Dicembre 21st, 2014 Riccardo Fucile
I TECNICI DELLA CAMERA AVVISANO: “IL BENEFICIO E’ LIMITATO A SPECIFICHE CATEGORIE DI CONTRIBUENTI”.. E IL FONDO DA CUI ATTINGERE 310 DEI 535 MILIONI DA VERSARE ALLE POSTE E’ VUOTO
Il credito d’imposta Irap per i lavoratori autonomi senza dipendenti e il versamento di 535 milioni di euro a Poste italiane da parte dello Stato finiscono nel mirino del servizio Bilancio della Camera, che ha esaminato il testo del maxiemendamento del governo sostitutivo della legge di Stabilità rilevando più di un problema.
Innanzitutto, scrivono i tecnici, la concessione di un credito del 10% sull’Irap ad artigiani, autonomi e in generale società senza dipendenti, per compensarli dell’aumento retroattivo dell’aliquota che in precedenza era stata “limata”, potrebbe costare all’Italia l’apertura di una procedura d’infrazione da parte di Bruxelles. “Andrebbe acquisita la valutazione del governo circa la compatibilità con la normativa europea”, si legge nel documento, “al fine di evitare eventuali procedure di infrazione, tenuto conto che il beneficio è limitato a specifiche categorie di contribuenti”.
Il bonus, inoltre, potrebbe ”determinare effetti connessi a possibili comportamenti elusivi (lavoro sommerso) adottati al fine di fruire” del credito d’imposta.
Quanto al credito vantato da Poste sulla base di una sentenza del Tribunale dell’Unione europea, c’è un grosso problema di coperture.
Nel “Fondo per assicurare la liquidità dei pagamenti dei debiti certi, liquidi ed esigibili”, da cui il governo contava di attingere 310 dei 535 milioni di euro necessari, ci sono infatti solo 22 milioni.
Inoltre, sottolineano i tecnici, appare “opportuno” che il governo confermi che, ”trattandosi di somme destinate all’estinzione dei debiti dei Ministeri, il loro utilizzo per finalità difformi da quelle originariamente previste non possa determinare l’insorgere di ulteriori debiti futuri”.
Nel frattempo la manovra, su cui il Senato ha votato la fiducia venerdì notte, è tornata in commissione Bilancio alla Camera, dove sono stati presentati 130 emendamenti 50 dei quali sono stati però dichiarati inammissibili dal presidente Francesco Boccia.
Si tratta di proposte di modifca arrivate da M5s, Fi e Sel.
Al termine dell’esame delle 80 proposte restanti (improbabile che passino perchè costringerebbero il parlamento ad una quarta lettura) la manovra è attesa in aula alla Camera dove inizierà la discussione generale.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Dicembre 21st, 2014 Riccardo Fucile
NESSUN CRITERIO NEL MAXIEMENDAMENTO, PIANO COTTARELLI RESTATO LETTERA MORTA
Altro che “da 8mila a mille”.
Il disboscamento delle società partecipate da enti locali e altri soggetti pubblici, già escluso all’ultimo minuto dal decreto Sblocca Italia con l’assicurazione che sarebbe entrato nella legge di Stabilità , dovrà aspettare ancora.
Le promesse fatte da Matteo Renzi lo scorso aprile e ribadite in settembre vengono ancora una volta disattese.
Così come resta sulla carta il dettagliato programma di razionalizzazione presentato il 7 agosto dall’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli, che spiegava come l’universo delle partecipate costi alle casse pubbliche 1,2 miliardi di perdite l’anno senza contare quelle “non palesi, finanziate da contratti di servizio e trasferimenti in conto corrente e conto capitale”.
E prefigurava, a regime, possibili risparmi per almeno 2 miliardi di euro (salvo sentirsi replicare che il governo avrebbe fatto da sè).
Infatti nella versione finale della manovra, su cui il Senato ha espresso voto di fiducia nella notte tra il 19 e il 20 dicembre, le disposizioni per favorire le fusioni tra aziende di servizi pubblici locali e “incoraggiare” gli amministratori pubblici a chiudere quelle inutili sono a dir poco blande.
Perchè non fissano alcun criterio oggettivo per individuare le società da sopprimere e non prevedono alcuna penalità per i dirigenti inadempienti.
Ovvero due pilastri fondamentali della strategia messa a punto da Cottarelli, secondo il quale era indispensabile chiudere le società senza dipendenti e quelle con fatturato inferiore a 100mila euro (“scatole vuote”, le definiva il suo piano) e introdurre “un sistema credibile di sanzioni sia sull’ente partecipante che sugli amministratori delle partecipate”.
