Dicembre 14th, 2014 Riccardo Fucile
IL CONSIGLIO REGIONALE PREMIA ANCHE GLI ASSENTI… E CHI VA IN MISSIONE PUà’ RADDOPPIARE I CONTRIBUTI PUBBLICI
Il consigliere regionale è malato e non può recarsi al lavoro?
Niente paura, il rimborso arriva lo stesso.
Anche in Friuli Venezia Giulia maggioranza e opposizione sanno lavorare quando in ballo ci sono le diarie dei politici.
Non sono bastate le promesse della governatrice Debora Serracchiani dopo una legislatura all’insegna di rimborsopoli (è di venerdì la notizia che altri 20 consiglieri dovranno spiegare alla Corte dei conti perchè hanno utilizzato i fondi dei gruppi per l’acquisto di gioielli, pneumatici e profumi).
Serracchiani aveva promesso: dimezzeremo gli emolumenti dei consiglieri, massimo 5 mila euro al mese, spese incluse.
La rivoluzione si è fermata a metà : oggi la retribuzione netta non scende sotto i 7.500. E l’ultima legge di bilancio aggiunge un altro tassello al mosaico dei privilegi.
Grazie a un emendamento proposto dal Pdl e votato dalla maggioranza, le spese di mandato vengono rimborsate anche quando il consigliere è a casa malato e, quindi, per trasporti e ristoranti non spende nulla.
Non solo: lo stesso consigliere va in missione?
Verrà ricompensato due volte: per le spese realmente effettuate e con un rimborso forfettario.
La formulazione originale della legge regionale che disciplina le diarie (21/1981) prevedeva una “trattenuta del rimborso forfettario” per ogni “giornata di assenza dalle sedute di Consiglio o di commissione indipendentemente dalla causa”.
Tradotto dal burocratese, una decurtazione della diaria dai 120 ai 166 euro netti per ogni assenza.
D’altra parte non c’è ragione di corrispondere un rimborso, benchè forfettario, a chi spese di trasporto e vitto non ne ha sostenute.
Logico, no? No. Un emendamento dell’ultima finanziaria recita: “La trattenuta non viene operata in caso di malattia”.
La regola vale sia per i consiglieri che per i membri della giunta, quindi anche per Serracchiani.
L’emendamento prevede un’eccezione ancor più singolare: niente trattenuta per chi è assente causa impegni inerenti il mandato consiliare o di giunta.
In questo caso però è già previsto un altro rimborso: chi viene inviato a rappresentare i friulani fuori regione, viene già rimborsato a piè di lista.
Ovvero, conserva lo scontrino del taxi, il biglietto aereo, la ricevuta del ristorante e ottiene il dovuto.
La sola Serracchiani da gennaio a settembre si è vista rimborsare 32.406 euro, la sua giunta nel complesso 105 mila euro.
E, a queste cifre, vanno aggiunte quelle di tutti i consiglieri regionali. Il rimborso della missione è sacrosanto, meno il fatto che a questo si sommi anche il contributo forfettario. Dagli uffici della Regione si scopre inoltre che l’interpretazione della norma è ancora più lasca: anche maternità , paternità e lutti costituiscono assenze giustificate.
Serracchiani difende la legittimità della norma: “Il rimborso forfetario ha natura onnicomprensiva, indirizzata al complesso dello svolgimento dell’attività del consigliere. Dunque questo rimborso non è specificamente correlato alla presenza in sede”.
Corretto da un punto di vista formale, ma è la stessa Regione a prevedere che il contributo “per le spese di mandato” venga commisurato alla distanza tra la circoscrizione e il Consiglio.
Quindi la presenza in sede e le spese per raggiungerla c’entrano eccome.
Da quando il governo Monti provò a decurtare a colpi di decreto i compensi dei consiglieri regionali, il rimborso forfettario è diventata la parolina magica per conservare una buona paga generosa.
A differenza dell’indennità infatti la diaria è esentasse.
Per questo vari consigli regionali hanno tagliato le prime e alzato le seconde.
In Veneto il Consiglio ha ridotto lo stipendio dei consiglieri di 3.709 euro, compensati però da un rimborso di 4.500 euro.
Alessio Schiesari
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 14th, 2014 Riccardo Fucile
I SINDACI DOVRANNO RECUPERARE 624 MILIONI… SULLA CRISI DEL MATTONE PESA ANCHE LA STRETTA FISCALE
Almeno due proprietari di casa su tre non si facciano illusioni, nonostante l’emendamento alla legge di stabilità «blocca aumenti» il prelievo sul mattone è destinato ad aumentare.
Il perchè è presto detto.
Circa due terzi dei Comuni, che fino ad oggi si sono tenuti al di sotto delle aliquote massime ora bloccate per tutto il prossimo anno, dovranno probabilmente spremere di più i proprietari.
