esponenti cattolici del gruppo di Todi, da Bonanni, segretario Cisl, a Pezzotta, Olivero (Acli), Guidi (Confagricoltura), Marini (Coldiretti), Natale Forlani.
Ma Casini ha ottenuto anche la presenza di Emma Marcegaglia, ex presidente Confindustria, di Nicola Rossi, in rappresentanza di Montezemolo, di Gianni Petrucci, presidente Coni. Completano il quadro pezzi di Prima Repubblica: come De Mita, Pomicino, Pisanu, Sanza, Gargani, D’Onofrio, La Malfa.
Ieri sera ha parlato anche Fini, ciò che resta del defunto Terzo polo.
Carne al fuoco molta, il risultato si vedrà .
Andrea Garibaldi
(da “Il Corriere della Sera”)
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Settembre 8th, 2012 Riccardo Fucile
SUL BLOG DI GRILLO CHE HA PAURA AD ESPRIMERSI IN PRIMA PERSONA UN ATTACCO A FAVIA DEGNO DELLA PRIMA REPUBBLICA: “VUOLE PASSARE A UN ALTRO PARTITO”….FAVIA RISPONDE: “LA MIA CASA E’ QUA, CHE FAI, MI CACCI?”… DI PIETRO FA IL SERVO SCIOCCO DEL COMICO GENOVESE
La guerra è dichiarata.
Da un lato Grillo, il leader del Movimento 5 Stelle, dall’altro Favia, il consigliere “ribelle” che con le due dichiarazioni ha sconvolto l’universo grillino.
Ieri si è aggiunto un altro sanguinoso capitolo allo scontro tra Favia e il vertice.
Grillo, che ancora non si espone, ha pubblicato un lungo e articolato resoconto di un giornalista freelance legato al meetup di Vicenza, Maurizio Ottomano.
Dove il messaggio che emerge è chiaro: è un complotto dell’esponente emiliano contro lo Staff.
Secca la risposta di Giovanni Favia su Twitter: “Non ho nessuna intenzione di andare nel Pd, il M5s è sempre stata ed è la mia casa” . Infine ha citato Fini e quel famoso dito puntato contro Berlusconi: “Che fai, mi cacci?”.
Ma quale fuorionda, è tutta una strategia del grillino ribelle lascia intendere Ottomano nel suo pezzo.
“La fine del mandato, prossima per Favia che è già alla seconda legislatura e quindi non più candidabile nel M5S, potrebbe essere il movente di questa intervista concordata e il “do ut des” per il passaggio ad altra formazione politica, probabilmente il PD o affini”, scrive il giornalista. Del resto, aggiune, “lui non è uno sprovveduto”.
“Anche noi avremo i nostri Scilipoti” ha detto Beppe Grillo pochi giorni fa, alla festa dei Cinque Stelle a Brescia.
Il riferimento è chiaro: “Una sorta di sillogismo per un tradimento politico di cui forse sapeva l’esistenza, ma non i termini precisi. Qualcosa era trapelato sicuramente – prosegue Ottomano -. Meno comprensibile invece che il neo-dissidente del MoVimento, giunto in pesante ritardo alla festa, non sia stato incalzato dalle telecamere di LA7 nè sia stato tentato nulla di rilevante per l’informazione, come il metterlo a confronto diretto con Grillo, alla luce del fatto che la trasmissione aveva sul campo proprio lo stesso inviato che sapeva di aver raggiunto lo scoop due mesi prima”.
E invece niente, conclude il giornalista: “Favia fu evitato accuratamente dalle stesse telecamere che avrebbero potuto completare l’opera, in modo esemplare. Niente, nemmeno una domanda, nulla”.
Anche il sindaco 5 Stelle di Parma, Federico Pizzarotti, fa un passo indietro.
Se ieri, infatti, parlava della necessità di un congresso, oggi è più cauto.
“Facciamo assemblee da anni, comprese quelle semestrali dei consiglieri regionali. E i giornali non se ne sono mai accorti?” attacca il primo cittadino.
Le sue parole sono state riprese anche dal sito di Beppe Grillo in un post dal titolo “Le vere parole di Pizzarotti”.
Antonio Di Pietro, leader dell’Italia dei Valori, è l’unico dei leader nazionali che difende Grillo e Casaleggio: “La verità è molto semplice: danno fastidio. Come è successo a noi, sta succedendo a loro. Si cerca di delegittimare chi dà fastidio, di denigrarlo per non affrontare il problema posto, cioè il fatto che c’è una moltitudine di cittadini che di questa classe politica non ne può più e sta protestando”.
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Settembre 8th, 2012 Riccardo Fucile
E’ STATO LO STRATEGA DEL REFERENDUM E DECIDERA’ LE CANDIDATURE ALLE PROSSIME ELEZIONI… GRILLO ORA DEVE CHIARIRE COME INTENDE SELEZIONARE I CANDIDATI O E’ FINITO
La Rete è spietata.
I grillini lo predicano da anni e ora provano la lama di Youtube sulla loro pelle.
Ci sono le due versioni di Favia a Piazza pulita: scena e retroscena, come ai bei tempi del Transatlantico della Prima Repubblica.
Poi c’è il consigliere bolognese che pontifica ad aprile da Santoro: “Non abbiamo leader che ci comandano. Grillo (non Casaleggio, ndr) non ha mai messo bocca sulle candidature”.
C’è pure il video postato nel 2010 nel quale Favia se la ride: “Pensate davvero che Grillo sia un burattino nelle mani di Casaleggio? Ma dai! Quello è un tecnico e si occupa della comunicazione. Non ha mai chiamato un solo consigliere. Siamo liberi”.