A poco vale, dunque, il fatto che il maxiemendamento del governo abbia aggiunto diverse indicazioni che non comparivano nel ddl varato dal consiglio dei ministri in ottobre, dai riferimenti alle partecipazioni di Camere di commercio, università e autorità portuali alla tempistica per la presentazione dei piani di razionalizzazione.
Partiamo da quello che c’è.
Resta invariata, rispetto a quanto previsto nella prima stesura della manovra finanziaria, l’esclusione dal patto di Stabilità interno degli incassi derivanti dalla “dismissione totale o parziale, anche a seguito di quotazione, di partecipazioni in società ”.
Gli enti locali che cedono quote detenute in aziende di servizi pubblici, come le ex municipalizzate dell’elettricità , dell’acqua e del gas, potranno dunque spenderle liberamente per investimenti.
Ma non si introduce alcun “premio” per gli enti che, invece che venderle, fondono o aggregano le proprie partecipate.
Al contrario, il progetto del commissario alla revisione della spesa proponeva di introdurre incentivi finanziari anche per le aggregazioni.
Le novità introdotte dal testo riformulato dall’esecutivo riguardano invece il calendario della razionalizzazione. Enti locali, Camere di commercio, università , istituti di istruzione universitaria pubblici e autorità portuali dovranno “avviare il processo” il prossimo 1 gennaio “in modo da conseguire la riduzione delle società e delle partecipazioni societarie possedute entro il 31 dicembre 2015”.
Vengono poi elencati i “criteri” su cui basare la disamina: dalla “eliminazione delle società e delle partecipazioni societarie non indispensabili al perseguimento delle proprie finalità istituzionali” o “che svolgono attività analoghe o similari a quelle svolte da altre partecipate o da enti pubblici strumentali” alla “soppressione delle società che risultino composte da soli amministratori o da un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti”, passando per la “riorganizzazione degli organi amministrativi e di controllo e delle strutture aziendali” e la “riduzione delle relative remunerazioni”.
Peccato che chi non rispetta queste linee guida non subirà alcuna penalizzazione: non sono passati, infatti, i correttivi previsti negli emendamenti presentati da Linda Lanzillotta (Scelta civica) e Federica Chiavaroli (Ncd): taglio del 20% dello stipendio lordo per i dirigenti degli enti titolari delle partecipazioni e azzeramento del compenso per gli amministratori delle società .
Ed è stato stralciato anche l’obbligo di scioglimento o cessione delle aziende che non raggiungono i 100mila euro di ricavi (almeno 1.300, secondo il dossier Cottarelli) e di quelle con più amministratori che dipendenti (oltre 3mila).
Il comma successivo della Stabilità fissa nel 31 marzo 2015 il termine ultimo entro cui governatori, presidenti delle province, sindaci e organi di vertice delle amministrazioni a cui fanno capo società partecipate devono approvare un piano operativo con i dettagli su modalità e tempi di attuazione dello “sfoltimento” e risparmi previsti. Il documento verrà poi trasmesso alla sezione regionale della Corte dei conti e pubblicato sul sito dell’ente.
Un anno dopo, il 31 marzo 2016, andrà presentata la relazione sui risultati conseguiti. Viste le premesse, però, è difficile sperare che per quella data la “giungla” — copyright Cottarelli — sia stata disboscata di molto.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Dicembre 21st, 2014 Riccardo Fucile
I CITTADINI LA PERCEPISCONO SEMPRE PIU’ DILAGANTE, MA LA POLITICA SEMBRA PIU’ ATTACCARE I GIUDICI
Se la Prima Repubblica è caduta, all’inizio degli anni Novanta, per gli scandali di Tangentopoli, la Seconda ha tradito le promesse di rigenerazione.
L’alternanza dei governi di centrodestra e centrosinistra non ha migliorato la situazione: i cambiamenti normativi – si pensi all’abolizione del reato di falso in bilancio, o alla riduzione dei tempi per la prescrizione – hanno reso meno facile colpire i politici corrotti.
Così, oggi, oltre la metà degli italiani ritiene che la corruzione sia più diffusa, rispetto all’epoca di Mani Pulite.
I dati di Demos rilevano da tempo queste opinioni. Ma, nell’ultima fase, il giudizio dei cittadini si è fatto molto più severo.
Le cronache dell’ultimo anno, del resto, propongono una quotidiana rassegna di inchieste e mazzette, arresti e avvisi di garanzia: dai casi Expo e Mose, fino a “Mafia Capitale”.
Da giugno, l’idea di un trend ascendente della corruzione politica supera il 50%, e arriva al 56% nel sondaggio di dicembre
Rispetto ai dati del 2010-2011, quando ancora governava Berlusconi, questa convinzione è lievitata di venti punti.
