Luglio 3rd, 2014 Riccardo Fucile
“ORA CI DICE LUI COSA DOBBIAMO FARE”… NAPOLITANO CORRE IN SOCCORSO DI “BOCCAPERTA”
«Il premier italiano Matteo Renzi dice che la fotografia dell’Europa è il volto della noia e ci dice che cosa dobbiamo fare…».
Lo ha detto il presidente della Bundesbank a Berlino, Jens Weidmann, intervenendo alla giornata del consiglio economico della Cdu.
Nel suo discorso, Weidmann ha sottolineato che «fare più debiti non è il presupposto della crescita».
Il “falco” della Bundesbank non ha resistito, e ha citato il selfie di Matteo Renzi, per lanciare il suo monito davanti a una platea di conservatori della Cdu, contro la flessibilità sul patto di bilancio e sulle riforme che «vanno fatte e non solo annunciate».
«Fare più debito non porta crescita», ha scandito il presidente della Bundesbank. Weidmann ha segnalato inoltre che i tassi sui titoli di stato di Italia e Spagna «non sono mai stati così bassi».
Una situazione che non aiuta a irrobustire la volontà riformatrice dei paesi sovraindebitati: «C’è il timore che i tassi bassi non siano usati per consolidare i bilanci, quanto piuttosto per finanziare altre spese».
Al suo fianco, il ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble, che ha ribadito la necessità di riforme, crescita e investimenti: «Ci si deve attenere a quello che è stato concordato – ha detto, spiegando di «rifiutare il dibattito sulla flessibilità » così come viene proposto.
«Bisogna certamente promuovere la crescita, e fare investimenti».
Citando due volte i colloqui con Pier Carlo Padoan, ha ribadito che vi è accordo sul tema della implementazione: «abbiamo parlato di come migliorarla in alcuni Paesi». Non è possibile, ha insistito, che i 6 miliardi destinati alla occupazione non siano utilizzati perchè non vi è la possibilità di farlo.
Poi il ministro ha allargato l’orizzonte del suo discorso: «Saremo pragmatici – ha spiegato – Per cambiare i trattati in Europa servono due anni», non si può ogni volta passare attraverso il sentiero stretto delle regole.
E a chi scrive che il governo Merkel vuole un’Europa tedesca, ha risposto: «Non vogliamo un’Europa tedesca, ma un’Europa forte».
L’asse del Nord esige segnali concreti prima di aprire all’uso pieno della flessibilità dei trattati previsto dall’Agenda strategica approvata dal Consiglio europeo la scorsa settimana.
E desta preoccupazione lo studio di Mediobanca, che prevede una manovra pesante, da almeno 10 miliardi dopo l’estate.
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Luglio 3rd, 2014 Riccardo Fucile
CHI PROCURA ALLARME SOCIALE VA PERSEGUITO IN BASE ALLA LEGGI VIGENTI
Delle ricadute, anche sotto il profilo sanitario, che le ondate di sbarchi producono nel Paese se ne è parlato, ieri, nella giornata di organizzata dalla Marina militare al Comando in Capo della Squadra Navale, partendo anche dalla notizia, di pochi giorni fa, di un paziente «isolato a bordo» probabilmente colpito da una patologia infettiva: tubercolosi o vaiolo, si era detto, invece si trattava di varicella.
Maria Grazia Pompa, dirigente del ministero della Salute, conferma che la tbc resta «la patologia più frequente tra i migranti, «abbiamo registrato casi di malattie esantematiche, come la varicella, e 27 casi di tbc su 43mila arrivi del 2013, tutti si sono manifestati qui e adeguatamente curati. Per quanto riguarda gli agenti positivi al test qualche giorno fa, bisogna dire che questo test rileva solo il contatto con la malattia, e risulterebbe positivo nel 25% della popolazione italiana», che conta «circa 4.500 casi annui di tbc dopo che la malattia, nel 1993, è riemersa».
Rassicurazioni, nel corso del convegno, sono arrivate anche da Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto nazionale per le malattie infettive «Lazzaro Spallanzani»: «L’operazione Mare Nostrum ha rischi prossimi allo zero grazie alla scrupolosa applicazione delle norme di prevenzione», e «risultare positivi al test non significa essere ammalati».
Il comandante in Capo della Squadra Navale, ammiraglio Filippo Maria Foffi, ha sottolineato come «in passato, quando Mare Nostrum non c’era, non avevamo contezza di chi arrivava sul nostro territorio, oggi al contrario siamo in grado di stabilire in anticipo l’identità di chi entra in Italia e soprattutto il suo stato di salute».
Intanto, il Campidoglio, infatti, conferma che uno dei due richiedenti asilo deceduti due settimane fa in due residence occupati risultava affetto da tbc «anche se non virale, quindi non contagiosa», precisano dal Comune.
Erica Dellapasqua
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Luglio 3rd, 2014 Riccardo Fucile
ALTRO CHE ANNUNCI DEL GOVERNO, IN CALABRIA I MAGISTRATI SONO NEL NUMERO PIU’ BASSO D’ITALIA: “TROPPO POCHI E COSTRETTI A FARE MIRACOLI”
Persino il Papa è andato in Calabria a portare solidarietà alle vittime della ‘ndrangheta. E ha scelto, non a caso, Cassano allo Jonio, il paese dove i sicari delle ‘ndrine hanno ucciso il piccolo Cocò.
