Aprile 1st, 2014 Riccardo Fucile
TRA LORO ANCHE IL SOTTOSEGRETARIO PD DEL BASSO DE CARO… RIMBORSI PER CONVEGNI MAI FATTI, CRAVATTE FIRMATE, OCCHIALI, PRANZI E CENE: “STAVANO SEMPRE A MANGIARE”
La tintura per capelli per il consigliere calvo.
Una festa in un ristorante all’ora di pranzo della vigilia di Capodanno fatta passare per evento politico. Un giocattolo. Sale d’alberghi di lusso fatturate per convegni che non si sono mai svolti. Consulenze fittizie. Cravatte firmate. Bottiglie di vino acquistate in enoteca. Occhiali da vista. La Tarsu di una sede di partito.
E pranzi e cene. Tante, tantissime cene, con molti commensali. Commentate così da un inquirente di alto livello: “Stavano sempre a mangiare, questi politici campani”.
Quante spese allegre nell’inchiesta sui rimborsi facili del consiglio regionale della Campania, che stamane è arrivata al dunque con l’emissione di cinquantadue di avvisi di conclusa indagine.
Per quasi tutti è il peculato l’accusa avanzata dal pm di Napoli Giancarlo Novelli, coadiuvato dal Nucleo Tributario della Guardia di Finanza agli ordini del colonnello Nicola Altiero.
Ma ad alcuni consiglieri è contestata anche la truffa, compiuta nella gestione dei fondi per la comunicazione. Le notifiche stanno avvenendo in queste ore.
Tra i destinatari dei provvedimenti c’è il sottosegretario Pd alle Infrastrutture Umberto Del Basso De Caro, consigliere regionale della Campania dal 2010 al 2013 e per un periodo anche capogruppo dei democratici. Tra gli indagati che rischiano a breve di diventare imputati con un’eventuale richiesta di rinvio a giudizio: il coordinatore di Forza Italia in Campania Domenico De Siano, la parlamentare Eva Longo.
Non è indagato il presidente della giunta, il Governatore Stefano Caldoro, che pur essendo anche consigliere regionale, il sessantunesimo componente dell’assemblea, non ha mai attinto ai fondi per il funzionamento del consiglio.
L’inchiesta è andata avanti su un’ipotesi: i milioni di euro destinati ai gruppi politici e ai singoli consiglieri, in assenza dell’obbligo di rendicontazione, grazie alle falle di una legge regionale piuttosto permissiva (poi abrogata), potrebbero essere stati utilizzati per finalità private.
Oppure impiegati in modo non consono alle finalità pubbliche dei finanziamenti stanziati ed erogati. L’analisi della documentazione rinvenuta dagli investigatori ha aggravato i sospetti.
La prima mossa della Procura risale al 21 settembre 2012, i giorni del caso Fiorito nel consiglio regionale del Lazio.
La Finanza fa incursione negli uffici del Centro Direzionale e carica una montagna di faldoni in quattro auto di servizio.
Si lavora su una traccia: una telefonata intercettata al consigliere regionale Ugo De Flavis (all’epoca Udeur, oggi Ncd), che ha il cellulare sotto controllo per una storia di presunte assunzioni clientelari. Al telefono si parla dei fondi pubblici regionali in un modo che insospettisce il pm.
Si parte con le analisi contabili. E si rilevano gli importi annuali.
Il fondo per il funzionamento dei gruppi consiliari consiste in 1.055.981 euro, quello per la comunicazione in 1.523.000 euro, mentre l’assistenza per le attività istituzionali impegna 1.891.000 euro. Le Fiamme Gialle setacciano gli anni dal 2010 al 2012.
Eccone la ripartizione riferita dei singoli gruppi. Il Pdl ha goduto di circa 206.000 euro annuali per 21 consiglieri. Il Pd ha ottenuto 152.000 euro (14 consiglieri). Udc e Lista Caldoro hanno ottenuto 71.183 euro. L’Idv ha goduto di 53.105 euro.
Circa 44.000 euro per il gruppo misto. 35.000 euro a Udeur, Pse, Noi Sud.
La legge stabiliva un tetto di 1.100 euro al mese al singolo consigliere (voce diversa e in aggiunta all’indennità ) e un tetto di 2.100 euro al capogruppo.
Ogni gruppo si è dotato di un regolamento autonomo. In sostanza nessun consigliere ha ottenuto il massimo e, con i primi riflettori accesi, il consiglio regionale ha abrogato quella normativa.
Il Pdl elargiva ai consiglieri 800 euro mensili, il Pd 600 euro.
Poco alla volta sono emersi alcuni presunti imbrogli, e in particolare un giro di false fatture presentate con il solo scopo di ottenere indebiti rimborsi.
