Dicembre 19th, 2014 Riccardo Fucile
FINANZIAMENTI AI LEADER ATTRAVERSO LE FONDAZIONI CHE POSSONO OPERARE SENZA CONTROLLO
Doveva essere un anticipo di futuro.
Il partito all’americana. Il fund raising, la raccolta fondi, limpida e trasparente come un ruscello di montagna. Venerdì 7 novembre la prima cena di auto-finanziamento del Pd a Roma (dopo quella di Milano) era stata un successone.
Ottocento tavoli, mille euro a testa, il presidente del Consiglio Matteo Renzi festeggiato come uno sposo. «Esperimento riuscito, da ripetere».
Il mondo nuovo della politica finanziata dai privati. Che si è rivelato invece, tre settimane dopo, il solito mondo di mezzo. Il confine sottile e buio che separa la vetrina del potere dalle bande criminali scoperte dall’operazione Mafia Criminale.
Alla cena con il premier c’era anche Salvatore Buzzi, presidente della cooperativa “29 giugno”, arrestato con l’accusa di essere il cassiere della banda romana guidata da “Er Cecato”, come ha raccontato il suo vice Claudio Bolla: «Il tavolo alla cena di Renzi è costato 10 mila euro, ha pagato tutto la cooperativa e, tra i nostri soci, c’è anche Massimo Carminati».
Si realizza la profezia del boss ex Nar intercettato: «Tutto è possibile, che ne so, che un domani io posso stare a cena con Berlusconi».
O con il suo giovane successore a Palazzo Chigi, ignaro. «I nomi si vedono. Sono tutti pubblici e registrati. Chiedete al tesoriere del partito Francesco Bonifazi», ha garantito il premier in tv il 3 dicembre.
A due settimane di distanza, però, la lista degli invitati e dei contributi non è saltata fuori. Nell’attesa, l’inchiesta “Mafia Capitale” e le regalie dei presunti criminali alla politica arriva proprio mentre i leader provano faticosamente a costruire un nuovo modello di approvvigionamento, dopo che l’abolizione del finanziamento pubblico (che entrerà a regime nel 2017) sta già dissanguando le casse dei partiti.
Dunque, l’antica domanda resta più attuale che mai.
Chi finanzia la politica? E perchè?
IL THINK-“TANKE”
«Non ci sono più i partiti. È inutile imporre la trasparenza nei bilanci dei partiti, che ormai sono spompati e nessuno li finanzia più. Oggi il vero potere passa per le fondazioni», ha denunciato una settimana fa a “l’Espresso” il presidente dell’Autorità anti-corruzione Raffaele Cantone.
«Le fondazioni ottengono, spesso attraverso altre mediazioni, i quattrini che sono il vero motore delle campagne elettorali. Possono intascare centinaia di migliaia di euro senza darne conto. Oggi sono fuori da ogni possibilità di controllo».
Le fondazioni politiche sono un punto di intersezione tra interessi pubblici e privati, legali e inconfessabili, di lobby e di cordate che si incrociano e si incontrano, senza nessun obbligo di trasparenza dei bilanci e dei finanziatori.
Una terra di mezzo, appunto. E sono il fantasma che si aggira tra le pagine dell’inchiesta su “Mafia Capitale”.
Spulciando tra le migliaia di documenti e intercettazioni si scopre, infatti, che gli enti finiti nell’ordinanza (alcuni solo di striscio) sono ben cinque. Come il magistrato Cantone, anche l’ex Nar Carminati e il compare Buzzi avevano capito che i think-tank possono essere scatole vuote. Da riempire di soldi e tangenti.
Anche se dei pensosi convegni sull’economia e delle conferenze sul Mediterraneo ai boss fregava nulla, non è un caso che nell’ordinanza d’arresto la parola “fondazione” venga pronunciata dagli indagati 45 volte.
Sono i soggetti giuridici spuntati come funghi negli ultimi dieci anni, enti dove la trasparenza è un accessorio e il lobbismo spinto è l’unico, vero core business.
Pronti a degenerare in una macchina per corrompere dirigenti pubblici, ungere i facilitatori, riciclare e fare ottimi affari.
Dal think-tank all’americana al think-“tanke” all’amatriciana. “Il Tanke” era il soprannome che “Er Cecato” dava a Franco Panzironi, in testa all’elenco degli arrestati, ex amministratore delegato dell’Ama, la municipalizzata romana dei rifiuti, e segretario della fondazione di Gianni Alemanno “Nuova Italia”. La onlus che il “Tanke” usava come una sorta di bancomat.
Secondo i pm, infatti, i padrini di “Mafia Capitale” avrebbero finanziato il club di Gianni per almeno tre anni, da gennaio 2012 allo scorso settembre, versando centinaia di migliaia di euro: al pensatoio dell’ex sindaco di Roma, tra bonifici e bustarelle, secondo i pm sarebbero arrivati dalle cooperative dei boss contributi per 265 mila euro.
In cambio, l’organizzazione avrebbe ottenuto appalti pubblici e utilità di ogni tipo. «Quello è ‘na cambiale, l’ho messo a 15 mila al mese», ride Buzzi al telefono, facendo riferimento all’affitto della sede della centralissima via San Lorenzo in Lucina, nello stesso palazzo in cui c’è la sede nazionale di Forza Italia. Panzironi dai presunti mafiosi otteneva di tutto e di più: da orologi di lusso alla «rasatura del prato di zone di sua proprietà ».
Ma il “Tanke” era direttore operativo anche di un’altra prestigiosa associazione, la “Fondazione per la pace e la cooperazione internazionale Alcide De Gasperi”, presieduta per decenni da Giulio Andreotti, con ottime entrature in Vaticano e nella finanza bianca (tra i consiglieri spicca Giovanni Bazoli accanto a Vito Bonsignore, condannato per corruzione).
Buzzi gira 30 mila euro anche a loro, e incontra Panzironi negli eleganti uffici di Via Gregoriana. Al tempo l’ente era presieduto dall’ex berlusconiano Franco Frattini, ma dal luglio 2013 è stato sostituito dal numero uno del Viminale, Alfano.
Anche sul sito della “De Gasperi”, come su quello di “Nuova Italia” manco a dirlo, non c’è alcuna sezione “trasparenza”.
Abbiamo provato a contattare per giorni il segretario generale Lorenzo Malagola per chiedere lumi sui finanziatori privati, ma non ci ha mai richiamato. Anche Alfano non ha voluto rispondere alle nostre domande.
«Sottolineiamo però», tiene a far sapere il suo staff, «che la fondazione non è di un politico, esiste da trent’anni, e che presidente onorario è la figlia di De Gasperi».
Andiamo avanti. Se nel paragrafo dell’ordinanza dedicata alle «frequentazioni di Carminati» spunta Erasmo Cinque, costruttore coinvolto nelle inchieste sul Mose e sull’Expo nonchè autorevole membro del cda della “Fondazione della liberà per il Bene comune” dell’amico ex ministro di An (oggi in Forza Italia) Altero Matteoli, un uomo del “Cecato” aveva messo piede anche in altre due associazioni, stavolta di tendenza democrat.
Stefano Bravo, per gli inquirenti lo “spallone” del clan, il commercialista che portava i denari oltreconfine, è stato tra i promotori della “Human Foundation”, una creatura dell’ex ministro Pd Giovanna Melandri.
Ma era — ha scoperto “l’Espresso” — anche presidente del colleggio dei revisori della Fondazione “Integra Azione”, fondata da Legambiente.
L’ente, che ha un logo profetico in cui una mano rossa ne stringe una nera, era presieduto da Luca Odevaine (l’ex vice-capo di gabinetto di Walter Veltroni al soldo di Buzzi finito in galera) e da Francesco Ferrante, ex senatore del Pd.
«È un paradosso, noi di Human foundation siamo nati proprio perchè crediamo nella trasparenza assoluta di stampo anglosassone», spiega furiosa la Melandri, che solo pochi giorni fa ha scoperto che uno dei fondatori del suo circolo (nell’elenco spiccano anche il viceministro all’Economia Carlo Calenda e il filosofo Sebastiano Maffettone) è considerato dai pm uno dei complici dell’ex terrorista nero.
«Noi siamo parte lesa. Se il dottor Bravo sarà condannato ammetteremo di aver sbagliato a scegliere un collaboratore, ma con “Mafia Capitale” non abbiamo nulla a che spartire».
È un fatto che la Human sia tra le pochissime onlus a indicare sul sito le aziende che sponsorizzano i suoi progetti: si va da Unicredit e Telecom, passando per Banca Mediolanum a Sorgenia, che hanno versato liberalità da un minimo di 10 mila (contributore “bronze”) a un massimo di 50 mila euro l’anno (contributore “platinum”).