Concetti ribaditi da Grillo e Casaleggio in un comunicato che somiglia terribilmente alle parole — false — di Favia.
La verità è che l’intervista della squadra di Formigli è uno scoop che fa male.
Il consigliere comunale più votato svela tre verità oscene, nel senso latino di ob scaena, cioè da tenere fuori dalla scena perchè il pubblico non deve vederle:
1) Casaleggio, titolare di una società commerciale che cura la comunicazione del Movimento e di molte imprese private (oltre che in passato di Di Pietro) è stato lo stratega dei referendum.
Non esiste e, secondo Favia, non ci sarà mai una selezione democratica dal basso.
Tutto viene deciso da Grillo (un segreto di Pulcinella) ma più ancora dallo “spietato” Casaleggio;
2) Il veto di Grillo nei confronti di Tavolazzi e quello a comunicare in tv ai consiglieri serve in realtà a tutelare i veri capi (non eletti) dal dissenso degli eletti che non parlano per paura;
3) Casaleggio deciderà le candidature alle prossime elezioni politiche; il volto giovane di Favia non deve trarre in inganno: le questioni poste hanno a che fare con la democrazia (garantita dalla Costituzione) di un partito che si candida a diventare la seconda forza del Parlamento.
Non bastano tre righe sul sito per smentire.
Le elezioni sono alle porte e Grillo deve comunicare come selezionerà i candidati per dimostrare che la sua democrazia diretta non somiglia a un guru capellone.
È il vaffanculo più difficile della sua carriera perchè non basta gridare.
Stavolta bisogna agire.
Ora.
Marco Lillo
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 8th, 2012 Riccardo Fucile
NEL 2008 FU STILATO DA CASALEGGIO UN DOCUMENTO CON IL QUALE I PROMOTORI DEL REFERENDUM AVREBBERO DOVUTO CONSEGNARE UNA DELEGA IN BIANCO PER RISCUOTERE I FINANZIAMENTI PUBBLICI
Mancano pochi minuti a mezzogiorno. E’ il 4 aprile 2008.
Nella hall dell’hotel Ripetta, a Roma. Una quindicina di persone aspettano Beppe Grillo.
Sono i promotori del secondo V Day che hanno appena depositato in Cassazione le firme. Motivo dell’incontro: le spiegazioni da parte di Grillo su un documento — mostrato da Piazza Pulita, sul La7 — che delega Grillo o persona da lui incaricata, per la gestione dei rimborsi. Parliamo di tre milioni di euro circa che sarebbero arrivati nel caso si fosse raggiunto il quorum del referendum per l’abrogazione della legge Gasparri e del finanziamento pubblico ai giornali, proposto dal nascituro Movimento.
Il documento alla fine non venne firmato.
Testualmente si leggeva : “I sottoscritti promotori intendono con la presente attribuire formalmente ed irrevocabilmente al signor Giuseppe Grillo, in via esclusiva, ogni diritto al percepimento dei rimborsi di cui alla legge n. 157 del 3 giugno 1999, e ad usufruire di ogni altra agevolazione, prerogativa e facoltà previste per o conseguenti al compimento delle attività referendarie, rinunciando fin d’ora, a beneficio del signor Giuseppe Grillo o di persona che questi potrà indicare, ad ogni diritto in tal senso”.
Chi sottopone il documento da firmare — raccontano i presenti — è un uomo della Casaleggio associati, il testo è stato preparato negli uffici di Milano dell’uomo ombra di Grillo.
Gli attivisti che quel giorno si presentano determinati nel volere spiegazioni vengono placati da Beppe Grillo con un “io non ne so niente”.
Di più. Grillo dice che una cosa del genere si può fare “solo ed esclusivamente davanti a un notaio”.
A quel punto Grillo si ritira nella stanza. Va in camera e resta al telefono quasi un’ora.
Quel documento non passerà .
In caso di raggiungimento del quorum se ne sarebbe discusso in maniera più precisa.
Ma nessuna firma in bianco. E soprattutto il referendum non venne mai fatto, mancavano le firme.
Grillo le presenterà in Cassazione, ma mancava il numero.
Secondo lui c’erano, ma non fece mai ricorso.
Il referendum andò a morire. Ma la strana storia di quella procura in bianco, che valeva un sacco di soldi, continuerà a essere ripresa su vari forum e ora viene raccontata con tanto di retroscena dagli attivisti che poi hanno lasciato Grillo e Casaleggio.
Emiliano Liuzzi
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 8th, 2012 Riccardo Fucile
SU TWITTER MEGLIO RENZI, SU FACEBOOK PREVALE BERSANI
Se i maggiorenti del partito non se le mandano a dire, figurarsi i militanti.
La battaglia per le primarie infiamma la base del Pd e sui siti di area democratica è uno stillicidio di insulti e attacchi personali.
Bersani? Un «vecchio», «icona del fallimento della sinistra», «amico di Penati».
Non va meglio a Rienzi: «Bamboccione», «arrivista» e «berlusconiano».
In versione 2.0 la dialettica interna del vecchio Pci diventa brutale.
E non è detto che la scazzotata virtuale faccia meno male a un partito sempre più diviso.
La bacheca Facebook del Pd rispecchia gli uomori registrati dagli ultimi sondaggi: quasi uno su due sta con Bersani, i “renziani” si confermano minoranza battagliera, gli altri si divisono tra indecisi e disillusi.
Più che lodare il proprio candidato, si carica a testa bassa l’avversario.
Araldo rinfaccia a Renzi la mai perdonata visita ad Arcore.
