Marzo 31st, 2014 Riccardo Fucile
IL BULLO DI PONTASSIEVE CRITICA I POLITICI COME SE LUI DA DIECI ANNI NON VIVESSE GRAZIE ALLA POLITICA
“O facciamo le riforme o non ha senso che gente come me sia al governo”. Matteo Renzi spinge sulle riforme nel giorno in cui il Consiglio dei ministri è convocato per la presentazione del ddl costituzionale che conterrà l’abolizione del Senato e la riforma del titolo V.
Intervenendo a Rtl 102.5, il presidente del Consiglio si è soffermato sul sistema della seconda Camera, oggetto di polemica ieri con il presidente del Senato Pietro Grasso dopo la sua intervista a Repubblica in cui poneva paletti alla riforma chiedendo un Senato di eletti. Perplessità , quelle di Grasso, rilanciate oggi anche dal ministro dell’Istruzione Stefania Giannini. “E’ un po’ inconsueto – afferma – che sia il governo a presentare un ddl su questo tema. Serve che il Parlamento ne discuta per ritoccare e migliorare alcuni aspetti”.
Ecco l’esilarante analisi mattutina di Renzi: “Io penso che quelli che si alzano la mattina per andare a lavorare (quindi non lui che vive grazie alla politica da dieci anni.. n.d.r.) non ce l’hanno con la politica, ma vorrebbero una politica diversa che avesse il coraggio di fare le cose che servono alla gente (alla gente non servono infatti dittatorelli spocchiosi e leggi liberticide ma lavoro….n.d.r.)
“Gli italiani in questi venti anni hanno fatto un sacco di sacrifici, ma hanno visto crescere il debito perchè quei sacrifici non venivano fatti dai politici di Roma (e neanche da quelli che a Firenze vivevano gratis a casa di amici imprenditori… n.d.r.)
Renzi torna poi a minacciare l’aut aut sulla tenuta del governo: “Non ci sto a fare le riforme a metà , non sto a Roma perchè mi sono innamorato dei palazzi: se la classe politica dice che non bisogna cambiare, faranno a meno di me e magari saranno anche più contenti”.
Bravo, torna a casa di Carrai, abbassa la cresta e chiudi la bocca che non sei nessuno.
Solo un Pd in crisi di identità poteva affidare le sorti del paese a un venditore di pentole taroccate.
argomento: Politica | Commenta »
Marzo 31st, 2014 Riccardo Fucile
CHI E’ STATO ELETTO DOVREBBE VERSARE UN CONTRIBUTO SECONDO LE REGOLE INTERNE, MA MOLTI “SI DIMENTICANO”. TRA LORO ROBERTO ZACCARIA E TIZIANO TREU
“Qualche parlamentare non ha pagato. Abbiamo fatto dei piani di rientro in occasione delle elezioni del 2013. Chiami il mio successore”.
E’ l’invito dell’ex tesoriere del Pd Antonio Misiani.
E il successore Francesco Bonifazi, fedelissimo di Renzi, taglia corto: “Un sacco pagano meno, pagano male. Sentiamoci più tardi, ora sono impegnato”.
Ma tra altri impegni, una “febbre alta” e diversi squilli a vuoto non riusciamo più ad avere spiegazioni.
Del resto i contributi che gli eletti del Pd dovrebbero versare al partito come da statuto sono un tema delicato. Imbarazzante.
Nel bilancio nazionale del 2012 mancano quasi 600mila euro, sui 5,4 milioni previsti. Tra chi ha pagato in ritardo c’è anche l’attuale sindaco di Roma ed ex senatore Ignazio Marino.
La fonte di finanziamento, che deriva dai soldi pubblici incassati dai parlamentari, è importante. Ma nei quattro anni dal 2009 al 2012 le ‘morosità ‘ superano gli 1,6 milioni. E nelle sezioni locali le cose non vanno meglio.