«Solo Vodafone ha messo di più per un master alla Cattolica», chiosa la Melandri, che sostiene l’apoliticità della sua creatura. Presentata al mondo però con una lettera di Giorgio Napolitano, l’intervento dell’allora premier Mario Monti, i saluti dell’allora ad Enel Fulvio Conti e le conclusioni di Giuliano Amato.
Il commercialista oggi indagato lavorava anche in un’altra fondazione di sinistra, “Integra Azione”, un ente creato nel 2010 per favorire «l’integrazione tra i popoli». «Abbiamo fatto progetti di cui sono orgoglioso, con fondi europei, all’ospedale Pertini di Roma, la Coca-Cola ha contribuito per un progetto a Rosarno», interviene Ferrante, che l’anno scorso ha lanciato il nuovo partito ambientalista “Green Italia”.
«Il centro per gli immigrati di Mineo, in Sicilia? È vero, nelle intercettazioni ne parlavano Odevaine e Buzzi, ma “Integra” non c’entra nulla, era un affare personale di Luca».
Comunque, la onlus ha organizzato dei corsi per mediatori culturali, proprio per il centro vicino Catania che Buzzi sognava di trasformare in un nuovo business della banda.
TRASPARENZA? MEGLIO DI NO
Con l’abolizione del finanziamento pubblico e con la ricerca di sponsor privati che potranno contribuire al massimo per 100 mila euro, le fondazioni avranno un peso sempre più rilevante nella politica. Come avviene in Francia, Usa, Gran Bretagna.
Ma se lì i controlli sono stringenti (in Germania, ad esempio, le fondazioni sono una per partito, finanziate quasi interamente dallo Stato, controllate dalla Corte dei conti e obbligate alla pubblicità e alla trasparenza dei bilanci) il modello italiano è più simile al far west.
Prendiamo la più famosa delle fondazioni politiche, a lungo considerata la più influente di tutte, la fondazione Italianieuropei di Massimo D’Alema, con elegante sede in piazza Farnese a Roma, di fronte all’ambasciata francese.
Se chiedi la lista dei finanziatori rispondono a muso duro che loro, finchè la legge non cambierà , non divulgheranno un bel nulla.
«Diciamo che preferiamo la privacy alla trasparenza», ragiona Daniela Reggiani, portavoce del fondatore del pensatoio.
«I nostri bilanci sono depositati alla prefettura, non ci sono i nomi e i cognomi ma trovate entrate e uscite. Non è giusto che l’origine di un contributo venga svelata, se chi l’ha fatto sapeva di poter rimanere nell’ombra. È una questione di correttezza».
In linea con quanto affermato dallo stesso D’Alema nel 2011: «Dai finanziamenti si potrebbe desumere l’orientamento di chi ha elargito il contributo». L’ex premier lo dichiarò tre anni fa, quando la sua fondazione finì nella bufera per il coinvolgimento di Vincenzo Morichini nello scandalo degli appalti truccati dell’Enac (l’imprenditore amico di D’Alema era il procacciatore di finanziamenti della fondazione, ha patteggiato un anno e sei mesi per corruzione e frode fiscale).
Tra le onlus vicine al centro-sinistra non sempre la trasparenza è stata considerata una virtù. Nel 2012 l’allora tesoriere della Margherita Luigi Lusi fu arrestato per appropriazione indebita dei rimborsi elettorali del suo partito.
Poco dopo un’inchiesta de “l’Espresso” scoprì che Lusi, nel 2009, aveva girato oltre un milione di euro al “Centro per il futuro sostenibile”, fondazione con vocazione ambientalista creata da Francesco Rutelli e dall’attuale assessore ai Trasporti della Capitale Guido Improta. Lusi aveva bonificato il denaro quando Rutelli aveva già fondato un altro partito, l’Api.
Lo stesso “Cfs”, poi, versò decine di migliaia di euro alla nuova formazione politica: nessuno di questi contributi fu mai dichiarato, nè dall’Api nè da Rutelli. Due vicende con gli stessi protagonisti, ma che corrono separate. Per il furto dei rimborsi elettorali Lusi è stato l’unico condannato.
Anche la “Fondazione della Libertà ” che fa riferimento a Matteoli è stata tirata in ballo nella vicenda delle tangenti Enac.
L’ex ministro delle Infrastrutture ha sempre smentito qualsiasi coinvolgimento, ma oggi non può certo negare di conoscere bene Erasmo Cinque, l’imprenditore a cui Carminati ha fatto visita nel maggio del 2013.
I nomi di Matteoli e di Cinque — che è nel cda della fondazione con l’ex deputato Marcello De Angelis, ex di Terza posizione, cinque anni di carcere alle spalle e una carriera come cantante del gruppo musicale 270bis, riferimento all’articolo del codice penale sulle associazioni con finalità di terrorismo — sono finiti anche nelle inchieste sul Mose e dell’Expo.
BIG BANG
Il boom delle fondazioni è stato raggiunto nel 2012-2013, quando la crisi dei partiti ha toccato l’apice.
Secondo una recente ricerca dell’università La Sapienza curata dal politologo Mattia Diletti sono oggi 105, in crescita esponenziale: erano appena 33 nel 1993, anno di passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica.
Il 34 per cento sono think-tank di carattere personale, legate alla figura di un leader o di un capo-corrente.
Nell’ultimo decennio, in pratica, ognuno si è fatto la sua, con nomi immaginifici (Claudio Scajola con la “Cristoforo Colombo”) o banalotti (“Fare Futuro”, “Futuro Sostenibile”, “Costruiamo il Futuro”).
L’ultima arrivata è “Ricostruire il Paese” del sindaco di Verona Flavio Tosi, leghista in rotta di collisione con Matteo Salvini: tesserarsi costa dieci euro, nell’agenda degli eventi dell’ultimo mese c’è la partecipazione di Tosi a “Un giorno da pecora” e a “Virus”, i comitati locali si chiamano “fari” (accendiamo un faro…) ma sui donatori non c’è illuminazione.
Così come nulla si sa di preciso su “Costruiamo il futuro”, la fondazione del ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi, oggi gettonatissima, perchè il destino degli enti e le loro fortune economiche segue la parabola dei loro promotori.
Vice-presidente è l’ingegnere valtellinese Lino Iemi, legato alla Compagnia delle Opere, immobiliarista con il pallino dei centri commerciali e degli shopping center, edificatore di una controversa città -mercato in Sardegna. Chi meglio di lui, per costruire il futuro?
L’unica associazione che ha messo on line i bilanci dettagliati e l’elenco dei suoi finanziatori è anche la più in voga del momento.
La fondazione “Open”, un tempo chiamata “Big Bang”, organizza gli incontri annuali della stazione Leopolda e fa riferimento diretto al premier Renzi. Tra i donatori ci sono i deputati e i senatori renziani al gran completo, compreso il tesoriere del Pd Bonifazi che ha elargito 12 mila euro.
Ma anche l’ex presidente della Fiat Paolo Fresco (25 mila euro), l’ex presidente della cassa di risparmio di Firenze Jacopo Mazzei (10 mila), il finanziere Davide Serra (125 mila euro) di casa a Palazzo Chigi (era a pranzo da Renzi una settimana fa). Tutto regolare.
Eppure sulla trasparenza resta ancora molto da fare.
In occasione dell’ultima Leopolda Open, con una nota ufficiale, ha fatto sapere che in due anni di vita ha raccolto due milioni in donazioni, e che ogni kermesse costa circa 300 mila euro: il resto è stato speso «in due elezioni primarie, il sito della Fondazione e tantissimi eventi e incontri socio-culturali in tutta Italia», di cui però non si hanno evidenze. Incuriosisce, inoltre, che Renzi da un lato come segretario del Pd partecipi alle cene di auto-finanziamento per il partito e dall’altro promuova una fondazione privata affidata ai suoi fedelissimi.
Ancor più curioso che il board sia composto da sole quattro persone: Maria Elena Boschi, Luca Lotti, Marco Carrai e il presidente Alberto Bianchi. Rispettivamente il ministro delle Riforme, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il più fedele consigliere del premier e l’avvocato di Matteo, presidente di Open nominato a primavera anche membro del cda dell’Enel.
Le fondazioni, dicono gli esperti, saranno la prossima frontiera della politica “all’americana”. In realtà le onlus hanno preso la solita declinazione: all’italiana.
Nella ricerca della Sapienza emerge che a fare da padrone nelle sponsorizzazioni sono i più importanti enti pubblici e le principali banche: Eni, Enel, Finmeccanica, Autostrade, Telecom, Edison, Unicredit, Intesa-SanPaolo, Ferrovie.
