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POMPEI CROLLA, MA I FONDI DORMONO AL MINISTERO

Marzo 5th, 2014 Riccardo Fucile

SU 105 MILIONI RICEVUTI DALLA UE ME SONO STATI SPESI SOLO 600.000… E 55 MILIONI ASPETTANO ANCORA I BANDI

La retorica della grande bellezza non salva Pompei: è avvenuto il terzo crollo in tre giorni, l’ennesimo muro millenario che si sgretola sotto i secchi d’acqua di un febbraio monsonico.
La procura apre un fascicolo per disastro colposo: ma se il disastro c’è — e c’è — è tutto tranne che colposo
Esattamente come per l’ambiente, anche per il patrimonio non è infatti mai decollata una vera conservazione programmata fondata su metodi e strumenti scientifici: ad essa preferiamo il ‘restauro’ (cioè il recupero a posteriori, spesso solo estetico).
Come ha scritto Bruno Zanardi, Pompei si salva «attraverso un rapido ripristino di tetti, finestre e porte degli edifici antico romani, così come la realizzazione di sistemi di smaltimento delle acque meteoriche a partire dalle fogne … un progetto di ricerca e sviluppo aperto anche a università  e industria».
A questo si deve aggiungere il definanziamento degli ultimi anni: tutto il patrimonio italiano agonizza perchè il suo bilancio, già  sul livello di galleggiamento, fu ridotto a un terzo ai tempi di Bondi, Tremonti e Berlusconi e non si è più ripreso.
Per Pompei questo si è tradotto, per esempio, nell’interruzione delle catene di professionalità  artigianali che si tramandavano il mestiere di generazione in generazione. Senza mosaicisti, nessuno ripristina i mosaici: e così via
Ma nella lunga morte in diretta di Pompei emerge qualcosa in più: la morte dello Stato.
E non solo perchè lì tutto è in mano all’antistato della criminalità  organizzata.
Certo, anche per questo: siamo al punto che le buste con le offerte per le gare spariscono nell’ufficio postale di Pompei prima che possano essere recapitate.
Il consiglio comunale di Pompei è stato sciolto nel 2001 e commissariato per tre anni, e ancora nel luglio scorso la Dia ha dovuto chiedere alla Prefettura di conservare i filmati delle videocamere di sorveglianza degli scavi, per poter sapere chi entra e chi esce.
Ma soprattutto perchè lo Stato si è inceppato, non decide e non fa più nulla. La notizia clamorosa, fin qui non uscita, è che in due anni esatti, dei famosi 105 milioni di euro disponibili grazie al cofinanziamento europeo, il Ministero per i Beni Culturali è riuscito a spendere solo 588mila euro!
Che 55,4 milioni di euro sono ancora da bandire, contro soli 18,7 già  banditi.
E che sui 55 interventi da realizzare ci sono solo 5 cantieri aperti, e 9 progetti aggiudicati. Perchè? È triste ma necessario rilevare che l’intera catena di comando dell’archeologia — dalla soprintendenza su su fino alla direzione generale romana — si è rivelata del tutto inadeguata : incapace di gestire il personale, inconsapevole di governare non un museo o un sito, ma una vera e propria città .
Un episodio sintomatico: qualche mese fa una troupe della Rai che filmava alcuni turisti stranieri che staccavano, e si mettevano in tasca indisturbati, le tessere dei mosaici è stata accompagnata all’uscita da ben cinque dipendenti con il distintivo del concessionario, Civita.
Ecco un buon esempio di uso delle risorse, oltre che di trasparenza!
A questo disastro endemico si è sommata l’ipertrofia burocratica di strutture che si sommavano le une alle altre: il Comitato di Pilotaggio, il Gruppo di Lavoro, l’Unità  Grande Pompei e il Comitato di Gestione. Un’orgia di maiuscole utili solo a frantumare e diluire le responsabilità , insabbiare le decisioni, favorire l’immobilismo.
Quando, nel maggio del 2013, si è trovato di fronte a tutto questo l’allora neoministro Massimo Bray non solo ha imposto una brusca accelerazione al progetto (varando ben 9 dei 14 progetti attivi), ma ha anche deciso di imporre un modello di governo che segnasse una brusca discontinuità : ora tutto è nelle mani di una struttura capace di decidere, e formata da un direttore generale (il generale dei carabinieri, ed ex capo del nucleo di tutela, Giovanni Nistri), un vice (il direttore Mibac Fabrizio Magani, cui si deve l’avvio vero della ricostruzione dell’Aquila monumentale), un soprintendente (l’archeologo di fama internazionale Massimo Osanna).
Un autorevole osservatore terzo (il giurista Lorenzo Casini) ha scritto che la soluzione Bray «ha il pregio di fronteggiare congiuntamente i seri problemi esposti: criminalità  organizzata, assenza delle amministrazioni locali, inefficienze amministrative, urgenza Unesco».
Ma ci sono voluti nove mesi di estenuanti battaglie con i poteri forti esterni al Mibac e con la struttura interna: e la macchina non è ancora a regime perchè un’irresponsabile guerriglia burocratica è riuscita finora a impedire la formazione dello staff di Nistri e Magani, e a rinviare la presa di servizio di Osanna.
La partita per Pompei si vince o si perde a Roma:
Dario Franceschini è avvisato.