Sono soprattutto le generazioni più anziane, peraltro, a percepire il peggioramento rispetto a vent’anni fa: si tratta di un’opinione condivisa da oltre il 70%, tra le persone che superano i 55 anni.
Le responsabilità , tuttavia, sono difficili da individuare: tre intervistati su quattro (75%) pensano che il problema sia ormai trasversale: da sinistra a destra.
Le opinioni si differenziano, solo in parte, secondo una linea di divisione che separa le forze di opposizione e di governo (a livello locale e nazionale).
Sono infatti anzitutto gli elettori di centro-destra e del M5s a denunciare l’intensificarsi degli intrecci tra politica e malaffare.
Ma, anche tra gli elettori di centro e centro-sinistra, circa la metà registra una progressiva accentuazione dell’illegalità politica.
Che fare? Affidarci ancora una volta alla capacità della magistratura di individuare e perseguire i corrotti e i mafiosi?
Diversamente dagli anni Novanta, i politici sembrano assorbire senza troppi problemi le notizie di scandali e corruzione.
Mentre, come certificano le opinioni degli italiani, le misure finora messe in atto si sono rivelate del tutto inefficaci.
Roberto Biorcio e Fabio Bordignon
(da “La Repubblica”)
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Dicembre 21st, 2014 Riccardo Fucile
BOOM DEL PRECARIATO: “BUONI” DI 10 EURO LORDI PER I NUOVI MINI-IMPIEGHI
Archiviata la prospettiva di un posto fisso, per molti l’unica alternativa alla disoccupazione è saltare da un impiego precario all’altro anche nella formula dei cosiddetti mini-jobs.
Si tratta del gradino più basso del precariato, sottopagato e ad elevata incertezza.
A guidare l’exploit i settori del commercio, della ristorazione, del turismo e dei servizi.
A tirare un bilancio è uno studio della Cgia di Mestre. Casalinghe, pensionati, badanti, studenti, disoccupati e «dopolavorisiti» sono le categorie che usufruiscono più di tali voucher, ovvero della possibilità di essere «assunti» per qualche ora da un committente venendo retribuiti attraverso l’utilizzo di un «buono- lavoro» di 10 euro lordi all’ora (pari a 7,5 euro netti).
I mini-jobs proliferano soprattutto nel Nordest: l’anno scorso sono stati venduti oltre il 40% del totale nazionale dei «buoni»: il 28,5% nel Nordovest, il 16,6% nel Centro e il 14,8% nel Sud e nelle Isole.
Dal 2012, dice ancora la Cgia, anno in cui questo strumento è stato esteso a tutti i settori economici, il ricorso è più che triplicato: da poco più di 23.800.000 ore utilizzate due anni fa si è passati a 71.600.000 ore previste per l’anno in corso.
Numeri triplicati anche se si analizza il trend dei lavoratori interessati: nel 2012 sono state coinvolte poco più di 366.000 persone, quest’anno, invece, ne sono previste più di un milione.
Ma questa forma di precariato ha comunque un risvolto positivo.
Il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi, spiega che «proprio in virtù di questo strumento è stato possibile far emergere una quota di sommerso che altrimenti sarebbe stata difficile da contrastare.
Ora, anche i lavoretti saltuari sono tutelati. In più, chi viene assunto per poche ore con questi buoni può menzionare nel suo curriculum questa esperienza.
Inoltre, per limitare l’utilizzo improprio di questi buoni, il legislatore ha stabilito che ognuno di questi deve essere orario, datato e numerato progressivamente».
Tuttavia, la possibilità di aggirare la norma non manca: purtroppo, questa possibilità è presente in qualsiasi caso, figuriamoci quando si tratta di un accordo che, come in questi casi, è di natura verbale.
I voucher rappresentano un sistema di pagamento che i datori di lavoro possono utilizzare per remunerare quelle prestazioni svolte al di fuori di un normale contratto di lavoro, garantendo al prestatore d’opera la copertura previdenziale presso l’Inps e quella assicurativa presso l’Inail. Sia per l’imprenditore sia per il lavoratore la legge stabilisce degli importi annui limite oltre ai quali l’utilizzo dei voucher non è più consentito.
Lo scarto tra il numero dei voucher utilizzati e quelli venduti si sta assottigliando sempre di più: se nel 2013 l’incidenza dei primi sui secondi era dell’88,5, per l’anno in corso ale al 93,8%.
Nel 2013, ultimo anno in cui sono disponibili i dati ufficiali, i settori maggiormente interessati dall’utilizzo di questi «buoni-lavoro» sono stati il commercio (25,2% del totale dei lavoratori coinvolti), il turismo-ristorazione (17,6%), e i servizi (13,6).
Resta comunque molto elevato l’uso dei voucher anche nel settore manifatturiero (19,5%).