Le nove sorelle che fanno girare l’economia italiana. Talmente inserite nel meccanismo che Enrico Letta, da premier, si sentì in dovere di sciogliere la sua associazione VeDrò per non finire stritolato in un circuito di pressioni e di lobbying.
Molti ex VeDrò sono però confluiti tra i renziani della Leopolda: i deputati Ernesto Carbone e Lorenza Bonaccorsi, Simonetta Giordani, passata da Autostrade al governo Letta come sottosegretaria alla Cultura e infine nominata da Renzi nel cda di Ferrovie
Nei prossimi anni, quando il finanziamento pubblico sarà interamente cancellato, i soldi arriveranno da lì. Imprenditori ed enti pubblici che foraggiano fondazioni, guidate da politici che decidono gli aiuti alle aziende e nominano i vertici delle stesse partecipate.
Un bel circuito di interessi, lasciamo perdere il conflitto, roba fuori moda. I think tank sono destinati a evolversi: da struttura personale a disposizione del capocorrente di turno a società di consulenza da cui attingere per personale, risorse, classe dirigente.
Un passo ulteriore verso la destrutturazione della politica.
Perchè dopo la grande torta del finanziamento pubblico, in assenza di trasparenza e certezza su chi versa soldi alle fondazioni, non finiremo in una nuova casa di cristallo, come si auguravano in tanti, ma in un territorio ancora più oscuro. E pericoloso.
Damilano e Fittipaldi
(da “L’Espresso”)
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Dicembre 19th, 2014 Riccardo Fucile
DECINE DI LETTERE VIETANO L’USO DEL SIMBOLO DEL MOVIMENTI A GRUPPO LOCALI CHE AVEVANO SOLO CHIESTO MAGGIORE TRASPARENZA
Gli eletti meritano un posto sul blog, gli attivisti un’anonima lettera dell’avvocato.
Beppe Grillo e Casaleggio sono passati a mietere direttamente la base. Se in principio i cittadini dovevano mandare a casa la casta, ora nel Movimento i ruoli sembrano invertiti ed è la “casta” a mandare a casa i cittadini.
Uno tsunami di espulsioni sta colpendo attivisti e meet up di tutta Italia, dalla Sicilia passando per Roma fino ad arrivare alla Lombardia, vicinissimo al cuore del Movimento: la Casaleggio Associati.
Ed è proprio da qui, tramite lo Studio legale Squassi e Montefusco, che sono partite le decine e decine di mail con la diffida ad utilizzare il logo: “Diffida all’uso del nome Movimento 5 stelle”, si legge.
Gli avvocati indirizzano “in nome e per conte del sig. Giuseppe — detto Beppe — Grillo” la stessa missiva indistintamente a organizer di interi gruppi locali o semplici attivisti.
La motivazione? A libera interpretazione.
Verrebbe da pensare che sia dovuta al fastidio dato a qualche eletto, come il consigliere regionale dell’Ars, Giancarlo Cancelleri, vicinissimo al guru Gianroberto Casaleggio. Debora Borgese, un’attivista di Catania colpita dalla scomunica, aveva infatti depositato una richiesta di remissione di mandato per il gruppo regionale, motivata — spiega l’attivista — da dinamiche poco chiare nell’assunzione dei collaboratori.
Assieme a lei, colpiti da espulsione e diffide decine di attivisti: 3 diffide e 3 espulsioni a Catania; 8 diffidati e 8 espulsi nel Meet Up di Misterbianco; 8 diffidati e 4 espulsi Caltagirone.
Il filo conduttore? Sarà un caso, ma “sono i membri inseriti nel gruppo di coordinamento del blog “prima linea critica” composta da coloro i quali avevano incontrato in via informale gli attivisti di 878 (meet up romano colpito da scomunica), ma di tutto abbiamo parlato men che di M5S o di azioni sovversive atte all’implosione del M5S”.
L’accusa? “Voler organizzare un movimento parallelo. Niente di più falso”.
Stessa sorte per il Mu di Messina, in cui i 14 organizer del gruppo “Messina in Movimento” vengono apostrofati come “sedicenti portavoce degli attivisti del M5s”, e ai quali vengono sbarrati i codici di accesso al portale: “nella stessa giornata abbiamo appurato l’impossibilità da parte nostra di accedere a tutti i siti di riferimento del Movimento: blog nazionale, sito nazionale e sistema operativo”, spiega Maria Cristina Saija, attivista da prima che i 5 stelle nascessero e legata al movimento antimafia Agende Rosse, che assieme al gruppo in questione non ha risparmiato critiche e osservazioni ai vertici. Non a caso è stata la prima sul web a denunciare quanto sta accadendo alla base pentastellata
Anche in questo caso, la cacciata “avviene per motivi a noi oggi ignoti. Nessuna spiegazione è stata fornita”.
La sua indignazione è postata su Facebook: “Se le motivazioni bisogna trovarle nei fatti e non nei dubbi, nelle illazioni, allora guardiamo ai fatti: sono un’attivista classe 2007 (e questo rimango movimento o no) 26.000 preferenze alle Europee, a Messina e provincia sono stata la più votata con 10.000 voti circa. I fatti sono e rimangono importanti per capire. Tutto il resto sono e rimangono illazioni”.
Vicende interne sicuramente, ma di altrettanto certo c’è che non è un caso isolato. Passando dall’altro capo d’Italia infatti, in Lombardia, a denunciare l’ammonimento è un attivista di Arese che addirittura lavora (gratuitamente) per il Gruppo di lavoro Comunicazione “costituito su richiesta dello stesso gruppo regionale oltre un anno fa”, e che si occupa di fornire la piattaforma di invio di email utilizzata per il servizio di newsletter di tutti gli attivisti lombardi. Sergio Clerici, bandito assieme ad altri 6 attivisti, è più sconfortato che arrabbiato: “la delusione e la frustrazione prende molti di noi, che non capiscono perchè farci scrivere da un avvocato, invece di parlarci con trasparenza e correttezza”, che denuncia un approccio ormai “quasi staliniano dei vertici”.
Sembrerebbe sia proprio quello che dalla casa madre detentrice del logo si voglia evitare. Discussione interna e organizzazione territoriale sembrano non essere graditi.
La diffida ha colpito perfino lo storico meet up romano, l’878, contenente ben 601 attivisti tra i più duri e puri: “non ci hanno espulsi uno per uno perchè nel gruppo 878 ci sono molti portavoce e altri organizer di molti gruppi Laziali: se espellono gli iscritti espellono il Lazio”, racconta uno degli iscritti.
Un meet up di fedelissimi, che annovera fra i suoi membri nomi come Alessandro Di Battista, Paola Taverna, Roberta Lombardi.
A denunciarlo è lo stesso organizer, Ernesto Leone Tinazzi: “Conosciamo bene le regole avendo supportato per anni Beppe Grillo e il Movimento, i cui risultati sono stampati oggi in buona evidenza con una diffida legale”, scrive ai componenti del gruppo comunicando la diffida avvenuta il 9 dicembre. “Pertanto chiunque è portatore dei principi del Gruppo 878 si sente espulso dal Movimento per motivi ignoti e a propria insaputa”.
Una lunga scia sismica che ha origini lontane: il primo fu Valentino Tavolazzi, attivista ferrarese reo di aver organizzato già nel 2011, incontri dal nome evocativo — i “Democracy Day” — in cui si parlava proprio di organizzazione interna del Movimento .Altri due casi noti in Emilia-Romagna, terra d’origine per il Movimento di Beppe Grillo, furono Lorenzo Andraghetti e Alessandro Cuppone.
Probabilmente invisi ai fedelissimi locali, per loro nessuna spiegazione ufficiale: esclusione dalla candidatura alle parlamentarie e divieto di accesso al portale, status symbol per eccellenza che determina l’appartenenza al Movimento.
Non serve infine citare il caso più noto: quello dei 4 attivisti saliti sul palco della tre-giorni di ottobre al Circo Massimo, che hanno osato sfidare i vertici chiedendo confronto pubblico al grido di “Occupaypalco”.
In questo strano divorzio, nessuna delle due parti in causa sembra essere disposta a mollare.
Se è vero che l’ondata di espulsioni si sta estendendo con una rapidità impressionante, è altrettanto vero che non si perdono d’animo gli attivisti che ancora si considerano a cinque stelle: “Apprendiamo da alcuni giornali locali che alcuni Meet Up in tutta Italia sono stati diffidati e gli attivisti espulsi dal Movimento 5 Espelle. Per dare la possibilità agli attivisti espulsi o coinvolti in tali avvenimenti poco trasparenti di dire la loro, vorremmo organizzare degli incontri tramite videoconferenze Hangout. Chiunque voglia partecipare ci contatti ”.