Questo per compensare i 624 milioni che lo Stato nel 2014 ha messo di tasca propria, ma che non metterà più ad integrare il gettito delle tasse sugli immobili.
Così Milano perderà oltre 89 milioni, Napoli 37, Torino 36,7, Genova 27, Roma 22,6 e così via.
«Tutti soldi che, sommati agli altri tagli ai trasferimenti verso gli enti locali, finiranno per inasprire ancora la tassazione sulla casa», prevede il Presidente di Confedilizia, Corrado Sforza Fogliani.
Un’escalation che ha trasformato in un bel ricordo persino la «tassa più odiata dagli italiani», la vecchia Ici, che nel 2011 valeva 9 miliardi di euro, lievitati quest’anno a circa 25 miliardi con Tasi e Imu.
Tre volte tanto, calcola l’Ance, l’associazione dei costruttori.
E paradossalmente sotto torchio è finito chi possiede case di modesto valore, che prima pagava poco o non pagava affatto, grazie alla detrazione fissa di 200 euro, andata a farsi benedire con la nuova imposta.
Salvo qualche sconticino fiscale, introdotto da un terzo dei sindaci, ma a fronte di un aumento dello 0,8 per mille dell’aliquota Tasi.
E sempre sul mattone ha finito per pesare la tassa sui rifiuti che, secondo i dati della Uil politiche territoriali, dal 2011 è passata da 6,8 a 7,5 miliardi.
Perchè ora la tariffa deve coprire per intero il costo dello smaltimento rifiuti, recita la legge che ha ribattezzato Tari l’imposta sull’immondizia. Magari quella che l’inchiesta «mafia Capitale» sta tirando via da sotto il tappeto dell’Ama, l’azienda municipale di pulizia, tanto per fare un esempio di quali costi siano stati finanziati con gli aumenti .
La spremitura fiscale ha avuto ricadute anche sul mercato immobiliare, che in questi 4 anni ha visto scendere del 15% i prezzi, secondo la Cgia di Mestre.
Se in media una casa di tipo civile accatastata A2 valeva 200mila euro, ora si acquista per 170mila.
Peccato però che, anche per colpa delle super-imposte, 2,3 milioni di italiani non ce la facciano proprio a permetterselo un tetto, come fotografa un recente studio di McKinsey.
E neanche a dire che l’aumento della tassazione abbia fatto lievitare l’offerta di case in locazione. «Questo — spiega Sforza Foglian – perchè nonostante il maggior peso fiscale, i proprietari temono che al calo dei prezzi si sommi il deprezzamento dell’immobile occupato e sempre a rischio di morosità . Così molti stringono i denti e preferiscono mantenere libera la proprietà ».
Intanto tra soli due giorni è il tax day.
Tra imposte sulla casa, Irpef e tasse varie gli italiani verseranno la bellezza di 44 miliardi.
Quasi 24 milioni di proprietari saranno chiamati alla cassa per saldare Tasi e Imu.
Un conto che sulla prima casa sarà più salato per una famiglia su due, informa la Uil. A Torino e Roma il maggior salasso, rispettivamente con 403 e 391 euro.
Con il paradosso che se per 6 famiglie su 10 la Tasi sulle abitazioni a bassa rendita costerà più dell’Imu, per le abitazioni di maggior pregio lo stesso numero di famiglie finirà invece per pagare meno.
Incongruenze di una tassa regressiva che il governo voleva correggere con la nuova local tax. Rinviata invece al 2016 o a chissà quando.
Paolo Russo
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Dicembre 14th, 2014 Riccardo Fucile
IN 10 ANNI 163 MILIONI, CONTRIBUTI NASCOSTI PER I GIORNALI CHE PERO’ LICENZIANO
Non solo quotidiani politici o cooperative. Non solo testate come il manifesto o l’Unità , spesso additate come coloro che hanno incamerato contributi pubblici più o meno meritati.
A farsi foraggiare dal Dipartimento per l’Editoria, collocato a Palazzo Chigi, in anni passati, sono stati tutti i grandi gruppi editoriali italiani.
Dall’Espresso a Rcs, da Mondadori alla Stampa.
E lo hanno fatto in sordina, senza clamori, senza editorialisti che su questo o quel giornale si indignassero per le sovvenzioni di Stato.
Concessi a suon di milioni, per lo meno negli anni dal 2008 al 2011, e senza grandi corrispettivi sul piano dell’occupazione.
Anzi, in questi stessi anni il settore dell’editoria ha assistito a un’emorragia costante dalle redazioni pagata dagli enti previdenziali.
Un circolo vizioso di cui ancora non si vede il peggio.
I dati di cui parliamo sono difficili da trovare eppure sono pubblicati sul sito del governo alla sezione Dipartimento per l’editoria.
A segnalarli ieri è stato il giornale online Lettera43, ma per raggiungere i dati alla fonte è stato necessario un lavoro di ricerca adeguato.