«Qualche idea buona magari ce l’avrebbe -concede Valerio- ma ormai si è fatto prendere dal protagonismo».
Franca si lamenta del link in bacheca a un evento con il sindaco di Firenze: «Questa è la pagina ufficiale del Pd, non di Renzi! Lui non mi rappresenta».
Su Twitter i rapporti di forza sembrano rovesciati. «Ogni tanto sogno di fare incursione della sede del Pd, legare Bersani, puntargli una telecamera e costringerlo a parlare del programma», scrive Woland.
Filippo fa il verso a Crozza: «Il programma di Renzi è noto sul web, Bersani al massimo smacchia i giaguari».
«Nel 2013 andrò a votare solo se ci sarà Matteo candidato premier», scrive Domenico.
«La battaglia delle primarie, D’Alema contro Renzi», titola il sito dell’Università .
Nei commenti dell’articolo volano stracci.
Saverio nemmeno lo nomina: «Abbiamo voluto le primarie e ora ci tocca il sindaco di Firenze, personaggio ambiguo e vanesio».
La ricetta di Michele è semplice: «Non facciamo le primarie».
Gli risponde Pierdomenico: «Se non siamo in grado nemmeno di gestire la nostra consultazione, andiamo a fare altro».
L’unico che mette tutti d’accordo è D’Alema: «Dai Massimo che anche sta volta ce la fai! Se ci dai dentro stavolta perdiamo le elezioni», scrive Renato.
I blogger del Pd, incalzati dai militanti, si arrendono.
Pippo Civati, ex socio rottamatore di Renzi, commenta sconsolato: «Non ci sono ancora regole, non c’è la data, non ci sono i criteri, e il Pd ha già capottato in parcheggio sulle primarie. Fare le cose peggio di così è dura».
Gabriele Martini
(da “La Stampa“)
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Settembre 8th, 2012 Riccardo Fucile
L’INCHIESTA DE “L’ESPRESSO” ESAMINA VOCE PER VOCE I PRESUNTI TAGLI PROPRIO ALLA VIGILIA DELLA RIAPERTURA DELLE CAMERE
Parole, parole, parole. Buone per raccogliere facile consenso e guadagnare qualche titolo di giornale. E non solo per la casta dei politici di professione.
Neppure i tecnici nostrani hanno disdegnato la moda degli annunci quando si è trattato di proclamare una lotta a colpi di scure nei confronti degli sprechi.
Visti i risultati, nell’ideale giro di boa estivo, il refrain della celebre canzone di Mina potrebbe essere l’ideale colonna sonora dell’era Monti. Parole, parole, parole.
Ad aprile “l’Espresso” aveva controllato, promessa dopo promessa, quanto il Parlamento aveva effettivamente tagliato fra stipendi, benefit, pensioni, auto blu e privilegi vari.
Il risultato d’allora era scarso, ma c’era ancora qualche mese davanti.
E così il nostro giornale, alla vigilia della riapertura delle Camere, ha fatto una nuova indagine.
Per capire se davvero gli onorevoli in tempo di crisi e tagli draconiani hanno rispettato le attese dei cittadini.
Il risultato? Nulla di fatto.
Dopo le vacanze agostane Montecitorio e Palazzo Madama riapriranno, senza che a Palazzo sia cambiato nulla.
Che le cose non siano andate tutte per il verso giusto lo ha ammesso implicitamente il commissario straordinario Enrico Bondi, quando ha annunciato che la resa dei conti per sfoltire la spesa pubblica è rimandata a settembre.
Come dire: per il momento godetevi le vacanze.
Certo, qualcosa è stato fatto ma in molti casi, rispetto alle rinunce imposte ai comuni cittadini, si è trattato per lo più di interventi di facciata.
Con esiti a volte involontariamente comici: il Senato (ovvero Schifani), per la spending review interna che dovrebbe fare piazza pulita degli sperperi, aveva pensato di chiamare come consulente l’ex sindaco forzista di Palermo Diego Cammarata.
Chi meglio di lui, responsabile di un buco di bilancio vertiginoso nelle casse del capoluogo siciliano?
MENO PARLAMENTARI, MA SOLO SULLA CARTA
Nella relazione sul rendiconto generale dello Stato, la Corte dei conti l’ha detto chiaramente: gli sforzi finora li hanno fatti soprattutto le famiglie e le classi medio-basse, mentre risultano «mancanti o insufficienti o in ritardo» quegli interventi che avrebbero potuto «in parte compensare i sacrifici», come «una significativa riduzione dei costi della politica».
Costi, stima la Uil, che ormai sfiorano i 24 miliardi di euro: in pratica 772 euro a contribuente. Eppure nemmeno il taglio dei parlamentari, promessa-cardine della politica “pentita” e sbandierata come esempio di buona volontà , è riuscito ad andare in porto con serietà .
Il testo approvato in prima lettura a Palazzo Madama prevede infatti la riduzione da 630 a 508 deputati (otto eletti all’estero) e da 315 a 250 senatori, più altri 21 senatori “regionali” (19 dalle regioni, uno dalle province di Trento e Bolzano).
Peccato che la riduzione non entrerà in vigore in tempo per le prossime elezioni.
L’accordo tra i partiti era fatto ma poi, per assecondare le aspirazioni quirinalizie di Silvio Berlusconi, il Pdl ha fatto saltare il banco.
Con un emendamento ha introdotto l’elezione diretta del Capo dello Stato e insieme alla Lega (in cambio del Senato federale quale contropartita) ha mandato a monte l’intesa faticosamente raggiunta con Pd e Udc.