Qui alle inadempienze di deputati e senatori si aggiungono quelle degli amministratori locali.
A Milano, per esempio, nelle casse del Pd provinciale negli ultimi anni sono mancati almeno 300mila euro.
Alcuni eletti sono volati a Roma grazie ai voti presi qui, ma poi non si sono fatti più sentire per i contributi. Tra di loro figure di rilievo della scorsa legislatura, come l’ex presidente della Rai Roberto Zaccaria e l’ex ministro Tiziano Treu.
E ora vallo a dire agli elettori: con l’abolizione del finanziamento pubblico, a loro verrà chiesto su base volontaria di donare alla politica il 2 per mille del reddito
Ma se i primi a non contribuire alla vita del loro partito come dovrebbero sono proprio gli iscritti al Pd? Il fatto è questo.
Ogni iscritto al Partito democratico che sia stato eletto in qualsiasi istituzione versa mensilmente al partito un contributo proporzionale all’indennità che percepisce grazie a quella carica.
Una regola ribadita in più di un documento: nello statuto nazionale e nei vari statuti regionali, nel regolamento finanziario nazionale e a cascata in quelli redatti a livello locale, nel regolamento per il tesseramento e nel codice etico.
Per gli inadempienti scatta l’incandidabilità e il rischio di espulsione dal partito.
Ma nella struttura federale del Pd vige l’anarchia: ogni sezione locale ha le sue regole. E non a tutti piace rispettarle.
In base agli accordi in fase di candidatura, i parlamentari dovrebbero versare 1.500 euro al mese al Pd nazionale.
E poi un contributo al Pd regionale e provinciale di provenienza che varia a seconda del regolamento finanziario locale. Ma i conti non tornano.
Nel bilancio nazionale del 2012, l’ultimo disponibile, “i contributi provenienti da parlamentari” sono contabilizzati per 4.836.518 euro. Ma i 200 deputati e 100 senatori democratici in carica nel 2012 avrebbero dovuto essere ben più generosi e fare arrivare in cassa 5,4 milioni di euro.
Una mancanza di attenzione che stupisce: i loro versamenti sono infatti una voce importante dei 37,5 milioni di euro entrati nel 2012, che nei prossimi anni, dopo l’abolizione del finanziamento pubblico voluta dal governo Letta, non potranno più contare su 29,2 milioni di rimborsi elettorali.
Nella lista di chi ha contribuito con più di 5mila euro, allegata al bilancio, mancano ben 20 parlamentari. L’unico big assente è Ignazio Marino, che contattato da ilfattoquotidiano.it comunica di aver versato tutto a gennaio 2013, appena due mesi prima di candidarsi alle primarie del Pd per correre alla poltrona di sindaco. Il motivo? “Solo un ritardo ‘burocratico’”, assicura via sms.
Tra ritardi e inadempienze, in ogni caso, nei quattro anni dal 2009 al 2012 l’ammanco totale è stimabile in 1,6 milioni di euro.
Con le dovute proporzioni, alle federazioni locali del Pd va ancora peggio.
E la questione, si scopre ora, è al centro del dibattito interno sin dall’anno scorso.
Il 7 giugno 2013 Antonio Misiani e Luigi Berlinguer, in quel momento tesoriere e presidente della commissione nazionale di garanzia, hanno inviato a tutti i segretari e tesorieri locali una circolare in cui parlano di “diverse segnalazioni pervenute dal territorio in merito al mancato o irregolare versamento dei contributi previsti dalle norme statutarie e regolamentari da parte degli eletti e designati dal Pd”.
Un problema ancora più rilevante a causa “della notevole riduzione dei finanziamenti pubblici ai partiti”.
Per questo Misiani e Berlinguer chiedono alle strutture locali di fare rispettare le regole e di segnalare “gli eventuali inadempienti”.