I contributi sono riferiti a due specifiche voci: “Agevolazioni di credito d’imposta per l’acquisto di carta utilizzata dalle imprese del settore editoriale”; “Agevolazioni di credito alle imprese del settore editoriale”.
Nel primo caso si è trattato di un rifinanziamento, per l’anno 2011, in favore delle imprese editrici di quotidiani e periodici e delle imprese editrici di libri, “nel limite del 10 per cento della spesa sostenuta per l’acquisto della carta utilizzata per la stampa” secondo un meccanismo già utilizzato nel 2004-2005.
Quella volta, il finanziamento fu di 92 milioni spalmato su 587 società editrici tra cui spiccavano Rcs (libri, periodici e quotidiani) con 12,6 milioni, Mondadori con 11,2 milioni, il gruppo Espresso con 8,5 ma anche Sole 24 Ore con 3,7 milioni, La Stampa con 2,3 milioni.
Nel 2011, invece, il finanziamento è stato limitato a 30 milioni ed è stato ripartito su 411 società per un importo complessivo di 29.784.647, 42 euro.
Il credito agevolato, invece, è un intervento “indiretto” che consiste nella “concessione di contributi in conto interessi sui finanziamenti deliberati da soggetti autorizzati all’attività bancaria” o “contributi in conto canone”, sui finanziamenti deliberati da “soggetti autorizzati all’attività di locazione finanziaria, della durata massima di dieci anni”.
Un sostegno al pagamento degli interessi, insomma, per “finanziamento di progetti di ristrutturazione tecnico-produttiva”, “realizzazione, ampliamento e modifica degli impianti”, “miglioramento della distribuzione”, “formazione professionale”.
Il credito è stato anche utilizzato per “il ripianamento delle passività destinato ad alcune imprese fra cui le imprese editrici e radiofoniche che risultano essere organi di partiti politici che hanno contratto mutui, di durata massima ventennale, per l’estinzione di debiti emergenti da bilanci 1986-1990”.
Anche questi contributi sono cessati ma sono stati attivi dal 2008 al 2011.
E nei quattro anni in esame hanno erogato 40 milioni scesi dai 18,4 del 2008 ai 13,8 del 2009 fino ai 470 mila euro del 2011.
A spiccare nell’ottenimento dei fondi sempre gli stessi nomi: il gruppo Espresso, comprensivo di Finegil, con 8,5 milioni, la Rcs con 1,5, il Corriere dello Sport con 1,8 milioni, il Sole 24 Ore con 1,8 milioni, Mondadori con 2,2 milioni e altri ancora.
Il sostegno all’editoria non è un male in sè.
Ma dovrebbe servire a migliorare il settore, ad aumentare l’occupazione, ad ampliare i diritti dell’utenza.
Difficile sostenere che tutto questo sia avvenuto negli ultimi anni. I rapporti dei vari istituti, tra cui l’Agcom, non fanno che sottolineare il peggioramento di tutti gli indicatori.
Tra questi, quello dell’occupazione.
Tra il 2008 e il 2012, gli anni dei finanziamenti qui indicati, gli occupati dell’editoria cartacea sono diminuiti di oltre mille unità e la massa salariale è diminuita di 22 milioni sia nel 2012 che nel 2011.
Se prendiamo le società editoriali che si sono distinte nella ricezione di crediti agevolati e/o di imposta quasi tutti hanno dato vita a piani di ristrutturazione aziendale.
A titolo di esempio, il gruppo Rcs ha varato un piano di riduzioni di costi da 20 milioni con 70 prepensionamenti, il Sole 24 Ore oltre ai prepensionamenti ha istituito i contratti di solidarietà , così come il gruppo l’Espresso.
E un giornale politico, come l’Unità , che oltre al finanziamento pubblico ha usufruito di 1,5 milioni di credito agevolato è stato portato alla chiusura dalla sua proprietà .
Salvatore Cannavò
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Dicembre 14th, 2014 Riccardo Fucile
SPRECHI PADANI: NON DOVEVA COSTARE UN EURO ALLO STATO, TRATTANDOSI DI UNA INFRASTRUTTURA IN PROJECT FINANCING, ORA SI PARLA DI UN “AIUTINO” DA 300 MILIONI
Doveva essere l’autostrada costruita senza alcun finanziamento pubblico.
Ma presto, di soldi dello Stato, alla Brebemi ne arriveranno tanti: più di 300 milioni, gran parte dal governo e un po’ da Regione Lombardia.
La nuova arteria che collega Milano a Brescia rischia così di perdere l’ultimo vanto che le è rimasto, visto che quello di opera utile, sinora, non ha potuto spenderlo per nulla, a causa delle sei corsie semideserte.
Con un numero di passaggi giornalieri che lo scorso settembre non raggiungeva i 20mila, a fronte dei 40mila promessi per il 2014 in fase di progetto e ai 60mila da raggiungere a regime.
E ora bisogna metterci una pezza.