Il 20 dicembre 2012 è il giorno degli arresti del consigliere Pdl Massimo Ianniccello: avrebbe ottenuto 63.000 euro grazie a fatture emesse da società fantasma intestate a teste di legno.
Un successivo sviluppo costa a Nicola Caputo l’elezione alla Camera dei deputati nel Pd.
Ha appena vinto le parlamentarie nel collegio di Salerno-Caserta quando riceve un invito a comparire per un paio di fatture sospette. I democratici, in nome della questione morale, lo depennano.
Più o meno la stessa fine di un altro papabile per uno schieramento avverso, il Pdl Angelo Polverino, anche lui escluso dalle liste perchè raggiunto da un avviso di garanzia per le stesse ragioni.
Il 22 aprile 2013 il Gip Roberto D’Auria emette una nuova misura cautelare.
Sergio Nappi finisce ai domiciliari, Raffaele Sentiero al domicilio coatto nel comune di residenza.
Viene contestato il solito trucco delle fatture false per prestazioni mai eseguite. In un caso la fattura risalirebbe a un periodo antecedente all’elezione del politico.
Nel luglio scorso la Finanza notifica 57 inviti a comparire per rendere interrogatorio.
La Procura rivela la sostanza delle accuse, caso per caso, rimborso per rimborso. Uno dei principali indagati, il capogruppo del Nuovo Psi Gennaro Salvatore, viene sentito a fine settembre.
Gli fanno domande sulla montagna di scontrini ‘strani’ da lui stesso consegnati agli inquirenti. Molti riguardano pranzi e cene nei week end estivi nella località di mare di Castellabate (Salerno), ma ce n’è persino uno per la bombola di gas della casa fittata per le vacanze. Le sue risposte non convincono.
A febbraio Salvatore, uno dei più stretti collaboratori del Governatore Caldoro, suo consigliere per i rapporti tra giunta e consiglio, viene arrestato con l’accusa di peculato aggravato e continuato.
È l’ultimo petardo delle indagini concluse stamane.
Vincenzo Iurillo
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Aprile 1st, 2014 Riccardo Fucile
STANZA DA 8 MQ E SVEGLIA ALLE 5
“Qui tutti ricevono lo stesso trattamento”.
Uli Hoeness, ex presidente del Bayern Monaco, non potrà godere di alcun privilegio nel penitenziario di Landsberg am Lech, dove si appresta a scontare la condanna di 3 anni e mezzo per un’evasione fiscale da 28,5 milioni di euro.
Tra 15 giorni il presidente del Bayern entrerà nella sua nuova casa: passerà i primi 15 giorni in una cella comune poi sarà trasferito in una stanza di otto metri quadrati e lì resterà per l’intero periodo della pena.
Hoeness non potrà vedere il suo Bayern, in compenso – scrive Giulia Zonca su La Stampa – potrà giocare a calcio che una delle attività previste.
Hoeness dovrà aspettare fino a 18 mesi dalla fine della condanna per poter lavorare fuori dal carcere e nel frattempo, riportano i media tedeschi, potrebbe prestare servizio nella macelleria.
La prigione in cui sarà rinchiuso l’ex presidente della squadra bavarese è stata costruita nel 1910 e ha ospitato anche Hiltler che proprio lì ha iniziato a scrivere Mein Kampf
(da “Huffingtonpost“)
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Aprile 1st, 2014 Riccardo Fucile
IL VERBALE DELL’INTERROGATORIO DI LORENZO COLA: TUTTI I DETTAGLI DELLA CENA IN CUI ALEMANNO INDICA A CHI VERSARE IL “RESTO” DELLA MAZZETTA PER I FILOBUS
Un verbale di interrogatorio di otto pagine (sin qui inedito in quelle sue parti rimaste a lungo
protette da omissis) dimostra che ci sono uomini politici decisamente più fortunati di altri quando inciampano nel codice penale.
E che Gianni Alemanno è uno di questi.
Le carte in questione, che documentano come, quando e in che modo l’ex sindaco di Roma pretese un finanziamento illecito di 200 mila euro in una nota e macroscopica vicenda di corruzione (l’appalto per una fornitura di 45 filobus destinati al cosiddetto “corridoio Laurentina” per la quale la Breda-Menarini, controllata di Finmeccanica, pagherà una tangente di 700 mila euro, 500 mila dei quali destinati al ventriloquo e tesoriere del sindaco, Riccardo Mancini), portano infatti la data del 1 marzo 2013 e tuttavia rimangono per un anno esatto un “mistero glorioso”.
Di più, l’iscrizione al registro degli indagati con altri 19 dell’allora sindaco, ancorchè un segreto di Pulcinella, diventa di pubblico dominio solo nell’ottobre del 2013, nel momento in cui il nostro è politicamente morto (ha lasciato il Pdl ed è stato sconfitto qualche mese prima da Ignazio Marino) e la Procura di Roma chiede una proroga delle indagini sul suo conto.