Un concetto ribadito poco più di un mese dopo, quando una missiva analoga viene inviata il 29 luglio a firma di Misiani, Berlinguer e questa volta anche dell’allora responsabile dell’organizzazione nazionale Davide Zoggia.
I tre danno tempo fino al 15 settembre per raccogliere i nomi di tutti gli inadempienti. Parole chiare, definitive, quelle di Misiani, Berlinguer e Zoggia.
Ma anche inascoltate, secondo i documenti che ilfattoquotidiano.it ha potuto visionare. In provincia di Milano la questione è stata insabbiata, per non correre il rischio di smuovere qualche granello che avrebbe rischiato di trasformarsi in una frana di espulsioni di massa.
Eppure l’ammanco nei bilanci dal 2008 in poi è di almeno 300mila euro. Causato dai ritardi di consiglieri comunali e assessori di Milano, ma soprattutto dai versamenti non pervenuti di alcuni parlamentari eletti nella provincia: Roberto Zaccaria, Tiziano Treu, Lino Duilio, Francesco Monaco, Linda Lanzillotta e Pierluigi Mantini, questi ultimi due usciti dal gruppo democratico nel corso della scorsa legislatura.
Diverso il discorso per Umberto Veronesi e l’editorialista del Fatto Quotidiano Furio Colombo: anche loro non hanno effettuato i versamenti mensili al Pd milanese, ma non avevano obblighi in quanto non iscritti al partito.
Nonostante la criticità della situazione denunciata da Berlinguer, Misiani e Zoggia, alle loro lettere non sono arrivati riscontri precisi.
Nè da Milano, nè dalle altre zone d’Italia. “Le informazioni raccolte sono risultate frammentarie e non complete”, ammettono dalla commissione nazionale di garanzia. Ogni decisione è stata così rimessa alla nuova commissione, quella in carica dopo l’inizio dell’era renziana, con presidente il vice ministro dell’Economia Enrico Morando.
Per ora nessun passo avanti è stato fatto. Nemmeno per quanto riguarda i parlamentari ‘morosi’ col Pd nazionale.
Motivazione? “La tesoreria non ha mai inviato alcun prospetto sui deputati e senatori che non hanno versato”, sostengono dalla commissione.
Eppure basta andare sul sito del partito. E iniziare a spulciare la lista inserita nel bilancio 2012.
Luigi Franco
argomento: Partito Democratico, PD | Commenta »
Marzo 31st, 2014 Riccardo Fucile
HANNO UNA LAUREA NEL CASSETTO, LAVORANO FINO A DIECI ORE AL GIORNO SENZA GARANZIE E TUTELE, MA NON RIESCONO A CAMPARE… MENTRE I LORO MANAGER GUADAGNANO FINO A CENTO VOLTE DI PIÙ
Sono italiani, lavorano fino a dieci ore al giorno, senza riposi, ferie e weekend, ma non riescono a campare.
Storie di addetti alle pulizie, operatori di call center, ma anche medici, ricercatori, avvocati, hostess.
Ecco le loro buste paga da 700 e 1.200 euro al mese. Mentre i loro manager prendono anche cento volte di più.
“Tradizionalmente la povertà è stata associata alla mancanza di lavoro (…) più recentemente questi confini sono diventati più sfumati e anche categorie di lavoratori regolarmente occupati si trovano di fatto in condizioni di povertà ”.
La sostanza del problema di cui ci occupiamo in questa inchiesta è così riassunto dall’ultimo rapporto Cnel sul mercato del lavoro.
L’analisi sugli “working poor”, i lavoratori poveri che pur lavorando non riescono a raggiungere una soglia dignitosa di reddito, è diventata ormai essenziale in tutte le indagini sul mondo del lavoro.
Secondo il rapporto in questione, infatti, in Italia, nel 2010, erano il 12,5% della forza lavoro, calcolati con i criteri di misurazione definiti in ambito internazionale (Eurostat, Ilo, Ocse).