Il comune calabrese ricade nel territorio di competenza della procura antimafia di Catanzaro e della sezione giudici indagini preliminari della stessa città .
Qui però a contrastare il crimine ci sono pochissimi giudici e ancora meno pm.
A Catanzaro, distretto giudiziario che comprende quattro province per quel che riguarda le indagini sulla ‘ndrine, scarseggiano le toghe.
La prima a denunciarlo è stata Gabriella Reillo, presidente della sezione dei giudici per le indagini preliminari del tribunale.
«L’ufficio del Gip di Catanzaro ha competenza sul territorio di Catanzaro, Cosenza, Crotone e Vibo, in cui operano sette Tribunali: Lamezia Terme, Castrovillari, Cosenza, Crotone, Paola, Vibo Valentia e lo stesso Catanzaro, per un bacino di utenza, correlato alla popolazione, di oltre un milione di persone» spiega a l’Espresso il presidente.
Ma i giudici che si occupano di valutare le richieste dei pm, dagli arresti alle intercettazioni, e di svolgere i processi con i riti alternativi (abbreviato e patteggiamento) sono soltanto sette compreso il presidente di sezione.
Il confronto con altri tribunali che hanno un bacino di utenza simile o addirittura minore ha dell’incredibile: a Catania, distretto da 788.809 utenti, sono presenti 13 giudici, un presidente aggiunto e uno presidente di sezione; il tribunale di Palermo, con il suo milione e mezzo di utenti (circa 300 mila in più di Catanzaro), ne ha 22 di giudici; a Salerno e Bari ce ne sono 11 per un bacino che è la metà del capoluogo calabrese.
«In sostanza il distretto di Catanzaro è il più popoloso dopo quello di Napoli e Palermo ma anche quello che in proporzione presenta il minor numero di giudici in servizio, sei, e in organico, sette».
Per questo combattere ad armi pari la ‘ndrangheta diventa una missione impossibile. L’escalation della criminalità calabrese è sottolineata costantemente dagli organi investigativi e dai dati ufficiali che provengono da fonti governative.
“L’intervento in questo campo è avvertito come urgente tant’è che il Ministro dell’Interno ha dichiarato, in aprile, che sarebbero stati inviati in Calabria 800 agenti di polizia giudiziaria e, di recente, il presidente del Consiglio, ha tenuto una riunione a Reggio Calabria per confermare l’attenzione verso la lotta alla criminalità organizzata in questa Regione» continua il giudice, che commenta amareggiata: «La constatazione che ancora una volta si segue l’opinione diffusa che per contrastare la mafia necessita potenziare il settore delle indagini, mi ha indotto a intervenire, rompendo il naturale riserbo del giudice, per segnalare l’emergenza in cui versa il settore giudiziario, che pure è il naturale referente di quelle indagini e lo strumento perchè le ipotesi investigative diventino concreti provvedimenti coercitivi e, poi, sentenze di condanna».
Il territorio è segnato da numerose faide tra ‘ndrine storiche ed emergenti.
Il numero di omicidi continua a crescere. Gli ultimi casi hanno scosso l’opinione pubblica e portato Papa Bergoglio fino in Calabria, commosso dalla morte del piccolo Cocò.
Esecuzioni che a volte riguardano persone estranee, colpite per errore. Come Antonio Maiorano, un operaio di Paola, o come il piccolo Domenico Gabriele, di undici anni, raggiunto da un proiettile mentre giocava a pallone a Crotone.
E anche ragazzi e bambini che hanno la sola colpa di essere parenti di affiliati mafiosi, come Carminuccio Pepe, di sedici anni, ucciso nella zona di Cassano, o la figlia di Luca Megna, di soli cinque, colpita al cervello, rimasta in coma con danni permanenti, o lo stesso Cocò, ucciso nell’agguato contro il nonno.
Nel 2013 sono stati trattati e definiti dalla sezione Gip di Catanzaro 121 casi di omicidio e 50 di tentato.
La maggior parte sono legati alle faide tra consorterie contrapposte.
«E’ ovvio che con questa mole di lavoro pressochè costante – ci sono anche le archiviazioni, le proroghe di indagini, le intercettazioni, i decreti penali, le circa 4.000 istanze annue che provengono dalle parti i procedimenti ordinari tra cui quelli di Pubblica Amministrazione – non si può evadere tutto in tempi brevi. E nel periodo in cui non si riesce a provvedere, le vittime continuano a vivere nella paura, e ad avere la percezione di una giustizia lenta e quindi lontana, sostanzialmente ingiusta, cui non può riporsi fiducia».
Insomma, ben venga il potenziamento dei team investigativi della procura, ma se i giudici sono pochi non sono in grado di evadere le proposte dei pm e quindi le indagini si arenano negli uffici.
Con il rischio di non riuscire a intervenire in tempo per bloccare omicidi e violenze sugli imprenditori che hanno denunciato.
Infatti se il magistrato invia una richiesta urgente di arresto perchè dalla telefonate intercettate sono emersi segnali di un imminente agguato, il gip deve fare in fretta abbandonando i fascicoli su cui stava lavorando.