Un terremoto che sembra essere solo all’inizio, il cui epicentro è nelle radici del Movimento stesso: la democrazia dal basso.
E su Facebook, organizzato da un “attivista certificato – ci tiene a specificare nella firma – e cosciente del m5s”, spunta l’evento datato, non a caso, il 25 aprile: “Scissione del M5s” . chi vi aderirà e come si arriverà a quella data non è possibile prevederlo. Ma la premessa sembra inequivocabile: “La scissione è necessaria perchè i vertici del M5S continuano a violare i principi più elementari di Democrazia diretta”.
Ilaria Giupponi
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Dicembre 19th, 2014 Riccardo Fucile
IL PREMIER NON RIESCE A OTTENERE LO SCORPORO DAL PATTO DEI COFINANZIAMENTI AI SINGOLI PROGETTI
Via libera dei capi di Stato e di governo dei Paesi Ue riuniti a Bruxelles al piano presentato dal presidente della Commissione Jean-Claude Juncker che crea un nuovo fondo per gli investimenti strategici (Efsi) con lo scopo di mobilitare 315 miliardi di euro nel triennio 2015-2017.
La Ue “prende nota della posizione favorevole” della Commissione nei confronti dello scorporo dal Patto di stabilità degli eventuali contributi nazionali in conto capitale all’Efsi.
Il premier Matteo Renzi, lo definisce un “primo passo, non certo l’ultimo, ma buono”.
Parole che mascherano un mezzo insuccesso, perchè il presidente del Consiglio vede chiudersi il semestre di presidenza italiana senza aver messo a segno uno dei suoi principali obiettivi: la totale esclusione dai parametri del Patto del cofinanziamento nazionale ai singoli progetti finanziati dalla Ue.
Di questo, nel comunicato finale del Consiglio europeo, non c’è traccia. Se ne riparlerà l’anno prossimo.
Per ora, la cancelliera tedesca Angela Merkel ad agitare il moloch dei paletti di bilancio ribadendo che il Patto non si cambia.
Qualcuno, spiega Renzi, voleva addirittura togliere il riferimento alla flessibilità .
Il compromesso finale stabilisce che ci sarà solo nei casi in cui, a causa del contributo al piano, un Paese si ritroverà a violare il Patto.
Se invece lo stava già violando per altri motivi, la Commissione potrà comunque aprire una procedura di infrazione, come le regole prevedono.
I contributi nazionali al fondo previsto dal piano Juncker “devono avvenire nell’ambito delle regole del Patto di stabilità , con la flessibilità prevista”, ha sottolineato Merkel nella conferenza stampa alla conclusione del vertice europeo.
La Bce, per voce di Mario Draghi, “accoglie con favore il piano Juncker” che può “contribuire ad aumentare la fiducia nella zona euro” e può essere “molto efficace” a tre condizioni: attuazione rapida, investimenti con elevato ritorno e opportunità per spingere le riforme strutturali.
L’Italia, in compenso, ottiene il via libera formale da parte del Consiglio europeo alla possibilità di pagare a rate, e solo dal primo settembre 2015, i contributi extra al bilancio Ue dovuti dopo la revisione dei conti degli ultimi anni compiuta da Eurostat.
A beneficiarne sarà in particolar modo la Gran Bretagna, che avrebbe dovuto altrimenti pagare entro lo scorso primo dicembre 2,1 miliardi di euro a Bruxelles.
Ma sulla lista c’è anche Roma, che deve versare 340 milioni aggiuntivi. Germania e Francia al contrario si sono viste scontare i loro contributi rispettivamente di 779 milioni e quasi 1 miliardo.
Per quanto riguarda i dettagli sui progetti che saranno finanziati, la Commissione li presenterà a gennaio e il Consiglio “è chiamato ad approvare entro giugno” la proposta, “in modo che i nuovi investimenti del piano Juncker possano essere attivati al più presto a metà 2015″.
La Banca europea degli investimenti è “invitata a cominciare le attività utilizzando i suoi fondi da gennaio 2015.
Sempre a giugno arriverà il rapporto dei quattro presidenti (Juncker, Draghi, Tusk e Dijsselbloem) su un “coordinamento più stretto delle politiche economiche” della zona euro. “I presidenti riporteranno al più tardi nel vertice di giugno”, scrivono i leader.
Inizialmente il rapporto, che fissa i principi su cui si costruirà il futuro funzionamento dell’Eurozona, era previsto per questo dicembre.
Per l’Italia il vertice degli investimenti è anche l’occasione del confronto tra Renzi e Juncker, dopo il rinvio a marzo della valutazione dei conti pubblici italiani.
In conferenza stampa congiunta, perchè l’ultima del semestre di presidenza italiano, Juncker esprime la “piena fiducia” nel premier Matteo Renzi, “certo che non mi deluderà “.
Il presidente della Commissione spiega quindi che non sorveglia Renzi, che dal governo ha ricevuto una lettera con gli impegni su conti e riforme, che il confronto è in corso e “a marzo vedremo la posizione che prendiamo”.
Nemmeno Renzi si sente sotto esame: “L’esame sarà nel 2018 quando torneremo alle elezioni, con la cadenza di tutti i paesi normali”, spiega, specificando che “siamo sempre sotto esame, e credo che gli esami per i politici siano gli esami più belli”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 19th, 2014 Riccardo Fucile
E RILANCIA LE PRIMARIE
“Caro Presidente, non posso privarmi (e privarti) del piacere e della responsabilità di contribuire (ovviamente senza ruoli e senza nomine, ma attraverso l’iniziativa politica) al rilancio nazionale del centrodestra italiano, dopo gli errori di questi mesi, che rischiano di renderci irrilevanti.
Non intendo iscrivermi nè a Forza Matteo 1 (Renzi) nè a Forza Matteo 2 (Salvini), ognuno dei quali — peraltro — fa benissimo il proprio mestiere.
Siamo noi che non lo facciamo più: il nostro compito è quello di fare tutto il possibile per invertire la rotta e contribuire a dare al nostro centrodestra un futuro e una prospettiva”.
E’ con una lettera che Raffaele Fitto decide di rispondere a Silvio Berlusconi: “Leggo su il Giornale di oggi un virgolettato (tuttora non smentito, e quindi credibile) attribuito a te”.
Il virgolettato parla del pressing di Berlusconi per la candidatura di Fitto in Puglia: “E’ il miglior candidato possibile – avrebbe detto l’ex senatore – è forte sul territorio, ha preso centinaia di migliaia di preferenze alle Europee. Dovrebbe scendere in campo per la Puglia”.
Fitto, nella sua lettera, taglia corto: “la mia ricandidatura in Puglia non c’è e non ci sarà . Dunque, perchè continuare con balletti senza costrutto?”
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 19th, 2014 Riccardo Fucile
SINDACATI ATTACCANO IL GOVERNO CONTRO L’ESUBERO DEI DIPENDENTI: IL SOLITO BIDONE DI RENZI
Sindacati pronti all’occupazione delle Province ad oltranza contro la Legge di Stabilità . Lo annunciano in una nota unitaria i sindacati della P.A. “Oggi la mobilitazione si estende a tutte le Province italiane, e senza un intervento del Governo, un passo indietro su provvedimenti dannosi e insensati, non si fermerà “.
“Chiediamo al Parlamento di evitare il peggio, alle Regioni di fare la loro parte”, proseguono nella nota i segretari generali di Fp-Cgil, Rossana Dettori, di Cisl-Fp, Giovanni Faverin e di Uil-Fpl, Giovanni Torluccio, rilanciando la mobilitazione dei lavoratori delle province “contro il rischio di esuberi per 20 mila lavoratori a tempo indeterminato e del licenziamento per oltre 2 mila precari”
La protesta si estende anche contro i “pesanti tagli previsti in Legge di Stabilità “.
Tagli che per i sindacati “mettono a rischio il funzionamento dei servizi di area vasta, dalla sicurezza scolastica alla tutela ambientale, passando per la viabilità e le politiche attive sul lavoro”.
Insomma, avvertono, “la mobilitazione che è cresciuta in queste settimane oggi raggiungerà il suo apice in tutto il Paese, dopo le prime occupazioni di ieri”.
E assicurano: “Senza un dialogo vero la mobilitazione continua”.
Le sigle del pubblico impiego spiegano di volere “un riordino vero”, ma, aggiungono, “il Governo abbandoni certi toni”.