Laura Della Pasqua
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Dicembre 21st, 2014 Riccardo Fucile
“QUESTA LEGGE NON E’ UN OMNIBUS”
Francesco Boccia è il presidente della Commissione bilancio alla Camera, del Pd.
Ieri ha ricevuto il testo della Legge di Stabilità dal Senato. Depurato da una ventina di norme ritenute «inopportune».
Il governo ha lavorato per evitare una norma-monstre «con magari varie leggi marchetta»
«Veramente, se di marchette si tratta — e non entro nel merito — la parentesi-marchette è stata aperta e poi chiusa dal governo».
Cosa intende dire?
«La Legge di Stabilità era uscita snella dalla Camera, dove il governo era stato invitato a presentare non più di 7-8 emendamenti. Se poi al Senato ne presenta 90, il messaggio è “si è aperta la festa dei balocchi”, e ogni senatore che ha un problema sul territorio prova a infilare un emendamento».
La responsabilità è del governo?
«Certo. Se trasformi in un omnibus la Legge di Stabilità allora va tutto fuori controllo. Il ministro Boschi ha fatto quello che poteva con impegno, ma se i ministri vanno all’assalto alla diligenza e la lasciano sola…».
Quindi la frase di Renzi «abbiamo stoppato l’assalto alla diligenza» è propaganda?
«È una frase da Renzi».
Cioè?
«La mia lealtà è massima quando si fanno le cose. Quando si raccontano, mi perdo nella narrazione».
Ora tocca di nuovo a voi alla Camera. Rimettete le mani nel testo?
«No, anzi, faccio un appello a tutti, anche alle opposizioni, per ricordare che la legge di stabilità va chiusa. E le frasi poco felici delle ultime ore derubrichiamole a infortunio nelle recenti relazioni caotiche tra governo e Parlamento».
Francesca Schianchi
(da “La Stampa”)
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Dicembre 21st, 2014 Riccardo Fucile
IL MODELLO E’ UN UOMO O UNA DONNA CON ESPERIENZA MA LONTANO DAI RIFLETTORI DA QUALCHE ANNO
Forse è perchè anche Berlusconi, alla fine, si è convinto di quello che in questi giorni va ripetendo Denis Verdini ai malpancisti di Forza Italia: “Ragazzi, rassegnamoci: questo è il decennio di Renzi”.
Forse è perchè l’ex Cavaliere anela più di ogni altra cosa a restare nel grande gioco, senza essere marginalizzato.
In ogni caso, alla vigilia dell’apertura della partita sul Quirinale, il premier è sicuro che non verranno da Arcore i problemi.
E ha iniziato a conteggiare la maggior parte dei 150 grandi elettori forzisti nella stessa colonna di maggioranza dove già si sommano i 460 del Pd, gli 80 Ncd, i 30 delle autonomie e i 20 di Scelta civica.
“Berlusconi voterà il nome che gli proporremo – ha confidato il capo del governo ai suoi – a patto di non sottoporgli un personaggio che sia una palese provocazione”.
Uno sgarbo, o una “provocazione “, che non converrebbe nemmeno a Renzi portare avanti. Anche perchè in quel caso non è detto che i parlamentari forzisti, nel segreto dell’urna, seguirebbero le indicazioni dei capigruppo.
Anzi, è proprio la tenuta dei gruppi forzisti, ancora prima che quelli democratici, uno dei crucci di palazzo Chigi.
Perchè per portare a termine l’operazione Quirinale a Renzi serve che Berlusconi riesca a convincere almeno un’ottantina dei suoi.
Renzi parte infatti da una base di 740-750 voti di grandi elettori su un plenum di 1009. Scremati i 40-50 franchi tiratori dem, tolti i fittiani, scorporati dal totale anche una buona metà degli alfaniani, i calcoli di Renzi fissano una cifra intorno ai 550 elettori certi.
Una soglia di sicurezza, visto che dal quarto scrutinio in poi basterà la maggioranza assoluta di 505 per eleggere il nuovo presidente.
Se tutto andrà per il verso giusto, non si andrà oltre una settimana di votazioni per avere il prescelto.
L’ansia del premier è che il Parlamento non si sfianchi in ripetute sedute a perdere. “Non possiamo trascinarla”, è il suo monito. Anche perchè, votazione dopo votazione, i franchi tiratori non potrebbero che aumentare, alimentando una sensazione di caos ingovernabile.
Da qui l’esigenza di “fare in fretta e bene”. Come avvenne nel 2006 con la prima elezione di Napolitano.
È proprio quello il “procedimento” a cui guarda il capo del governo, insieme ad altri precedenti illustri come Cossiga e Ciampi (frutto però di maggioranze amplissime oggi difficilmente realizzabili).
