Luglio 17th, 2014 Riccardo Fucile
LA POPOLAZIONE CIVILE E BAMBINI VITTIME INNOCENTI DEL MASSACRO
Israele ha dato il via all’invasione di Gaza via terra. A ordinarla il primo ministro israeliano Netanyahu: «Colpiremo i tunnel che arrivano da Gaza fin dentro Israele» – ha detto.
Il portavoce militare israeliano ha spiegato che si tratta di «una nuova fase dell’operazione Margine protettivo» . L’obiettivo è quello di distruggere i bunker dove si nascondo i miliziani di Hamas.
All’annuncio sono seguiti colpi intensi e in rapida successione di artiglieria, diversi raid aerei e colpi sparati dalla marina israeliana vero il nord della Striscia. Agli israeliani che abitano nell’area di confine con la Striscia è stato ordinato di restare in casa. A Gaza è stata tagliata l’elettricità .
Hamas: «daremo lezione a Israele»
Immediata è arrivata la replica di Hamas: «Aspettavamo con ansia questa operazione di terra a Gaza per impartire una lezione a Israele» – la sfida lanciata dalle Brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio armato di Hamas. «L’operazione terrestre a Gaza è un drastico e pericoloso passo, e l’occupazione pagherà un prezzo pesante».
Panico e fuga
Testimoni hanno riferito di grande panico diffuso.
E’ l’area nord di Gaza in particolare ad essere sotto attacco da parte dell’esercito israeliano. Lo constata l’ANSA sul posto, mentre nella zona si sentono bombardamenti e raid un pò dappertutto, in un clima di panico diffuso.
Testimoni riferiscono di non sapere dove fuggire.
Fonti locali descrivono la sensazione di un attacco massiccio. L’obiettivo, secondo quanto si riesce a intuire sul posto in queste prime ore, potrebbe essere quello di dividere in due la Striscia.
Dalla zona all’estremo nord, dove vivono 100mila persone, non si vede nessuna via di fuga per la gente che – riferiscono le stesse fonti – non sa dove andare: l’unica possibilità è di restare a casa, lontano dalle finestre e dalla strada e chi può cerca di spostarsi nei seminterrati.
Fonti mediche palestinesi riferiscono delle prime due vittime, tra cui un bambino, dall’inizio in serata dell’invasione israeliana della Striscia di Gaza.
Il proiettile di un carro armati avrebbe causato i due morti che si aggiungono agli oltre 240 registrati dall’inizio dell’offensiva, finora solo aerea, tra il 7 e l’8 luglio.
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Luglio 17th, 2014 Riccardo Fucile
LA SUA SPERANZA E’ LEGATA SOLO AL VERDETTO DI ASSOLUZIONE
Quando attorno alle 18 Silvio Berlusconi sale sulla scaletta dell’aereo che lo riporta a Milano, il volto è teso.
Ansia, anzi angoscia. È un groviglio di paure l’attesa dell’ennesimo giorno del Giudizio, quello sul caso Ruby.
Il processo più infamante. Il più temuto. Perchè la speranza è legata a un solo verdetto: l’assoluzione.
È l’unico che darebbe ossigeno ai prossimi mesi, scanditi dal calvario di Cesano Boscone.
Neanche uno sconto di pena rispetto ai sette anni in primo grado è sufficiente ad allontanare lo spettro della revoca dei servizi sociali, se poi venisse confermato dalla Cassazione.
Codice alla mano, con una condanna definitiva dai due anni in su, ogni condannato rischia la revoca dei servizi sociali.
E nessuno è in grado di prevedere se la Cassazione, su Ruby, farà gli straordinari per arrivare a sentenza definitiva entro Natale o se ci sarà qualche mese in più di respiro e si pronuncerà in un differente quadro giuridico (finiti i servizi sociali a Cesano Boscone) e politico (riforme a buon punto e magari un nuovo inquilino al Colle eletto dai contraenti del Patto del Nazareno).
Attorno al Cavaliere spira un’aria di cauto ottimismo sulla sentenza d’Appello.
Basata su voci, sensazioni e soprattutto sul fatto l’avvocato Coppi ha recitato un’arringa così brillante da meritare i complimenti del pm.
Tanto che, chi ha parlato col Principe del Foro, dà per acquisito uno sconto di pena domani in Appello rispetto ai sette anni del primo grado.
Uno sconto dovuto al fatto che la normativa sulla concussione, con la legge Severino, è cambiata.
Quando c’è “costrizione”, con la riforma del 2012, il minimo di pena è 6 anni mentre “l’induzione” alla concussione va dai 3 agli otto.
È così che si articola la pena rispetto alla vecchia concussione che prevedeva dai quattro ai 12 anni.
Nel caso della telefonata in questura, gli avvocati di Berlusconi hanno puntato proprio su questo: “Concusso — ha scandito Coppi in Aula — è solo chi è sotto inesorabile minaccia, privo di alternative, spalle al muro, vuole solo evitare danni ingiusti e non conseguire alcun vantaggio”.
Nel caso di Berlusconi anche il Fatto ha sottolineato come è difficile ravvisare l’elemento di costrizione nella famosa telefonata in questura.
Morale: è concreta l’ipotesi di uno sconto di pena. Ma, appunto, poichè non si tratta dell’unico processo che pende sulla testa di Berlusconi, già condannato su Mediaset e già ai servizi sociali, il discrimine tra la vittoria e la sconfitta è articolato.
Ecco allora, come è stata posizionata l’asticella nella grande attesa, ricordando sempre che in primo grado Berlusconi è stato condannato a sette anni (6 per concussione, uno per prostituzione minorile).
Prima ipotesi: se viene confermata la condanna a un anno per prostituzione ma Berlusconi viene assolto dalla concussione, resta l’infamia ma l’ex premier arriva in Cassazione con una partita aperta.