A nulla è valsa la richiesta del Partito democratico di stralciare quanto meno la parte sulla riduzione del numero degli eletti.
Risultato: il testo, ammesso che riesca a essere approvato in doppia lettura dal Parlamento prima della fine della legislatura, non essendo stato votato a maggioranza qualificata, dovrà essere sottoposto a referendum confermativo prima di entrare in vigore.
Non essendo possibile svolgerlo nel 2013 per la concomitanza delle politiche, il nuovo Parlamento avrà lo stesso numero di eletti di quello attuale.
RIMBORSI DIMEZZATI SOLO DOPO IL CASO LUSI
Non tutto è naufragato però.
Almeno lo scandalo sull’uso disinvolto dei contributi statali della Lega e il caso Lusi sembrano aver sortito effetto.
E così, dopo qualche resistenza iniziale, i partiti hanno accettato un dimezzamento dei fondi: da 182 a 91 milioni l’anno.
Denaro che sarà corrisposto al 70 per cento sotto forma di rimborso (ma sempre a prescindere dalle effettive spese sostenute) e per il restante 30 per cento a titolo di cofinanziamento.
Ovvero, per ogni euro ricevuto da persone fisiche o enti sotto forma di quote associative o donazioni volontarie (necessariamente inferiori a 10 mila euro), i partiti riceveranno 50 centesimi aggiuntivi dallo Stato.
Il sistema però rimane: la Camera ha respinto gli emendamenti di Lega e Idv che chiedevano di abrogare del tutto il finanziamento pubblico.
Non sono mancati comunque scontri e sul controllo dei bilanci è andato in scena il più classico braccio di ferro fra poteri dello Stato.
La prima versione della riforma prevedeva un organismo formato dai presidenti di Consiglio di Stato, Cassazione e Corte dei conti coordinati da quest’ultimo.
Ma il primo presidente della Corte Suprema, Ernesto Lupo, si è opposto, lamentando sostanzialmente di non poter essere coordinato da un “sottoposto”.
Poi a far sentire la propria voce è stata la magistratura contabile, che ha rivendicato la competenza in via esclusiva.
«Decide il Parlamento, i magistrati sono solo gelosi delle loro funzioni», il commento non proprio amorevole del relatore Gianclaudio Bressa (Pd).
Alla fine le verifiche sono state demandate a una commissione ad hoc composta da cinque magistrati designati dai tre organi. Fine delle polemiche.
Con l’entrata in vigore della riforma, nei prossimi due anni il risparmio sarà di 165 milioni, destinati alle popolazioni colpite da terremoti e calamità naturali.
In questo clima di pseudo-morigeratezza, non sono mancati i casi di coscienza: salvato dalla richiesta di arresto spiccata dalla Procura di Napoli nell’ambito dell’inchiesta sui fondi pubblici a “l’Avanti!”, il senatore Sergio De Gregorio ha annunciato l’intenzione di rinunciare alla quota che gli sarebbe spettata per la partecipazione alle regionali in Campania con la sua lista Italiani nel mondo (135.196,49 euro).
Gli eredi della Margherita, dopo il caso Lusi, hanno invece deciso di destinare 5 milioni di euro a 1.200 esodati (cinque mensilità da 800 euro l’una).
E per chi ha a cuore il volontariato e la ricerca, un emendamento approvato durante la spending review consente ai partiti defunti di destinare i rimborsi elettorali al 5 per mille.
A quelli ancora in vita, invece, nel 2012 andranno 22,7 milioni contro i 45,7 previsti.
A ogni modo non avranno di che lamentarsi, visto che per l’anno in corso potranno contare su quasi 50 milioni: alla rata per le elezioni del 2008 vanno infatti aggiunte quelle per il rinnovo del Parlamento europeo (22,6 milioni), dell’Assemblea regionale siciliana (2.057.810,40), dei Consigli regiona-li di Friuli Venezia Giulia (491.805,45), Valle D’Aosta (46.155,15), Abruzzo (455.085,55), Sardegna (662.931) e delle Province autonome di Trento e Bolzano (357.862,95).
Alla faccia dell’austerity.
AGENDINE ADDIO (MA NON DA SUBITO)
Neppure i due rami del Parlamento, indicati come il sancta sanctorum dei privilegi, si sono sottratti ai tagli imperanti.
Ma Camera e Senato sono stati molto indulgenti con loro stessi. Montecitorio ad esempio ha annunciato un risparmio di 150 milioni per i prossimi tre anni: non proprio una privazione, dato che la cifra corrisponde ad appena il 5 per cento del costo generale dell’istituzione.
Fra le rinunce più pesanti, i deputati dovranno dire addio alle eleganti agende in pelle: la gara d’appalto triennale per la fornitura (costo: 335 mila euro l’anno) è stata revocata.
Per abituarsi alla privazione c’è tempo un anno e mezzo: per il 2013 i taccuini, più piccoli, saranno distribuiti gratuitamente in misura minore rispetto al passato, in modo da risparmiare 65 mila euro.
Il resto dovrebbero farlo gli introiti della vendita, ammesso che ci sia chi consideri irrinunciabile una rubrica con il logo di Montecitorio.
«La spesa per il 2013 sarà inferiore a 200 mila euro», ha annunciato il questore anziano Francesco Colucci (Pdl), come se si trattasse di un sacrificio inusitato.
E proprio i questori, nella veste di censori, stanno provvedendo al nuovo clima di austerità , a cominciare dalla carta: dopo le rassegne stampa cartacee (diffuse in copie limitate), una nuova delibera ha esteso il giro di vite anche a bollettini e documenti parlamentari, trasmessi ai gruppi solo in formato elettronico.