Dopo i primi tre scrutini andati a vuoto, l’Unione passò dalla candidatura D’Alema a quella Napolitano. L’allora Cdl si astenne e Napolitano venne eletto con 543 voti. Quelli del centrosinistra e quelli dell’Udc di Follini.
È il metodo che intende replicare Renzi. Ma i nomi, al momento, da palazzo Chigi non escono. Nessuna rosa, è troppo presto.
“Il profilo uscirà fuori dall’assemblea dei grandi elettori del Pd – ripete a tutti il segre- tario – perchè l’importante è che nessuno si senta escluso”.
La minoranza dem non deve avere nemmeno il sospetto che il prescelto venga fuori dal patto del Nazareno, sebbene sia proprio sui voti di Berlusconi che Renzi fa affidamento.
La riprova si è avuta nella notte tra venerdì e sabato al Senato. Quando solo grazie al pronto intervento del capogruppo forzista Paolo Romani, che ha richiamato di corsa in aula 18 dei suoi per garantire il numero legale, il governo è riuscito a incardinare l’Italicum 2.0.
E il fatto che tra quei 18 ci fosse Maria Rosaria Rossi, la fedelissima del leader di Forza Italia e tesoriera del partito, ha confermato a palazzo Chigi che il patto del Nazareno per Berlusconi ancora tiene.
Sta di fatto che, sulla legge elettorale, di notte il Fronte del No ha provato a giocare il tutto per tutto. Con i quattro irriducibili della minoranza pd e con una buona metà di senatori Ncd improvvisamente introvabili e poi magicamente riapparsi quando era chiaro che il numero legale sarebbe stato comunque garantito.
Nelle conversazioni private Renzi mastica amaro: “Una parte della maggioranza ha cercato di innescare una trappola, ma non ci sono riusciti”. Senza i voti di Forza Italia, come fa notare il vicecapogruppo Francesco Giro, “Renzi a palazzo Madama la maggioranza non ce l’ha”.
L’altra lezione che queste ore convulse impartiscono al premier è che ormai Sel va considerata tra i “nemici” più agguerriti. Lo dimostra il discorso tenuto ieri da Nichi Vendola davanti all’assemblea del suo partito.
Un intervento dai toni forti contro il governo e contro il Pd, di cui si invoca apertamente la “scissione”.
Ma soprattutto un discorso chiuso con una offerta che a palazzo Chigi hanno valutato in tutta la sua pericolosità : “Se il Pd vuole – ha scandito Vendola – dopo quattro votazioni possiamo eleggere Romano Prodi al Quirinale”.
Una mela avvelenata, che farebbe saltare l’intesa con Berlusconi e la possibilità di portare a casa l’Italicum prima dell’elezione del successore di Napolitano. Per questo nessuno nel Pd l’ha raccolta. Tranne ovviamente il solito Pippo Civati, il primo a rilanciare la candidatura del Professore.
L’ordine di Renzi ai suoi è quello di mantenere il massimo riserbo sui nomi e sugli identikit. E lo stesso “consiglio”, tramite Denis Verdini, è arrivato da palazzo Chigi ad Arcore. “Berlusconi – gli ha spiegato Renzi – è inutile che avanzi nomi. Appena ne pronuncia uno, il prescelto perde subito i voti di metà del gruppo democratico “.
I più vicini al premier sono comunque convinti che, nella sua testa, Renzi in realtà abbia chiaro a chi rivolgersi quando arriverà il momento opportuno.
Un uomo o una donna con esperienza, ma lontano dai riflettori da qualche anno. Proprio come Napolitano nel 2006.
Che nessuno, fino alla sera prima dell’elezione, immaginava incoronato come futuro “Re Giorgio” per nove anni.
Francesco Bei
(da “La Repubblica”)
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Dicembre 21st, 2014 Riccardo Fucile
ALLA STAZIONE UNA TASTIERA PER VIRTUOSI, PASSANTI E CLOCHARD
L’idea è semplice: piazzare un pianoforte nella Stazione Centrale, metterlo a disposizione di tutti e vedere, anzi sentire, quel che succede.
Così, sotto le volte assiro-milanesi dell’atrio, proprio accanto all’albero di Natale, è spuntato un verticalino Kawai con il seggiolino lucchettato a una gamba (non si sa mai) e la scritta «Play me, I’m yours». Detto fatto.
In un’ora e mezza l’hanno suonato in quattro: uno che non sapeva farlo, un altro malissimo, una malino e uno splendidamente.
L’idea
Prima di raccontare nei dettagli chi si mette a suonare in stazione (e come), va precisato che l’iniziativa non è nuova.
L’idea è venuta nel 2008 all’artista britannico Luke Jerram e da allora i pianoforti a tocco libero sono apparsi in piazze, parchi, stazioni, aeroporti di tutto il mondo, e perfino alla Camera dei Lord.