Sono circa un migliaio i lavoratori delle province liguri che hanno dato vita a un corteo a Genova. I lavoratori, partiti dalla sede della Provincia di Genova, hanno raggiunto la sede della Regione Liguria per chiedere certezze sul loro futuro occupazionale e la permanenza di servizi fondamentali, svolti oggi dagli enti provinciali, come la difesa del suolo, la manutenzione strade, la formazione.
“Tra 10 giorni le province chiuderanno ma, per ora, non sappiamo ancora nulla del nostro futuro – spiegano – chiediamo la solidarietà dei cittadini, lottiamo anche per loro”.
Molti lavoratori portano cartelli con scritto “in scadenza il 31/12/14”.
Secondo i manifestanti oggi è all’esame un emendamento del governo alla legge di stabilità che taglia le spese del personale del 50% per le province e del 30% per le città metropolitane.
Oggi, accusano, tagliano sia le risorse sia le persone fisiche ed è previsto che il governo tenga a Roma gran parte degli introiti che attualmente vengono tenuti sul territorio dalle stesse province.
I lavoratori (a rischio) della provincia di Bologna invadono Palazzo d’Accursio.
Mentre il sindaco e presidente metropolitano Virginio Merola vede parlamentari e sindacati sul caos che minaccia di travolgere ciò che resta dell’ente di palazzo Malvezzi, un centinaio di dipendenti ha già occupato simbolicamente lo scalone dei cavalli da cui si accede alla sede municipale. Il presidio è stato organizzato da cgil, cisl e uil.
Protesta delle rsu della provincia di Perugia prima della conferenza stampa della presidente della Regione, Catiuscia Marini.
Qualche decina di lavoratori con le bandiere dei sindacati ha preso posto all’interno di palazzo Donini, sede della giunta
“Chiediamo un impegno della Regione per farsi promotrice nei confronti del Governo su quanto succede in tutte le Province” ha detto uno dei sindacalisti, Angelo Scatena (Fp-Cgil). “Da domani questo disagio – ha aggiunto – diventerà realtà su scuole e ambiente”.
“Con l’approvazione della Legge di stabilità questo Governo ha deciso di mandare a casa i lavorarori delle Province e di tagliare i servizi ai cittadini”, si legge in una nota delle rsu della Provincia di Perugia.
Prosegue a oltranza l’occupazione di alcuni locali della Provincia di Firenze da parte dei dipendenti, per protesta contro i tagli al personale, che si dicono convinti a portare avanti, se necessario, l’iniziativa in questo fine settimana e anche a Natale. “Stiamo aspettando le 15 perchè è atteso il maxiemendamento alla legge di stabilità e vedremo se ci saranno aspetti positivi che ci riguardano – ha spiegato Giuseppe Aloi della Rsu – altrimenti siamo pronti a continuare la protesta. Il fine settimana è quasi assicurato e se necessario anche a Natale”.
Proteste a tappeto anche a Palermo e non solo, con pesanti ripercussioni sul traffico.
Dalle province alle piccole imprese, sino agli studenti.
Sotto accusa la paralisi alla Regione, a causa soprattutto dello stallo sul bilancio gravato da una voragine finanziaria di oltre 3,5 miliardi di euro.
È così scattato il sit-in dei dipendenti delle ex province in tutta la Sicilia presso le sedi di appartenenza. Aderendo alla mobilitazione lanciata dai segretari nazionali di categoria, le segreterie regionali di Fp Cgil, Cisl Fp, Uil Fpl, hanno indetto assemblee per manifestare contro la politica del governo nazionale.
(da “Huffingtonpost“)
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Dicembre 19th, 2014 Riccardo Fucile
FITTO RIUNISCE I SUOI, D’ALEMA ALLA CAMERA E I 30 SENATORI PD
Sotto l’accordo, le trappole.
Raffaele Fitto, nel pomeriggio, piomba a Montecitorio direttamente da Bruxelles. Ci sono tutte le sue truppe ad aspettarlo per la più classica della riunione di corrente.
Una quarantina tra parlamentari e senatori destinati ad aumentare, quando sarà , nel segreto dell’urna.
Il discorso ai suoi pare un summa del manuale del perfetto vietcong: “È positiva la novità che c’è una clausola di salvaguardia, nel senso che la legge elettorale entrerà in vigore nel 2016, ma bisogna discutere su tutti gli altri punti di merito”.
Già , il merito. Perchè non solo la legge elettorale è un provvedimento cruciale in sè, ma è evidente che proprio la road map concordata da Renzi e Berlusconi con la benedizione del Colle lo rende la prova generale della battaglia campale sul Quirinale. E davvero nulla è scontato: “Noi — prosegue Fitto — non siamo in grado di scegliere un capo dello Stato, ma certo di determinare il corso degli eventi”.
Poco distante in linea d’aria, molto vicino nella condivisione dell’obiettivo, alla buvette compare Massimo D’Alema.
Sorseggia un caffè circondato da parlamentari della minoranza. Occhi di brace, ha la mimica delle grandi occasioni.
Nico Stumpo e altri, dopo un’oretta col leader maximo, fanno un salto alla mostra di Palmiro Togliatti, al primo piano.
Avanza, neanche tanto nell’ombra, il partito trasversale degli oppositori al Nazareno. Con l’obiettivo di impedire che al Quirinale vada uno “accomodante” per Renzi e Berlusconi.
Pare già che i due abbiamo mietuto la prima vittima, che poi era la prima scelta del presidente uscente, ovvero Giuliano Amato.
Il premier lo ha sempre considerato troppo ingombrante, Berlusconi, nel nominarlo in un’intervista, lo ha bruciato.
Un mese è lungo, lunghissimo, ed è chiaro che i Papi di oggi saranno cardinali prima ancora che si aprano le urne.
Ma è anche chiaro che, fissato il calendario e trovato l’accordo sulla legge elettorale, Berlusconi e Renzi sono già entrati in un’altra fase.
Quella del metodo. L’ex premier vorrebbe una rosa dal segretario del Pd tra cui scegliere, o un confronto di rose.
Matteo pare poco incline. E fa parte di questa fase proprio la tenuta delle truppe.
Una preoccupazione granitica come il Patto tra i due, se è vero che Renzi ha chiesto a Lotti di “incontrare uno per uno” i parlamentari per comporre il gruppo: dai big a quelli delusi pure per le ospitate televisive che, nel segreto dell’urna, potrebbero trasformarsi in franchi tiratori.
Ed è la stessa regola di ingaggio che ha ricevuto Denis Verdini, parlando con Silvio Berlusconi: “Dobbiamo finirla con questo pollaio, qui ognuno dice e fa quello che vuole”.
Ecco, sotto l’accordone al vertice c’è un mondo non totalmente controllabile.
Miguel Gotor, la vede così: “Questa non è una partita a poker, ma una pattinata sul ghiaccio. È dinamica non statica”.
Il ghiaccio ha due strati: la legge elettorale che sarà votata a gennaio prima del capo dello Stato, su cui daranno battaglia i 30 senatori del Pd al Senato, e il Colle.
E l’idea dei contrari al Nazareno è far scivolare Renzi al primo strato per indurlo a miti consigli sul secondo.
Altrimenti, al secondo rischia di far male davvero. Per questo, al netto dei tempi, l’esame della legge elettorale in Aula non sarà affatto facile: “Il merito — prosegue Gotor – è importante, stiamo organizzando la democrazia italiana per i prossimi anni. E il tema dei capolista bloccati resta centrale perchè, con la riforma del Senato di secondo livello, non puoi avere una camera col 60 per cento dei nominati”.
Una posizione su cui il premier è stato già avvisato: “Al gruppo con Renzi — dice Federico Fornaro — è stato ribadito in più interventi che il sistema dei capilista bloccati non va bene perchè la nuova Camera sarebbe per metà composta dai nominati”.
E il punto non è un dettaglio. Perchè è uno dei punti cardine dell’accordo con Berlusconi. Il quale considera un dogma la possibilità di nominare i parlamentari.
E fin qui la fronda è alla luce del sole e riguarda la legge elettorale.
Sul Quirinale il dissenso aumenta, in virtù del voto segreto e del fatto che vanno conteggiati i deputati, e non solo i senatori.
La mappa (del dissenso) quantificabile al momento porta a un’ottantina di parlamentari: “I dalemia-bersaniani ortodossi sono 25, poi una decina controllati da Fioroni, dieci da Civati, venti dell’ala Cgil”.
A questi ne vanno aggiunti un’altra ventina, determinata dal malessere documentato del Fatto: “Parlamentari che vogliono la riconferma o che si lamentano di essere stati emarginati dal territorio, aspiranti sottosegretari rimasti fuori dal governo, semplici deputati condannati all’anonimato”.