Tomaso Montanari

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MEZZO ITALICUM: I RENZIANI DELLA PRIMA ORA DIVENTANO CRITICI

Marzo 5th, 2014 Riccardo Fucile

GIACHETTI, GENTILONI, RICHETTI E BONAFE’ PRENDONO LE DISTANZE DAL PREMIER

Roberto Giachetti lo ripete come un ritornello, tra un capannello e l’altro nel corridoio dei passi perduti, alla Camera: “La riforma solo per la Camera non ha senso, è una frenata”.
Uno scontento aggravato da quei centoventi giorni di sciopero della fame i cui segni sono ancora evidenti.
Paolo Gentiloni lo ha spiegato già  alla riunione del gruppo: “Questo accordo mi sembra più debole del precedente”.
Stupore, sconcerto, paura. Il day after dell’accordo scava, per la prima volta un solco, tra Renzi e una parte dei suoi.
Il segno dei tempi dei più è scandito nel pallore dei volti, nei lunghi silenzi, nelle critiche sussurrate all’orecchio.
Uno di loro chiede l’anonimato per consegnare lo sfogo: “L’Europa chiede una finanziaria lacrime e sangue, Matteo non ha più la carta di elezioni anticipare con questa legge elettorale, nei gabinetti che governano la macchina ci sono i funzionari di Letta, e Alfano è il vero vincitore. Si è incastrato”.
I critici sono i renziani della prima ora.
Non è un caso che il compromesso raggiunto sia stato difeso più da Roberto Speranza che dagli uomini del premier.
Ma “l’Italicum a metà ” è solo la punta di un iceberg di malumori accumulati nell’ultimo mese verso il Grande Capo.
Da quando è a Roma si è passati dalla rivoluzione promessa alla rivoluzione mancata. Dal sogno del governo della Leopolda a una manovra di Palazzo. Un passaggio accompagnato da un ennesimo cambio all’interno del cerchio magico. Maria Elena Boschi e Luca Lotti sono i guardiani ufficiali del renzismo sempre e comunque.
Lorenzo Guerini e Graziano Delrio i principali protagonisti del massaggio psicologico verso il premier che lo ha convinto nell’operazione Renzi 1.
Fuori dai quattro del giglio magico – così viene chiamato anche se di fiorentini ce ne sono solo due – tra i renziani della prima ora, appunto, montano le perplessità .
Matteo Richetti, ad esempio, è stato per anni il volto del rinnovamento. Presenza in tv, contatti diretti col Capo, con quell’accento emiliano e quell’aria da piacione dispensava ottimismo. Ora si è inabissato, complice la sconfitta al congresso nella sua regione. In segreteria Renzi ha messo il bersaniano Bonacini, e la conseguenza è che Richetti ha perso il congresso nella sua Modena. Ma il passaggio dall’ottimismo al pessimismo c’è stato con l’operazione Renzi a palazzo Chigi su cui, nelle riunioni ristrette si è detto contrario.
Così come appare più defilata Simona Bonafè, con Richetti il volto di punta del renzismo ai tempi della Rottamazione.
Divoratore di collaboratori e di staff, Renzi è così.
Vive di amori fugaci, interrotti quando, da abile situazionista, cambia tattica (e cerchio magico). Accadde con Gori, Giuliano Da Empoli e con tanti altri.
Gli intoccabili sono solo Maria Elena Boschi e Luca Lotti. Tutto il resto è noia.
Nardella, che già  da tempo era uscito dalla cerchia ristretta, si è messo da solo al riparo a Firenze. Parecchi altri renziani della prima ora lasciano trapelare la loro delusione perchè, di fatto, scaricati dal Capo.
Basterebbe chiedere a Luigi Famiglietti, animatore del Big Bang campano, che prima ha perso il congresso, e poi si è visto arrivare come unico sottosegretario della Campania il dalemiano Basso De Caro.
Analoga disillusione l’ha vissuta la Bonaccorsi nel Lazio. Insomma, qualcosa di profondo è cambiato negli equilibri del Pd renziano.
Speranza i giovani turchi sono tornati in maggioranza col letticidio e portando Renzi a palazzo Chigi. Gentiloni, Giachetti, Tonini, e anche i renziani della prima ora si sentono all’opposizione. E perdono pezzi sul territorio.
Una situazione fotografata negli equilibri di governo, dove di renziani puri ci sono solo la Boschi e Delrio.
Ma la situazione è fotografata anche dalle presenze tv, forse l’indicatore più importante del “chi sale e chi scende” nella galassia Renzi.
Quelli della segreteria del partito, altro staff mandato nel dimenticatoio dal grande Capo, non si vedono da nessuna parte. Richetti e la Bonafè gestiscono con parsimonia la loro immagine.
A Ballarò invece si è rivista la Moretti. E, insieme a lei, nei talk che contano sono resuscitati parecchi della ex minoranza diessina.
Anzi, della nuova maggioranza di Renzi ai tempi del governo e dell’Italicum a metà . I renziani critici rimuginano nell’ombra.