In Italia, Grandi Stazioni li aveva già installati a Venezia Santa Lucia, Firenze Santa Maria Novella e Roma Tiburtina. Assurdo che mancasse proprio Milano Centrale.
Ora, il viaggiatore che si fosse trovato a transitarci intorno alle 13 di ieri avrebbe avuto una sorpresa particolarmente buona.
Infatti sulla tastiera metteva in quel momento le mani uno che sa usarle, benchè abbia soltanto dodici anni.
Si chiama Luca Grianti, è di Segrate, studia musica a Manchester, passava di lì con il papà e ovviamente non ha resistito. Così gli astanti hanno potuto ascoltare lo studio opera 10 numero 12 in do minore di Chopin, sì, quello famosissimo che in altri e più romantici tempi portava il sottotitolo (del tutto apocrifo) di «La caduta di Varsavia» e un’improvvisazione molto jazzistica e swing (e molto bella) su «Jingle bells».
Poi, a gentile richiesta (mia, in effetti) di un po’ di Bach, anche il primo movimento del Concerto italiano.
Risultato, applausi, complimenti, foto con i telefonini e richieste di bis.
Il pubblico era molto eterogeneo: passeggeri in attesa del treno, ferrovieri in attesa dell’inizio del turno, profughi siriani in attesa di proseguire per il Nord (e intanto smistati e assistiti nel mezzanino), barboni in attesa del nulla.
In ulteriore attesa poi che qualcuno faccia qualcosa per l’educazione musicale, duole constatare che ha ragione Riccardo Muti quando dice che l’Italia, da Paese della musica, sta diventando il Paese della storia della musica.
Quindi la comparsa di un pianoforte e soprattutto di qualcuno che sappia suonarlo fa sensazione, mentre ad altre latitudini è del tutto normale.
In ogni caso, davanti all’entusiasmo generale il baby virtuoso Grianti, imperturbabile e divertito, si è limitato a deplorare che lo strumento fosse un po’ scordato e che lui si fosse scordato i guanti, quindi prima di cominciare a suonare aveva le mani intirizzite.
Alla tastiera
Di certo, la sua performance è stata decisamente superiore delle altre che abbiamo potuto apprezzare, si fa per dire, in Centrale.
Nell’ordine: un barbone di colore, un gruppo di turisti filippini che non andavano oltre le prime tre o quattro battute di qualche atroce canzonetta e una signorina di quelle che una volta si definivano di buona famiglia che ha attaccato «Per Elisa», cioè appunto il brano con il quale generazioni di signorine di buona famiglia hanno rotto l’anima e non solo l’anima ai loro sventurati vicini di casa.
Però il pianoforte ferroviario è un’ottima idea. Fa Natale. Permette di socializzare.
Risolleva il morale a chi arriva in stazione con la metro, quindi scavalcando lavori in corso in atrii muscosi e fori cadenti popolati di venditori abusivi e mendicanti, insomma la versione milanese del Terzo mondo.
E infine fornisce il sottofondo musicale alla lettura delle letterine lasciate dai viaggiatori sull’alberone.
Di regola sono un elenco di banalità buoniste, ma qualcuna è davvero divertente.
Per esempio, questa: «Caro Babbo Natale, lo so che non fai miracoli, però, almeno in questo periodo, puoi far arrivare i treni in orario?».
Alberto Mattioli
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Dicembre 21st, 2014 Riccardo Fucile
VOTO DI NOTTE SULLA STABILITà€: I SENATORI APPROVANO UN TESTO SBAGLIATO, INCOMPLETO E CHE NON HANNO LETTO
Matteo Renzi ha vinto, per carità , e Matteo Renzi è uomo d’onore. Lui dice che così l’Italia riparte e non si può non credergli.
La sua legge di Stabilità — che volendo definirla frettolosamente fa appena un po’ meno schifo di quella di Enrico Letta — sarà legge martedì, al sì definitivo della Camera.
Però in democrazia, come in letteratura, la forma è la cosa. La sostanza, volendo. E la sostanza è che ieri i senatori della Repubblica — in 22 ore filate — hanno approvato una manovra che scrive il bilancio dello Stato senza sapere cosa stessero votando: cosa c’era nel testo e cosa no, quale parte del lavoro parlamentare era stata mantenuta e quale cassata, quale solo riformulata e quale modificata nella sostanza.
Ma Matteo Renzi è un uomo d’onore e quando dice che ha fatto tardi perchè stava “sventando l’assalto alla diligenza” non si può che credergli: poi magari uno scopre che in realtà a qualche “assalitore” è stato steso il tappeto rosso. Renzi è un uomo d’onore, ma qui non è questione d’onore: questo modo di legiferare è illegittimo e irregolare.