Peggio al Senato, dove il presidente Renato Schifani ha annunciato trionfante un bilancio inferiore «di ben 4 milioni in meno rispetto al consuntivo 2011»: 542 milioni anzichè 546. Una riduzione inferiore all’1 per cento, in pratica una spuntatina alle unghie.
Che fra l’altro non interesserà tutti i settori.
Nel 2012, infatti, Palazzo Madama spenderà di più per pagare le pensioni del personale in quiescenza (da 98,8 a 106,8 milioni), i vitalizi agli ex senatori (da 75 a 77,2 milio-ni), il cerimoniale (più 10,7 per cento) e gli studi per ricerche (più 16,7 per cento).
A ogni modo già quest’anno il Senato potrebbe rigirare allo Stato 21 milioni non impiegati. L’impegno per il futuro è di limare ulteriormente i costi, rivedendo i criteri di assegnazione degli appalti.
E ovviamente intervenendo sulle immancabili agendine, che non saranno più regalate ai senatori ma dovranno essere acquistate.
TOGLIETEMI TUTTO MA NON L’AUTISTA
Fra i vari campi d’intervento, la spending review im-pone a tutte le amministrazioni di tagliare del 50 per cento la spesa per le auto blu.
Sebbene la cura dima-grante imposta dal governo inizi a dare qualche frutto, i risultati previsti sono ancora lontani «dal cambio di mentalità » richiesto dal ministro Filippo Patroni Griffi.
E anche se nell’ultimo biennio sono stati risparmiati oltre 200 milioni l’anno, la gestione del parco auto dello Stato ci costa ancora un miliardo e 220 milioni di euro.
Nel primo semestre del 2012 le vetture sono scese a quota 60.551 (erano 64.524 a fine 2011), un dato che fa arretrare l’Italia al secondo posto dietro la Francia, dove sono 63 mila circa.
Più consistente, in proporzione, il calo delle auto blu-blu, quelle cioè in uso a politici ed eletti dei vari livelli, diminuite di quasi un quinto: da 9.721 a 7.837.
Ma di fatto le dismissioni vere e proprie sono state pochissime: appena 582.
Il motivo? Molte amministrazioni si sono limitate a modificare le classifi-cazioni sulle modalità di utilizzo delle autovetture, destinando a servizi operativi senza autista macchine che in precedenza erano assegnate individualmente. Inoltre in periferia qualcuno continua a fare orecchi da mercante, dal momento che la con-trazione riguarda prevalentemente le amministrazioni centrali.
Per non parlare dell’abuso degli autisti.
A livello nazionale, solo una vettura su dieci ne dispone e in Emilia Romagna il rapporto scende fino a una su 40.
Ma il tasso sale man mano che ci si sposta verso Sud: in Campania, Molise e Basilicata, un terzo delle auto blu sono assegnate con chauffeur.
GIÙ LE MANI DALLE PENSIONI D’ORO
Non bisogna provare imbarazzo per la propria ricchezza».
Parola del Guardasigilli Paola Severino (7 milioni di euro dichiarati nel 2010 per la sua attività di avvocato).
Ma in tempi di sacrifici e manovre lacrime e sangue, un aiutino alle casse pubbliche sarebbe lecito attenderselo anche dagli ex servitori dello Stato ormai a riposo che possono contare su lauti assegni mensili.
Ma non tutti sembrano pensarla così. Il deputato Pdl Guido Crosetto, che con un emendamento aveva chiesto al governo di fissare alle pensioni erogate dallo Stato un tetto di 6 mila euro (10 mila in caso di cumulo), è stato costretto al ritiro per le pressioni subite dal governo e dai colleghi onorevoli.
Forse perchè molti esponenti del governo hanno un passato da grand commis (o comunque nel settore pubblico) tale da mettere a repentaglio la loro pensione, percepita o da percepire. Qualche nome?
I ministri Elsa Fornero (anche docente universitaria), Giampaolo De Paola (ammiraglio), Annamaria Cancellieri (prefetto), i sottosegretari Gianfranco Polillo (funzionario della Camera), Antonio Catricalà (magistrato) e perfino il commissario straordinario Enrico Bondi.
Il governo si è impegnato ad affrontare il problema ma finora non ha mosso un dito.
Eppure, secondo alcune stime, un provvedimento simile permetterebbe di risparmiare 2,3 miliardi l’anno alle casse dell’Inpdap, l’Istituto di previdenza dei dipendenti pubblici.
La sensibilità nei confronti dei boiardi di Stato non si ferma qui: l’esecutivo ha previsto che lo stipendio massimo dei manager pubblici non possa superare quello del primo presidente della Cassazione (circa 300 mila euro l’anno), ma per evitare che apparisse una misura troppo “democratica”, ha stabilito che il tetto entrerà in vigore solo dal prossimo contratto.
Non solo.
Il governo ha anche cercato di introdurre un trattamento previdenziale privilegiato, in modo che nella parte calcolata con il metodo retributivo la pensione venisse conteggiata sulla base dei vecchi stipendi, più alti. In uno scatto d’orgoglio (o forse d’invidia) il Parlamento ha però bocciato i tentativi di reintrodurre il provvedimento fra le pieghe del decreto sulle banche.
SETTE VITE PER LE PROVINCE
Sono periodicamente indicate come l’ente più inutile che esista, eppure continuano a risorgere dagli annunci di cancellazione come l’araba fenice.
Da legislature la politica assicura l’intenzione di eliminare le province, senza poi mai giungere a conclusione.