(da “Huffingtonpost“)

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“FACCIAMO UN SALTO, BATTIAM LE MANI AL PRESIDENTE RENZI”: A SIRACUSA VA IN ONDA UN CINELUCE

Marzo 5th, 2014 Riccardo Fucile

LA CANZONE CON CUI I BAMBINI DI SIRACUSA HANNO ACCOLTO RENZI E’ SINTOMO DEL CULTO DELLA PERSONALITA’ SENZA AVERLA

Applaudi e salta per il presidente del Consiglio.
“Dovunque vai, tu non scordarti di noi. Dei nostri sogni… delle speranze che ti affidiamo, con fiducia, oggi a ritmo di blues”.
Questa volta non è l’Inno d’Italia cantato in coro insieme ai bambini.
Questa volta, nella visita “tradizionale” a una scuola al mercoledì, è una canzone personalizzata dedicata a Matteo Renzi: “Facciamo un salto, battiam le mani. Ti salutiamo tutti insieme, presidente Renzi” intonano i bambini della scuola Raiti di Siracusa.
Il testo della canzone è stato pubblicato su Twitter dalla giornalista di Agorà  (Rai Tre) Cecilia Carpio: “Quel foglio era in mano a un’insegnante, stavano provando” racconta.
Un’atmosfera da “uomo della Provvidenza”, insomma, in una città  molto “renziana” (a partire dal sindaco Giancarlo Garozzo).
L’effetto riporta a certe immagini dei cinegiornali di regimi del passato.
L’accoglienza dell’istituto Salvatore Raiti è stata raccontata anche dall’agenzia Ansa: bambini disposti in semicerchio nell’atrio della scuola, che ballavano e cantavano dando vita anche a dei coloriti girotondi, battendo le mani, oltre che scandendo ripetutamente il nome “Matteo, Matteo”.
Il presidente del Consiglio ha poi condiviso anche la merenda a base di dolci siciliani. Renzi, dal canto suo, ha provato a spiegare ai bambini la crisi: “Tanti dei vostri genitori forse hanno difficoltà  perchè non hanno un lavoro. E’ un momento molto difficile. Pensate, è il momento più difficile per il lavoro da 30 anni. Ma c’è adesso la possibilità  di investire per nuovi posti di lavoro”. Poi il premier si è fermato con le mamme e gli insegnanti.
Al capo del governo i bambini hanno consegnato, anche a nome di tutti gli 800 compagni di scuola, cinque bigliettini con i loro sogni.
Maria Angelica, Matteo, Martina, Gaia, Akshy e Antonella hanno parlato nel loro incontro con Renzi della voglia di aver una scuola ed un mondo libero da pregiudizi, di una scuola che sappia essere all’avanguardia e sempre rispettosa dei lavori della legalità  e che sappia fare della differenza, della diversità  un fattore di ricchezza e non di divisione.
Alla fine i bigliettini, ai quali è stato aggiunto anche quel scritto sul posto dallo stesso Renzi, sono stati legati a dei palloncini bianchi che, prima di lasciare la scuola “Raiti” lo stesso Renzi ha liberato in volo.
“Un gesto — ha spiegato alla fine dell’incontro la dirigente Angela Cucinotta — di forte valore simbolico. Per noi questo incontro ha avuto un elemento cardine: dare spazio ai bambini, ai loro progetti, ai loro sogni. E Renzi, con il suo modo di fare e di porsi anche con i più piccoli, ha certamente reso questo contatto assai più autentico e spontaneo. Per noi, per la nostra comunità  scolastica è un’altra di quelle giornate da ricordare”.
Non l’ha nemmeno sfiorata il dubbio di aver contribuito a costruire un teatrino per la rappresentazione del “Grande bluff”.

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RENZI VISITA SCUOLA INTITOLATA A VITTIMA DI MAFIA, MA LA SORELLA RESTA FUORI E SCOPPIA IN LACRIME

Marzo 5th, 2014 Riccardo Fucile

GIOVANNA RAITI, SORELLA DEL CARABINIERE VITTIMA DI “COSA NOSTRA”, PRIMA INVITATA, POI LA SERA PRECEDENTE   ESCLUSA DAL “CERIMONIALE” DI RENZI: “LA SCUOLA PORTA IL MIO COGNOME, SONO STATA TENTATA DAL PRESENTARMI PER VEDERE CHI AVREBBE AVUTO IL CORAGGIO DI CACCIARMI”