Ma può anche succedere che quella richiesta, visto il carico di lavoro e i pochi giudici presenti, non venga letta in tempo, lasciando ai killer il tempo di agire.
La procura antimafia di Catanzaro e quindi il tribunale hanno a che fare con le cosche più feroci della Calabria.
«Qui operano delle associazioni di stampo mafioso storiche che hanno una elevata capacità di condizionamento e di infiltrazione nei settori economici, istituzionali e politici» puntualizza il giudice. Ci sono i “Farao” di Cirò (con ramificazioni in Emilia, Lombardia e Germania); i “Lanzino-Cicero”, i “Muto”, gli “Acri”, i “Serpa “ della provincia di Cosenza; i “Megna” di Papanice, in provincia di Crotone; gli “Arena” di Isola Capo Rizzuto; i potenti “Mancuso” di Limbadi. E sono solo alcuni dei clan presenti. La maggior parte di queste ‘ndrine intrattengono stretti rapporti con le famiglie mafiose della provincia di Reggio Calabria. Alcune gestiscono il traffico di cocaina con collegamenti internazionali e in varie zone dell’Italia del Nord. Altre godono di appoggi politici di altissimo livello e hanno agganci nella massoneria che conta.
Secondo i dati diramati dal ministero dell’Interno nella regione ci sono 160 organizzazioni criminali, per un numero di 4.389 affiliati: 2.086 sono presenti nel territorio di Reggio Calabria e 2.303 nel territorio del distretto di Catanzaro.
La differenza è che nella sezione indagini preliminare del tribunale di Reggio Calabria lavorano 11 giudici. «Si scade addirittura nel ridicolo se si considera che la metà delle inchieste antimafia calabresi ricadono su sette giudici, quelli di Catanzaro» prosegue.
Nel periodo in cui non si riesce a intervenire, le vittime e la comunità continuano a vivere nella paura.
Percepiscono una giustizia lenta e “ingiusta”. Si sfalda così il rapporto di fiducia costruito a fatica negli ultimi anni.
Eppure i vertici dell’ufficio hanno sollecitato ripetutamente i governi. Ma nessuno ha mosso un dito. Parole tante, fatti nemmeno uno.
«Dico solo che è sempre stato elevato nella gestione delle risorse da parte dei governi degli ultimi venti anni il “gap” tra l’antimafia parlata e quella praticata. Mentre al ministero si dibatte sul piano generale di riordino degli organici della magistratura e al Csm ci si interroga sul tipo di parere da fornire, qui si rischiano nuove vittime di gravi reati per l’impossibilità di operare con mezzi adeguati» denuncia il giudice Reillo che più di un mese fa ha scritto al presidente del Consiglio Matteo Renzi.
L’appello però è caduto nel vuoto, il premier infatti non ha mai risposto alla missiva.
La denuncia ha trovato sponda nel Comune di Lamezia Terme guidato dal sindaco antimafia Gianni Speranza: «Le operazioni promosse dalla Procura antimafia di Catanzaro negli ultimi due anni contro la criminalità organizzata del lametino hanno determinato il risultato importassimo della liberazione del territorio da fattori di malvagità che, per lungo tempo hanno impedito l’esercizio di diritti fondamentali dei cittadini, politici, civili ed economici, in forma individuale e collettiva. Grazie a questa azione la legalità è stata ripristinata in maniera diffusa, il funzionamento adeguato di tali uffici assicura tutela e protezione a tutti i cittadini».
Non va meglio per la procura.
La distrettuale antimafia catanzarese ha in organico solo sette magistrati. Ma di fatto sono soltanto cinque.
Con la conseguenza che i sostituti procuratori si trovano quotidianamente di fronte alla scelta di seguire le indagini in ufficio per giungere a provvedimenti di custodia cautelare o di seguire i processi per giungere alle sentenze di condanna.
«Da una pianta organica di diciotto unità , dopo gli ultimi due trasferimenti, siamo diventati dodici: sei per l’antimafia e altrettanti per l’ordinaria. Dovremo gestire circa due mila procedimenti ciascuno in tempi rapidi, facendo dei veri e propri miracoli, ma in queste condizioni è evidente che qualcosa dobbiamo tralasciarla. Abbiamo, oltre ai procedimenti antimafia, altri dieci mila ordinari; a Catanzaro arriva di tutto, dalle indagini sui temi dei rifiuti a quelli per i parchi eolici».
L’allarme è stato lanciato dal procuratore capo di Catanzaro nel gennaio del 2013. A distanza di un anno e mezzo le cose alla distrettuale antimafia del capoluogo calabrese sono addirittura peggiorate.
Oggi, infatti, i sostituti procuratori in forze sono cinque, e rimarranno tali certamente sino alla fine dell’anno. E molto probabilmente anche oltre.
Il confronto con altre procure è significativo. Catanzaro ha tanti pm quanti ne ha l’antimafia bolognese e quella di Genova. Anche lì c’è una forte presenza mafiosa, ma di certo il fenomeno è meno violento che nella culla delle cosche.