Neppure il governo Monti ha fatto eccezione: era partito con l’idea della soppressione totale, poi ha dovuto ripiegare sull’accorpamento e infine si è dovuto accontentare del “riordino”, fermo restando il principio minimo dei 350 mila abitanti e 2.500 chilometri quadrati.
Ma non è finita qui. A chi sarà affidato infatti il riordino?
Alle Regioni, tramite i Consigli delle autonomie locali. Il rischio, insomma, è che le province facciano la stessa fine delle licenze dei taxi: anche per le liberalizzazioni l’esecutivo partì lancia in resta, ma davanti alle proteste corporative finì per cedere la competenza ai comuni. Fallendo l’obiettivo.
Il ministro Patroni Griffi ha assicurato che le procedure dovranno concludersi entro ottobre, in modo da giungere al dimezzamento entro fine anno. In caso di melina degli enti locali, il governo procederà per conto proprio. Elezioni anticipate permettendo.
INDISPENSABILI ENTI INUTILI
Presi a simbolo dello spreco italico, oggetto di una crociata (soprattutto mediatica) senza precedenti e nonostante una mezza dozzina di leggi solo nell’ultimo decennio, gli enti inutili sono ancora vivi e vegeti.
A posteriori, anche quella che il centrodestra chiamava con macabro orgoglio “la ghigliottina” (l’abolizione d’ufficio in mancanza di soluzioni alternative più economiche) pare essersi inceppata.
Anzi, non aver funzionato affatto.
Il problema è che non è mai stato possibile realizzare nemmeno una seria ricognizione di questi organismi.
Lo dimostrano i numeri.
Nel 1997 il Tesoro li stimava in 460, dieci anni dopo la Corte dei conti ne ipotizzava 110, fino all’exploit del ministro “semplificatore” Calderoli: l’astronomica cifra di 34 mila nel 2007, dopo pochi mesi ridotti inspiegabilmente a 714.
Proclami, appelli, dichiarazioni: ebbene, lo sapete quanti sono stati gli enti pubblici non economici che sono stati tagliati davvero dal 2002 a oggi?
Appena 37, uno ogni tre mesi.
La radiografia impietosa la fa un report del Servizio controllo parlamentare della Camera, che mette alla berlina la futilità di una politica che si nutre solo di annunci: “Finora tutti gli enti soppressi lo sono stati mediante specifica norma di legge; non risultano casi di soppressione conseguenti ai procedimenti di riordino e soppressione inizialmente previsti dall’originaria normativa taglia-enti, nemmeno a seguito dell’applicazione dell’istituto della ‘ghigliottina’”. Come dire: servono provvedimenti specifici, non basta mettere tutto in un unico calderone. Una situazione kafkiana che porta con sè un paradosso estremo: l’Iged, l’Ispettorato generale per la liquidazione degli enti disciolti, in forze alla Ragioneria generale, è in fase di chiusura. Tutte le strutture che avrebbe dovuto sopprimere, invece, sono ancora al loro posto.
Primo Di Nicola e Paolo Fantauzzi
(da “l’Espresso””)
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Settembre 8th, 2012 Riccardo Fucile
C’ERA UNA VOLTA LA FESTA TRICOLORE ….SEMI-ABBANDONATO L’APPPUNTAMENTO STORICO DELLA DESTRA, ANCHE FINI RINUNCIA AL COMIZIO FINALE
La malinconia è anche nell’odore. Di letame.
Per carità , Mirabello è un piccolo paesino in campagna, questo è vero; la Festa Tricolore dei seguaci di Fli ha sempre avuto dei solidi legami con la terra, inutile negarlo.
Ma quando il futuro è nero, e il “colore” non indica vittoria, anche l’olfatto contribuisce a pennellare la situazione attuale di Gianfranco Fini e dei pochi adepti rimasti.
“La verità ?” sì, volentieri “è che della traversata del deserto immaginata nel 2010 dal presidente della Camera, rischia di salvarsi solo lui. Tutto il resto è finito, tutti gli altri sono politicamente scomparsi, o comunque in grossa crisi”, racconta un militante.
Altra storia nel 2010. Due anni fa l’attuale Presidente della Camera arrivava in provincia di Ferrara con l’aura dell’eroe, dell’uomo in grado di risvegliare l’orgoglio ferito da anni di berlusconismo.
Quindi banchetti improvvisati per accogliere magliette con sopra la sua effige warholiana e la scritta “che fai, mi cacci?”, spille, voglia di sottoscrizione, proclami dei vari Luca Bellotti o Ida Germontani che gridavano: “Siamo finalmente liberi” oppure “adesso quelli del Pdl vedranno cosa vuol dire fare politica seria, politica di destra”.
Eccome se l’hanno visto: pochi mesi, qualche fiducia, altrettanti abbocchi e tutti e due i parlamentari sono tornati sotto la benedizione di Cicchitto e company. “Altra era”, sorride amaro un secondo militante. Forse è vero.
Quella attuale, di era, racconta di Gianfranco Fini che ai suoi più stretti collaboratori ha manifestato la scarsa voglia di partecipare alla Festa, poche ore (in tutto quattro), nessun comizio ma un’intervista, qualche stretta di mano, altrettanti sorrisi, e via a casa.
Quest’anno, per lui, l’appuntamento è un altro: il 30 settembre ad Arezzo i fliniani hanno organizzato “I mille per l’Italia”, una sorta di assemblea costituente per abbracciare in maniera sempre più stretta la prospettiva di sciogliere Fli e proseguire verso un “raggio d’azione più ampio”.
Voti permettendo, la spiegazione semi-ufficiosa.