Quelli, in sostanza, che Matteo Renzi, fiutata l’aria, ha affidato alle cure del suo braccio destro Luca Lotti.
La condizione per la tregua degli oppositori al Nazareno è una sola, confessata a microfoni spenti: “Impedire che sia eletto un cameriere del patto del Nazareno, scelto da Renzi e Berlusconi”.
Tra i non camerieri piace Giuliano Amato. Ma non è l’unico: “Difficile — dice Gotor – eguagliare Napolitano ma dobbiamo muoverci su quel livello, nell’interesse della Repubblica”.
Con una aggiunta, che non è un dettaglio. Fino a ieri, Renzi per ricondurre all’ordine le truppe poteva brandire l’arma del voto anticipato.
Con questo accordo sulla legge elettorale è un arma che non c’è più.
Paradossalmente, grazie a Berlusconi che ha ottenuto la clausola di salvaguardia.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 19th, 2014 Riccardo Fucile
56 MILIONI TRA CAMPAGNA DI COMUNICAZIONE PER RISOLLEVARE IMMAGINE E SOSTEGNO ALLE AZIENDE LOCALI, SOLO 42 PER LE BONIFICHE
Quando l’immagine del malato è più importante della sua guarigione.
La Regione Campania guidata dall’azzurro Stefano Caldoro, attraverso la partecipata Campania Sviluppo, ha stanziato 23 milioni di euro per una campagna di comunicazione che risollevi l’immagine dei prodotti agricoli della Terra dei Fuochi, il perimetro di territorio inquinato da decenni di interramenti tossici e dalla pratica criminale dei roghi abusivi di rifiuti.
Altri 33 milioni sono destinati al sostegno economico delle aziende agricole locali.
Il totale è 56 milioni di euro. Circa 14 milioni in più dei 42 stanziati per le bonifiche delle discariche e dei siti inquinati, a cominciare dalla “bomba ecologica” della Resit di Giugliano.
Tra i fondi per le campagne promozionali (tra i quali spiccano 2 milioni di euro per il rilancio del logotipo Campania Sicura), sbucano anche 4 milioni e mezzo di euro da drenare nelle casse delle società sportive campane.
La fetta più grande della torta, circa 3 milioni e mezzo, andrà al Napoli calcio, la spa presieduta da Aurelio De Laurentiis.
Ma sono previsti finanziamenti a pioggia, anche di poche decine di migliaia di euro, per decine di squadre di calcio, di basket, pallanuoto e rugby.
L’assessore regionale all’Ambiente Giovanni Romano prova a spiegare così il senso dell’operazione in un’intervista a Il Mattino: “Affidarsi alle società sportive che giocano su tutto il territorio nazionale rientra in una strategia che ha come obiettivo la promozione del Made in Campania in vista dell’Expo 2015 che è finalizzata proprio al cibo”.
Peccato però, come sottolinea il giornalista Paolo Mainiero, che le risorse siano state dirottate anche su squadre di calcio che giocano in Eccellenza e non escono dal territorio campano.
Il comunicato diffuso dall’ufficio stampa della giunta regionale a nome di Sviluppo Campania precisa che “la campagna di comunicazione per la tutela dei prodotti che vede protagoniste le società sportive pesa 4,5 milioni di euro ed è parte, la meno consistente visti i numeri, di una molto più ampia strategia di contrasto alla crisi economica del valore di 150 milioni di euro e di uno specifico piano di azione per supportare i produttori dei settori agricolo e agro-alimentare della Campania del valore di 65 milioni di euro.”
“Il supporto che la Regione Campania ha immaginato di dare ai produttori agricoli e di prodotti agroalimentari del nostro territorio è doverosamente concentrato sugli aspetti essenziali del problema che li ha afflitti: un inesatto e ingeneroso demarketing e che va sotto il nome di Terra dei Fuochi”.
“Abbiamo previsto — fanno sapere da Sviluppo Campania — 10 milioni di servizi reali di affiancamento alle imprese per l’internazionalizzazione e per investimenti nella promozione dei propri prodotti; 15 milioni di contributi per sviluppare in proprio azioni di certificazione e rilancio commerciale dei propri prodotti; 18 milioni di contributi per analizzare i terreni (in collaborazione con l’istituto zooprofilattico) e per investire in sistemi tecnologici di tracciabilità dei prodotti. Tutto per un totale di interventi a favore delle imprese per 43 milioni”.
Sullo sfondo, la questione delle bonifiche.
Il ministero dell’Ambiente aveva stanziato 49 milioni di euro, ma 13 sono stati dirottati alla copertura dei contenziosi dell’ex commissariato per l’emergenza rifiuti. Al commissario straordinario per la bonifica della Resit, l’ex sindaco Ds di Salerno Mario De Biase, restano 36 milioni.
Ed il compito di arduo di farseli bastare.
Vincenzo Iurillo
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 19th, 2014 Riccardo Fucile
RISTRUTTURAZIONE DUBBIA: INDAGANO I PM
«Il Cantico è un paradiso di eleganza, calore e benessere, in armonia con un ambiente salubre e sereno», recita il sito web che magnifica il «benessere totale della persona» e l’esperienza del dormire in quell’albergo come «solo uno dei piacevoli dettagli».
«Il Cantico» però non è quello delle creature, composto da san Francesco, che dormiva appoggiato a un sasso.
E anche se i contenitori dei bagnoschiuma nei bagni portano incisa la preghiera del poverello di Assisi, è stato proprio quest’albergo, con vista sulla Cupola di San Pietro, a trascinare alla bancarotta l’Ordine dei frati minori.
«Una grave situazione di difficoltà finanziaria» della Curia generale è stata infatti denunciata, in una lettera choc a tutti i frati dell’Ordine, dal ministro generale, l’americano padre Michael Perry in seguito a un’indagine interna condotta a partire da settembre, che ha fatto emergere operazioni «dubbie», condotte dall’Economato.
Sotto accusa l’intervento di acquisizione e ristrutturazione dell’hotel.
L’ex economo generale, padre Giancarlo Lati, che gestiva direttamente l’albergo «Il Cantico» si è già dimesso dall’ incarico e da quello di Rappresentante legale dell’Ordine, ufficialmente per motivi di salute.
Ma intanto, padre Perry ha anche puntato il dito contro «il ruolo significativo che alcune persone esterne, che non sono membri dell’Ordine, hanno avuto nella faccenda».
Si sente insomma odore di maxitruffa operata anche da laici in questo «buco» di svariati milioni.
È emerso anche, ha spiegato il superiore, che «i sistemi di vigilanza e di controllo finanziario della gestione del patrimonio dell’Ordine erano o troppo deboli oppure compromessi, con l’inevitabile conseguenza della loro mancanza di efficacia rispetto alla salvaguardia di una gestione responsabile e trasparente».
Inoltre «sembrano esserci state un certo numero di dubbie operazioni finanziarie, condotte da frati cui era stata affidata la cura del patrimonio dell’Ordine, senza la piena conoscenza e il consenso» del Definitorio generale, l’organismo collegiale che guida l’Ordine.
L’allarme è evidente. Per il superiore, «la portata e la rilevanza di queste operazioni hanno messo in grave pericolo la stabilità finanziaria della Curia generale».
Per questi motivi, annuncia padre Perry, il Definitorio generale, «all’unanimità ha deciso di chiedere l’intervento delle autorità civili, affinchè esse possano far luce in questa faccenda».
Insomma è già partita la denuncia alla Procura di Roma. E infine padre Perry richiama come incoraggiamento l’esempio offerto da «Papa Francesco nel suo appello alla verità e alla trasparenza nelle attività finanziarie, sia nella Chiesa che nelle società umane».
M.Antonietta Calabrò
(da “il Corriere della Sera”)
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Dicembre 19th, 2014 Riccardo Fucile
GIUSTIFICO’ IL CAMBIO DELLA GUARDIA CON LA NECESSITA’ DI DARE UNO SPRINT ALLE RIFORME, E’ STATO PEGGIO DI LETTA
Il 19 dicembre il governo di Matteo Renzi compie 300 giorni di vita, eguagliando la durata del precedente esecutivo guidato da Enrico Letta.
A febbraio il neoeletto segretario del Partito Democratico giustificò il cambio della guardia a Palazzo Chigi con la necessità di dare uno sprint alle riforme e far ripartire l’Italia.
Come sta il Paese a trecento giorni da quel 22 febbraio, giorno del giuramento della squadra di ministri guidata dall’ex sindaco di Firenze?