A rinforzo della protesta che arriva dai magistrati, esce allo scoperto anche il procuratore aggiunto di Catanzaro, Giovanni Bombardieri che a “l’Espresso” spiega: «Bisogna necessariamente ridisegnare l’organico della nostra procura distrettuale, ormai sempre in continua emergenza. Questa è una priorità assoluta non più procrastinabile. Con cinque sostituti, a fronte della criminalità organizzata operante nei due terzi del territorio calabrese, stiamo veramente facendo i miracoli, basti vedere le recenti operazioni portate a termine. C’è assoluto bisogno di rinforzi. È una situazione drammatica. Situazione che andrebbe affrontata e risolta globalmente, senza più indugi. Gli uffici distrettuali vanno potenziati. Più volte in passato il procuratore capo, Lombardo ha rappresentato tale emergenze. Ma le sue parole, purtroppo, sono non hanno sortito alcun effetto».
Un paradosso la dice lunga sulla condizione surreale che vivono in procura: «Se i sette tribunali circondariali su cui siamo competenti convocassero, per ipotesi, udienze dei processi antimafia nella stessa giornata, non ci sarebbero sufficienti sostituti pm.
C’è la necessità di cambiare passo nella lotta alla ndrangheta.
Spesso rispondere in ritardo significa vanificare il risultato giudiziario e avvantaggiare così le cosche.
Ritardare la risposta giudiziaria può essere avvertito come assenza, debolezza, delle istituzioni, e noi non possiamo permettere che ciò avvenga, specialmente in una terra come la Calabria in cui veramente occorrono risposte tempestive»
Chi denuncia fatti di ndrangheta ha bisogno di sentire vicino lo Stato.
Il rischio, altrimenti, è che i cittadini si rivolgano ai boss che rispondono rapidamente ai bisogni della popolazione.
«Chi ha avuto il coraggio di denunciare, lo ha fatto riflettendo a lungo prima di farlo, se però queste persone non vedranno risultati, prima di collaborare ancora ci penseranno due volte. La carenza di organico e l’impossibilità di disporre di un numero adeguato di sostituti ci spinge a selezionare delle priorità in base all’urgenza del momento, spesso agiamo seguendo l’emergenza e la gravità delle situazioni oggetto di indagine. Rinviando a dopo le altre pur delicate indagini».
Alla faccia della prevenzione.
Contro la ‘ndrangheta quindi basterebbe qualche toga in più e un annuncio in pompa magna in meno.
Giovanni Tizian e Paolo Orofino
(da “L’Espresso”)
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Luglio 3rd, 2014 Riccardo Fucile
“IL PATTO CON RENZI E’ UNA RESA”… BERLUSCONI COSTRETTO A PRENDERE TEMPO
Alla fine Silvio Berlusconi è costretto a concedere una frenata, sia pur timida: “Non posso non tener conto di questo disagio. Ci rivediamo martedì”.
Perchè per la prima volta scoppia il dibattito, dentro la monarchica Forza Italia.
Dibattito vero. Come nei partiti veri.
È nel corso della riunione con parlamentari e senatori che l’ex premier assiste alla possibile esplosione del suo gruppo, di fronte alla “resa” a Renzi sulle riforme.
Su una ventina di interventi, i favorevoli al patto sono solo tre.
Gli altri esprimono critiche all’accordo su cui Berlusconi aveva stretto la mano a Renzi in mattinata, nel corso dell’incontro a palazzo Chigi.
Un vecchio volpone come Berlusconi capisce che, in queste condizioni, la tenuta del gruppo è a rischio.
E in Aula si rischia il Vietnam. Anche perchè, nella riunione pomeridiana, i big sono rimasti taciturni, lasciando parlare i soldati semplici.
Segno che è solo una prima fase della faida. Parlano in chiave critica Minzolini, la Bonfrisco, Lucio Malan e la pattuglia pugliese.
A favore Romani, e in versione più prudente Gasparri. Gli altri si scrutano, ascoltano, in clima di tensione crescente.
Per la prima volta viene messa in discussione la linea del capo.
Perchè l’accordo non contiene neanche una bandierina per Forza Italia.
Non solo non c’è il presidenzialismo, o il semi, ma al posto dell’elezione diretta c’è una specie di “elezione di terzo grado”, come la chiamano i deputati azzurri che hanno dimestichezza con la materia: i cittadini scelgono i consiglieri regionali e i sindaci, i quali a loro volta indicano i senatori, che poi eleggono il capo dello Stato.
E poi l’intero impianto del nuovo Senato risulta un rospo indigeribile per un partito come Forza Italia, considerata l’attuale geografia elettorale.
Aleggia il sospetto che Berlusconi abbia negoziato più in termini personali che politici.
“Ci ha venduto a Renzi per tutelare se stesso e le aziende”: è questa la frase ripetuta a microfoni spenti da truppe mai tanto deluse e sconfortate.
Una vendita che ha certo a che fare con i guai giudiziari del Capo, convinto che l’Appello su Ruby confermerà il primo grado e che il regalo di Natale della Cassazione sia la perdita della libertà .
Ma che ha a che fare soprattutto col quel partito Mediaset, diventato un grande supporter di Renzi. In fondo, dice chi sa davvero le cose, l’unico settore dove Renzi non ha asfaltato un bel niente è quello delle concessioni tv.