Vuol guardare sempre a Casini. Senza abbandonare quel che resta dell’Api, in attesa delle decisioni del Pd.
Esattamente ciò che un anno e mezzo fa ha portato alla rottura con l’ala destra, della destra, composta da Adolfo Urso e Andrea Ronchi, lesti a lasciare Fli, dopo aver capito qual era l’andazzo.
“Qui però il punto è un altro, quest’anno Mirabello nasce come forma di solidarietà per le popolazioni terremotate”, spiegano dalla Festa.
Di politica, poca. Per ammissione.
Tanto che dopo 31 anni dalla nascita, in molti ritenevano non ci fossero più le condizioni per andare avanti, nonostante la tenacia di chi l’ha voluta in un periodo, e in una zona, dove proclamarsi di destra era come bestemmiare in piazza San Pietro.
Altra era, appunto.
Alessandro Ferrucci
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Settembre 8th, 2012 Riccardo Fucile
L’EX PREMIER LONTANO DAL VIDEO A CAUSA DELLE CRESCENTE DIFFICOLTA’ DI NASCONDERE LA CALVIZIE…. GLI INTERVENTI TRICOLOGICI, A CAUSA DELL’ETA’, SONO SEMPRE MENO EFFICACI…E LA CAMPAGNA ELETTORALE SI AVVICINA
Dicono che Silvio Berlusconi sia triste per colpa dei sondaggi.
Dicono, anche, che il suo rientro sia comunque imminente. Che di certo sarà lui a guidare il partito (che verrà ) alle prossime elezioni e pure la fedelissima Iva Zanicchi si è buttata in avanti a dire che, in realtà , “l’uomo più adorato dalle donne italiane” si sia preso solo una pausa prima del “grande acuto”.
Di acuto, però, a ben guardare, in questo periodo il Cavaliere sembra avere solo una cosa: la calvizie.
L’età avanza. E lo spazio — in testa — tra un capello e l’altro, pure.
Che fine hanno fatto i capelli del Cavaliere?
Dopo l’uscita di scena, a metà luglio, quando si presentò — un po’ sovrappeso, a dire il vero- alla festa di compleanno della fedele Catia Polidori, impietosi teleobiettivi sardi lo hanno ripreso ad Olbia, sulla scaletta del suo aereo, l’8 agosto, con una testa coperta solo da una sottile lanugine chiara alla sua sommità e pochi, radi capelli color ruggine ai lati.
La domanda è sorta spontanea: ma chi fine ha fatto la “folta” chioma, color cioccolata fusa, che il Cavaliere ha sempre sfoggiato in ogni situazione, anche la più delicata?
E dove sono finiti quei ciuffi così disciplinati da non aver accennato neppure un tentativo di movimento quel giorno in cui un pazzo lo fece cadere a terra, sanguinante, dopo averlo colpito con una statuetta del Duomo di Milano?
In vacanza, però, quei capelli sembravano spariti.
Poi, invece, ieri, il colpo di scena. O quasi.
Tornato a Roma per farsi interrogare dai pm di Palermo ma — soprattutto — per presiedere un acceso vertice del Pdl sulla legge elettorale (che è durato fino a tarda notte), ecco che l’emergenza tricologica berlusconiana è scomparsa.
Perchè i capelli in testa il Cavaliere ce li aveva. Solo leggermente un po’ più radi di prima. Ma solo un po’.
Certo, qualcosa deve essere accaduto.
Tanto che ieri qualcuno dei suoi, un po’ più smagato della media, ha subito puntato il dito contro Pietro Rosati, il mago dei trapianti dei capelli che ha avuto in cura Berlusconi per anni e che, però, “forse non ha proprio fatto bene il suo lavoro…”.
Ma Rosati non c’entra. E’ che il Cavaliere sta invecchiando. E i suoi (pochi) capelli con lui.
Così anche le soluzioni estetiche che ha sempre utilizzato, quelle che “colorano” il cuoio capelluto per farlo sembrare uniforme, adesso stentano un po’ a dare il risultato di prima.
Anche “lo stress, lo stress”, come giudica Daniela Santanchè, ha fatto la sua parte, ma pare che al momento il Cavaliere non abbia in agenda nessun nuovo intervento di rinfoltimento della chioma in vista delle urne, per quanto abbia sempre associato il vigore della criniera alla sua capacità seduttiva.
Chissà che, oltre al nuovo partito, non abbia in mente anche di presentarsi agli italiani con un nuovo look, meno costruito e più spontaneo, “nature” si direbbe, ma chi lo conosce bene — tipo Denis Verdini — scuote la sua (sì, folta) chioma argentea e giura: “lo vedrete tornare più bello e più forte che pria…”.
Già , perchè lui non ha certo i problemi di crescita dell’economia come Monti.
Ha solo quelli di… “riscrescita”.
Stentata, molto stentata, pare.
E non solo dei capelli…
Sara Nicoli
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Settembre 8th, 2012 Riccardo Fucile
IL PD SI SPACCA SULLA CANDIDATURA DI RENZI, NEMICO DELLE TANTE CORRENTI CHE TENGONO IN SCACCO BERSANI
Visto che è di Firenze, forse sarebbe meglio paragonarlo a Savonarola più che a Beppe Grillo.
Ma si sa, di questi tempi, in campo democratico il “Male” lo incarna bene l’ex comico genovese (“fascista”) e chi lo segue.
Ed allora, ecco Matteo Renzi ergersi al nemico da distruggere.
O, forse, all’icona delle spaccature interne al Pd.