Visita la scuola intitolata ad una vittima di Cosa Nostra, ma ai familiari è vietato l’ingresso nell’istituto.
È successo a Matteo Renzi che arrivato a Siracusa, è andato in visita nella scuola intitolata a Salvatore Raiti, il carabiniere diciannovenne assassinato dalla mafia a Palermo il 16 giugno del 1982, in quella che è passata alla storia come la strage della circonvallazione.
La debacle di Matteo Renzi è forse imputabile soprattutto al cerimoniale che ha organizzato la visita del premier nella città  aretusea.
Tra i cori personalizzati dei bambini e le coreografie dedicate al presidente del Consiglio, che hanno creato un’atmosfera simile a quella raccontata dai cinegiornali del passato durante il ventennio, sarebbe dovuta intervenire anche Giovanna Raiti, sorella del carabiniere assassinato da Cosa Nostra e madrina della scuola.
“L’altro ieri — racconta con la voce rotta dalle lacrime — ho ricevuto un invito da parte della scuola per prendere parte come madrina all’incontro che la scuola avrebbe avuto con il Presidente. I pochi che mi conoscono sanno che a me certe cose provocano imbarazzo, ed infatti ho mostrato la mia perplessità  alla mia interlocutrice, ma vista l’insistenza dell’insegnante, che parlava a nome della dirigente scolastica ho deciso di accettare l’invito, dato che anche mio padre insisteva perchè andassi”.
L’istituto scolastico però non aveva fatto i conti con il rigido cerimoniale previsto per la visita di Renzi.
“Ieri in tarda serata, infatti, mi arriva un messaggio sul cellulare in cui mi comunicano che il cerimoniale del Presidente non ha dato la possibilità  di inserire la presenza di persone esterne alla scuola”.
Una vera e propria beffa, dato che la presenza esterna all’istituto vietata dal cerimoniale di Renzi non era altro che la sorella del carabiniere assassinato da Cosa Nostra a cui la stessa scuola è stata intitolata.
“Stamattina — continua Raiti — ero davvero tentata di presentarmi alla scuola che porta il mio cognome e poi avrei voluto vedere chi e con quale autorità  avrebbe potuto cacciarmi via. Ho anche mentito a mio padre, non raccontando che non ci avevano voluto nell’istituto intitolato a mio fratello. È proprio questo che mi fa rabbia. Negli anni ho tagliato i rapporti con alcuni politici che utilizzavano il nome di mio fratello per fare campagna elettorale e adesso osservo Renzi che sfila in pompa magna senza nemmeno un minimo pensiero per chi ha dato la vita in nome di questo Paese”.

Giuseppe Pipitone

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LA COMMISSIONE UE BOCCIA L’ITALIA PER IL DEBITO ECCESSIVO: “SERVE UN’AZIONE DECISA”

Marzo 5th, 2014 Riccardo Fucile

ALTO DEBITO PUBBLICO E SCARSA COMPETITIVITA’

Domani, Renzi arriverà  per la prima volta a Bruxelles in veste di premier. Ma la vigilia non è certo delle migliori: la Commissione europea, infatti, ha reso note questa mattina le valutazioni sui progressi compiuti dagli stati membri dell’Ue per far fronte agli squilibri macroeconomici.
E per l’Italia è arrivata una bocciatura ancora più sonora di quella che ci si attendeva.
Sul banco degli imputati c’è, come tradizione vuole, l’elevato debito pubblico del Paese.
Che resta altissimo nonostante gli sforzi protratti nel consolidamento dei conti.
“L’Italia presenta squilibri macroeconomici eccessivi — si legge nel testo dell’Esecutivo Ue – che richiedono un monitoraggio specifico e una forte azione politica”.
Azione che evidentemente finora non vi è stata. L’Italia è nella zona rossa tracciata dalla Commissione, insieme a Croazia e Slovenia.
Ma a dispetto di questi paesi, la situazione italiana preoccupa Bruxelles perchè viene considerata un pericolo non solo per l’Italia stessa ma per l’intera Europa.
“L’Italia deve far fronte all’altissimo livello di debito pubblico e alla debole competitività  — dice la commissione Affari economici di Bruxelles – Entrambe sono radicate nella flebile crescita della produttività  e richiedono politiche urgenti. La necessità  di un’azione decisa per ridurre il rischio di effetti perversi nel funzionamento dell’economia italiana e dell’intera Eurozona è particolarmente importante visto il peso dell’economia italiana”.
Per combattere il debito pubblico, si chiede di implementare l’avanzo primario e irrobustire la crescita. Azioni che non sono state compiute finora in maniera adeguata.
Entro fine aprile l’Italia, così come gli altri due paesi in cui ci sono squilibri macroeconomici giudicati “eccessivi”, dovrà  presentare a Bruxelles il piano nazionale di riforma e il programma di stabilità  che dovrà  essere il frutto di un “dialogo aperto” con la commissione europea per fronteggiare gli squilibri.
Una bocciatura forte per la politica italiana a prescindere da chi ha occupato i posti di governo negli ultimi tempi, perchè se l’Ue segnala “progressi nel 2013 in merito agli obiettivi di consolidamento fiscale”, aggiunge anche che “gli aggiustamenti del bilancio strutturale nel 2014 secondo le ultime previsioni sono insufficienti”.
Uno schiaffo al governo Letta che, però, suona anche come un avvertimento per il nuovo esecutivo targato Renzi.
Il premier sarà  a Bruxelles domani per il summit straordinario sull’Ucraina e non si sa ancora se avrà  il tempo di affrontare i temi economici.
Di sicuro lo farà  Padoan la prossima settimana, quando debutterà  da ministro dell’Economia per il doppio vertice dell’Eurogruppo e dell’Ecofin di lunedì e martedì.