E anche sulla Rai ha annunciato tagli più che riforme che possano stimolare Mediaset in un’ottica di concorrenza.
Un business che vale un Senato, un po’ come una messa per Parigi.
Aziende, ma anche giustizia. Nel senso di “riforma”: “Renzi — dice l’ex premier — ci ha assicurato che ci coinvolgerà ”. Non sarebbe un caso che Renzi l’abbia annunciata ma senza portare un provvedimento concreto, a partire dal falso in bilancio. E giustizia significa anche nomine. Fonti vicine a Berlusconi assicurano che sui due membri del Csm e della Corte costituzionale è in corso una trattativa.
Preparata da Verdini e Lotti, ma su cui ci sarebbe stato uno scambio con Berlusconi.
Insomma, per il partito Mediaset l’attuale situazione assomiglia tanto a una specie di “appoggio esterno al governo” grazie al tavolo delle riforme.
Una manovra in cui il sacrificio di Forza Italia è un costo calcolato per restare nel gioco che conta.
Di fronte al solco profondo tra “partito Mediaset” e partito parlamentare l’ex premier è scisso. La ragione dice di blindare l’accordo con Renzi senza se e senza ma.
Le critiche dei frondisti parlano alla sua pancia, al vecchio leone che prova quantomento una ferita narcisistica nel concede al giovane fiorentino il posto nella storia che lui non ha mai avuto. Per questo difende il patto del Nazareno con argomenti poco convincenti, criticando l’impianto iniziale con troppi sindaci ed evitando di difendere convintamente l’accordo sottoscritto la mattina.
Tanto che Verdini si alza per fare due passi nella sala, proprio mentre Berlusconi parla. Al tempo stesso però l’ex premier chiede ai suoi di votare, tanto “è solo la prima lettura”. E lasciando intendere che, tra la prima e la seconda si svolgerà la trattativa vera.
Finito lo sfogatoio, non si vota. Rinviato anche il voto a martedì.
Finita la trattativa con Renzi, inizia quella interna per non spaccare Forza Italia.
(da “Huffingtonpost“)
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Luglio 3rd, 2014 Riccardo Fucile
PIERSILVIO SCEGLIE IL CORE BUSINESS DI FAMIGLIA
Primum Mediaset.
Tra la difesa dei bilanci dell’azienda e la difesa dei consensi del partito, Pier Silvio Berlusconi ha optato apertamente per il core business di famiglia, con un endorsement per Matteo Renzi che – lo sapeva – «susciterà sorpresa».
Così infatti è stato, soprattutto in Forza Italia, dove si è avvertito un senso di vuoto e di smarrimento per il modo in cui il figlio ha diviso ciò che per venti anni il padre aveva tenuto unito.
C’è un motivo quindi se ai piani alti del Biscione i navigatori più consumati hanno provato ieri ad attenuare l’impatto determinato dalle parole del vice presidente Mediaset, che mai si era esposto in modo tanto compiuto sulle questioni politiche, finendo per esporre anche l’azienda, il partito, la famiglia.
È vero, come ogni impresa il Biscione è sempre stato filo governativo, ricavandone dividendi e tutele anche dopo la «discesa in campo» del Cavaliere.
«Mediaset è un patrimonio nazionale», disse Massimo D’Alema, seppellendo l’ascia di guerra che Walter Veltroni aveva usato con i referendum (persi) sugli spot.
E fu la svolta. Per certi aspetti, insomma, Pier Silvio Berlusconi non avrebbe fatto altro che applicare con Renzi l’insegnamento di Fedele Confalonieri, secondo cui «la politica è la politica, l’azienda è l’azienda».
E in tempi di opposizione la linea di lotta stabilita ad Arcore non può confliggere con la linea di governo decisa a Cologno Monzese: «Il nostro mestiere va bene se va bene l’economia», dice spesso «zio Fedele».
È andata avanti così per venti anni, anche dopo il «complotto» che ha estromesso Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi: montiani con Monti, lettiani con Letta, renziani con Renzi, «e sempre in periodi distanti da campagne elettorali», questa era la regola.
Finchè Pier Silvio, l’altra sera – presentando i palinsesti delle reti tv – ha dichiarato di «tifare» per il premier, accordandogli «la fiducia che si merita», e sottolineando soprattutto come il Paese oggi abbia bisogno «di stabilità », oltre che di riforme.
È un’opinione che confligge con la linea politica portata avanti finora dal padre, che da quando ha rotto con il governo Letta ha sempre teorizzato l’imminenza delle elezioni in modo da tenere uniti il suo partito e il suo bacino di consensi.
Il vice presidente di Mediaset è parso rompere uno schema, o comunque evidenziare il logoramento dello schema che ha tenuto insieme Biscione e Forza Italia, passato alla storia come il «partito-azienda».
Ennio Doris, amico di vecchia data del Cavaliere, respinge questa definizione «che gli avversari di Berlusconi hanno sempre usato per attaccarlo», e fornisce una spiegazione di quanto è accaduto: «Nella realtà dei fatti i figli di Silvio sono sempre rimasti fuori dalla politica. E ora che hanno incarichi ai vertici delle loro imprese sta emergendo la totale separazione tra i destini delle aziende e quelle del partito». alla telenovela su un’eventuale prosecuzione della dinastia berlusconiana in politica: «Sarebbe da pazzi scendere in campo quando c’è già il più forte di tutti. Se non succede qualcosa, Renzi vince per venti anni».