Ma nel 2011 erano già saliti al 14,3%.
Gli working poor, cioè i lavoratori “a basso salario” sono coloro la cui retribuzione è inferiore ai due terzi “della mediana della distribuzione dei salari orari”.
In Italia questa media è pari a 11,9 euro lordi contro i 13,2 euro dell’area euro. Il basso salario nel nostro paese, quindi, è indicato in 7,9 euro lordi l’o ra , circa 5,5 euro netti orari, 800-900 euro al mese.
Troppo poco per vivere ma abbastanza per essere considerati lavoratori, o lavoratrici, a tutti gli effetti.
La contraddizione è tutta qui, in questo conflitto tra lo status percepito e quello vissuto concretamente nella vita di tutti i giorni.
Ci si alza la mattina presto (si veda la pagina seguente), si va al lavoro con orari sempre più lunghi, si torna a casa, magari con la valigetta 24 ore e, in un mondo di disoccupazione crescente, si è visti come persone fortunate.
Eppure, a fine mese, quando la busta paga fa a pugni con le bollette, ci si accorge di essere poveri, di non potercela fare, di essere costretti a correre ancora più forte per campare.
La situazione è stata aggravata fortemente dalla crisi economica i cui effetti si sono fatti sentire con qualche anno di ritardo.
Ecco perchè l’offerta di Matteo Renzi di mettere nelle busta paga di maggio 80 euro per ogni lavoratore dipendente sotto i 1500 euro al mese, fa tanta presa a livello generale.
Un aumento di quelle dimensioni non è stato realizzato con nessuno dei più importanti rinnovi contrattuali.
In questo senso l’ipotesi di un salario minimo orario per legge potrebbe costituire un deterrente.
La Germania l’ha fissato in 8,5 euro, Obama in 10 dollari (7,5 euro). L’Italia non ce l’ha.
I sindacati temono che possa ridurre i salari attuali. Ma i lavoratori poveri hanno bisogno di una qualche risposta.
Salvatore Cannavò
(da “Il Fatto Quotidiano”)
argomento: Lavoro | Commenta »
Marzo 31st, 2014 Riccardo Fucile
LE FERROVIE PUNTANO SULLE FRECCE CHE GARANTISCONO IMMAGINE E SOLDI… IL TRASPORTO LOCALE RESTA SULLE SPALLE DI REGIONI E VIAGGIATORI…. ECCO I DATI
Ma perchè per i clienti dell’alta velocità i treni ci sono sempre e per i pendolari no?
Non è una domanda oziosa. Forse perchè i primi, i viaggiatori dei treni veloci, sono pochi rispetto agli altri che sono tre milioni e passa al giorno?
O perchè i primi possono mettersi comodamente le mani in tasca mentre i secondi pagano poco? à‰ così, ma è solo un pezzo della verità .
Qualsiasi azienda coccola i clienti facoltosi e le Ferrovie di Mauro Moretti non fanno eccezione . C’è però dell’altro dietro la decisione di dividere i viaggiatori tra fortunati e dannati. Privilegiando i primi con una scelta strategica di fatto classista, le Ferrovie si sono soprattutto comprate facilmente gli applausi di chi fa opinione, dai manager ai giornalisti, ovviamente contenti di viaggiare puntuali, comodi e veloci sulla tratta Roma-Milano, tanto da convincersi che le Ferrovie sono state risanate e non sono più un inguardabile carrozzone.
Meccanismi alla rovesci
Incassato il favore del pubblico che conta, Moretti è andato oltre. All’interno delle Ferrovie non solo non è mai scorso un flusso solidale che portasse gli utili del servizio ricco dell’alta velocità al miglioramento delle condizioni dei pendolari.
à‰ successo il contrario: i pendolari sono stati costretti a viaggiare da cani perchè di fatto le Ferrovie hanno imposto sui binari un meccanismo da Robin Hood alla rovescia.