I mancati introiti da pedaggio pesano sul piano finanziario e si aggiungono all’aumento dei costi di realizzazione.
È quest’ultima, in realtà , l’argomentazione che preferiscono usare i vertici della società , da mesi alla ricerca di un aiuto pubblico.
Adesso l’aiuto è vicino: il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi e il governatore Roberto Maroni si sono incontrati e hanno trovato l’accordo, secondo quanto riportato dall’agenzia Agielle e dalle pagine locali del Corriere della sera.
L’intervento non sarà nella forma della defiscalizzazione, impossibile dal punto di vista tecnico perchè l’opera è stata completata ed è già in esercizio, nè sottoforma di un prolungamento decennale della concessione.
Sarà in moneta sonante, stando a quanto trapelato sinora: il governo dovrebbe sborsare 270 milioni, spalmati su più anni, mentre la regione una sessantina.
Le fonti istituzionali non confermano i dettagli.
Dal ministero fanno sapere che non c’è ancora alcuna decisione in merito e che lunedì Lupi e Maroni si incontreranno di nuovo.
Il presidente lombardo, dal canto suo, si è limitato a dichiarare che “ci sono buone notizie per la ridefinizione del piano finanziario. Stiamo attendendo la formalizzazione del piano di rifinanziamento, ne abbiamo discusso con il governo e sono molto ottimista al riguardo”.
Da Brebemi sostengono di non essere in grado di rispondere a domande sull’incontro tra Lupi e Maroni, visto che la società non vi ha partecipato.
Nessuno però smentisce che le casse pubbliche daranno il loro bel contributo. Eppure doveva essere un’opera realizzata completamente in project financing, “la prima autostrada realizzata senza un euro di finanziamento pubblico”, come in passato ha detto più volte il presidente di Brebemi Francesco Bettoni.
Una visione, la sua, che già poteva essere messa in dubbio: gran parte dei 2,4 miliardi di euro necessari sono arrivati infatti dai finanziamenti della Banca europea degli investimenti e della Cassa depositi e prestiti, entrambe pubbliche.
E ora l’aiuto dello Stato è pronto ad arrivare in modo diretto.
Solo che quelli di Brebemi, che tra i soci ha Intesa Sanpaolo e il gruppo Gavio, si sono premurati di chiederlo a posteriori.
Dario Balotta, responsabile trasporti di Legambiente Lombardia, dice di essere sconcertato: “E’ paradossale che Regione Lombardia, mentre annuncia tagli per 155 milioni al trasporto pubblico locale, metta tra le sue priorità il salvataggio di una concessionaria autostradale sull’orlo del fallimento a pochi mesi dalla sua apertura, a causa di un traffico nettamente al di sotto delle aspettative. L’accordo tra Lupi e Maroni, in più, va contro la volontà del Parlamento. La commissione Ambiente della Camera a novembre ha infatti approvato un ordine del giorno che impegna il governo a monitorare che i costi dell’autostrada Brebemi non gravino sulle casse dello Stato”.
Luigi Franco
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Dicembre 14th, 2014 Riccardo Fucile
IN BASE A QUALE CRITERIO SI STABILISCE SE UNA CRITICA E’ APRIORISTICA OPPURE NO?
Si levano anche nelle sedi più autorevoli del Paese le condanne dell’antipolitica: termine con cui bisogna intendere la critica aprioristica – e proprio per questo distruttiva, eversiva – oltre che del sistema politico in quanto tale, anche dell’intera vita pubblica, vista come interamente e irrimediabilmente inquinata.
Ho scritto aprioristica in corsivo perchè evidentemente sta tutto lì il problema.
Infatti, se la critica di cui sopra non appare affatto aprioristica ma ha una qualche giustificazione nei fatti, se essa è condivisa da più o meno larghe parti dell’opinione pubblica, allora è difficile in un regime democratico negarle il diritto di cittadinanza.
Si potrà beninteso fare questione di toni, di stile, di capacità minore o maggiore da parte dei critici di proporre alternative credibili o accettabili, ma la sua natura eversiva, cioè antidemocratica, non sembra facilmente sostenibile.
In una democrazia, infatti, non basta che i nostri avversari si comportino in modo volutamente oltraggioso e usino un linguaggio sommario e violento per farne dei candidati alla messa fuori legge.
E d’altra parte non ci si può nascondere che è comunque difficile rispondere alla domanda chiave: in base a quale criterio, al di là di una soglia ovvia, si decide quando una critica è aprioristica e quando non lo è?
Non si tratta in sostanza di un giudizio sempre politico, e dunque dipendente alla fine solo dalle nostre personali opinioni?
In realtà , se da vent’anni l’assetto politico italiano non trova pace, sentendosi periodicamente insidiato dall’antipolitica, dal populismo, dal giustizialismo – con i vari schieramenti politici che di volta in volta incarnano uno dei tre – una ragione di fondo c’è.