Se invece resta la concussione la questione si fa delicata (al netto della prostituzione). Il minimo per induzione alla concussione sono tre anni.
Il che significa che se la Cassazione conferma il secondo grado mentre Berlusconi è a Cesano Boscone saltano i domiciliari e si spalancano le porte dei domiciliari.
Non solo.
A quel punto, essendo condannato in via definitiva, all’ex premier verrebbero revocati i benefici dell’indulto di cui ha goduto per la precedente condanna. Quindi sul processo Mediaset non se la caverebbe con un anno di servizi sociali ma di quattro di domiciliari.
È chiaro che arrivare in Cassazione non con una “doppia conforme” (stessa sentenza di primo e di secondo grado) ma con sentenze diverse alimenta un po’ di speranza.
Ma si capisce perchè anche uno “sconto” nell’ottica di Berlusconi è del tutto insufficiente. Ecco l’attesa piena d’ansia.
Nè è prevedibile come l’ennesimo D-day possa impattare sulle riforme. O meglio, Berlusconi, almeno razionalmente, non ha alcuna intenzione di far saltare il patto con Renzi, ma chi lo conosce sa che l’uomo spesso ragiona con la pancia.
E non sarebbe il primo caso che abbraccia la linea del muoia Sansone con tutti i filistei.
L’ala aziendale e i fautori dell’accordo con Renzi, da Verdini a Gianni Letta già si preparano a dire, in caso di sconto della pena, che la linea responsabile sta pagando e prima della Cassazione non si deve muovere foglia.
I frondisti già preparano lo spartito che suona così: “Neanche questa volta l’atteggiamento da padre della patria è servito a niente”.
Alla sentenza è appesa la storia del centrodestra.
Potrebbe finire già domani, potrebbe proseguire l’inesorabile agonia.
(da “Huffingtonpost”)
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Luglio 17th, 2014 Riccardo Fucile
LA “TELEFONISTA” DEM CON LA ZAVORRA DI PUTIN
E chi l’andava a dire a Washington? Questo è il problema.
E chi rassicurava i paesi ex sovietici ? Questo è il problema più grosso.
Dove non potè l’inesperienza, può la sintonia tra Federica Mogherini e lo zar Vladimir Putin bloccare l’investitura per il ministro italiano come alto rappresentante per la politica estera di Bruxelles.
Forse l’etichetta di putiniana è eccessiva, ma il governo di Renzi (benedetto dagli Stati Uniti) e la Farnesina hanno indugiato troppo e troppo spesso su Mosca. Dall’inizio.
Il primo marzo, un sabato, il giovane esecutivo si godeva un giovane fine settimane: palazzo Chigi deserto, centralini sotto assedio, vampe di guerra in Crimea, ansie diplomatiche.
Ma l’Italia non interviene, neanche una parola.
Mosca, non indossa l’elmetto (simbolico) e consegna all’Unione Europea i suoi generici timori: “La Russia rispetti la sovranità ucraina”.
Sempre il 2 marzo, di sera, Barack Obama fa un giro telefonico per l’Europa, carezza l’amica Londra, blandisce Berlino, Varsavia e Bruxelles. Italia ignorata.
Al secondo giro, sabato 8 marzo, tocca a Renzi. E la Mogherini, chiamata telefonista per la capacità di rispondere a Matteo e di indirizzarlo nel mondo, che fa?
Professa dialogo, non considera ritorsioni (in denaro) contro Mosca, poi va a Bruxelles e si corregge.
Gli americani sanno che se il cuore italiano, o quel che resta di un retaggio storico, è saldamente a Washington, il portafogli sta a Mosca: l’energia, i miliardi, il gas.
Il ministro non impone mai deviazioni all’asse Roma-Mosca che rimanda a Silvio Berlusconi in vacanza nella dacia di Putin, non alimenta dubbi, non contempla traslochi strategici.
E ogni volta che commenta, ogni volta esprime desideri, formula auguri, solite speranze: “Il governo italiano ha la consapevolezza che il rapporto di Unione Europea e comunità internazionale con la Federazione russa debba essere di sodalizio per le crisi mondiali: Siria, Libia, Iran, Libano e Afghanistan”.
Un ragionamento che non fa difetto a una logica geopolitica, ma che indebolisce la fermezza di Europa e Stati Uniti che si agitano e scalciano mentre Vladimir Putin strappa la Crimea a Kiev o ammassa soldati al confine ucraino.
Stavolta, l’abile Federica ha sbagliato i tempi e, assieme ai tempi, i modi.
E stupisce. Perchè la Mogherini ha un percorso da funzionaria di partito – spesso in segretaria nazionale, prima con Franceschini e poi con Renzi — che potrebbe confluire in un manuale di tattica politica.
Eppure ha commesso un errore marchiano: appena l’Italia ha assunto la guida per il semestre europeo, la scorsa settimana, la Mogherini è andata in visita a Mosca dopo una tappa a Kiev. E non basta.
Ha riesumato il progetto per il gasdotto South Stream che manda in solluchero Mosca perchè permette di aggirare l’Ucraiana e poi ha invitato Putin all’incontro asiatico-europeo di Milano a ottobre, lo stesso Putin sospeso per il G8 di Bruxelles a giugno.
Il sospetto dei paesi ex sovietici ha contaminato la stampa mondiale.
Ieri i quotidiani Wall Street Journal, Der Spiegel e Le Monde hanno inchiodato la Mogherini che non segue la linea di Bruxelles (e di Washington) e, dunque, non può essere l’ambasciatrice di 28 paesi.