(da “Huffingtonpost“)

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RETROMARCIA DEL GOVERNO, IL DECRETO CONFERMA I PRIVILEGI CONCESSI ALLA CHIESA SU ICI E IMU

Marzo 5th, 2014 Riccardo Fucile

LE TIPOLOGIE DI IMMOBILI ESENTI RESTANO SETTE, COME PER LA VECCHIA ICI DEL 1992

Retromarcia del governo sulla tassazione di Chiese, oratori, associazioni non profit e musei.
Il testo finale del decreto legge su «Disposizioni urgenti in materia di finanza locale», debitamente “bollinato” dalla Ragioneria generale dello Stato e in uscita sulla Gazzetta ufficiale prevede al comma 3 dell’articolo 1, in modo esplicito e dettagliato, un regime di esenzione dalla Tasi per luoghi di culto, oratori, sedi di associazioni di volontariato e tutto quanto svolge un ruolo sociale, compresi gli stabili di proprietà  dello Stato, Regioni e Province.
Cambia dunque il nome della tassa, ma restano i privilegi: si applicheranno alla Tasi, come avveniva per l’Ici e per l’Imu.
La chiarificazione arriva dopo il “giallo” scoppiato in seguito al consiglio dei ministri di venerdì scorso, il primo del governo Renzi, che ha varato l’addizionale mobile dello 0,8 per mille per la Tasi finalizzata ad introdurre detrazioni per le fasce di popolazione più disagiate
Il testo del Consiglio dei ministri di venerdì prevedeva espressamente, all’articolo 4, l’esenzione limitata a 25 immobili di proprietà  del Vaticano tra cui le Basiliche di San Paolo e Santa Maria Maggiore e il Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo.
Anche il comunicato stampa di Palazzo Chigi, emesso alla fine della riunione, faceva riferimento esplicito solo a questa tipologia di edifici citati peraltro dai Patti Lateranensi del 1929.
Le tipologie di immobili «esenti » sono invece sette, e sono previste dalla legge che ha istituito l’Ici (la vecchia tassa sulla casa) nel 1992: nella prima versione del decreto veniva citata la lettera «e» (relativa agli immobili di proprietà  del Vaticano) ma non la precedente «d» (relativa ai fabbricati «destinati esclusivamente all’esercizio del culto»).
Tanto bastava per sollevare il caso che non veniva chiuso da una blanda rassicurazione di Palazzo Chigi giunta in serata.
Dopo un serrato confronto tecnico tra gli uffici del Dipartimento delle Finanze e Palazzo Chigi ieri si è giunti ad una soluzione.
Ma negli ultimi giorni, mentre gli ambienti del sottosegretario Graziano Delrio continuavano a mandale segnali rassicuranti al mondo cattolico e del non profit, dal ministero dell’Economia si parlava di una questione «delicata» e «in definizione ».
Ieri la correzione di rotta finale: il testo definitivo inviato alle tipografie del Poligrafico per essere stampato sulla «Gazzetta ufficiale », composto di 21 articoli, risulta abbondantemente rimaneggiato: al comma 3 dell’articolo 1 si spiega, che sono esenti dalla Tasi «gli immobili posseduti dalla Stato » e che si applicano, inoltre, le esenzioni previste dalla legge che ha istituito l’Ici.
La relazione tecnica riporta con trasparenza le fattispecie ora espressamente esenti, anche dopo il passaggio da Imu a Tasi: destinazione culturale, fabbricati appartenenti a Stati esteri e organizzazioni internazionali, immobili delle associazioni no profit (escluse le sedi di partito), immobili della Santa Sede e, infine, i fabbricati «destinati esclusivamente ai luoghi di culto».
Una chiara precisazione necessaria perchè la natura della Tasi, che si paga sui servizi comunali, indipendentemente dal possesso, è diversa da quella dell’Imu che si paga sulla proprietà .
Cambiando la motivazione, se non ribadite, sarebbero scomparse anche le esenzioni.
Per il mondo della Chiesa un sospiro di sollievo (avrebbero corso il rischio di pagare 8.340 Chiese e oltre 19 mila oratori), pericolo scampato anche per il mondo del volontariato. Per gli ambienti laici, reduci dalla polemica degli ultimi anni, sul pagamento dell’Imu sugli immobili commerciali della Chiesa, un nuovo privilegio indebito.
Per i Comuni ai quali il decreto riduce a 625 milioni (dai 700 previsti alla vigilia), invece, una mancata opportunità  di gettito.

Roberto Petrini
(da “La Repubblica“)