Ed è che tutte e tre quelle patologie sono nel Dna stesso della Seconda Repubblica: costituiscono una sorta di suo peccato originale.
Tra il 1992 e il 1994 – non bisogna mai dimenticarlo – la Seconda Repubblica è nata infatti fuori e contro la politica.
Violando in molti modi l’insieme di regole e di prassi che fino allora la democrazia italiana aveva più o meno sempre rispettato, e al tempo stesso, però, non essendo capace di darsi regole davvero nuove.
Proprio per questo essa è restata in certo senso prigioniera delle modalità della sua nascita: condannata a ripercorrerle periodicamente.
Dunque a doversela vedere periodicamente con l’antipolitica, con il populismo, con il giustizialismo
Ci sono fatti di quella lontana origine degli anni 90 di cui ci siamo dimenticati con troppa facilità . Ma che invece pesano come macigni, e ci ricordano da dove veniamo.
Era il 2 settembre 1992, per esempio, quando il deputato socialista Sergio Moroni, destinatario di due avvisi di garanzia nel quadro delle inchieste di Mani Pulite, si uccise nella sua casa di Brescia lasciando una lettera che oggi è difficile rileggere senza sentirne lo straordinario valore di premonizione.
In essa Moroni, dopo aver rivendicato di non «aver mai personalmente approfittato di una lira», invocava «la necessità di distinguere ancor prima sul piano morale che su quello legale», dolendosi di essere «accomunato nella definizione di ladro oggi così diffusa». Terminava denunciando «un clima da pogrom nei confronti della classe politica», clima caratterizzato da «un processo sommario e violento».
Ma le sue parole caddero nel vuoto.
Benchè dirette alla Presidenza della Camera, allora tenuta da Giorgio Napolitano, non furono ritenute degne della benchè minima discussione parlamentare.
Ancora un altro ricordo. Era il 5 marzo 1993, nel pieno di Tangentopoli, quando in risposta all’annuncio di un decreto del Guardasigilli del governo Amato, Giovanni Conso, in cui si stabiliva la depenalizzazione (con valore anche retroattivo) del finanziamento illecito ai partiti, accadde un fatto probabilmente mai avvenuto prima in alcun regime costituzionale fondato sulla divisione dei poteri.
I magistrati del pool di Mani Pulite si presentarono al gran completo davanti alle telecamere del telegiornale delle 20, incitando con parole di fuoco i cittadini alla protesta contro il decreto legge emanato da quello che a tutti gli effetti era il governo legale del Paese.
Decreto legge che a quel punto – caso anche questo fino ad allora unico nella storia della Repubblica – il capo dello Stato Scalfaro, impressionato dalla rivolta, si rifiutò di firmare.
E naturalmente nessuno ebbe qualcosa da ridire.
Mi chiedo: è possibile non riconoscere in questi episodi e in tanti altri che accaddero allora alcuni elementi caratterizzanti di quella che è stata poi la vicenda italiana?
Non appare forse della medesima natura di quella che oggi siamo portati ad attribuire all’antipolitica – se non addirittura identica – la tendenza all’esasperazione verbale, alla generalizzazione indiscriminata nei confronti dell’avversario, alla sollecitazione spregiudicata delle reazioni più elementari dell’opinione pubblica?
Non appare più o meno la medesima pure la timidezza imbarazzata, talvolta impaurita, del potere?
E non suona forse sempre eguale anche il richiamo alla volontà della «gente» o del «popolo» che sia – che allora era quello «dei fax», poi è stato quello degli «indignati», e oggi è quello della «Rete»?
Da queste parti, come si vede, anche il populismo ha una storia lunga e molto varia: allo stesso modo, peraltro, dei suoi fratelli gemelli, il giustizialismo e l’antipolitica.
La classe dirigente che si ritrova ad essere oggi alla testa della Seconda Repubblica non dovrebbe scordarselo.
È proprio in quei terreni che oggi essa disdegna che affondano, infatti, le radici profonde della sua stessa legittimazione.
Ernesto Galli della Loggia
(da “il Corriere della Sera“)
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Dicembre 14th, 2014 Riccardo Fucile
“NON SONO INTERVENUTO SUL TESTO, HA FATTO TUTTO LUI”
Angelino Alfano, ospite alla trasmissione “In 1/2 ora” di Lucia Annunziata, spiega di avere votato al consiglio dei ministri un testo anti-corruzione sul quale non è intervenuto per chiedere modifiche.
Ma allo stesso tempo si dice favorevole ad applicare dei meccanismi premiali per coloro che collaborano con gli inquirenti e contribuiscono a svelare fenomeni di corruzione, così come avviene per i pentiti di mafia.
“In Consiglio dei ministri è arrivato un testo e noi lo abbiamo approvato. Se in Parlamento ci sarà una modifica verso l’introduzione di un passaggio sulla dissociazione noi siamo totalmente a favore”, ha detto il ministro dell’Interno, chiarendo dunque di non avere preteso cambiamenti del disegno di legge anti-corruzione presentato dal ministro per la Giustizia Andrea Orlando.