L’Italicum, le norme fantasma e le pagine perse nel buio
Breve riassunto di come la tattica politica s’è mangiata la legalità . Il ddl Stabilità doveva essere approvata in Senato entro oggi. Motivo: Renzi voleva la legge elettorale in Aula prima delle dimissioni di Giorgio Napolitano.
Il premier puntava a incardinare l’Italicum domani, s’è dovuto accontentare del 7 gennaio, ma gli va bene lo stesso. Questo è l’unico motivo per cui il Senato è stato umiliato.
Tutto comincia mercoledì. La commissione Bilancio, affogata di emendamenti, non riesce a concludere l’esame del testo. La palla passa al governo e al suo maxiemendamento da approvare con la fiducia: il testo, però, invece che mercoledì alle 20 come promesso, è arrivato a palazzo Madama venerdì sera.
La Bilancio ha potuto dargli una rapida occhiata, gli altri non l’hanno neanche visto.
Poco male: anche quelli che lo hanno avuto per le mani, governo compreso, ancora adesso ne hanno un’idea vaga.
Lo stesso viceministro dell’Economia Enrico Morando, in aula, ha dovuto a lungo esercitarsi nel genere della palinodia: “I numeri dei commi spesso mancano o sono errati…”; “sì, sarebbe meglio che i commi da 716 a 737 sul Fondo per interventi strutturali di politica economia fossero uno solo”; sui tagli al ministero della Difesa “c’è un errore materiale che va corretto”; “certo, elimineremo le norme scritte due volte”.
Nel testo votato, poi, erano sbagliati tanto i rimandi interni che quelli alle leggi.
A mezzanotte qualcuno s’è addirittura accorto che mancava qualche pagina e non si capiva se era una scelta o un errore materiale.
Domanda: su cosa ha posto la fiducia Maria Elena Boschi?
Al presidente Pietro Grasso, che come tutti sanno è uomo di serenità olimpica, la cosa non toglie il sonno: “Il governo si assume la responsabilità del testo”, ha spiegato ai colleghi.
Non si sa se il “facciamo a fidarci” sia categoria della politica, di sicuro non è una procedura legislativa.
Eppure Grasso è ginnicamente soddisfatto: “Una maratona così è un record”.
Fortuna che Matteo Renzi è un uomo d’onore e dunque non c’è da preoccuparsi se ha indetto il Consiglio dei ministri per approvare i decreti attuativi sul Jobs Act e l’ennesimo “salva-Ilva” il 24 dicembre: a Natale i giornali non escono.
Questo disinteresse per la procedura non è senza esiti.
Il testo per dire — nonostante Renzi si vanti di aver eliminato le “marchette” (ma le aveva messe l’esecutivo stesso con appositi emendamenti) — ne è ancora pieno.
La fregatura alle partite Iva e le “marchette” rimaste
C’è il caso dei 10 milioni al porto di Molfetta (vedi pagina 4), ma 10 milioni li ha avuti anche l’Invalsi, dodici Italia Lavoro e si potrebbe continuare.
Poi c’è il rincaro Iva (dal 10 al 22%) sul “pallet da riscaldamento”, quello delle stufe, che rende più conveniente il gas distribuito da colossi come Eni o Hera.
Al Cane a sei zampe poi viene data pure la procedura semplificata per il sito di stoccaggio petrolifero a Tempa Rossa, in Basilicata, e certe normette “libera-trivelle”.
Restano al loro posto pure il regalo a Sergio Chiamparino, che diventa commissario di se stesso, e lo sconto fiscale a Sisal, il via libera alle consulenze del ministero delle Infrastrutture e quella norma pazzesca che consente a Expo spa di fare appalti senza passare da Consip.
Poi c’è il caso più scandaloso: un salasso che ucciderà gran parte delle partite Iva che oggi usano il regime dei minimi.
Il governo ci ha messo le mani (l’apposita slide di Renzi diceva “Aiuti per le piccole partite Iva”), ma è una fregatura: il nuovo sistema è sconveniente non solo rispetto a quello vecchio, ma pure rispetto alla tassazione ordinaria.
Secondo un calcolo di Rpt (Rete delle professioni tecniche), un autonomo da 15mila euro l’anno se sceglie il regime renziano perde rispetto alla tassazione normale tra i 30 e i 500 euro al mese (e paga tre volte di più rispetto al regime in vigore fino a fine mese).
Il governo s’era impegnato in commissione a fare le modifiche necessarie, ma nel casino è rimasto più o meno uguale.