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PER I DE BENEDETTI (E SORGENIA) LE BANCHE CHIUDONO SEMPRE GLI OCCHI

Marzo 5th, 2014 Riccardo Fucile

LA SITUAZIONE STAVA PRECIPITANDO, MA GLI ISTITUTI CREDITORI HANNO RINVIATO LA RESA DEI CONTI

Come a Caporetto. Quella di Sorgenia è una rotta disordinata.
Rodolfo De Benedetti eccelle nell’arte della “rifocalizzazione”, la supercazzola manageriale.
Sul sito web della Cir, la holding della famiglia De Benedetti a cui fa capo la società  elettrica, sono ancora pubblicate le vecchie “linee di sviluppo”: “Aumento della clientela residenziale” e “focalizzazione sul settore eolico”.
Peccato che non valgano più dallo scorso 18 dicembre, quando Sorgenia ha cambiato idea: “Priorità  allo sviluppo commerciale sul mercato “corporate” (grandi imprese e piccole e medie aziende)” e “dismissione di tutte le attività  nelle energie rinnovabili in Italia”.
L’s.o.s. di Rodolfo
Come molti capitani d’industria, Rodolfo De Benedetti, il primogenito a cui Carlo l’Ingegnere ha ceduto anni fa la guida del gruppo, eccelle nell’arte della “rifocalizzazione”, la supercazzola in versione manageriale. Si fa un ambizioso “piano industriale”, lo si fa finanziare dalle banche, poi si scopre che si è sbagliato e si passa alla rifocalizzazione. Solo che stavolta, in calce al comunicato rifocalizzante, c’era la dichiarazione di resa: “Tenuto conto dell’entità  dell’indebitamento, Sorgenia ritiene necessaria una ristrutturazione finanziaria e ha invitato le banche ad avviare un processo di approfondimento e discussione al riguardo.
Nel frattempo, al fine di garantire la piena operatività , la società  ha avanzato richiesta di moratoria e stand still fino al 1 luglio 2014”. Tradotto: “Non ti pago”.
Mentre Rodolfo lancia il suo s.o.s. alle banche l’Ingegnere si affretta a chiarire che non ha più niente a che spartire con Cir e Sorgenia, nè cariche nè azioni.
Nel 1996 mollò l’Olivetti agonizzante all’allora sconosciuto ragioniere Roberto Colaninno, adesso si disinteressa del disastro elettrico di famiglia e si occupa solo di pontificare sulle precarie sorti del Paese.
Dei circa 2 miliardi di euro di valore di Borsa del gruppo De Benedetti (nelle quotate Co-fide, Cir, Espresso e Sogefi) solo 200 milioni (un euro su dieci) sono capitali rischiati dal cosiddetto padrone, il resto è messo dagli azionisti di minoranza: chi comanda sbaglia, il parco buoi paga.
I creditori hanno reagito alla resa di Rodolfo chiudendo i rubinetti e a fine febbraio Sorgenia ha comunicato di avere un mese di vita, dando il via alla consueta convulsa trattativa per il salvataggio a spese dei 21 istituti creditori.
È dunque una Caporetto anche delle banche, prima generose e poi distratte.
Si accorgono di colpo che Sorgenia non è più in grado di pagare neppure gli interessi sul debito di 1,9 miliardi. E che Cir non ha risorse per fronteggiare il disastro. Sorgenia ha bisogno di almeno 600 milioni di capitale, Cir non ne vuol mettere più di 100. E il famoso risarcimento versato da Silvio Berlusconi per il caso Mondadori? Non c’è più.
La Cassazione ha fissato la cifra a 491 milioni, diventati 350 dopo spese e tasse.
Ma la dichiarazione di default di Sorgenia dà  diritto ai detentori delle obbligazioni Cir a scadenza 2024 di chiedere il rimborso immediato: sono 259 milioni.
Ne restano 90, quindi se Rodolfo De Benedetti dice che ne tira fuori 100 sta già  facendo uno sforzo.
Le banche dovrebbero convertire crediti in azioni per gli altri 500 milioni necessari. L’unica cosa chiara che emerge dalle trattative segretissime (quando si perdono miliardi dei piccoli azionisti scatta la privacy) è che il valore attribuito oggi a Sorgenia è zero. Possibile che una società  che solo un anno fa dichiarava un patrimonio netto (capitale più riserve) vicino al miliardo abbia polverizzato il suo valore in poche settimane?
No, non è possibile. Infatti era tutto chiaro da anni.
Le banche avrebbero potuto accorgersi solo leggendo i bilanci, o i giornali, che i loro crediti erano in pericolo.
Nel 2007 Sorgenia dichiarava l’obiettivo di avere nel 2010, dopo tre anni, debiti per 1,4 miliardi e patrimonio netto per 1,3 miliardi.
A consuntivo, i debiti erano 300 milioni più alti e De Benedetti e soci avevano immesso 200 milioni di capitale in meno.
Mancavano all’appello 500 milioni, e nessuno ha fiatato.
Nel 2007 Sorgenia dichiarava che entro il 2010 avrebbe avuto 450 megawatt di potenza installata nell’eolico, il business delle rinnovabili che si focalizza e rifocalizza.
Oggi siamo a malapena a 200 megawatt. Non solo. L’obiettivo per il 2010 era un fatturato di 3 miliardi e un ebitda (il margine operativo lordo, quella differenza tra costi e ricavi con cui si ripagano le banche) di 500 milioni. A consuntivo il fatturato è stato 2,5 miliardi e l’ebitda si è fermato a 151 milioni, del 70 per cento sotto l’obiettivo.
Tre anni fa i fattori industriali della crisi, che stanno colpendo tutto il settore, erano già  chiari: il boom del fotovoltaico (alimentato dalle stesse banche, che incamerano una bella fetta delle sovvenzioni) ha messo alle corde le centrali termiche, in particolare quelle di Sorgenia, costruite a crisi iniziata.
Ci voleva un sensitivo per capire che i miliardi prestati erano in pericolo? E adesso che Sorgenia ammette che nei prossimi anni l’ebitda non supererà  i 120 milioni all’anno (contro gli almeno 500 programmati) ci vuole un mago per capire il problema? Sarebbe bastato un brain storming tra un elettricista e un ragioniere. Tutt’al più un banchiere. Sarebbe bastato per esempio che il presidente del Monte dei Paschi Giuseppe Mussari fosse un banchiere e non un dilettante, come rivendicato dall’interessato.
Nel 2010, quando Sorgenia comincia a scricchiolare, Mps è esposto per 1,2 miliardi, due terzi dell’indebitamento netto della società . Gli ispettori di Banca d’Italia, che scrutinavano le carte senesi dopo l’incauto acquisto di Antonveneta, non si sono accorti di niente.
Banchieri distratti?
Oggi Mps è esposto per 600 milioni, guida la classifica delle banche creditrici.
Al secondo posto Intesa Sanpaolo, attorno ai 350 milioni contando i crediti alla controllata Tirreno Power, ma il dato è incerto perchè la banca presieduta da GiovanniBazoli non ama la trasparenza quando si parla dei crediti dati agli amici degli amici.
Come pretendere da Bazoli chiarezza sul caso Sorgenia se ancora non è riuscito a capire, dopo dieci anni, quale dei suoi dirigenti abbia prestato 1,8 miliardi senza alcuna garanzia reale al suo amico Romain Zaleski per giocare in Borsa?
L’estate scorsa — quando Rodolfo De Benedetti ha allontanato l’amministratore delegato Massimo Orlandi, e il nuovo manager Andrea Mangoni non ha potuto far altro che accendere la calcolatrice per misurare il disastro — cosa hanno detto le banche? Niente.
Ci diranno i posteri se le menti raffinatissime di manager e banchieri riusciranno a raddrizzare la barca, o se Sorgenia si rivelerà  un clamoroso scandalo del capitalismo di relazione.
Certo, come ha protestato Rodolfo De Benedetti con il Corriere della Sera, è improprio mettere insieme la vicenda Sorgenia con l’attivismo politico di suo padre Carlo che, lo abbiamo capito, non c’entra proprio niente.
Ma è duro da scacciare il cattivo pensiero che i banchieri, quando bussa l’editore di Repubblica , padre o figlio che sia, diventino d’incanto generosi e distratti.