Resta da capire se la sortita del vice presidente Mediaset sia il frutto di un convincimento personale maturato nel tempo o di un eccesso di comunicazione su una materia così sensibile.
Di certo c’è che in una parte della famiglia e del management le sue parole sono giunte inaspettate: perchè un conto è invitare il governo a non caricare di ulteriori norme un settore come quello televisivo già gravato da molti vincoli, altra cosa è gareggiare con Murdoch nel sostenere il premier tramite la tv.
E comunque non è questo che preoccupa Marina Berlusconi, quanto l’imminente sentenza sul «caso Mediatrade» che riguarda anche il fratello, e che viene vissuta con l’ansia di chi sente la propria famiglia «sotto assedio».
È una spada di Damocle che va ad aggiungersi a quella posta sul capo del padre, in appello sul «caso Ruby».
Luglio si preannuncia come un mese cruciale per la famiglia Berlusconi e per il suo impero: diviso tra i verdetti giudiziari e la necessità di decidere se restare in Spagna nella pay-tv con un forte investimento o vendere a Telefonica uscendo da quel mercato.
Ed è evidente che in quel mondo oggi la politica non è più prioritaria, che la tutela delle imprese val bene il sacrificio della politica.
Se definitivo o momentaneo si vedrà .
Per ora Pier Silvio «tifa» Renzi, a cui – come racconta Doris – «la storia è caduta addosso»: «E il premier può davvero inaugurare un lungo ciclo, grazie anche a Silvio Berlusconi, che con spirito di sacrificio sta appoggiando il percorso delle riforme. Ma alle parole Renzi dovrà far seguire i fatti. Perchè se l’economia non dovesse ripartire, ne pagherebbe le conseguenze».
«La cosa peggiore è deludere le promesse», ha detto l’altra sera Pier Silvio.
Sta in questo frammento l’unico margine di ambiguità , quasi che il tifo celi in realtà una sfida.
Francesco Verderami
(da “il Corriere della Sera”)
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Luglio 3rd, 2014 Riccardo Fucile
L’EMITTENTE DI CAIRO HA GIA’ UN PALINSESTO NUTRITO, DA SANTORO ALLA INNOCENZI, DA PARAGONE ALLA GRUBER, DA FORMIGLI A MENTANA
Solo una settimana fa, il lunghissimo balletto degli ultimi mesi sembrava destinato a concludersi con un accordo. Oggi, invece, la Rai ha annunciato l’addio di Giovanni Floris alla tv pubblica con un comunicato scarno: “Dopo dodici anni di conduzione di Ballarò e dopo una proficua esperienza quasi ventennale in azienda, Giovanni Floris lascia la Rai che, nel ringraziarlo per il lavoro svolto, gli porge i migliori auguri per il suo futuro professionale”. Stop. Fine delle trasmissioni.
E per quanto riguarda il futuro professionale del conduttore del talk politico di RaiTre, in realtà possiamo parlare di presente: è stato già raggiunto l’accordo con La7, con Floris che passa nella squadra di Urbano Cairo con un contratto faraonico di 4 milioni di euro per tre anni.
Offerta decisamente maggiore rispetto a quella di viale Mazzini (meno di due milioni per la stessa durata del contratto), e nonostante le trattative serrate continuate fino all’ultimo, la Rai non ha accettato le condizioni economiche chieste dal giornalista.
Del probabile addio di Giovanni Floris si parlava ormai da mesi, e le voci si erano fatte più insistenti dopo il battibecco avuto in diretta tv con Matteo Renzi.
Ospite di Ballarò, il premier era stato incalzato sulla Rai e sulla decisione del governo di prelevare 150 milioni di euro dalle casse della televisione pubblica, con un Floris iper-aziendalista che chiedeva conto di una mossa che avrebbe potuto favorire Mediaset, svuotando le già disastrate casse Rai.
Forse per questo, durante la trattativa, il giornalista aveva chiesto un compenso milionario.
Nelle ultime settimane, poi, si era diffusa la notizia di una trattativa tra il giornalista e Mediaset, ma lo stesso Piersilvio Berlusconi aveva smentito tutto.
Oggi, però, la svolta definitiva e il passaggio a La7, dove Floris ritroverà Maurizio Crozza, ma dovrà ritagliarsi uno spazio adeguato in una rete già satura di talk show: gli innumerevoli speciali di Enrico Mentana, Servizio Pubblico di Michele Santoro, La Gabbia di Gianluigi Paragone, Otto e mezzo di Lilli Gruber, Piazzapulita di Formigli, la sorpresa di fine stagione AnnoUno di Giulia Innocenzi e tutti gli altri programmi di approfondimento politico del mattino.
Abituato a essere la stella incontrastata della politica su RaiTre, il neomilionario Giovanni Floris saprà adattarsi a una realtà decisamente più piccola come La7?
E chi già gode di rendite di posizione conquistate negli anni, anche in quelli più bui, quando La7 non andava così di moda, vorrà cedere il proprio spazio, guadagnato con così tanta fatica?