I viaggiatori dei treni regionali sono stati sostanzialmente obbligati a portare il loro obolo al totem degli utili ferroviari ottenuti soprattutto con lo scintillio dei Frecciarossa su cui le Fs hanno concentrato investimenti e attenzioni.
Non potendo però imporre ai pendolari aumenti stratosferici delle tariffe per non correre il rischio che scoppiasse la rivoluzione, sono stati fatti pagare in un modo meno diretto e più subdolo: costringendoli a scendere ogni giorno all’inferno su un numero di convogli del tutto insufficiente, su carrozze strapiene e di qualità sempre più scadente.
Per loro, i pendolari, è stato inesorabilmente ridotto quello che in gergo chiamano il materiale rotabile, locomotive e vagoni.
Oggi non ci sono treni a sufficienza per i pendolari perchè le Ferrovie non li comprano più da un decennio.
Lo ammette perfino Moretti, senza spiegare, naturalmente, il motivo vero, anzi, utilizzando l’argomento per battere cassa.
Alla presentazione di Treno Verde 2014 l’amministratore delle Ferrovie ha attaccato: “Da più di 10 anni non riceviamo un soldo da parte dello Stato per treni nuovi”.
Lo Stato non li compra i treni per i pendolari non tanto perchè la coperta è troppo corta e non ci sono i soldi. La coperta statale è in effetti senza dubbio corta e le casse sono mezze vuote, ma i quattrini per il materiale rotabile regionale ci sarebbero anche stati, stanziati dalle leggi dei governi di centrodestra e centrosinistra che si sono dati il cambio.
A partire dal 2006 per il rinnovo delle flotte lo Stato aveva accantonato 739 milioni di euro. Quei soldi, però, non si sono mai trasformati in locomotori e carrozze , sono stati spesi per pagare il servizio dei treni regionali il cui costo proprio da quell’anno è aumentato a vista d’occhio, fino al 30 e anche il 35 per cento.
Un incremento ottenuto con una novità introdotta da Moretti: la vendita del servizio ferroviario alle regioni, titolari del trasporto locale, sulla base del tanto strombazzato «catalogo».
Per far fronte ai repentini aumenti imposti dal catalogo lo Stato ha dovuto non solo spostare le risorse dagli investimenti in treni alla gestione, ma addirittura incrementare le risorse per il servizio ferroviario regionale, da 1.222 milioni nel 2001 a 1.789 milioni nel 2012, più 46 per cento.
Con il sistema inventato da Moretti in pratica lo Stato ha dovuto spendere di più, le Ferrovie hanno incassato, ma per i pendolari il servizio non è migliorato nè per la qualità nè tanto meno per la quantità dei treni.
In astratto l’idea del catalogo non sarebbe stata affatto peregrina, anzi, avrebbe potuto essere un modo per rendere chiari e trasparenti i rapporti.
Il guaio è che questa idea è stata forzata in modo tale che alla fine a pagare sono stati i pendolari.
Il catalogo si basa su tre parametri fondamentali, il pedaggio dei binari a Rfi (società Fs), il costo di trasporto (il treno) e i servizi accessori (per esempio le biglietterie).
Partendo da questi punti di base le Fs offrono un elenco di treni e servizi e le regioni-clienti scelgono che cosa acquistare in base alle necessità e disponibilità .
Ma una cosa è la teoria, un’altra la pratica.
Prima di tutto non sempre la qualità del servizio fornito è in linea con quello promesso nel catalogo, anzi. Le regioni, però, devono pagare lo stesso, anche se di malavoglia e alcune con sempre minore regolarità , innescando così un contenzioso durissimo e gigantesco con le Fs.
Il catalogo, inoltre, è rigido perchè impone alle regioni di acquistare in blocco tutto il turno di servizio di un treno e per di più richiede una fatturazione ad ore innescando la tentazione in Trenitalia (Fs) di allungare ad arte i tempi di percorrenza.