Ancora ieri, Merkel e Obama hanno ringhiato contro la Russia. Renzi insiste perchè vuole pesare il partito democratico nei socialisti europei e Mogherini ha spinto l’ingresso del Nazareno nel Pse
In questi giorni, mentre a Bruxelles la valutano, la Mogherini è in viaggio tra Palestina e Israele, ci manca che l’Europa la rimproveri per la fotografia (rilanciata dal Wall Street Journal, ndr) con Yasser Arafat da fresca laureata in Scienze Politica (tesi sull’Islam).
Renzi l’ha messo in testa a un elenco che prevede Massimo D’Alema in panchina, già in riscaldamento, e pronto a subentrare.
Come il lìder mà ximo, Federica ha un sentimento arabeggiante. Ha vissuto di tattica, ora la tattica l’ha fregata
Era il megafono dei ragazzi al liceo Lucrezio Caro di Roma, zona Ponte Milvio, non periferia.
Ha preso una tessera dei giovani comunisti e poi l’ha tenuta rincorrendo le infinite conversione e, mentre osservava i capi che smarrivano il potere, anche Federica si convertiva.
Quando Piero Fassino stava per tumulare i Democratici di Sinistra, Federica era già una tifosa di Walter Veltroni (il marito curava la comunicazione istituzionale in Campidoglio).
Quando Veltroni s’è dimesso, Federica l’aveva già rinnegato scoprendo l’efficacia di Dario Franceschini.
Quando Pier Luigi Bersani sfidava il sindaco di Firenze alle primarie, la dirigente democratica Federica— deputata in cerca di nuova legislatura — bocciava lo spavaldo di Rignano: “Renzi ha bisogno di studiare un bel po’ di politica estera… non arriva alla sufficienza”.
Troppo semplice capire come sia finita durante il passaggio tra Enrico Letta e Matteo Renzi e chi abbia scelto la scafata Federica.
Reliquia di un giovanilismo veltroniano in coppia con Marianna Madia, eletta in Emilia Romagna per non affrontare le “parlamentarie” democratiche, Federica Mogherini ha aspettato l’ascesa di Matteo e l’ha braccato.
Poi non ha aspettato più, e ha rischiato tutto.
Carlo Tecce
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Luglio 17th, 2014 Riccardo Fucile
CHI ARRIVA VIA MARE E’ SOLO UNA PORZIONE DI CHI ENTRA CLANDESTINAMENTE IN EUROPA…NON E’ VERO CHE “RUBANO LAVORO”: COME DIMOSTRA LA GERMANIA CHE HA PIU’ IMMIGRATI DI NOI MA MENO DISOCCUPATI
Iniziamo da un punto che tutti dimenticano: gli ingressi illegali in Europa di migranti che attraversano il Mediterraneo (con il loro carico di disperazione e di morte) sono la piccolissima punta di un iceberg.
Nei loro anni di punta toccano le 60mila unità : più o meno il 10% dell’immigrazione clandestina europea.
Come accade sull’altro fronte di guerra delle migrazioni internazionali — il confine tra Stati Uniti e Messico — la stragrande maggioranza dei clandestini è infatti composta in realtà da «overstayers», cioè da persone che entrano legalmente (con un visto turistico, generalmente) e poi prolungano il loro soggiorno oltre i termini di legge, confidando in una regolarizzazione futura dopo un periodo più o meno lungo vissuto sfuggendo alla legge.
I fatti danno loro ragione: non si prendono rischi nel viaggio di trasferimento, quasi sempre spendono molto meno di chi si affida alle organizzazioni criminali, possono contare sulla rete di protezione dei loro connazionali che li hanno preceduti (esattamente come don Vito Corleone e Cosa Nostra per i migranti italiani di un secolo fa).
L’Italia? Per gli immigrati è da apartheid
Chi vive e lavora nel nostro Paese, così come i ragazzi della ‘seconda generazione’, è soggetto a mille limitazioni.
Dall’impossibilità di accedere a molti impieghi della PA a quella di partecipare ai concorsi. Per non parlare della tutela sul lavoro o del diritto di sciopero.
O persino della possibilità di giocare a pallone
Non sono (come invece siamo portati a immaginare) i più poveri nelle loro società originarie: hanno livelli di reddito e scolarizzazione tali da consentirgli la conoscenza (magari immaginaria ma proprio per questo ancora più potente) di un altro mondo diverso dal proprio e la progettazione di un trasferimento e di una nuova vita.
I più poveri sono invece fissati al loro piccolo ambiente di precarietà quotidiana, dal quale sono incapaci di sollevare lo sguardo. Sono questi ultimi le vittime che si affidano ai trafficanti, credono alle loro bugie e affidano loro tutti i risparmi per affrontare un viaggio pericolosissimo.
I MIGRANTI NON SONO TUTTI UGUALI
Tutti noi possiamo constatare di persona questa differenza: tra le clandestine filippine o peruviane (che appartengono alla prima categoria di overstayers meno poveri) e, per esempio, le ragazze nigeriane che attraversano il Mediterraneo e rimangono schiave del racket della prostituzione.
Per le prime la scelta di migrare corrisponde a una strategia, magari disperata ma pur sempre razionale, per garantire la sopravvivenza di un intero nucleo familiare (parte del quale rimane nel paese d’origine).
Le rimesse (i soldi che questi migranti mandano a casa) hanno da tempo superato il volume finanziario globale degli aiuti ufficiali che i paesi ricchi elargiscono ai paesi poveri e si avviano a raggiungere il livello degli investimenti esteri delle multinazionali.
Un’altro fenomeno poco conosciuto è che circa la metà del totale degli immigrati in Europa torna a casa dopo un periodo medio di cinque anni.
Migranti, la guerra del Mediterraneo
Sono oltre 23 mila le persone morte in 14 anni nel tentativo di raggiungere l’Europa.