Insomma, poco più che una curiosità , che Alemanno, in quei giorni, può serenamente liquidare con il distratto fastidio con cui si scaccia un moscerino: «Per quello che mi risulta – scrive in una nota alle agenzie di stampa – si tratta della coda di una vecchia inchiesta. Un atto dovuto per i necessari approfondimenti da parte degli inquirenti. Sono sereno e ho fiducia nel lavoro della magistratura».
«Un atto dovuto», «una coda di una vecchia inchiesta». Insomma, roba da niente.
Poco più che una formalità . Bene.
Le cose stanno davvero così?
Il verbale di otto pagine documenta il contrario.
Interrogato dal pm Paolo Ielo, a parlare è Lorenzo Cola, il facilitatore della Finmeccanica di Guarguaglini e Borgogni, l’ex estremista di destra con una passione per i cimeli del Fascio e del Terzo Reich, travolto, a partire dal 2011, nelle inchieste sugli appalti Enav.
Ebbene, nel tirare i fili di una vicenda di malversazione in cui gli viene chiesta da Finmeccanica una «facilitazione gratuita» per il pagamento di una tangente su appalto (i filobus, appunto) ritenuto dalla holding il passepartout per sedersi al ricco tavolo dei lavori per la linea C della Metropolitana, Cola svela come a Roma, negli anni della giunta di centro- destra, il Sistema prevedesse che non si muovesse un mattone e comunque un centesimo di spesa pubblica senza dover pagare dazio all’uomo battezzato dall’allora Sindaco come grande collettore, Riccardo Mancini.
E ancora: che quel Sistema fu personalmente “aggiornato” da Alemanno, con l’indicazione di un altro tragitto per le tangenti, allorchè il Sindaco scoprì che Mancini non rispondeva più con la fedeltà che era pretesa.
Forse perchè ingolosito. O, più probabilmente e come le indagini della Procura stanno verificando, perchè chiamato a rispondere anche ad altri padroni, meno malleabili e più cattivi di Alemanno.
Diciamo pure vecchi fantasmi di un lontano passato datato anni ’70-’80, in “batterie” dove criminalità organizzata e violenza politica (i Nar) avevano trovato la loro sintesi.
Cola, dunque.
Nel suo racconto, la scena madre che ha come protagonista Alemanno si consuma una sera di «fine 2009», nell’elegante appartamento che in quel momento abita ai Parioli. Anna, la domestica polacca, e Canti, la cuoca indiana, servono a tavola cinque uomini. Cola e i suoi quattro ospiti. «Pier Francesco Guarguaglini (allora presidente di Finmeccanica), il sindaco Gianni Alemanno, Fabrizio Testa (suo uomo e allora presidente di Technosky, controllata Enav), e Pietro Di Paoloantonio (altro suo fedelissimo, futuro assessore regionale con la Polverini e oggi consigliere regionale del Ncd)».
Racconta Cola: «Alemanno mostra di essere a conoscenza dei pagamenti intervenuti a favore di Mancini (i 500 mila euro per i 45 filobus, ndr), ma il tipo di reazione che ha evidenzia che non erano pagamenti con lui concordati e manifesta molto fastidio per ciò che è avvenuto».
Un fastidio, evidentemente, che non ha a che fare con l’indignazione di chi scopre le stimmate della corruzione nel suo cerchio magico.
Al contrario, la furia di chi ha scoperto di essere stato “fottuto”. E infatti, prosegue Cola, ecco cosa accade a quel tavolo.
«In quella sede, si modifica l’originario accordo, per cui i residui 200 mila euro dell’accordo originario saranno pagati a Di Paoloantonio, rappresentante dell’articolazione del Pdl riconducibile al sindaco Alemanno nel consiglio regionale ».
In realtà , Di Paoloantonio (o se si preferisce Di Paolo, perchè è il nuovo cognome che ha scelto da qualche tempo) è qualcosa di più per Alemanno.
È un affare di famiglia. Ha sposato infatti Barbara Saltamartini, oggi deputata del Nuovo Centro-destra di Alfano e alla fine degli anni ’90 legata sentimentalmente ad Alemanno, che la “inventa” politicamente dal nulla.
Di Paolo, in altri termini, è Alemanno.
Se possibile, quanto e più di Mancini. Con il vantaggio di non dover rispondere ad altri inconfessabili padroni.
E infatti «il nuovo accordo » non conosce imprevisti. I 200 mila euro chiesti dal Sindaco arrivano.
Ricorda Cola: «Parlai con Testa che mi confermò che i soldi erano stati consegnati a Di Paoloantonio, cosa che mi confermò a sua volta Maurizio Iannilli. Mi disse anche che la provvista era stata realizzata da Subbioni, amministratore di Electron, controllata Finmeccanica, con operazioni su san Marino, anche se non so in che modo».