Reduce da una trasferta oltreoceano, dove ha preso appunti dai veri democratici su come ottenere — e soprattutto — conservare il consenso, Matteo Renzi, sindaco di Firenze e autoproclamatosi rottamatore della nomenclatura democrat che non vuole cedere il passo, rischia di vincere le primarie del Pd suo malgrado.
Anche se forse, alla fine, le perderà .
A dargli una mano sono i suoi stessi detrattori, tutti interni al partito, impegnati in una guerra del tutti contro tutti che, nella sua ultima versione, è declinata nella demonizzazione del giovane Renzo.
Sono lontani i tempi in cui, nel vecchio Pci, i nemici dell’ortodossia non erano nemmeno citati, finendo automaticamente con lo scomparire.
Oggi si eccede in senso opposto, con gli ex comunisti che usano strumentalmente la democrazia interna, e gli ex democristiani che non sanno più lavare i panni sporchi in famiglia.
Così, quotidianamente, il gotha del centrosinistra se le dà di santa ragione, dalle colonne dei quotidiani nazionali, lanciando dardi incrociati e trasversali che, in nome della crociata contro Renzi, colpiscono nemici ed ex amici.
Il panorama è pessimo.
Lui, Renzi dicono che abbia lanciato una campagna “rivolta non alla costruzione di una prospettiva di governo, ma esclusivamente contro il gruppo dirigente del Pd e tutti i potenziali alleati di governo del centrosinistra”.
Lo dice Massimo D’Alema (“Corriere della sera”), amareggiato dal fatto che l’ex mattatore della Ruota della Fortuna sia “sostenuto soprattutto da quelli che il Pd al governo non lo vogliono”.
E la palla è stata davvero troppo gustosa per non essere colta.
Il colpo di Matteo da Firenze è stato duro: “Rispetto tantissimo gli anziani: se non ci fossero i nonni non ci sarebbe la famiglia” (“La Repubblica”).
Nel mezzo, è riuscito pure a ficcarsi il capogruppo a Montecitorio Dario Franceschini che ha provato a fare il terzista: “Nella prossima legislatura ci sarà una nuova generazione di dirigenti e un giovane nuovo leader”.
Un bel delirio.
Dopo che ad insultare Renzi si erano alternati Rosy Bindi, lo stesso Bersani e — in buona sostanza — il gotha del Nazareno, quello che di mollare le proprie rendite di posizione pare proprio non volerne sapere.
Ecco, dunque, che lo scenario si fa cupo.
E ammesso che Pier Luigi Bersani arrivi davvero a Palazzo Chigi, di sicuro ci arriverà senza dubbio con un Pd alla mercè di mille correnti.
Il problema è che, sin qui, in realtà , la variegata maggioranza che sostiene Bersani, seppur litigiosa, non si è mai confrontata con un opposizione interna, fatto salvo la sparuta pattuglia prodiana guidata da Arturo Parisi che oggi, sempre in nome di Renzi, chiedeva al segretario “se la sua discesa in campo fosse in prima persona o a nome del gruppo dirigente”.
Gruppo dirigente che, alla resa dei conti, trova sempre la maniera di ricompattarsi per garantire se stesso. Così, in un battibaleno.
Esempi? Da acerrimo nemico di Walter Veltroni, D’Alema ne diventa il principale estimatore in campo letterario, e Rosy Bondi diventa un tutt’uno con Giuseppe Fioroni come con Enrico Letta, quando si tratta di criticare l’unica reale opposizione, per quanto dai contenuti assai incerti: quella di Renzi.
Sarà forse per questo che, quando l’astro del sindaco di Firenze sembrava già tramontato e il nemico sembrava essere soltanto la minoranza veltroniana, Bersani si è fatto prendere dalla smania di un’investitura non necessaria ma che, a suo avviso, lo mettesse al riparo da attacchi futuri, imbarcandosi nell’epopea delle primarie.
Sognava un voto bulgaro, e rischia di uscirne vincitore a metà .
Di certo non sarà il segretario di tutti, e in compenso dovrà farsi carico delle varie anime del partito che lo porteranno alla vittoria.
E che, in questo confronto, pur non pesandosi, poi presenteranno il conto.
Patto di sindacato o meno, la vecchia nomenclatura è tutta con lui, per garantirsi la rielezione e, perchè no, un posto nell’esecutivo, se ci si arriva.
Renzi, invece, corre da solo e rischia di aggiudicarsi pure un bel 30%.
Che non dovrà spartire con nessuno, non con Nichi Vendola (se il governatore dovesse decidere di farsi da parte), nè con i mille capobastone giunti in soccorso del carro del segretario.
Così, a livello locale, si assiste a dinamiche inedite: si racconta di militanti Cgil pronti a schierarsi con Renzi, come lettiani che sostengono il segretario vincente ma anche il sindaco oppositore.
Una Babele in cui cercano di mantenere un minimo di autonomia i cosiddetti giovani turchi, da Matteo Orfini a Stefano Fassina che a Renzi contestano il monopolio della rottamazione senza idee, laddove loro pongono sul piatto della nomenclatura non solamente il rinnovamento generazionale, ma anche questioni più squisitamente politiche: a cominciare dalla chiusura della stagione montiana che invece Letta e i veltroniani vogliono continuare, D’Alema osanna come vittoria del Pd (con buona pace di chi non riesce a fare la spesa), e che il segretario difende a tratti.
In attesa delle primarie che non si sa quando si faranno, nè con quali regole.
Dettagli, evidentemente, visto che l’unica certezza democrat per ora è Renzi. Il Male.
Sonia Oranges
(da “Il Fatto Quotidiano“)
argomento: Partito Democratico, PD | Commenta »