Il 50 per cento in più rispetto alle stime ufficiali. Un’inchiesta, realizzata con gli strumenti del data journalism, rivela un bilancio drammatico per dimensioni e numero di decessi. E conferma come la tratta per Lampedusa sia ormai un cimitero sottomarino
Per le donne nigeriane che arrivano in Italia la scelta di migrare corrisponde praticamente a una nuova forma di riduzione in schiavitù.
Si stima che il giro di denaro mosso dal movimento illegale di esseri umani si collochi ormai poche spanne sotto quello del traffico internazionale di stupefacenti.
Gli scafisti che talvolta i nostri poliziotti riescono a catturare rappresentano l’ultimo anello (sottopagato e rischioso) di una catena che spesso lega insieme diverse organizzazioni criminali: da quella stanziata nel paese d’origine, che convince i disgraziati a partire a quella terminale, stanziata nel paese di destinazione, che ne organizza lo sfruttamento e la vita da clandestini senza futuro.
Sono queste reti criminali a costituire la più vistosa differenza con le migrazioni storiche del passato e, insieme, il decisivo problema da affrontare con gli strumenti della repressione e della collaborazione tra paesi.
Qualsiasi politica vera di gestione del problema migratorio dovrebbe partire da qui.
IL PROBLEMA DEI PROFUGHI
C’è però un’eccezione che negli ultimi tre anni ha acquisito una sempre maggiore centralità : i profughi, frutto della nuova e recente instabilità politica della sponda sud del Mediterraneo.
L’Alto Commissario delle Nazioni Unite, che dagli anni Cinquanta si occupa del problema, è abituato a gestire tra i 15 e i 20 milioni di persone ogni anno.
Vengono da guerre civili endemiche e dimenticate («conflitti a bassa intensità » sono definite nel cinico linguaggio delle scienze sociali, perchè non superano i mille morti all’anno) nel cuore dell’Africa e dell’Asia. Occasionalmente anche da guerre più famose (Afghanistan, Iraq).
La politica dell’Onu è di non farli allontanare troppo dalle zone d’origine per rendere più facile il rientro e non dare troppa noia (con malsani attendamenti di bisognosi) ai paesi vicini.
Ma in Siria, per esempio, non è stato possibile. Due milioni di siriani (il numero è in costante aumento) sono stati costretti a fuggire dalle loro case e a trovare rifugio nei campi oltre confine in Libano, Giordania, Turchia.
In questo caso le nostre distinzioni saltano: nei campi si ritrovano insieme ricchi e poveri, colti e analfabeti. Una piccolissima parte di loro — di nuovo quella più fragile e con meno difese culturali — sale sui barconi della morte.
Da decenni i clandestini sfruttano la confusione tra migrazione economica e migrazione politica: tra le poche cose che conoscono c’è il diritto d’asilo.
Chi emigra sa che se riesce a dimostrare di essere perseguitati in patria nessuno può chiudergli la porta in faccia.
La polizia tedesca ha sempre avuto un bel daffare a distinguere tra turchi e curdi, tra chi voleva venire a lavorare e chi scappava dalla guerra.
Per questa ragione nascono i centri di identificazione, a Lampedusa come altrove: possiamo chiamarli anche lager ma non è che esistano molte alternative.
Una delle disgrazie (forse la maggiore) del tema migrazioni è di prestarsi a facilissime propagande ma nello stesso tempo di non essere risolvibile per vie altrettanto facili. Gli imprenditori politici della paura che proclamano «ognuno a casa sua» vanno contro a millenni di storia umana, compresi Giulio Cesare e Cristoforo Colombo. Loro nemmeno lo sanno nè gli importa. Ma invece dovrebbe.
DISOCCUPAZIONE? NON DIAMO LA COLPA AGLI IMMIGRATI
Perchè gli Stati Uniti e la Germania hanno più immigrati di tutti e meno disoccupazione?
Perchè più dell’80% degli immigrati in Italia si concentra nel nord mentre la disoccupazione al sud è doppia che al nord?
Per sfatare uno di più diffusi luoghi comuni dell’ignoranza (gli immigrati ci tolgono posti di lavoro) i sociologi usano la formula 3D. Non si tratta della terza dimensione ma più semplicemente di una sigla composta dalle iniziali di dirty, dangerous, demanding (sporco, pericoloso, faticoso): sono le caratteristiche delle occupazioni che gli immigrati vanno a riempire — dai badanti ai raccoglitori di pomodori — e che i nostri giovani con titolo di studio cercano di evitare.
Esiste un mercato del lavoro duale: uno per i nativi e uno per gli immigrati.
Ecco perchè negli Stati Uniti la disoccupazione, nonostante la crisi bancaria, è al 6% con 46 milioni (il 15% della popolazione) di immigrati.
E in Germania al 5% con 10 milioni (12% della popolazione) di immigrati.
Forse dovremmo pensarci, noi italiani che cerchiamo di dare la colpa della disoccupazione (al 13%) ai 5 milioni di immigrati (9% della popolazione).
E dovremmo pensare di più al fatto che, secondo le ultime stime, quei cinque milioni di immigrati garantiscono il 12% del nostro prodotto lordo (molte pensioni dei tanti vecchi ‘indigeni’ …) ma solo il 3% delle entrate fiscali: perchè dirty, nel nostro caso, significa sommerso e la colpa è del datore di lavoro quasi sempre italiano.
Sarebbe una svolta epocale e una prova di grande trasparenza se governo e imprenditori fissassero ogni anno la quota di immigrati di cui la nostra base produttiva ha bisogno perchè non è soddisfatta dall’offerta di lavoro interna.
I clandestini gestiti (con più soldi dall’Unione Europea di quanti oggi non arrivino) sulla base di questa mappa.
I criminali spiati, inseguiti, catturati e condannati con la collaborazione dei governi stranieri.
I migranti liberati dalla schiavitù e dai falsi sogni. I profughi aiutati a ritornare nei loro paesi.