Giorgio Meletti
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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IL MEDIATORE VERDINI E IL SALVATAGGIO PD PER NON DISTURBARE

Marzo 5th, 2014 Riccardo Fucile

NEL GIORNO DELL’ACCORDO SULL’ITALICUM, LA GIUNTA DOVEVA VOTARE (A UN ANNO DALLA RICHIESTA DEL GIP) L’UTILIZZO DELLE INTERCETTAZIONI P3. … MA IL SENATO HA RINVIATO ANCORA

Nona seduta e nono rinvio della Giunta delle immunità  del Senato, ieri, sulla richiesta del Gip di Roma di autorizzazione all’uso di intercettazioni telefoniche di Denis Verdini, senatore, Nicola Cosentino e Marcello Dell’Utri, tutti parlamentari all’epoca dei fatti.
Tutti concordi nel riparlarne oggi, Pd compreso, ovviamente.
L’inchiesta è quella sulla presunta associazione segreta P3, finalizzata secondo l’accusa al pilotaggio di appalti e sentenze, oltre che al dossieraggio al danno di nemici politici.
La faccenda, però, è ormai antichissima e chissà  se al tribunale di Roma si ricordano ancora di quella lontana richiesta sugli ascolti dei tre pesi massimi berlusconiani: il Gip, infatti, l’ha presentata al Parlamento il lontano 12 aprile dell’anno scorso, ma a palazzo Madama ancora non hanno trovato il tempo di dire cosa ne pensano.
La presidenza del Senato, per dire, la soppesò per due mesi prima di convincersi, l’11 giugno, ad annunciarne l’arrivo all’aula e ad assegnarla alla Giunta per le elezioni e le immunità . Quest’ultima, però, forse troppo impegnata a discutere di come rinviare l’inevitabile epilogo della decadenza di Silvio Berlusconi, trovò modo di occuparsene la prima volta solo il 24 settembre 2013, oltre sei mesi dopo l’arrivo.
Di lì a dicembre, la Giunta trovò il modo di discuterne altre quattro volte, compresa l’accorata audizione di Verdini proprio alla fine dell’anno.
Votare? Macchè. Col 2014, però, il vento sembrava cambiato: Berlusconi , e pure Verdini, dunque, non erano più al governo e allora si poteva autorizzare i magistrati a usare le telefonate senza pagare prezzi politici elevati.
Tre sedute filate e finalmente la decisione di votare: appuntamento per il 4 marzo, cioè ieri.
Solo che poi c’è stato l’intoppo e non se n’è fatto niente: c’erano le concomitanti riunioni di Copasir e Antimafia – ha spiegato il senatore Andrea Augello di Ncd — meglio rimandare ancora per consentire una più ampia partecipazione dei senatori commissari.
Il Pd, democraticamente, acconsente. “Giusto, per carità  — spiega un senatore di maggioranza — ma Verdini ieri stava anche facendo da tramite tra Renzi e Berlusconi sulla legge elettorale: meglio non esacerbare gli animi e stare tranquilli”.
Nel frattempo, infatti, il Cavaliere è tornato al centro della scena e il buon Denis fa addirittura lo statista grazie al rapporto antico e amichevole col nuovo presidente del Consiglio.
Fatto l’accordo sulla legge elettorale, ora si potrebbe teoricamente procedere: si vedrà  oggi, visto che il presidente della Giunta Dario Stefà no ha convocato una nuova riunione proprio nel pomeriggio.

Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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PERCHE’ CANCELLANDO IL SENATO IL GOVERNO VIVRA’ FINO AL 2018

Marzo 5th, 2014 Riccardo Fucile

COSA PREVEDE L’ACCORDO DI IERI

Alla fine c’è il nuovo accordicchio sulla legge elettorale.
Renzi festeggia a bocca un po’ stretta, Alfano e la minoranza del Pd ridono felici con gli altri cespugli, Silvio Berlusconi si lamenta, ma accetta.
La doppia maggioranza del premier equilibrista si perpetua grazie alla scappatoia tecnica, che in realtà  è pura tattica e produce l’inghippo “salva-legislatura”. Vediamo perchè.
Cosa prevede l’accordo di ieri?
La cosa in sè è semplice: viene stralciato l’articolo 2, quello che disciplinava l’applicazione dell’Italicum al Senato. Di Palazzo Madama, semplicemente, nella legge partorita da Renzi e Berlusconi non si parla proprio più.
E questo che implicazioni pratiche ha? Il Senato è stato abolito?
Qui c’è l’inghippo della faccenda. Il Parlamento, palazzo Madama compreso, si apprestano a votare una legge elettorale che si basa sul presupposto falso che il Senato non esiste più. Solo che la Camera Alta esiste ancora, anche se Pd, Forza Italia e gli altri si sono accordati per eliminarla con apposita legge costituzionale (nessuno l’ha ancora vista, però).
Qual è il problema?
Il problema è che, teoricamente, per andare al voto si dovrebbe adottare l’Italicum (maggioritario) alla Camera e il Consultellum (proporzionale) al Senato. Si dice teoricamente, intanto, perchè nessun presidente della Repubblica consentirebbe di andare a votare in una situazione del genere, ovvero nell’impossibilità  programmatica di formare una maggioranza. In secondo luogo c’è il forte sospetto (vedi il parere dell’avvocato costituzionalista Pellegrino nella pagina accanto) che il combinato disposto, tra la legge elettorale di Renzi e quella disegnata dalla Corte costituzionale con la bocciatura del Porcellum, sia incostituzionale.
Perchè?
Sono due sistemi opposti. Il caso più evidente è quello del premio di maggioranza: si sottraggono seggi ad alcuni partiti per assegnarli ai vincitori in nome della governabilità , della possibilità  di formare una maggioranza coesa. Eppure visto che il Senato sarebbe eletto su base proporzionale la cosa non avrebbe alcuna ragion d’essere: è evidente che il primo ricorso ad arrivare alla Consulta invaliderebbe le elezioni.
E allora a cosa serve l’accordo di ieri?
Alla Camera, in Transatlantico, lo chiamavano il “salva-legislatura”. Visto che è impossibile votare con una porcheria del genere in vigore, significa che finchè non si fanno le riforme non si andrà  alle urne ancora per molto, molto tempo, forse non prima della scadenza naturale della legislatura, nel 2018.
Ancora quattro anni senza poter votare?
Di sicuro non meno di 12-18 mesi. L’abolizione del Senato, infatti, non è solo una riforma costituzionale, dunque lunga per esplicita previsione della Carta, ma anche molto complessa: significa rimettere mano ai rapporti tra governo e Parlamento, alla platea che elegge il presidente della Repubblica, al ruolo dell’attuale seconda carica dello Stato (cioè il presidente del Senato, che esercita le funzioni di capo dello Stato “in ogni caso” in cui il titolare “non possa adempierle”).
A chi conviene una situazione così ingarbugliata?
A tutti quei partiti che vedevano il voto immediato come una sciagura, Nuovo centrodestra su tutti, che così continua a mantenere inalterato il suo potere di ricatto sul governo. Anche la minoranza Pd, che non a caso con i deputati cuperliani Lauricella e D’Attorre ha firmato l’emendamento cancella-Senato, festeggia: se si andasse alle elezioni, è il timore, Renzi spazzerebbe via quelli che lo hanno avversato al congresso.
Cos’altro cambia nell’Italicum depurato dall’articolo 2?
Ad esempio è stato stralciata la norma cosiddetta “Salva-Lega” voluta da Forza Italia per tenere legato il Carroccio. La soglia di sbarramento passa dal 5 al 4,5 per cento, quella per il premio di maggioranza è fissata al 37 per cento. Resta ancora aperta la questione della rappresentanza di genere: per ora l’Italicum non prevede “quote rosa”.

Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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