Ora, una domanda: quante altre “operazioni” in conto Alemanno sono passate per Di Paoloantonio dal 2010 in avanti?
Carlo Bonini
(da “La Repubblica”)
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Aprile 1st, 2014 Riccardo Fucile
I VOTI AL SENATO PER ORA NON CI SONO, SALVO BARATTI ALL’ULTIMO MINUTO
Numeri da brivido. «Stretti, strettissimi», ammette sconsolata Nunzia De Girolamo.
È il Senato alla prova delle riforme. Una specie di matrioska, una terra di mezzo dove spadroneggiano gruppi, gruppetti e manipoli di senatori.
Sono pronti a tutto pur di pesare (e pesarsi).
Matteo Renzi, però, ha in mente solo un numero magico: 160. È l’asticella da scavalcare per cancellare il bicameralismo perfetto.
Per riuscire nell’impresa, deve conquistare una quarantina di voti a rischio.
Più che un’Aula parlamentare, un rompicapo.
Così si presenta Palazzo Madama di fronte alla sfida delle riforme. Abolire la Camera alta, depotenziarla o semplicemente ritoccarla: sentieri che si dividono, inesorabilmente, inseguendo maggioranze variabili.
Al netto della propaganda e dei distinguo di maniera, Renzi può contare su un pacchetto di circa 120 voti certi.
In larga parte sono democratici (almeno una novantina dei 107 senatori Pd). E poi ancora gli 8 di Scelta civica, i 12 delle Autonomie e una decina fra senatori a vita (quattro, oltre a Monti) e gruppo Misto.
Per il resto, è caccia all’indeciso.
Nel caos spicca lui, il Cavaliere. Decaduto, con la libertà personale che gli sfugge dalle mani.
A Palazzo Madama, però, Silvio Berlusconi resta ancora centrale.
Determinante, forse: «Non porteremo le patatine al party di Renzi – sibila Maurizio Gasparri – Bisogna ragionare, su tutto». I berlusconiani brandiscono bastone e carota. Non vogliono mostrarsi ostili alle riforme, hanno disperato bisogno di tenere in vita la stagione costituente per non finire ai margini.
«La contabilità del Senato è complicata. Se il ddl non cambia – avverte Gasparri – meglio allora abolire del tutto il Senato. Io, comunque, proporrò l’elezione diretta del Presidente della Repubblica».
Dovesse reggere il patto tra il premier e Berlusconi, i 60 azzurri basterebbero a garantire una navigazione tranquilla.
«Ma figuriamoci – protesta Augusto Minzolini – questo testo è una follia! E ricordate: l’ultima fiducia ha preso giusto 160 voti, mentre stavolta diversi dem voteranno contro, me l’hanno assicurato…
«. Il senatore, nel dubbio, si prepara a presentare una nuova proposta: «Quattrocento deputati, duecento senatori. E in seduta comune votano la fiducia».
Se Berlusconi rassicura – «saremo leali» – i pretoriani lasciano che l’accordo scricchioli. Traballi. «Quale patto? », domanda Deborah Bergamini.
Quello siglato dai due leader, insistono i berlusconiani, va aggiornato.
Reclamano un nuovo faccia a faccia, sperano che si tenga la prossima settimana.
Tutto bene – è già accaduto – se non fosse che intorno al 10 aprile il Cavaliere finirà ai domiciliari o ai servizi sociali.
Una foto imbarazzante, per l’inquilino di Palazzo Chigi.
In realtà , il Pd preoccupa addirittura di più. Venticinque senatori dem hanno appena firmato un documento molto critico sulla riforma.
Almeno una quindicina non torneranno indietro, comunque vada.
Nè il premier potrà contare sui quarantuno senatori grillini, come assicura l’ex capogruppo Nicola Morra: «I numeri non ci sono. Noi, comunque, non riteniamo che il problema sia il bicameralismo perfetto. Riduciamo il numero dei parlamentari, piuttosto. La proposta del signor Renzi, invece, è funzionale a quanto proposto da un tal Licio Gelli… ».
L’ago della bilancia, allora, potrebbe diventare il Nuovo centrodestra.
Arruola 32 senatori, basterebbero ad avvicinare di molto la quota magica.
«La linea di Renzi – porge la mano Gaetano Quagliariello – è convincente: la riforma va avanti, ma verrà corretta e migliorata. E sì, certo, noi numericamente dovremmo essere decisivi». Su alcuni ritocchi, però, gli uomini di Alfano non cederanno.
«Non c’è dubbio – spiega De Girolamo – il premier dovrà scegliere. E quando accontenterà qualcuno, scontenterà qualche altro… ».