Le guerre civili portate al tavolo del negoziato grazie all’eliminazione delle milizie che tengono in ostaggio le popolazioni e la pace.
Come un dannato labirinto, la globalizzazione mostra la concatenazione di ogni problema.
Possiamo farcene sopraffare. Oppure possiamo scegliere da dove partire e incominciare a dipanare la matassa.
Giovanni Gozzini
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Luglio 17th, 2014 Riccardo Fucile
DISCIPLINA DI PARTITO? AVREBBE SENSO SE ESISTESSERO ANCORA I PARTITI
Un tempo esisteva la disciplina di partito.
Ma un tempo — si dirà — esistevano i partiti, intesi come strutture compatte e solide ma pur sempre pluralistiche al loro interno, articolate sul territorio e rappresentative di interessi reali, che si riconoscevano in una ben definita tradizione ideologica, guidate da leader spesso autorevoli e dal pugno di ferro ma sempre frutto di una selezione interna e comunque mai padroni assoluti di quelle strutture.
La disciplina esisteva perchè esisteva una realtà che trascendeva i singoli, una macchina organizzativa che aveva vita e forza proprie, che non dipendeva dalle decisioni di un singolo o dai suoi umori.
Date queste premesse, la domanda che sorge spontanea è se ci si possa appellare al senso di lealtà politica o alla disciplina interna — come ha fatto Renzi rivolgendosi ai dissidenti del Pd che non vogliono votare in aula la sua riforma del Senato — in un’epoca in cui i partiti tradizionalmente intesi sono pressochè spariti dalla scena.
Se nei partiti non esiste più una comune cultura politica di riferimento, se è tutto un tessere l’elogio del pragmatismo, del trasversalismo sociale e del superamento delle antiche categorie di destra e sinistra, se veniamo da anni in cui hanno prevalso il trasformismo parlamentare e l’anarchia parlamentare (come dimostra il processo, in corso in questi giorni, sulla compravendita dei senatori all’epoca del governo Prodi), allora vuol dire che oggi ci si affida solo alle virtù taumaturgiche del capo.
Se ci si affida per l’elaborazione del programma e la vittoria nelle urne solo alle virtù taumaturgiche del capo, a cosa si dovrebbe essere leali se non appunto alla persona fisica di quest’ultimo e alla sua volontà insindacabile?
Nella sinistra italiana d’un tempo, malata d’intellettualismo e animata da un senso di superiorità che spesso sfociava nella supponenza, si discuteva troppo.
E questo atteggiamento, mentre nel mondo si andava affermando la personalizzazione della politica, l’avrebbe resa sempre più debole e inconcludente, senza per questo averle fatto perdere l’inclinazione ad una certa superbia.
In quella attuale, l’impressione è che si rischi il fenomeno contrario: l’unanimismo forzato, l’omologazione dei giudizi e infine quella stessa deriva carismatica e plebiscitaria che era imputata come un male da rifuggire al berlusconismo.
Insomma, dacchè anche il Pd è diventato a sua volta un partito fortemente condizionato, sul piano dell’immagine e dei contenuti, dalla personalità del leader — una novità per la sinistra italiana, per certi versi persino salutare, purchè non si esageri — si può comprendere il malessere di quei parlamentari ai quali sembra che non si chieda altro che di assecondare le scelte del vertice e di limitare il loro dissenso — se proprio non possono farne a meno — alle interviste o ai lanci d’agenzia.
Le cose non vanno diversamente, ma sono almeno più schiette e più facili da spiegare, sul versante berlusconiano.
Se il Pd ha imboccato di recente e non senza ambasce la strada del leaderismo, Forza Italia è un partito nato padronale e tale destinato e restare sino alla fine.
E infatti al suo interno non si chiede lealtà o fedeltà o dedizione alla causa, che sono pur sempre termini larvatamente politici, ma obbedienza, che è concetto tra il paternalistico e il militaresco. Obbedienza ad un capo che vuole che ci si fidi di lui e delle sue intuizioni senza fare troppe domande.
Ma una volta quel capo almeno vinceva e distribuiva medaglie e prebende alla truppa, oggi non si capisce cosa abbia in testa e verso quale approdo voglia condurre le sue residue forze.
Si comprende come anche da quelle parti certe spinte ribellistiche e certi dissensi manifesti non siano del tutto ingiustificati.
L’obbedienza ad un capo politico può spingersi sino al sacrificio di sè o, come sembra stia avvenendo nel centrodestra, alla dissoluzione di un intero mondo politico?
Pd e Forza Italia sono ovviamente casi diversi, ma al dunque convergenti nella inclinazione a mal tollerare chi non si uniforma o si mostra troppo problematico: costui va politicamente neutralizzato o, se insiste, messo alla porta senza tanti complimenti.
Berlusconi è stato cristallino nell’ultima riunione con i suoi parlamentari: chi non appoggerà il patto sulle riforme che lui ha sottoscritto con Renzi (del quale sarebbe bello un giorno conoscere tutte le clausole e condizioni) si deve considerare fuori da Forza Italia.
Nel Pd renziano, forse per un soprassalto di orgoglio democraticista, non si è stati altrettanto brutali.
Ma per come si pensa di congegnare la futura legge elettorale, basata sul meccanismo delle nomine dall’alto dei parlamentari, già si sa che fine faranno i riottosi odierni: semplicemente non saranno ricandidati dai vertici che hanno nelle loro mani il potere di compilare le liste.
La frustrazione del parlamentare malauguratamente in contrasto col proprio partito, poco importa se per ragioni politiche o persino di coscienza, è dunque doppia.