Il responsabile del Viminale, quindi, addossa ogni responsabilità al premier sul testo governativo che dovrebbe inasprire le pene sulla corruzione, un ddl bocciato sonoramente dal procuratore nazionale antimafia Franco Roberti: “Misure insufficienti, migliore la proposta del M5S”.
Anche la decisione di presentare un disegno di legge, e non un decreto, secondo Alfano è da imputare a Matteo Renzi: “È stata una decisione presa dal presidente del Consiglio. Con i tempi della conversione del decreto legge, con la questione dell’elezione del presidente della Repubblica si è deciso così. E fare decreti sulle norme penali è sempre una cosa molto delicata. In Parlamento ci sono gli strumenti per accelerare. Il mio partito dirà sì alla corsia preferenziale”.
(da “Huffingtonpost“)
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Dicembre 14th, 2014 Riccardo Fucile
PARTITA LA LETTERA DELLA TESORIERA ROSSI… VIA ANCHE GASPAROTTI, L’UOMO DEL VIDEO DELLA “DISCESA IN CAMPO”
Silvio Berlusconi licenzia. Ed è licenziamento «collettivo ».
Cade il mito del super imprenditore e del leader politico che in mezzo secolo di “onorata carriera” non aveva mai messo alla porta un solo dipendente.
Vengono fatti fuori in un solo colpo 55 dipendenti su un organico complessivo di 86 lavoratori a tempo indeterminato occupati da Forza Italia nelle sedi di Roma, Arcore e Milano.
Porta la data del primo dicembre il documento (di cui Repubblica è venuta in possesso) con cui il partito comunica al ministero del Lavoro, alla Regione Lazio, alla Regione Lombardia e ai sindacati, tra gli altri, l’avvio della “procedura di licenziamento collettivo ex art.24 della legge 223 del ’91”.
In calce, la firma della tesoriera e ormai amministratrice di fatto del partito, la senatrice Mariarosaria Rossi.
È la mannaia tanto annunciata e temuta dai dipendenti, che viene messa nero su bianco adesso e attribuita dalla stessa parlamentare, nelle motivazioni, al taglio drastico e alla imminente abolizione del finanziamento pubblico ai partiti.
La Rossi scrive della «impossibilità di sostenere finanziariamente l’attuale struttura del personale per le seguenti cause: totale abolizione del diretto finanziamento pubblico ai partiti; forte limitazione della possibilità di raccolta dei contributi volontari ugualmente determinata dalla stessa legge che penalizza in modo rilevante l’attività di fund raising; mancanza di riscontri positivi all’introduzione della destinazione del 2 per mille dell’Irpef».
Se fosse un’azienda, insomma, dovrebbe portare i libri in tribunale.
La conseguenza, continua la Rossi, è che la spesa «sostenibile» per il personale è di 1 milione 600 mila euro e non più i 5 milioni 700 mila euro sborsati fino all’anno scorso.
Il quasi azzeramento fa vittime illustri, compreso Roberto Gasparotti, uomo immagine berlusconiano fin dal celebre collant sulla telecamera del primo video del ’94.
Ma anche i due riservatissimi addetti stampa da 15 anni in servizio ad Arcore, a conoscenza anche di ogni documento riservato transitato da Villa San Martino.
Due impiegati abbandonati che ora non escludono azioni legali in autotutela.
L’elenco dei licenziati (solo numeri senza nomi nel documento) è impietoso: 6 della segreteria del Presidente a Roma e Arcore, 2 impiegati presso il consigliere politico del Presidente, 1 alle dipendenze del portavoce, 1 dell’ufficio del personale, 11 dell’amministrazione, 9 dei servizi generali, 8 dell’organizzazione e altri a seguire fino a quota 55.
C’è anche un capitolo sui “salvati”: alle dipendenze di Berlusconi restano in 7 tra Roma e Arcore.
E per i 31 sopravvissuti è previsto il ricorso alla «cassa integrazione nella misura del 50 per cento».
Fi S.p.A è insomma in default. Ed è la prima vittima eccellente della norma taglia finanziamenti approvata pochi mesi fa.
La Rossi — sodale della Pascale e factotum del capo — nei fatti ne diventa la liquidatrice, dopo aver smantellato e ridotto a un solo piano la sede di San Lorenzo in Lucina (20 mila euro al mese in meno di affitto).
Ammette il fallimento delle cene di fund raising che lei stessa aveva provato a organizzare tra Roma e Milano portando in giro un “Silvio” che ha perso appeal.
Ma il licenziamento collettivo potrebbe non essere privo di conseguenze per la tesoriera e altri amministratori.