IlFattoQuotidiano.it ha messo a confronto i risultati ottenuti dai due governi, prendendo a riferimento da un lato gli indicatori economici dei rispettivi periodi, per capire se lo stato di salute del Paese è migliorata o meno, e dall’altro analizzando la produttività di Consiglio di ministri e Parlamento sotto i due premier per fare un punto sull’avanzamento delle riforme.
Ecco cosa è emerso.
Rapporto Debito/Pil peggiorato con Renzi
E’ chiaro che, bene o male che vada, l’andamento del quadro economico non potrà essere addebitato per intero all’attuale capo del governo.
Ma se i principali indicatori-chiave sono peggiorati, non si potrà essere smentiti nell’indicare al paziente che le promesse di pronta guarigione del medico erano quantomeno ottimistiche.
Partiamo dal parametro Debito-Pil, indicatore rilevante non solo della salute dei conti ma della distanza dall’Europa rispetto agli impegni presi, dai parametri di Maastricht al Fiscal Compact.
La media dei Paesi dell’Unione è oggi intorno al 93,8%.
Quello dell’Italia ha sfondato quota 132,8%.
E a quanto era con Letta? Al 127,9%, media 2013 secondo Istat ed Eurostat, mentre la media Ue era del 92,6%.
Quindi se con Letta i punti di distanza dal parametro europeo erano 36, con Renzi l’Italia toccano quota 40: un aumento di 4 punti.
Se poi si considera che il Pil Ue è cresciuto e quello italiano — che pure sul finire del 2013 aveva registrato una timida stabilizzazione — no, il dato è negativo per l’ex sindaco di Firenze, uno dei peggiori degli ultimi lustri.
Industria, con Letta si produceva di più
Non meglio sono andate le cose sotto il profilo della produzione industriale.
Lo scorso gennaio, ultimo mese dell’era Letta, il dato aveva registrato un 1% tondo di crescita, meglio della media Ue a 18 che era stata negativa dell’1,1 per cento.
Con Renzi rispetto a Letta l’Italia fa un passo indietro di un punto, abbastanza da passare dalla fase positiva a quella negativa.
Imprese in crisi, 300 giorni di promesse e scarsi risultati
Non aiutano certo le grandi crisi industriali identificate dal premier con le tre T, quelle di Terni, Taranto e Termini Imerese.
Dove la prima si è chiusa da poco con un accordo seguito a una durissima trattativa, mentre le altre due languono irrisolte dopo quattro governi che si sono dimostrati incapaci di gestirle.
Anche qui la svolta renziana, complice la scelta di un ministro dello Sviluppo economico incolore, non si è vista. Anzi.
Nel caso dell’impianto siciliano della Fiat, il premier è riuscito anche a metterci la faccia quando la scorsa estate è andato di persona a rassicurare gli operai di Termini annunciando un fantomatico investitore cinese che non si è mai palesato.
Chi si è fatto avanti, invece, è stato il gruppo di “avventurieri” della Grifa al quale il dicastero di Federica Guidi, con la sigla di un preaccordo, aveva socchiuso l’accesso a 250 milioni di euro pubblici.
Salvo poi scoprire dai giornali che gli aspiranti produttori di auto ibride non avevano un soldo in tasca.
Non va affatto meglio a Taranto, dove la svolta renziana doveva passare per la riesumazione di un instancabile boiardo di Stato di 72 anni, Piero Gnudi.
Una scelta che lo stesso Renzi deve aver finito col rimpiangere, visto che in queste ore si parla sempre più insistentemente della nomina a breve di un nuovo commissario dell’Ilva a soli sei mesi dalla staffetta Bondi-Gnudi.
Cambio di testimone che, se i piani anticipati trapelati saranno confermati, ufficializzerà anche il fallimento del processo di vendita del gruppo dell’acciaio che occupa 11mila persone oltre all’indotto.
Toccherà quindi allo Stato farsi carico — secondo Repubblica al 49% accanto al tandem Mittal-Marcegaglia al 51% — di buona parte del problema che include 1,8 miliardi di bonifiche da fare, 35 miliardi di richieste per danni ambientali e debiti per quasi 2 miliardi.
Disoccupati, con Renzi 156mila in più
A fine febbraio, quando Letta lascia, i disoccupati in Italia erano 22 milioni e 259mila, sostanzialmente invariati rispetto al mese prima.
Il tasso pari al 12,9%.
Dopo otto mesi di “cura” Renzi la disoccupazione non solo non scende, ma addirittura sale.
L’ultimo dato è di ottobre e parla di un tasso record al 13,2%: i senza lavoro sono in pratica saliti in un anno da 3,124 a 3,410 milioni.
L’aumento è di ben 286mila persone, 130mila nei 4 mesi del governo Letta, e 156mila negli 8 mesi del governo Renzi.
Che significa poi, in soldoni, non solo più povertà e più spesa sociale ma anche un ulteriore “scollamento” nella competitività sullo scacchiere internazionale: la distanza dal parametro comunitario (12%) si fa ancora più marcata.
Anche l’occupazione è stata al centro di annunci, subito controversi, che ora si possono verificare.
A fine novembre Renzi aveva indicato un aumento del numero assoluto​ ​di occupati, invitando a guardare il bicchiere mezzo pieno oltre al dato preoccupante della disoccupazione.
“Il tasso di disoccupazione ci preoccupa, ma guardando i numeri il dato di occupati sta crescendo. Da quando ci siamo noi ​ci ​sono più di 100 mila posti di lavoro in più”. A stretto giro però fu smentito da sindacati, giornalisti ed esperti di politiche del lavoro.
Renzi aveva preso come termine temporale non l’intero periodo in cui ha governato (dal 22 febbraio in poi) ma il dato da​ aprile​ (uno dei dati più bassi dell’anno) e quello di settembre (il più alto)​​.
Ebbene​ rifacendo i conti includendo​ però tutti i mesi ​- ​a partire da marzo, ​il ​primo in cui il premier è stato stabilmente in carica e fino a ottobre compreso ​-​​ il bilancio dei nuovi posti di lavoro risultava addirittura negativo: -31 mila posti di lavoro.Quando Letta lascia il governo il tasso di disoccupazione era al 12,9%: dopo otto mesi di “cura” Renzi ha raggiunto quota 13,2%
Riforme, 144 i testi di legge di Letta contro i 119 di Renzi
Il ritornello dura da quasi un anno: da quel “sulle riforme gli ultimi dieci mesi sono un elenco di fallimenti” enunciato il 16 gennaio nella prima direzione del Pd sotto la sua guida, Renzi imputa sistematicamente a Letta la lentezza e la scarsa prolificità della sua azione di governo.
Ma cosa dice il tabellone, ora che la corsa tra i due premier misura gli stessi metri? Che lo scalpitante Renzi è battuto nell’iniziativa legislativa dal compassato Letta che lo stacca di oltre 25 misure.
In dieci mesi il governo Renzi ha emanato 119 provvedimenti legislativi contro i 144 di Letta.
Il dato quantitativo, va detto, non è di per sè indice del valore dei provvedimenti. Si potrebbe obiettare che c’è legge e legge, che le misure in eccesso siano magari disposizioni secondarie ma non è così: al netto di disegni di legge talvolta considerati impegni di poco conto, come le ratifiche di accordi internazionali (40 by Letta, 35 by Renzi), il differenziale tra i due governi resta marcato.
E gli effetti degli annunci renziani non si sono visti: la legge elettorale riposa sotto 17mila emendamenti; la riforma costituzionale, bandiera dell’esecutivo Renzi e pretesto per il defenestramento del predecessore, langue in Parlamento ostaggio delle turbolenze interne al patto del Nazareno; il nuovo Senato è fermo al palo; il Jobs Act è diventato legge solo il 16 dicembre e mancano i decreti attuativi: la prima tranche è stata annunciata in zona Cesarini per la vigilia di Natale.
Fiducie, vince Renzi 32 a 13
Diverso anche il rapporto con il Parlamento.
Dopo 600 giorni l’esecutivo Letta ha all’attivo 52 provvedimenti divenuti effettivamente legge. Renzi, nei suoi 300 giorni, è fermo a quota 22. Questione di tempo, ma non solo.
L’ufficio legislativo della Camera ha misurato per IlFattoQuotidiano.it alcuni indicatori statistici rilevanti come la propensione al ricorso alla fiducia per far passare progetti di legge più o meno ordinari, che è sempre segnale di debolezza di un esecutivo.
Nei suoi 10 mesi Letta ne ha fatto ricorso 13 volte, Renzi 32 volte, quasi il triplo.
Fondi pubblici ai partiti, la riforma dimenticata
Il differenziale resta marcato anche in tema di iniziativa legislativa. Ma dove sono poi andate a finire le rispettive leggi?