Da un lato gli viene chiesto di rinunciare, nel nome di un interesse di partito che sempre più coincide con la volontà esclusiva del leader, alla propria residua autonomia intellettuale, avendo peraltro già perso qualunque rispettabilità agli occhi dell’opinione pubblica e molte delle sue antiche funzioni e prerogative, dall’altro gli viene fatta balenare la minaccia della mancata ricandidatura nel caso non la smetta di mostrarsi polemico o non allineato.
Se, come si dice, la democrazia è dissenso, diversità d’opinioni e spirito critico, questi poveretti (al netto di nobili ragioni di visibilità e di bandiera di alcuni neo Catoni) che a destra e a sinistra da settimane si stanno battendo con tutte le loro forze contro la riforma del Senato, prendendosi rimproveri e insulti dai loro stessi vertici politici, andrebbero protetti come si fa con gli animali in via d’estinzione.
Alessandro Campi
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Luglio 17th, 2014 Riccardo Fucile
“NON DOVEVAMO SALVARE MORO, MA STABILIZZARE L’ITALIA”… “VIVEVO IN ALBERGO CON LA PISTOLA CHE MI DIEDE IL MINISTRO”
È stato ascoltato da un magistrato italiano il «dottor Pieczenik», lo psichiatra americano chiamato a Roma nel marzo 1978 dall’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga dopo la strage di via Fani e il rapimento di Aldo Moro.
«L’ordine non era di far rilasciare l’ostaggio, ma di stabilizzare l’Italia»
Davanti al magistrato italiano, il protagonista «amerikano» del caso Moro mostra di avere un’alta considerazione di sè.
Vuole essere chiamato «dottor Pieczenik», rivendicando il titolo di medico psichiatra al servizio del governo degli Stati Uniti.
Nella primavera del 1978, durante il sequestro del leader democristiano, fu inviato in Italia per assistere il ministro dell’Interno Francesco Cossiga.
Il suo ruolo – rimasto sempre piuttosto misterioso – venne alla luce molto più tardi, e dopo tante interviste e affermazioni spesso ambigue Steve Pieczenik, oggi settantenne, è stato interrogato per la prima volta da un inquirente italiano.
Il 27 maggio scorso il pubblico ministero della Procura di Roma Luca Palamara è andato ad ascoltarlo in Florida, con l’assistenza di un magistrato statunitense.
Quello che segue è il resoconto della sua testimonianza, raccolta a 36 anni di distanza dai fatti in un’indagine che tenta, se non di scoprire nuove verità , almeno di dissipare ombre.
All’epoca Pieczenik veniva considerato un esperto di sequestri: «Ero appena riuscito a negoziare il rilascio di circa 500 ostaggi americani a Washington in tre diversi palazzi utilizzando tre ambasciatori arabi… Cossiga è venuto a sapere di me e ha chiesto al segretario di Stato Cyrus Vance di chiedermi se potevo andare ad aiutarli nel rapimento di Aldo Moro».
Allo psichiatra statunitense sbarcato a Roma una decina di giorni dopo la strage di via Fani in cui le Brigate rosse avevano sterminato la scorta del presidente della Dc e portato via il prigioniero, erano state date consegne precise per la sua collaborazione col governo italiano: «L’ordine non era di far rilasciare l’ostaggio, ma di aiutarli nelle trattative relative ad Aldo Moro e stabilizzare l’Italia».
Poi aggiunge: «In una situazione in cui il Paese è totalmente destabilizzato e si sta frantumando, quando ci sono attentati, procuratori e giudici uccisi, non ci possono essere trattative con organizzazioni terroristiche… Se cedi l’intero sistema cadrà a pezzi»
Aveva paura anche per se stesso, il consigliere americano: «Ero terrorizzato, non avevo nessuna protezione, mi hanno messo in una abitazione sicura con due carabinieri senza pistola e senza munizioni, e sono andato via… Cossiga mi ha dato una pistola Beretta 7.4 mm e qualcuno che venisse con me per allenarmi a sparare, non ero vestito in modo formale ma con i jeans, in incognito… Mi ero trasferito all’hotel Excelsior. Ho trascorso tutte le notti con una pistola tra le gambe, pronto a sparare a chiunque»
Pieczenik trascorse le sue giornate romane per lo più nell’ufficio di Cossiga, insieme a «uno psichiatra italiano» (probabilmente il criminologo Franco Ferracuti, iscritto alla Loggia P2 di Licio Gelli) e al giudice Renato Squillante, all’epoca consigliere del ministro dell’Interno.
Il pm Palamara gli chiede che cosa ha fatto in concreto, e il testimone risponde: «Dovevo valutare che cosa era disponibile in termini di sicurezza, intelligence, capacità di attività di polizia, e la risposta è stata: niente. Ho chiesto a Cossiga cosa sapeva delle trattative con gli ostaggi e lui non sapeva niente; in terzo luogo dovevo assicurarmi che tutti gli elementi che negoziavamo dovevano diminuire la paura e la destabilizzazione dell’Italia; quarto: dovevamo valutare la capacità delle Br nelle trattive e sviluppare una strategia di non-negoziazione, non-concessioni».
Nella sostanza, Pieczenik voleva «costringere le Br a limitare le richieste in modo che avessero una sola cosa possibile da fare, rilasciare Moro».
Andò al contrario, come il consigliere statunitense ha confidato in un libro scritto da un giornalista francese e crudamente intitolato «Abbiamo ucciso Aldo Moro».
Ma adesso Pieczenik prova a fare marcia indietro: «Programmi tv e interviste per me sono solo spettacolo e finzione, ciò che dico alla stampa o nelle interviste è disinformazione». E dunque, quasi si spazientisce il pm Palamara, è vero o no che secondo Pieczenik lo Stato italiano ha lasciato morire il presidente dc?
Risposta: «No, l’incompetenza dell’intero sistema ha permesso la morte di Aldo Moro. Nessuno era in grado di fare niente, nè i politici, nè i pubblici ministeri, nè l’antiterrorismo. Tutte le istituzioni erano insufficienti e assenti».