Come fanno notare i sindacalisti che hanno seguito la pratica, nonostante il profondo rosso, lo scorso anno il partito ha assunto, anzi riassorbito, 53 dipendenti ex Pdl: oggi ne licenzia 55 ma tra loro anche lavoratori con anzianità ventennale in Forza Italia, capifamiglia monoreddito, perfino (sembra) soggetti appartenenti a categorie protette per via di handicap.
Tutti, fanno notare, con stipendi da 1400 euro.
Del resto Forza Italia è in rosso per 25,5 milioni, mantenuta in vita finora dalla bombola d’ossigeno di una “donazione liberale” del leader di 15 milioni di euro, ma soprattutto dalle fideiussioni personali del capo per 83 milioni necessari per coprire il disavanzo accumulato o ereditato.
In tutto questo, la legge taglia finanziamenti consente al “privato” Berlusconi di erogare d’ora in poi 100 mila euro l’anno, non uno di più.
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica”)
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Dicembre 14th, 2014 Riccardo Fucile
ENNESIMO FAVORE ALLE LOBBIE E MANCATO INCASSO DI 1,9 MILIARDI
Presentando la legge di Stabilità , Matteo Renzi aveva sbandierato con enfasi l’“aumento del prelievo sulle slot machine”.
L’Erario avrebbe incassato circa 1,88 miliardi di euro.
Ora quell’aumento (del 4 per cento, comprese anche le videolotterie) è saltato dal testo in discussione in Commissione Bilancio al Senato.
Dove invece — attraverso due emendamenti del governo — entrano una sanatoria per i centri scommesse non autorizzati e l’anticipazione al 2015 della gara per la concessione del Lotto (finora in mano a Lottomatica-Gtech, con base d’asta di 700 milioni), su cui le lobby sono già concentrate.
Il governo ha deciso di stralciare le norme sul prelievo per “riproporre la discussione nell’ambito dell’attuazione della delega fiscale, secondo tempistiche che consentano un’approfondita valutazione”.
“C’erano delle difficoltà : bisognava modificare tutte le macchinette” , spiega al Fatto una fonte governativa.
Nelle bozze del decreto giochi finora circolate, però, di quella discussione non c’è traccia.
Oltre alla sanatoria — diecimila euro per mettersi in regola — i concessionari dovranno versare una somma in quota proporzionale alle slot collegate.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 14th, 2014 Riccardo Fucile
I DILETTANTI DELL’ANTIMAFIA
In questi giorni, dopo l’inchiesta “Mafia Capitale”, sono diventati tutti conoscitori di mafia.
Non ho mai temuto i professionisti dell’antimafia, ma i dilettanti sì e ho sentito affermazioni talmente assurde che mi viene da pensare che chi le ha pronunciate non solo non conosce il fenomeno criminale, ma non conosce forse nemmeno il Paese. D’improvviso sembra stupirsi che le organizzazioni mafiose agiscano con alleanze imprenditoriali e politiche.
Ma in quale Paese ha vissuto sino ad ora?
Non solo Mafia Capitale ma anche la più recente inchiesta “Quarto Passo” in Umbria mostra come le organizzazioni siano in tempo di crisi la nuova e unica linea di credito all’impresa italiana. Chi sottovaluta il problema non riesce a capire quello che sta accadendo nel Paese, e allora decide che è meglio prendere in giro e sottovalutare.
Il Pd sembra accorgersi solo ora del meccanismo di corruzione di cui molti suoi uomini erano protagonisti da molto tempo. Agisce costretto dalle inchieste giudiziarie quando avrebbe dovuto al contrario ispirare le inchieste.
Beppe Grillo ha detto, a proposito di Mafia Capitale: «La parola mafia ci depista. Ci ricorda qualcosa che non c’è più. Oggi un’associazione mafiosa è fatta da professionisti, politici, magistrati, poliziotti; il mafioso non c’è neanche».
Sono anni che si lotta per ribadire culturalmente che mafia significa invece proprio questo: impresa, borghesia imprenditoriale, rapporti con i media.
Mi domando: ma secondo Grillo cosa sono state le organizzazioni criminali italiane sino a questo momento? Dei cafoni armati di fucile?
Quindi secondo l’interpretazione di alcuni adesso, e solo adesso, la mafia sarebbe «diventata tridimensionale perchè ci sono dentro politici, imprenditori, massoni, spacciatori», e perchè ha smesso di parlare calabrese, napoletano, lucano, casertano, siciliano?
Queste sono semplificazioni inaccettabili.
Ciò che mi viene da dire a chi condivide queste tesi è: ma sapete che le cose sono sempre andate così?
Quando si riduce tutto al contadino dalla parlata incomprensibile, del cafone con il kalashnikov, si sta facendo il gioco delle mafie più o meno consapevolmente.
Il boss che sappia uccidere e allo stesso tempo gestire il segmento economico dell’organizzazione è la base di una struttura vincente.