Nuotando poi tra le correnti dei microgruppi, aumentano i rischi per il premier.
I popolari di Mario Mauro e Pier Ferdinando Casini, per dire, sono allo sbando. Undici in tutto, ma frammentati in almeno due pattuglie.
In sette sostengono l’ex ministro della Difesa, quattro si battono per il leader Udc.
E Mauro – già impallinato dal premier – ha in mente di consumare tremenda vendetta verso Renzi.
Dove cercare, allora, i preziosi consensi necessari a sorpassare il bicameralismo perfetto? Gli autonomisti di Gal – in orbita berlusconiana – possono riservare qualche sorpresa. Sono undici, ma tre di loro votarono la fiducia a Enrico Letta. E tra gli altri otto, qualcuno è legato a Nicola Cosentino e sempre più distante da Arcore. I quindici senatori leghisti, invece, intendono utilizzare il bottino di voti in cambio di una legge elettorale gradita. La partita è in mano a Roberto Calderoli, la mente del Porcellum.
Il Misto, infine, sembra un cubo magico.
Mille sfumature, mille ambizioni. Ci sono i tre ex grillini raccolti intorno al microgruppo Gap, sulla carta i meno distanti da Renzi.
E poi c’è l’ala sinistra, quella composta dagli altri dieci epurati cinquestelle come Orellana e Battista, Campanella e Bocchino, che mai ha negato la voglia di confrontarsi con le altre forze.
I sette di Sel, invece, difficilmente si convinceranno.
Un rompicapo, appunto.
Tommaso Ciriaco
(da “La Repubblica“)
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Aprile 1st, 2014 Riccardo Fucile
“CAMBIARE MUSICA VA BENE, MA LO SPARTITO LO SCRIVIAMO NOI, NON RENZI”
La fronda trasversale è pronta. 
Una ragnatela del centrosinistra rischiosa e agguerrita che tiene assieme la sinistra dei professori — Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà , Barbara Spinelli, Sandra Bonsanti — e i malumori dem.
Non più solo della minoranza nel partito, che del resto si sta sciogliendo come neve al sole, ma dei tanti “frenatori” e “benaltristi”.
Michele Anzaldi, renziano doc, ad esempio è lapidario: «I maldipancia democratici sono diventati una enterite acuta».
E il premier è preoccupato. Tant’è che ha chiamato Anna Finocchiaro per farle gli auguri di buon compleanno. Tenuto conto che voleva “rottamarla” e che tra i due, appena un anno fa, sono volate parole grosse, è un gesto di cordialità inatteso.
Ma Finoccharo è la presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, nelle cui mani è da oggi l’iter per l’abolizione del Senato.
Il velocista Renzi non sottovaluta la contrarietà del presidente del Senato, Pietro Grasso, che si salda con la fronda larga fuori e dentro il Pd.
Il premier-segretario controlla il partito, ma non controlla i gruppi parlamentari del Pd. I senatori-tacchini – la definizione fu di Matteo Renzi per dire che sono chiamati a votare sulla loro fine – sono molto infastiditi dall’accusa di avere alzato trincee solo perchè non vogliono essere rottamati.
Così alcuni rilanciano. Francesco Russo — alla guida della pattuglia dei 25 senatori dem che hanno chiesto cambiamenti al testo renziano — rincara: «Lui afferma che va a casa se non fa la riforma, io sono pronto ad andare a casa subito piuttosto che fare male le riforme».
Russo chiarisce che «siamo disposti a cambiare musica come chiede Matteo e a farlo anche “andante con brio”, però chiediamo di potere scrivere lo spartito».
La partita è importante e delicata.
Rosy Bindi affonda il dito nella piaga: «Stiamo parlando di un disegno costituzionale che ha conseguenze in molti articoli della Carta. Il governo ha dato prova di volontà di cambiamento. Bene. Ma ora si entra in una fase delicatissima, ci si prende i tempi necessari per fare le cose bene».
Attacca la presidente dell’Antimafia: «Non mi piace che chi critica o dissente venga definito disturbatore, i professori liquidati come professoroni… inoltre sono scandalizzata dall’incultura istituzionale che c’è nella classe dirigente del mio partito e che ha portato Debora Serracchiani a rispondere in quel modo alla seconda carica dello Stato, a Pietro Grasso».
I renziani raccolgono dossier con le dichiarazioni degli anti renziani di qualche settimana fa: da Stefano Fassina a Miguel Gotor. Lorenzo Guerini, il vice segretario del Pd, grande mediatore, invita a ragionare insieme nei gruppi dem: «Non ci sono diktat».