Lo specialista arrivato da Washington sostiene di essersi limitato a leggere i comunicati delle Br, che avevano una «strategia molto facile», rendendosi conto che il governo italiano non era in grado di fare nulla.
Quindi, dopo aver sponsorizzato la linea della fermezza appoggiata dal partito comunista, ripartì alla volta degli Usa, a sequestro ancora in corso. Come se la sua missione fosse compiuta: «Cossiga era un uomo estremamente intelligente che ha capito molto in fretta ciò che doveva fare, ed è stato in grado di attuarlo… Continuare a cercare di stabilizzare l’Italia e continuare la politica di non-negoziazione, nessuno scambio di terroristi e nessun altro scambio».
Rientrato in patria, il consigliere venne a sapere che Moro era stato assassinato: «Ho pensato che sfortunatamente le Br erano dei dilettanti, e avevano fatto davvero un grande sbaglio. La peggior cosa che un terrorista possa fare è uccidere il proprio ostaggio. Uccidendo Aldo Moro hanno vinto la causa sbagliata e creato la loro autodistruzione».
Dopo il sanguinoso epilogo, Pieczenik sostiene di non aver seguito gli sviluppi del caso Moro, nè avuto altri contatti con il governo italiano: «Ho fatto il mio lavoro e sono tornato a casa, ero felice di aiutare l’Italia… Poi sono stato impegnato nella caduta dell’Unione Sovietica… L’America e io abbiamo abbattuto l’Urss, portato la libertà in Cambogia, abbattuto il partito comunista cinese e integrato l’Unione Europea, ma l’Italia non è cambiata, ha un tasso di crescita negativo, una disoccupazione elevata… Penso che abbiate oggi un problema più grave di quello che avete avuto nel rapimento di Aldo Moro».
Giovanni Bianconi
(da “il Corriere della Sera”)
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Luglio 17th, 2014 Riccardo Fucile
STESSO PARTITO, STESSA NAZIONE: IL BULLETTO ANTI-ITALIANO E’ RIUSCITO A DANNEGGIARE IL PROPRIO PAESE
«Tutti sapevano da settimane che Enrico Letta avrebbe avuto buone possibilità se Renzi lo avesse proposto ma Renzi non lo ha voluto proporre e non è stato proposto». A parlare è l’europarlamentare Elmar Brok della Cdu, consigliere della cancelliera Angela Merkel.
Brok ha raccontato all’Ansa che la questione Letta però non è stata «nominata» mercoledì al prevertice Ppe anche se «era pubblica». «Non so se Letta ha ancora possibilità – ribadisce il tedesco -, ma le avrebbe avute».
Renzi: «Il suo nome non è nella discussione»
Nel corso del vertice a Bruxelles di mercoledì era tornata a circolare (attraverso fonti del Ppe) l’indiscrezione secondo cui il presidente del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy, stesse sondando il governo italiano per verificare la disponibilità alla candidatura di Enrico Letta alla presidenza del Consiglio europeo.
Le voci però non erano finora state confermate da altre fonti europee.
«È un vecchio “rumour”» avevano spiegato alcuni, «quel nome non è stato fatto» nei bilaterali con Renzi.
Alla domanda diretta sull’ipotesi Letta, Renzi ha tagliato corto: «Il suo nome non c’è nella discussione», negando anche le voci su una candidatura di Massimo D’Alema. Poi, ha aggiunto con tono polemico: «La riunione di mercoledì avrebbe potuto essere più incisiva se preparata meglio. Ci hanno fatto venire qui per un accordo che poi non c’era. L’ho detto anche a Van Rompuy, la prossima volta bastava un sms e risparmiavamo anche i costi dei voli di Stato».
«Non ho visto opposizione alla Mogherini», ha ripetuto mercoledì sera Renzi: ci voleva lui per non vederla…
Infatti la decisione sulle nomine Ue è slittata al 30 agosto.
Alla fine l’Italia, grazie all’arroganza di Renzi, perderà un posto ambito in Europa: per non aver voluto un suo connazionale del suo stesso partito…
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Luglio 17th, 2014 Riccardo Fucile
DI MAIO: “PROPORZIONALE E PREFERENZE”… RENZI TARANTOLATO: “SI CHIUDE IN 15 GIORNI”… FASSINO: “ALT, POCHI 21 SINDACI”… MENTRE MILIONI DI ITALIANI NON HANNO LAVORO QUESTI PENSANO AL SENATO
Prove di disgelo tra Movimento 5 Stelle e Partito democratico che questo pomeriggio sono tornati a sedersi al tavolo per discutere delle legge elettorale e delle riforme.
Un incontro, trasmesso anche questa volta in streaming, con protagonisti il premier Matteo Renzi e il vicepresidente della Camera dei Cinque Stelle Luigi Di Maio.
Tanto i nodi da sbrogliare a partire dai cinque punti della proposta del Movimento: primo turno proporzionale, eventuale secondo con premio di maggioranza, preferenze da reintrodurre, norma anti-condannati e, infine, no alle candidature plurime.
Nella delegazione dei Cinque Stelle presenti anche i due capigruppo a Camera e Senato Paola Carinelli e Vito Petrocelli, più l’estensore del “Democratellum”, Danilo Toninelli.
Per il Pd, oltre al premier, anche il vicesegretario Debora Serracchiani.
I tempi per la trattativa però stringono. «Da qui al primo agosto o comunque al momento in cui la riforma costituzionale sarà approvata» al Senato, «facciamo un giro ufficiale» di consultazioni sulla legge elettorale anche «con tutte le altre forze politiche che stanno consentendo di fare una riforma costituzionale ed elettorale», annuncia Matteo Renzi.