Non resta che attendere, settembre è dietro l’angolo.
Domenico Naso
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Luglio 3rd, 2014 Riccardo Fucile
IL CONDUTTORE; “ALLA RAI DEVO TUTTO, MA RIMETTERSI IN GIOCO E’ GIUSTO”… POTREBBE ESSERE SOSTITUITO DA GERARDO GRECO DI AGORA’
Ora è ufficiale. Giovanni Floris lascerà la Rai per andare a far parte della squadra di La7. “Dopo dodici anni di conduzione di Ballarò e un’esperienza quasi ventennale in azienda, Floris ci lascerà ”.
Annuncia in un comunicato l’azienda nazionale che “nel ringraziarlo per il lavoro svolto, gli porge i migliori auguri per il suo futuro professionale”.
Anche se qualche anno fa Repubblica aveva confermato che il conduttore aveva raggiunto un accordo con il direttore generale della Rai Luigi Gubitosi, dell’addio di Floris al servizio pubblico si parlava da settimane, anche in riferimento a possibili passaggi a Mediaset, smentiti due giorni fa dal vicepresidente Pier Silvio Berlusconi.
Secondo indiscrezioni, la tv di Stato gli avrebbe proposto 1,8 milioni mentre l’offerta di Urbano Cairo sarebbe stata almeno doppia.
La tv pubblica, infatti, pur essendo pronta a venire incontro alle richieste del giornalista sul piano editoriale allungando il programma fino a mezzanotte e proponendogli una striscia quotidiana su Rai3, non era disposta ad accettarne le pretese economiche, rimanendo ferma sul compenso precedente di circa 1,8 milioni in tre anni.
Secondo le voci che circolano a Viale Mazzini, da La7 sarebbe arrivata invece un’offerta di 4 milioni in tre anni.
Floris aveva avuto di recente una discussione con il premier Matteo Renzi durante una puntata di Ballarò sui tagli che il governo avrebbe fatto all’azienda pubblica.
“I tagli toccano anche a voi della Rai”, aveva detto il premier al conduttore di Rai 3.
“L’improvviso addio di Floris è molto grave“, ha commentato il deputato del Partito democratico e segretario della commissione di vigilanza Rai, Michele Anzaldi.
“La trattativa della Rai è stata gestita in maniera decisamente discutibile. I vertici devono venire immediatamente in commissione di vigilanza per chiarire come sono andate le cose”.
Anzaldi continua sottolineando l’importanza di Ballarò per il palinsesto del servizio nazionale, e si interroga sulle possibili ragioni dietro quest’improvviso passaggio di rete: “Sarebbe grave se si scoprisse che non vi sono solo ragioni economiche dietro la scelta di chiudere la collaborazione con il conduttore”.
Vertici dell’azienda interpellati anche dal sindacato dei giornalisti Rai Usigrai, che chiede a Viale Mazzini “un’azione di verità su costi, ingaggi e perdite di credibilità ”.
Mentre Maurizio Gasparri si domanda se possa essere in corso un editto di Renzi contro il conduttore: “Floris va via dalla Rai perchè ha avuto il coraggio di fare domande scomode a Renzi? C’è un editto sul conduttore di Ballarò?”.
In apertura dell’edizione serale, il direttore del TgLa7, Enrico Mentana, puntualizza che “c’è un accordo in corso ma nulla è ancora stato concluso“.
“Essendo una materia delicata è inutile mettere bandierine fino a che non si è raggiunta la vetta — continua Mentana -. Ma sarebbe bello avere anche Floris in squadra nel caso la trattativa si chiudesse”.
Rispetto alle motivazioni di questa scelta, Floris non attribuisce alcuna colpa all’azienda pubblica: “Gli devo tutto, ma rimettersi in gioco è salutare e giusto” non solo per me, ma anche “per il pubblico che mi ha sempre seguito e sostenuto”.
Quanto al prossimo conduttore di Ballarò, il direttore di Rai3 Andrea Vianello non si esprime ed è possibile che punti ad un nome esterno, anche se a viale Mazzini danno in pole position conduttore di Agorà , Gerardo Greco.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Luglio 3rd, 2014 Riccardo Fucile
IL LEADER RICHIAMA ALL’ORDINE I DISSIDENTI, MA IL MALUMORE DILAGA PER L’ACCORDO SULLA RIFORMA DEL SENATO
«Una resa». Due parole, sconsolate e rassegnate, saltano di bocca in bocca tra i parlamentari di Forza Italia in attesa dell’incontro con Berlusconi.
A Montecitorio, stranamente movimentato di giovedì pomeriggio, i forzisti di tutte le sfumature ripetono queste due parole.
Poi c’è pure chi ne aggiunge una terza: «Una resa incondizionata».
Si fa riferimento all’accordo chiuso tra il Cavaliere e Renzi sulle riforme costituzionali e sulla legge elettorale. I dissidenti saranno chiamati all’ordine: da Brunetta a Minzolini, fino a quei quasi 40 senatori che vogliono un Senato elettivo.
L’incontro di stamane tra il premier e l’ex premier ha sigillato l’intesa del Nazareno, quando i due si incontrarono nella sede del Pd e si discusse soprattutto di legge elettorale.