Il catalogo impone poi il pagamento di maggiorazioni su tutto: le tratte con poche corse, i convogli nuovi o ristrutturati, i notturni, i festivi etc..
Alle Ferrovie, in pratica, è stato consegnato il coltello dalla parte del manico, ai pendolari, invece, sono stati regalati i disagi: viaggi più scomodi, spesso più lunghi, treni soppressi, ritardi. Alle regioni il catalogo ovviamente non è mai piaciuto, come spiega anche l’Osservatorio della spesa del Consiglio regionale del Veneto che evidenzia le numerose criticità , a cominciare dal “segreto industriale” dietro cui le Ferrovie si trincerano per nascondere la congruità dei prezzi imposti.
Questione di monopolio
Alle Ferrovie è stato consentito di sfruttare fino in fondo la posizione di monopolio. Invece di intervenire con le necessarie correzioni, la politica si è voltata dall’altra parte, in alcuni casi rafforzando il monopolista stendendogli una guida rossa perchè potesse imporre meglio il suo comando.
Come successe nel 2008 quando il governo Berlusconi obbligò di fatto le regioni a non alzare gli occhi al di là del catalogo delle Ferrovie di Moretti, minacciando di togliere risorse a quelle che avessero avuto l’ardire di sottrarsi al diktat indicendo gare internazionali per far posto a un nuovo gestore ferroviario, pubblico o privato, italiano o straniero.
Berlusconi minacciò di tagliare alle regioni disubbidienti proprio quegli stanziamenti non enormi, ma importanti, che avrebbero potuto usare per comprare in prima persona locomotori e vagoni da mettere sui binari regionali al posto di quelli sempre più scassati di Ferrovie.
La minaccia fece effetto, le regioni si piegarono per salvare gli investimenti: in questi ultimi anni i pochi treni nuovi che hanno permesso al servizio pendolare di non sprofondare del tutto nell’abisso portano proprio le insegne regionali.
Stefano Campolo e Daniele Martini
(da “Il Fatto Quotidiano”)
argomento: ferrovie | Commenta »
Marzo 31st, 2014 Riccardo Fucile
IN CIBO DUE TERZI DEI SOLDI SUI QUALI INDAGA LA PROCURA: “SPESE ANOMALE, ECCESSIVE E INOPPORTUNE”
In tre anni si sono mangiati qualcosa come 2 milioni e 140 mila euro. Nel vero senso della parola.
Dei quasi tre milioni ottenuti come rimborsi tra il 2008 e il 2011, i 64 consiglieri regionali della Lombardia ne hanno speso il 70 per cento con pochi intimi in ristoranti stellati, annaffiando i pasti con ottimi vini, in banchetti con centinaia di persone, in fugaci puntate solitarie al bar, ma anche tra gli scaffali del supermercato.
Per il folto gruppo di consiglieri delle due legislature precedenti a quella attuale, all’inizio di marzo i pm della procura di Milano Alfredo Robledo, Paolo Filippini e Antonio D’Alessio hanno chiuso le indagini, accusandoli di peculato.
Rischiano il rinvio a giudizio 31 consiglieri del Pdl, 23 della Lega, 5 del Pd, due dell’Udc e uno ciascuno di Sel, Idv e Partito dei pensionati.
L’elenco dei rimborsi fatti passare come legati al mandato politico è sterminato, ma andando a spulciare tra le voci non mancano le curiosità , alcune ormai diventate un must.
C’è chi, come Guido Galperti (Pd) ha messo l’aspirina da 12,10 euro oppure chi ha speso 35 euro nell’ «Angolo della serratura», come Alessandro Marelli (Lega).
Parecchi, ha accertato la Guardia di Finanza di Milano, hanno ritenuto fosse corretto addebitare alla Regione, quindi a chi paga le tasse, costosi iPad, iPhone, televisori a cristalli liquidi e stampanti.