Ovvio che le spinte e controspinte siano potenti. Pippo Civati ha presentato un ddl alternativo. Ma Sandra Zampa, che è stata supporter di Civati, è vice presidente del partito e portavoce di Prodi, invita «Matteo a un confronto più paziente, se no a furia di strappi il Pd si lacera del tutto»
Sono gli aut aut, la minaccia di “o riforme o mi dimetto” che fa sobbalzare i non renziani.
Oggi si riunisce la nuova corrente dei riformisti, a cui aderiscono bersaniani, Epifani e sul tavolo c’è anche la questione dell’abolizione del Senato.
Si riuniscono anche i “giovani turchi”. «E c’è una gran voglia di fare sgambetti a Matteo — ragiona Paolo Gentiloni, renziano — Se ne parla da decenni di questa riforma, ci rendiamo conto della frustrazione e quasi vergogna di fare politica con questo distacco dai cittadini?».
Giovanna Casadio
(da “La Repubblica“)
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Aprile 1st, 2014 Riccardo Fucile
RENZI SE LA PRENDE CON I “PROFESSORONI”: MA ALMENO QUESTI HANNO SCRITTO QUALCHE LIBRO, NON SI SONO FORMATI SUL MANUALE DELLE GIOVANI MARMOTTE
Dice il presidente del Consiglio con le mani in tasca di aver “giurato sulla Costituzione, non sui professoroni”.
E dunque abbiamo interpellato Stefano Rodotà , uno dei professoroni firmatari dell’appello di Libertà e giustizia, eloquentemente intitolato “Verso una svolta autoritaria”.
Professor Rodotà , si sente un po’ professorone?
Sono un vecchio signore che qualche libro l’ha letto e un po’ conosce la storia . Questi modi hanno un retrogusto amaro. “Quando sento la parola cultura metto mano alla pistola”: ecco, non siamo a questo, ma il rispetto per le persone e per le idee male non fa. C’è, dietro l’atteggiamento sprezzante di Renzi, una profonda insicurezza. Altrimenti il confronto non gli farebbe paura. Potrebbe parlare con dei buoni consiglieri e poi argomentare: il confronto andrebbe a beneficio di tutti. Direttamente s’interviene su un terzo della Costituzione, indirettamente su tutto il sistema delle garanzie. Per i cittadini esprimere la propria opinione è un diritto, per chi si occupa di questi temi intervenire è un dovere.
La discussione non può ridursi al “prendere o lasciare”.
Matteo Renzi usa toni ultimativi, non gli piace la critica perchè si disturba il manovratore. Non è la prima volta: quando c’era stata una presa di posizione, molto moderata, sulla legge elettorale aveva parlato di “un manipolo di studiosi” con un tono di sostanziale disprezzo. Però non gli riesce di rottamare la cultura critica: è un pezzo della democrazia. Le reazioni che ci sono state a questo appello dimostrano che la nostra non è una posizione minoritaria: è una rottamazione difficile.
“Ho giurato sulla Carta, non su Zagrebelsky e Rodotà ”: significa “non mi curo di loro” oppure “non sono i depositari della verità costituzionale”?
Che Renzi pensi che noi non siamo i depositari della verità è assolutamente legittimo. Però non può nemmeno dire: “Ho giurato sulla Costituzione e dunque sono io il depositario della verità ”. La storia è piena di spergiuri. Se ritiene che il terreno proprio sia la Carta, allora discuta.
Ci vuol tempo a fare discussioni. E ora è in voga il mito della velocità , la politica futurista.
I tempi della democrazia sono anche quelli della discussione. Proprio perchè la democrazia è in grande sofferenza, si dovrebbero costruire ponti verso i cittadini. Non si è sentita una parola, in questo senso. Ho avuto la fortuna di essere amico di Lelio Basso, cui si deve anche l’articolo 49 della Costituzione sui partiti politici: Basso ha sempre detto “dobbiamo discutere”. E su quel tema una discussione ci fu, eccome. Non a caso c’è, in quell’articolo, la mano di un grande giurista, che non aveva paura nè del confronto nè di avere con sè il meglio della cultura giuridica. Questo c’è dietro un’impresa costituzionale, non la fretta, non i consiglieri interessati o i saggi improvvisati.
“Non ci sto a fare le riforme a metà . O si fanno le riforme, o me ne vado”.
Il premier dimostra di non avere orizzonti ampi. Alza i toni, urla e dice “me ne vado”. Ma chi si alza e se ne va, svela insicurezza.
Un aut aut minaccioso.
Mettiamo insieme la debolezza di Renzi e la scelta di Berlusconi come suo alleato, con cui pensa di potere fare questo tratto di strada. Il Pd può accettare a capo chino questa strada? Nessuno si pone il problema. Dicono: “Sta piovendo, cosa ci possiamo fare?” Almeno potrebbero comprare un ombrello!
Ci mette la faccia, ripete spesso.