Il bonus da 80 euro se lo ricordano tutti, perfino chi non l’ha mai visto. Alzi la mano, invece, chi ricorda al volo una qualsiasi riforma di Enrico Letta. Zero di zero, il vuoto. Eppure l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti — la riforma che ogni anno lascia 60 milioni di euro nelle tasche degli italiani e cambia alla radice il modo di fare politica — porta la sua firma.
Così come l’avvio dei piani straordinari per il rilancio dell’edilizia scolastica e il pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione, che poi Renzi ha raccolto e portato avanti.
Ma nessuno ricorda che erano farina del sacco altrui. Merito della maggiore enfasi posta sulla comunicazione dall’esecutivo Renzi, abile nell’ascrivere tra i propri meriti la paternità di provvedimenti varati dal precedente.
Debiti Pa, Letta ha stanziato 47 miliardi sui 56 a disposizione
In primavera Renzi, ospite di Porta a Porta, aveva promesso il pagamento di tutte le pendenze della Pa verso le imprese entro il 21 settembre, giorno di San Matteo: “Altrimenti — gigioneggiava il 13 marzo con Bruno Vespa — lei va in pellegrinaggio a piedi da Firenze a Monte Senario”.
Al 31 dicembre 2013 i crediti certi valevano 56,8 miliardi. La scommessa, si sa, è persa ma non è questo il punto.
Chi ha fatto di più per sciogliere il cappio che strozza le imprese?
A dare avvio all’operazione straordinaria di restituzione è stato Letta: con il Dl 35/2013 ha messo a disposizione 40 miliardi per i debiti esigibili al 31 dicembre 2012, con il Dl 102/2013 ha incrementato il fondo di altri 7,2. Renzi, invece, del suo ci ha messo ben poco: nella Legge di Stabilità 2014 ha aggiunto 0,5 miliardi e nel decreto 66/2014 altri 8,8. In totale siamo a 47,2 contro 9,3.
Il premier ha però il merito di aver facilitato lo sblocco degli stanziamenti, anche se la procedura burocratica a carico delle imprese rimane farraginosa.
Per questo il problema al momento è tutt’altro che risolto: secondo l’ultimo aggiornamento disponibile, datato 30 ottobre 2014, i debiti effettivamente pagati sono fermi a 32,5 miliardi a fronte dei 56,2 miliardi stanziati, a copertura grossomodo al 58% dei crediti. Quasi uno su due, in sostanza, manca all’appello.
Edilizia scolastica, i fondi risalgono al 2013
Idem per l’edilizia scolastica. Chi ci ha messo di più?
Con i decreti legge 69 e 104 del 2013 il governo Letta ha stanziato 1,7 miliardi per la costruzione, la riqualificazione e la messa in sicurezza degli edifici.
A beneficiare della fatica è poi stato Renzi che ha dato corso all’attuazione dei primi interventi personalizzando l’operazione con vari hashtag: #scuolebelle, #scuolesicure, #scuolenuove.
Ma i soldi, alla fine, sempre quelli sono. Anche se l’ex sindaco di Firenze ne aveva annunciati il doppio: “Un piano per le scuole — 3,5 miliardi — unità di missione — per rendere la scuole più sicure e rilanciare l’edilizia”, si leggeva nella slide numero 20 con cui il neopremier aveva condito la conferenza stampa del 12 marzo a Palazzo Chigi.
Leggi, con Renzi tempi più lunghi
Altro dato significativo è la dilatazione dei tempi tra la deliberazione delle misure e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, indice di volta in volta di una difficoltà sul fronte della stesura delle leggi stesse, del reperimento delle relative coperture o nel rapporto col Quirinale che le deve controfirmare.
Facendo di conto, si scopre ad esempio che i tempi medi tra esecutivo Letta e Renzi si sono dilatati significativamente, perfino con le misure d’urgenza. Tra emissione e pubblicazione dei provvedimenti l’esecutivo Letta impiegava mediamente 5 giorni, con Renzi 9.
Tanto che l’urgenza di alcune misure viene in parte smentita dal calendario: il record di Letta è di 15 giorni con la legge n. 149 che ha abolito il finanziamento pubblico ai partiti, quello di Renzi è il dl. 74/2014 contenente Misure urgenti in favore delle popolazioni dell’Emilia-Romagna colpite dal sisma che impiegherà 24 giorni per passare dalla deliberazione in Consiglio dei Ministri alla pubblicazione in Gazzetta. Quasi un mese, alla faccia dell’urgenza.
Decreti attuativi, Renzi li taglia, ma ne produce di nuovi
Il tallone d’Achille di ogni governo è la montagna di decreti delegati e regolamenti attuativi che sono demandati ai singoli ministeri e che arrivano in ritardo — anche di anni — rispetto alla misura cui fanno riferimento.
Senza, la legge è carta straccia. Renzi aveva preso di petto la questione. Informato che lo attendeva una montagna di 889 provvedimenti da attuare, ereditata dai governi Monti e Letta, aveva sbottato così: “E’ inutile fare leggi se non si applicano, è allucinante”.
Seguiva l’annuncio di una terapia d’urto per dare certezza alle misure: limite di 60 giorni per l’approvazione, principio del silenzio assenso tra amministrazioni, potere sostitutivo della Dpcm in caso di ritardo.
Ma l’impalcatura è crollata, alcuni pezzi sono stati imballati e spediti alla legge delega di riforma della Pa. Tempi lunghi, insomma.
Il governo Renzi ha ridotto della metà lo stock di quelli ereditati (ne restano 410), ma nel frattempo il fardello dei decreti inattuati ha continuato a crescere per effetto delle sue stesse leggi.
Se Letta ha lasciato 415 decreti da adottare, in riferimento a 110 provvedimenti non conclusi, Renzi ne ha aggiunti 274 riferiti a 33 provvedimenti pubblicati in Gazzetta Ufficiale (16 sono auto attuativi).
Ancora mancano 5 decreti alla legge che aboliva le Province (L. 56/2014) pubblicata in Gazzetta ad aprile, nove mesi fa. E giù cascata tutte le altre.
Un esempio? Nel 2012 è stata approvata la legge che ha introdotto l’Agenda Digitale, che dovrebbe agganciare 1,7 miliardi di fondi europei.
Da allora sono stati approvati solo 18 dei 53 provvedimenti attuativi che la renderebbero operativa. Insomma, neppure lui ha davvero invertito o fermato la tendenza dilatoria delle burocrazie ministeriali. Il punto è che se n’è accorta pure l’Europa: gli annunci di riforme non coincidono con la realtà .
L’11 novembre scorso la Commissione Ue ha inviato all’Italia il suo rapporto sugli squilibri macroeconomici e ha rilevato “incertezze” sulle misure indicate dal governo Renzi nell’aggiornamento del Def (Documento di economia e finanza): troppe, dice la Commissione, quelle che “aspettano la piena approvazione o i decreti attuativi e quindi i risultati restano incerti”.
La Commissione Ue: troppe le misure indicate dal governo Renzi nell’aggiornamento del Def che aspettano la piena approvazione o i decreti attuativi
Sondaggi, fiducia in picchiata per l’ex sindaco
In ultimo, va rilevato, pare se ne siano accorti pure gli italiani. Secondo diversi studi e sondaggi la fiducia verso Renzi, dopo 300 giorni, è in picchiata.
Nella rilevazione settimanale per DiMartedì su La7, l’Ipsos di Nando Pagnoncelli quota il Pd al 35,1%.
Anche per l’istituto Piepoli, nel sondaggio realizzato per l’Ansa, non è un bel periodo per i dem, che in una settimana perdono un punto e calano al 37%. Un po’ meglio va secondo Lorien Consulting (39% nell’ultima rilevazione effettuata per Italia Oggi), che vede al ribasso la fiducia nel premier: al momento del passaggio della campanella, il governo Letta aveva un indice di fiducia del 47%, spiega Lorien: oggi il governo dell’ex sindaco di Firenze è al 46%.
Una parabola discendente fotografata dall’illuminante tweet di Pagnoncelli sull’opinione che gli italiani hanno del premier: “Trend giudizi positivi su Matteo Renzi: oggi 49%; novembre 49%; ottobre 54%; settembre 61%; giugno 70%; marzo 64%”. Stesso discorso per la rilevazione Ixè per Agorà : a ottobre la fiducia nel premier veleggiava ancora sopra il 50%. Due mesi dopo il suo gradimento precipita al 40%.
Comunque sia il tempo che porta i nodi al pettine, a sorpresa, si rivela tiranno con Renzi e galantuomo con Letta.
Thomas Mackinson
(da “il Fatto Quotidiano“)
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