Ma tutti, nessuno escluso, hanno concordato nel chiedere il rimborso di ciò che hanno mangiato, da soli o in compagnia.
L’elenco delle ricevute fiscali è sterminato.
Lo scontrino dell’acquisto a 2 euro e 70 di un vasetto di Nutella ad agosto 2011 è finito nella nota spesa di Carlo Spreafico (Pd), così come la ricevuta di pagamento di 2.190,29 euro che il 19 dicembre 2008 in pieno clima natalizio ha saldato Gianmarco Quadrini, capogruppo dell’Udc, per «caviale e pesce vario» comprato alla «Agroittica».
Giuseppe Angelo Giammario (Pdl) si è fatto rimborsare 120 bottiglie di vino «Refosco» da 1.094 euro mentre il collega di partito Gianluca Rinaldin ha speso 265,5 euro per pasteggiare con due commensali sorseggiando Brunello di Montalcino.
Ci sono poi la misera «coppetta piccola» da 2 e 50 che a metà novembre 2010 Giangiacomo Longoni (Lega) ha messo in lista e i due banchetti per circa 250 persone pagati 5.000 euro in totale dal Pd il 18 e 19 settembre 2008 di cui è chiamato a giustificare l’allora capogruppo Carlo Porcari.
Ciò di cui rispondono i consiglieri regionali non vale, però, per la Giunta perchè i due organismi obbediscono a norme diverse, più elastiche per i secondi che possono chiedere il rimborso di pranzi e cene di rappresentanza.
Spese corrette «dal punto di vista formale», scrivono i pm chiedendo l’archiviazione per 20 assessori, senza, però, mancare di sottolineare come alcune sono «connotate da circostanze singolari, anomale o inopportune», come quelle fatte fuori dalla Lombardia
Per esempio, talvolta le ricevute dei ristoranti riportano sospette correzioni «a penna» sul numero delle persone che hanno mangiato, «alcune spese presentano costi eccessivi o sproporzionati», come quelle per i doni fatti in occasione delle festività natalizie.
Nonostante non possano essere considerate reato, alcune di queste uscite «anomale» (oltre 64 mila euro) compaiono lo stesso nella richiesta di archiviazione.
L’assessore alla sanità Luciano Bresciani, ad esempio, ha messo tre ricevute dello stesso ristorante «Grand Resort Bad Ragaz», che da una consultazione su Internet risulta in Svizzera.
Nel giugno 2012, ha pagato 275,84 e 91,89 euro per una cena con «due rappresentanti istituzionali» del Tirolo e Sud Tirolo e della provincia di Bolzano a margine della conferenza «Arge alp» e poi altri 179,75 per un aperitivo con 14 «rappresentanti istituzionali» in cui si è discusso di «macroarea europea».
Nessun reato neanche per l’ex assessore ai servizi Massimo Buscemi (indagato però come consigliere) in relazione a 18 menù fissi costati 1.080 euro offerti ai sindaci lombardi ad aprile 2009.
Prima, il 5 settembre 2008 l’allora assessore alla protezione civile Stefano Maullu non si è risparmiato: pranzo con due ospiti istituzionali a 114 euro e cena da 136 euro con altri due nel medesimo ristorante di pesce «a’Riccione».
Un lungo elenco di pasti (quasi 17mila euro) riguarda l’ufficio di presidenza allora guidato da Roberto Formigoni, ad esempio per 22 pranzi o cene nell’ hotel a 5 stelle «Le Meridien Gallia» a due passi dal Pirellone.
Ma anche in ristoranti famosi, come quello dell’11 marzo 2009 allo stellato Cracco in occasione di un incontro tra il Presidente e la «Consulta architetti del Bie». Accompagnato da «degustazione di vini», è costato all’erario 2.520 euro .
Giuseppe Guastella
(da “il Corriere della Sera”)
argomento: la casta | Commenta »