A gennaio si stabilì come doveva essere cambiato il Senato per superare il bicameralismo perfetto.
Allora si disse – genericamente – che quella parte del Parlamento non doveva essere eletta direttamente dal popolo, ma essere espressione delle autonomie. Ora ci saranno tanti piccoli aggiustamenti di composizione e di competenze, ma quell’idea rimane: ed è l’idea tutta partorita a Palazzo Chigi e che Forza Italia sostanzialmente sta trangugiando.
Altra storia è invece la legge elettorale: su questa Berlusconi era stato più chiaro.
Ha accettato obtorto collo il doppio turno ma ha ottenuto una serie di sbarramenti per i piccoli partiti che saranno costretti ad allearsi con il vecchio padre padrone del centrodestra, pena l’irrilevanza e l’impossibilità di eleggere un deputato.
E poi le liste bloccate, niente preferenze.
Un’altra delle richieste di Berlusconi che il segretario del Pd ha sottoscritto nonostante la ribellione all’interno del suo partito e le richieste da parte dei 5 Stelle.
Ecco, questo impianto è rimasto, a cominciare dalle liste bloccate che consentono ai padroni dei partiti di decidere chi mettere in lista.
Niente preferenze che permettano ai “ras” di alzare la testa, come pensava di fare Fitto alle Europee (ha preso quasi 240 mila voti e ha chiesto le primarie, ma Berlusconi non gliele vuole dare).
Ora la «resa» è consegnata all’assemblea dei parlamentari di Forza Italia ed è Berlusconi in persona a spiegarla con effetti speciali ai quali nel suo partito però nessuno crede più.
Prima di entrare nella sala della Regina le varie sfumature berlusconiane spiegavano che il Cavaliere non ha più la forza del leone, ora che pure Pier Silvio si è arruolato ai “laudatores” di Matteo.
Il padre, come sempre il più perspicace, lo aveva fatto per primo. E poi ha altro a cui pensare. Per sè (il processo Ruby con sentenza il 18 luglio) e per suo figlio Pier Silvio (processo Mediatrade) .
Amedeo La Mattina
(da “La Stampa”)
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Luglio 3rd, 2014 Riccardo Fucile
A UN MESE DALL’ELEZIONE GIUNTA ANCORA IN ALTO MARE… SELEZIONATA E POI MESSA DA PARTE LA TITOLARE DELLA DELEGA ALLA MOBILITA’: “ERA CANDIDATA CON L’ALTRA LISTA”… E SE NE SONO ACCORTI SOLO DOPO LA NOMINA?
La prima in consiglio comunale senza giunta, una squadra di assessori che ancora non c’è a quasi un mese dalla storica vittoria al ballottaggio contro il Pd e ora la nomina e la revoca a uno dei (pochi) assessori selezionati (su 900 curriculum) nel giro di 24 ore. L’inizio del mandato non è certo quello che il sindaco M5s Filippo Nogarin aveva sognato.
L’ultimo caso è stato quello dell’architetto Simona Corradini che Nogarin aveva scelto come assessore alla mobilità e al commercio: era stata scelta dal sindaco tra i 900 curriculum arrivati e nonostante non avesse i “requisiti minimi” necessari per partecipare alla selezione pubblica lanciata a metà maggio dal Movimento 5 Stelle.
La Corradini infatti si era candidata al consiglio comunale di Livorno con la lista civica di sinistra Città Diversa e le regole della selezione escludevano però di poter prendere in considerazione soggetti che si fossero candidati in altre liste.
“Vista la consistenza e lo spessore del curriculum” il sindaco aveva però deciso di fare “un’eccezione”: “Mi assumo io la responsabilità di questo passo — aveva dichiarato Nogarin martedì scorso al momento della nomina — sarebbe un peccato privarsi di una professionalità così alta. L’architetto ha presentato un curriculum di 8 pagine ricco di titoli, pubblicazioni e docenze”.
Ma dopo 24 ore la marcia indietro. Non solo per le polemiche, ma anche per quello che viene definito “aperto confronto” con la sua maggioranza, i 20 M5s che siedono in consiglio comunale.
“Nogarin — si legge in una nota del Comune — dopo un aperto confronto con i consiglieri di maggioranza è tornato sui suoi passi stroncando così sul nascere ogni polemica”.
Tutto da rifare quindi.
Nelle prossime ore ripartiranno quindi i colloqui per scegliere un nuovo assessore al commercio e alla mobilità . “
Il lavoro per arrivare a definire la squadra di governo sembra procedere a rilento. L’ingegnere aerospaziale che è riuscito a sconfiggere il centrosinistra al ballottaggio si è insediato ufficialmente a Palazzo civico l’11 giugno scorso.
La giunta pentastellata è al momento composta soltanto dal vicesindaco Stella Sorgente (che ha le deleghe all’istruzione e alle politiche giovanili) e dall’assessore all’Urbanistica e allo Sviluppo Economico Alessandro Aurigi.
Il resto della squadra è ancora tutto da trovare.
“I colloqui sono in corso, a breve saranno ufficializzate altre deleghe. Serve calma. Il caso Corradini è stato causato anche dalla troppa pressione”.
Troppa pressione dopo un mese?
David Evangelisti
(da “il Fatto Quotidiano”)
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