Mafia Capitale è in realtà il primo e compiuto tentativo di dimostrare, da parte dei pm, che il modello delle mafie storiche è stato mutuato su Roma.
La novità scientifica di questa indagine non è limitata alla sola corruzione: ma dimostra come il meccanismo mafioso e l’operatività delle cosche si sia imposta nella vita della Capitale.
Per questa ragione il legame tra Carminati e le organizzazioni non è episodico e momentaneo.
Riuscite davvero a immaginare Pasquale Condello o Michele Zagaria che parlano con il sindaco di Sacrofano in merito al catering per la chiusura della campagna elettorale e si fanno commissionare una grigliata?
È inimmaginabile che un capo mafia del Sud si occupi di grigliate.
Ma attenzione: i clan si occupano di ogni singolo affare dal più piccolo al più grande. I Mazzarella di Napoli hanno raccolto estorsioni “straccione” persino dai lavavetri eppure investivano nei duty free in diversi aeroporti mondiali.
Provenzano stesso con i suoi pizzini interviene sulle strade interpoderali da affidare a imprese amiche.
Il ruolo mafioso di Carminati è un ruolo diverso rispetto a quello dei boss storici delle mafie tradizionali: è però l’anello che congiunge le mafie storiche e Roma: un multiservice con un certo grado di autonomia.
Da Reggio Calabria a Palermo le organizzazioni criminali sono in guerra aperta tra loro e sanno come essere parte dello Stato con strategie differenti.
Carminati e Buzzi sono diversi: hanno usato telefonini, hanno avuto incontri contrassegnati dall’imprudenza tipica di chi si sente tutto sommato fuori pericolo, di chi sente che l’attenzione è altrove, perchè è convinto che gli altri pensino che la mafia sia un’altra cosa, e che questo pensiero li proteggerà .
Chi parla di nuova mafia tridimensionale a Roma sembra aver rimosso l’influenza di Cosa Nostra sulla politica romana raccontata da Buscetta e della camorra raccontata da Galasso e parliamo di dati accertati da decenni, è storia condivisa insomma.
Ci si dimentica del braccio destro di Cutolo, Vincenzo Casillo ‘o Nirone munito di tesserino dei servizi, ucciso nell’83 a Roma proprio fuori la sede del Sismi in Via Clemente VII e l’elenco di connivenze sarebbe infinito.
Le mafie sono organizzazioni che da sempre hanno più sponde in politica, ed è esattamente ciò che differenzia il reato stesso di associazione mafiosa dalla semplice associazione criminale.
Se oggi si afferma che esiste un nuovo percorso, significa che non si è data abbastanza attenzione alla dinamica mafiosa fino a questo momento.
Significa non aver mai ascoltato chi da anni denuncia la presenza della mafia al Nord, la presenza della mafia a Roma.
Ci hanno considerati matti, esagerati, sbruffoni, speculatori, diffamatori eppure la verità è solo questa: il tema mafia fuori dai luoghi in cui si ritiene che le mafie nascano, ovvero il tema mafia fuori dalla Campania, dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Puglia è sempre stato sottovalutato, marginalizzato, mai approfondito, trattato solo nelle aule dei tribunali, solo in superficie.
Il primo ministro Renzi delega ai probiviri come se fosse una questione personale e di uomini.
Eppure il sistema fiscale e la burocrazia sono i grandi alleati delle organizzazioni criminali, il loro strumento d’accesso per divorare le imprese sane ancora rimaste in piedi.
È ovviamente già partita da soliti siti di retroscena e parte della stampa berlusconiana la sottovalutazione del problema per far credere che sia tutto un giro di poveracci e rubapolli. Non ce ne stupiamo.
Il motivo è semplice: sono complici spesso della stessa cultura che ispira questi mondi criminali romani pensando che mafioso sia solo lo sfregio di Al Capone o l’occhio pigro di Lucky Luciano.
Iperbole e sfottò sono uguali modalità per non comprendere. Ora l’inchiesta dimostra che le grandi organizzazioni criminali storiche sono su Roma da sempre e che Carminati e Buzzi sono solo una rubrica dei loro affari.
Ciò che è cambiato non è la mafia, non è la sua tridimensionalità , non è il coinvolgimento di politici, imprenditori o massoni deviati ma il fatto che ora la presenza a Roma è diventata innegabile.
La mafia non si esporta, ma come ogni modello vincente si diffonde in nome della sua capacità di successo e di intimidazione.
Il fenomeno va contrastato, ma prima va capito.
Il Paese si è accorto che le mafie si sostituiscono alle banche quando non sono (ma su questo c’è da lavorarci molto) direttamente partner delle banche italiane?
Il governo deve affrontare il problema dal lato della sua rilevanza economica.
O si interrompe questo meccanismo, o in Italia l’economia più forte, quella vincente, quella che verrà imitata e che diffonderà i propri modelli, continuerà a essere l’economia mafiosa.
Roberto Saviano
(da “La Repubblica“)
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