Può voler dire “mi assumo la responsabilità ”. Ma non può significare “da questo momento in poi detto le regole, i tempi, i modi e poichè la faccia ce la metto io mi dovete seguire”. La democrazia non funziona così. E poi anche noi, i firmatari del famigerato appello, ci abbiamo messo la faccia. Nel dialogo, siamo in condizioni di assoluta parità . Se vuole affermare una posizione di supremazia, sbaglia.
Non è il primo politico che usa toni da uomo della provvidenza.
Sono sempre molto diffidente, quando si afferma “dopo di me il diluvio”. In questi anni la politica italiana, ancor prima di Renzi, è stata condotta all’insegna dell’emergenza. Non si va alle elezioni, c’è bisogno del governo Monti e via dicendo: i progetti che c’erano dietro questa logica sono falliti.
Una circostanza è stata quasi ignorata: si vogliono fare le riforme durante un mandato in cui il Parlamento è fortemente delegittimato dalla sentenza della Consulta sul Porcellum. La non elettività del Senato, poi, diminuisce il potere dei cittadini di esprimersi: un “restringimento” democratico di cui si parla molto poco. Per questo era indispensabile la nostra presa di posizione. Il discorso sulla delegittimazione politica del Parlamento non nasce come argomento contro Renzi. Alcune persone — Gustavo Zagrebelsky, Lorenza Carlassare e mi permetta: anche il sottoscritto — vanno ripetendo questo concetto da tempo. Il cuore della sentenza è la mancanza di rappresentatività del Parlamento. Ora bisognerebbe dire: ci sono mille ragioni, emergenza, fretta, i segnali da dare al mondo intero, per cui il Paese ha bisogno di riforme. Non è solo necessario coinvolgere un’ampia maggioranza, ma anche consentire a quel Parlamento scarsamente rappresentativo di essere coinvolto il più possibile. E aprire alla discussione pubblica: non dico che questo compensa il deficit di legittimazione, ma almeno tutti coloro che non sono rappresentati possono avere diritto di parola. Mi pare evidente che ci sia l’intenzione di far approvare le modifiche costituzionali con la maggioranza dei due terzi, in modo da impedire un possibile referendum: è un pessimo segnale. Il fatto che un Parlamento con questo grave deficit voglia mettere mano così pesantemente alla Carta, è un azzardo costituzionale: non può essere ignorato. Si pensa di abolire il Senato come se si dovesse cambiare il senso unico di una strada di Firenze.
Una pericolosa semplificazione: mancanza di strumenti o di cultura istituzionale?
C’è stata una regressione culturale profonda. È questo tipo di semplificazioni che introduce elementi autoritari. Si cancella il Senato, si compone la Camera con un sistema iper-maggioritario, il sistema delle garanzie salta: il risultato sarebbe un’alterazione in senso autoritario della logica della Repubblica parlamentare che sta in Costituzione. E dovremmo stare zitti?
Silvia Tuzzi
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Aprile 1st, 2014 Riccardo Fucile
RENZI DIMENTICA CHE NON E’ STATO ELETTO DA NESSUNO, LASCI STARE IL POPOLO
Dice Matteo Renzi ad Aldo Cazzullo del Corriere: “Io ho giurato sulla Costituzione, non su Rodotà
o su Zagrebelsky”.
Dirà il lettore del Corriere : perchè, che c’entrano Rodotà e Zagrebelsky?
Il Corriere infatti, come tutti i giornaloni, si è dimenticato di informare i cittadini che da una settimana Rodotà , Zagrebelsky e altri intellettuali hanno firmato un appello di Libertà e Giustizia” contro la “svolta autoritaria” delle riforme costituzionali targate Renzusconi.
Stampa e tv ne hanno parlato solo ieri, e solo perchè Grillo e Casaleggio (molto opportunamente) hanno aderito all’appello.
In ogni caso Renzi, che è pure laureato in Legge, dovrebbe sapere che la Costituzione su cui ha giurato non prevede la dittatura del premier: cioè il modello mostruoso che esce dal combinato disposto dell’Italicum, della controriforma del Senato e del premierato forte chiesto a gran voce dal suo partner ricostituente privilegiato (Forza Italia).
All’autorevole parere dei “professoroni o presunti tali”, Renzi oppone “il Paese” che “ha voglia di cambiare”, dunque è con lui.
Quindi, per favore, lasciamolo lavorare.
Grasso dissente dalla riforma del Senato? “Si ricordi che è stato eletto dal Pd”, rammenta la Serracchiani con un messaggio mafiosetto che presuppone un inesistente vincolo di mandato (o il Pd lo contesta solo se lo invoca Grillo?).
Grasso tradisce la sua “terzietà ”, rincara Renzi, confondendo terzietà con ignavia: come se il presidente del Senato non avesse il diritto di commentare la riforma del Senato.