Matteo Renzi, però, è un uomo d’onore.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Dicembre 21st, 2014 Riccardo Fucile
LA SCUSA E’ QUELLA DI EVITARE I FINANZIAMENTI ILLECITI (COME SE IN PASSATO NON SI FOSSERO SOVRAPPOSTI)
Allegria! Torna — lo annuncia Repubblica — il finanziamento pubblico ai partiti.
Qualcuno dirà : perchè, era mai andato via?
No, ma l’anno scorso era passata una legge targata Letta che lo trasformava da diretto a indiretto: dal 2017 i partiti incasseranno più o meno gli stessi soldi di prima a carico nostro, ma sotto forma di sconti e agevolazioni al posto dei “rimborsi” a pioggia e a forfait.
Solo che ora dovranno almeno rendicontare le spese elettorali, mentre prima si facevano rimborsare anche quelle inesistenti.
E non ne vogliono sapere, anche perchè per vent’anni si erano regalati un paio di miliardi camuffati da rimborsi per le campagne elettorali, mentre per i tre quarti erano finanziamenti alle loro elefantiache strutture, ma non potevano ammetterlo, salvo confessare la truffa per aggirare il referendum del 1993.
La scusa che i vari Sposetti (tesoriere dei Ds, che non esistono più, ma hanno ancora un tesoro e dunque un tesoriere), i forzisti Rossi e Abrignani (quello che brigava per trasferire da Rebibbia un camerata della banda romana), Paglia (Sel), Rampelli (FdI) & C. hanno escogitato è strepitosa.
Il sempre vispo Gasparri la mette giù così: “Abbiamo votato una legge sbagliata che moltiplica i casi di corruzione”.
Cioè: siccome i politici di Mafia Capitale erano a libro paga di imprese tipo la coop rosso-nera 29 Giugno in cambio di appalti pubblici (a costi supergonfiati, si capisce, per accollare le tangenti a noi), è molto meglio che li prendano direttamente dalle casse dello Stato, cioè dalle nostre tasche.
Invece di chiedere scusa in ginocchio per l’ennesima razzia e di votare subito un decreto che metta al riparo il denaro pubblico da certe grinfie, punisca severamente chi ci riprova e riduca all’osso i costi dei partiti, questi impuniti usano le proprie rapine per legalizzarne altre.
E ci prendono anche in giro, facendo credere che le mazzette romane siano la conseguenza della legge del 2013, mentre sono state pagate e incassate ben prima che entrasse in vigore. Per arrotondare i “rimborsi”.
La verità è che i partiti hanno sempre rubato, a prescindere dal finanziamento pubblico: prima che venisse istituito, nel 1974, la corruzione esisteva già ; è proseguita per vent’anni, integrandolo; è continuata imperterrita nell’ultimo ventennio, dopo il referendum del ’93, con i finti “rimborsi elettorali”; e seguita a imperversare anche con la legge del 2013.
Perchè non nasce dai “costi della politica” o “della democrazia”, come raccontano le anime belle, ma dall’avidità e dalla ladroneria della classe dirigente più losca dell’Occidente.
Cioè dal patto collusivo, criminale, mafioso fra politici e imprenditori.
La differenza rispetto alla Prima Repubblica è che allora le imprese erano forti e queste facevano il bello e il brutto tempo; ma erano forti anche i partiti, che le lasciavano scorrazzare in cambio del pizzo, che in privato si chiamava tangente e in pubblico “primato della politica”.
Oggi invece le imprese sono deboli, quasi tutte imputate e in stato comatoso, e i partiti ancor di più, infatti si accontentano di prendere ordini in cambio di qualche mancetta. Craxi, noto corrotto e concussore, non si sarebbe mai sognato di copiare un documento di Confindustria e trasformarlo in legge, come ha fatto Renzi col Jobs Act. Nè si sarebbe azzardato a strusciarsi al maglioncino unticcio di Marchionne e a definire gli imprenditori “eroi del nostro tempo”.
Le marchette agli industriali le faceva anche lui, ben remunerate peraltro, ma di nascosto: in pubblico non si sarebbe mai ridotto a tatuaggio dei padroni delle ferriere. Anche perchè, a chiamare “eroi” gl’imprenditori più incapaci, rapaci e criminali del pianeta (non solo per le mazzette e le frodi fiscali, ma anche per i rapporti con mafiosi, Guerci e Spezzapollici, e per i disastri ambientali impunibili per legge), gli sarebbe venuto da ridere.
Ci voleva giusto un premier di 39 anni, soidisant “rottamatore”, per abbattere l’ultimo muro di ipocrisia e fare le serenate al chiaro di luna a Squinzi.
In fondo, come dice Davigo, la differenza fra i vecchi e i nuovi politici non è che abbiano smesso di rubare: ma solo di vergognarsi.
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano“)
argomento: Politica | Commenta »