LE PROPOSTE M5S
La proposta di “mediazione” grillina sulla legge elettorale è questa: un primo turno proporzionale senza sbarramento e un eventuale secondo turno, qualora nessuna lista superasse il 50%, tra i partiti che hanno preso il maggior numero di voti e con un premio di maggioranza al 52%.
«La nostra proposta è molto più simile alla legge dei sindaci delle altre proposte. Renzi è stato eletto sindaco non al primo turno, perchè poteva esserlo se veniva votato dal 51%» spiega Di Maio.
«Ci auguriamo che in futuro anche la legge dei sindaci possa avere una norma che dice mai più condannati. Nei comuni come in Parlamento».
Resta aperto il nodo delle preferenze, tanto care ai grillini.
«Sulle preferenze mi sembra ci sia un po’ di paura. Siete disposti a cedere sulle preferenze in cambio della governabilità ?», ha chiesto Di Maio.
«Perchè dovremmo fare un mercimonio della riforma?», ha risposto Serracchiani.
Ma Renzi ha aperto: «Il punto vero è capire se su questo tema riusciamo a trovare un punto di caduta o meno», afferma Matteo Renzi.
RENZI: “TRA NOI NON C’È RIO DELLE AMAZZONI, MA RUSCELLO ”
È andata «molto bene, sono contento il problema è se» Di Maio «li porta tutti. Vediamo che succede al loro interno», ha detto il premier Renzi al termine dell’incontro.
Già durante lo streaming il presidente del Consiglio aveva ribadito di essere a favore della trattativa.
«Vogliamo tenerla aperta o no la discussione» sulle riforme costituzionali «e se sì quali sono i punti su cui voi non accettate totalmente nessun tipo di accordo?».
E ancora più chiaramente: «Tra la nostra proposta e la vostra non c’è il Rio della Amazzoni, c’è un ruscello che non è detto che riusciremo a colmare. Capiremo se nei testi, potremo trovare un punto di equilibrio».
La sensazione è che il Pd voglia mantenere il “forno” aperto con i grillini, anche in vista dell’attesa sentenza di appello sul processo Ruby.
In caso di condanna di Berlusconi, il rischio è che i ribelli di Forza Italia prendano il sopravvento indebolendo il patto del Nazareno.
L’ALT DI FASSINO SUL SENATO
Ma nel cammino delle riforme si mettono di traverso anche i primi cittadini.
«L’Anci considera insoddisfacente la previsione di partecipazione di 21 sindaci al nuovo Senato. Questo numero è inadeguato rispetto al dovere di rappresentare oltre 8 mila Comuni» ha detto il presidente dell’Anci, Piero Fassino al termine dell’Ufficio di presidenza dell’Associazione dei Comuni italiani.
«Abbiamo fatto il punto su tutti i dossier gestiti in questi mesi e di cui stiamo interloquendo con il governo», ha quindi spiegato Fassino, al termine dell’Ufficio di presidenza dell’Anci.
«L’Anci apprezza che finalmente dopo 30 anni di tentativi falliti si stia arrivando a una riforma costituzionale -ha proseguito il numero uno dell’Anci – che investe contemporaneamente l’assetto dei poteri locali, i rapporti tra Enti locali e Regioni, l’assetto del Parlamento con il Senato delle Regioni». Ma ha ribadito: il metodo di elezione dei 21 sindaci che diventano senatori «non è corretto perchè la nostra fonte di legittimazione arriva dagli enti locali non dai consigli regionali».
(da “La Stampa”)
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Luglio 17th, 2014 Riccardo Fucile
LA MANCANZA DI ONESTA’ INTELLETTUALE, L’IPOCRISIA E IL DOPPIOPESISMO
Un po’ ha ragione il Giornale, oggi, quando nota come sia ipocritamente cambiato l’atteggiamento diffuso rispetto verso il governo — rispetto a quattro o cinque anni fa — a fronte di decisioni o proposte simili.
Vale a dire: a Berlusconi non gliene si faceva passare una e a Renzi invece si fanno passare tutte.
Ha ragione il Giornale, bisogna ammetterlo: perchè se il decreto Poletti l’avesse fatto Berlusconi, la Cgil sarebbe scesa in piazza con tutti i suoi pullman; se questa riforma dell’impianto rappresentativo (Senato più Italicum) l’avesse fatta Berlusconi, avremmo foto di gente imbavagliata per tutta la Rete; se gli 80 euro li avesse dati Berlusconi, avremmo tutto il Pd a strillare contro la ‘carità elettorale’ come al tempo della social card.
E così via: compreso l’attacco all’articolo 18, il rafforzamento dell’esecutivo sul legislativo, l’iperpresenza televisiva.
Si chiama doppiopesismo, ma anche ipocrisia, appunto; si chiama mancanza di onestà intellettuale.
È quell’atteggiamento mentale che ci porta quasi inconsciamente ad assolvere preventivamente quelli che pensiamo amici — o utili — per condannare solo quelli che riteniamo avversari.
E allora ci rifiutiamo di entrare laicamente nel merito delle cose: come appunto accade su questa riforma del Parlamento, sui cui contenuti non si entra mai (probabilmente perchè indifendibili) limitandosi all’anatema di ‘gufi’ e ‘palude’ verso chi ne mette in dubbio le qualità .
Bisognerebbe fare un piccolo viaggio nel tempo; tornare nel 2010 e andare a trovare — in quell’anno — una dozzina di attuali renziani e di commentatori politici che oggi sui giornali reggono la coda al premier; poi fargli vedere un po’ di recenti disegni di legge e di dichiarazioni di ministri, senza dir loro da chi provengono; quindi chiedergli che cosa ne pensano.
Sarebbe divertentissimo, sentirli urlare — loro — contro la svolta autoritaria.
(da gilioli.blogautore.espresso“)
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