E aggiunge: “Se Pera o Schifani avessero fatto così, avremmo i girotondi della sinistra contro il ruolo non più imparziale del presidente del Senato”.
Ora, i girotondi nacquero per difendere la Costituzione dagli assalti berlusconiani: dunque è più probabile che oggi sarebbero in piazza se B. facesse da solo quel che fa Renzi con lui. Ma, visto che c’è di mezzo il Pd, anche i giornali de sinistra tacciono e acconsentono. E gli elettori restano ignari di tutto.
Quanto poi al “Paese”: Renzi dimentica che nessuno l’ha mai eletto (se non a presidente di provincia e a sindaco) e il suo governo si regge su un Parlamento delegittimato dalla sentenza della Consulta e su una maggioranza finta, drogata dal premio incostituzionale del Porcellum. Altrimenti non avrebbe la fiducia nè alla Camera nè al Senato.
Eppure pretende di arrivare a fine legislatura e financo di cambiare la Costituzione: ma con quale mandato popolare, visto che nel 2013 nessun partito della maggioranza aveva nel programma elettorale queste “riforme”?
Su un punto il premier ha ragione: la gente vuole cambiare. Ma cosa? E per fare cosa?
Davvero Renzi incontra per strada milioni di persone ansiose di trasformare il Senato nell’ennesimo ente inutile, un dopolavoro per consiglieri regionali e sindaci (perlopiù inquisiti)? Davvero la “gente” gli chiede a gran voce di sostituire il Porcellum con l’Italicum, che consentirà ai partiti di continuare a nominarsi i parlamentari come prima?
Se la “gente” sapesse cosa c’è nelle “riforme”, le passerebbe la voglia di cambiare.
Prendiamo l’Italicum, approvato a Montecitorio e già rinnegato dai partiti che l’hanno votato (peraltro solo per la Camera). Pare scritto da uno squilibrato.
A parte le liste bloccate, le variopinte soglie di accesso (4,5, 8 e 12%), e i candidati presentabili in 8 collegi, c’è il delirio del premio di maggioranza: chi vince al primo turno col 37% dei voti prende 340 deputati; chi vince al ballottaggio col 51% o più, ne prende solo 327 e governa con uno scarto di 6 voti. Cioè non governa.
Ma levà tegli il vino.
Prendiamo il nuovo “Senato delle autonomie”. Sarà composto da 148 membri non elettivi e non pagati: i presidenti di regione, i sindaci dei capoluoghi di regione, due consiglieri regionali e due sindaci per regione (senza distinzioni fra Val d’Aosta e Lombardia, Molise ed Emilia Romagna, regioni ordinarie e a statuto speciale), più 21 personaggi nominati dal Quirinale.
Con quali poteri? Niente più fiducia ai governi nè seconda lettura sulle leggi: il Senato però voterà ancora sulle leggi costituzionali, sul capo dello Stato, sui membri del Csm e della Consulta (ma con quale legittimità democratica, visto che non sarà eletto?), ed esprimerà un parere non vincolante su ogni legge ordinaria votata dalla Camera.
Ma come faranno i governatori, i sindaci e i consiglieri a fare il proprio lavoro nelle regioni e nelle città e contemporaneamente a esaminare a Roma ogni legge della Camera?
Renzi racconta che la riforma farà risparmiare tempo e denaro.
Mah. Sul tempo: le peggiori porcate, come il lodo Alfano, sono passate in meno di un mese.
E chi l’ha detto che all’Italia servono più leggi? Ne abbiamo almeno 350 mila, spesso pessime o in contraddizione fra loro. Andrebbero ridotte e accorpate, non aumentate.
Quanto al denaro, lo strombazzato risparmio di 1 miliardo all’anno in realtà non arriva a 100 milioni: la struttura resterà in piedi, spariranno solo i 315 stipendi (ma bisognerà rimborsare le trasferte dei nuovi membri).
Perchè non dimezzare il numero e le indennità dei parlamentari, conservando due Camere elettive con compiti diversi (tipo Usa) e con 315 deputati e 117 senatori pagati la metà , risparmiando più di 1 miliardo (vero)?
Da qualunque parte la si prenda, anche questa “riforma” non ha senso, se non quello di raccontare che “le cose cambiano”.
Cavalcando il discredito delle istituzioni, Renzi ne approfitta per distruggerle definitivamente. Forse era meglio giurare su Zagrebelsky e Rodotà , anzichè su Berlusconi e Verdini.
PS. Napolitano fa sapere di essere “da tempo contrario al bicameralismo paritario”. E quando, di grazia? Quando presiedeva la Camera? Quando fu nominato da Ciampi senatore a vita? Quando fu eletto e rieletto al Colle da Camera e Senato? O quando nominò 5 senatori a vita? Ci dica, ci dica.
Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano“)
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