Dicembre 22nd, 2014 Riccardo Fucile
NESSUN ACCENNO A UN ISTITUTO CHE ESISTE NEGLI ALTRI PAESI EUROPEI PER AIUTARE CHI E’ IN DIFFICOLTA’
Il governo presieduto da Matteo Renzi ha rinunciato a introdurre il salario minimo.
Se ne era parlato a più riprese e si sarebbe trattato di una novità importante che avrebbe introdotto, utilizzando il veicolo del Jobs act, un principio che si trova in quasi tutti gli altri ordinamenti europei.
Si era aperto anche un dibattito critico perchè i sindacati confederali – segnatamente la Cgil di Susanna Camusso – avevano avanzato il timore che il salario minimo riducesse spazio e valore dei contratti nazionali di lavoro.
Da qualche altra parte, invece, si era sostenuto che poter «sventolare» un minimo retributivo di legge avrebbe rappresentato un segnale di attenzione e cittadinanza nei confronti di quei lavoratori extracomunitari che nell’agricoltura o nella logistica sono super-sfruttati dai padroncini o dalle coop spurie con orari giornalieri interminabili e paghe che definire misere è un eufemismo.
Se queste erano le premesse e gli intendimenti, alla fine i decreti legislativi attuativi della legge-delega sul Jobs act saranno per ora solo due e si limiteranno al contratto a tutele crescenti e agli ammortizzatori.
D.D.V.
(da “il Corriere della Sera“)
argomento: denuncia | Commenta »
Dicembre 22nd, 2014 Riccardo Fucile
ECCO LE SORPRESE PRINCIPALI
Neppure i senatori sapevano bene cosa stavano votando giovedì notte, con il maxiemendamento del governo riscritto in fretta perchè Matteo Renzi voleva l’approvazione immediata della legge di Stabilità .
Solo ora che la manovra è approvata alla Camera, grazie ai dossier della commissione Bilancio guidata da Francesco Boccia (Pd) possiamo sapere che cosa ha approvato davvero il Senato.
“E’ vero, gli interventi territoriali e settoriali sono rimasti ” ha dovuto ammettere il viceministro dell’Economia Enrico Morando, ieri mattina alla Camera.
In politichese questo è il nome delle “marchette”.
Aiutini di ogni tipo, che non dovrebbero trovare spazio in un provvedimento per sua natura generale come la legge di Stabilità incaricata di fissare i cardini del bilancio dello Stato, non di stabilire minuzie di interesse esclusivo di alcune lobby come i sussidi agli aliscafi nel Ponte sullo Stretto di Messina (30 milioni) o i 15 milioni Andora-Finale Ligure.
Vediamo le sorprese principali.
Eni.
Semplificazione del regime autorizzativo per il trasferimento e lo stoccaggio di idrocarburi, a cui viene esteso il regime delle “opere strategiche” già concesso agli impianti. Questo velocizza l’iter sul suo contestato progetto a Tempa Rossa, in Basilicata. All’Eni — e colossi come Hera — piace sicuramente anche l’aumento dell’Iva dal 10 al 22% sul “pellet da riscaldamento” — segatura essiccata e compressa che si usa per le stufe — e mette fuori mercato un concorrente del gas.
Giochi.
È un sostanziale condono per i “soggetti che offrono scommesse con vincite in denaro senza essere collegati al totalizzatore nazionale di regolarizzare la propria posizione”. Devono solo, entro il 31 gennaio, presentare all’Agenzia dei monopoli “una dichiarazione di impegno alla regolarizzazione fiscale per emersione” e versare 10.000 euro.
Autotrasportatori.
Dovevano subire il taglio del 15% del credito d’imposta sul gasolio, ma hanno ottenuto un rinvio addirittura al 2019.
Partiti.
La detraibilità dei versamenti effettuati ai partiti politici (la bellezza del 26%) vale anche per le “donazioni”. La norma interessa proprio parlamentari e eletti, che in genere versano una parte del loro stipendio al partito.
Frequenze tv.
Finora l’Agcom aveva il compito di assegnare quelle non utilizzate a livello nazionale alle televisioni locali: ora l’Autorità — in alcuni casi — potrà dare queste frequenze anche a Rai, La7 e Mediaset.
Armatori.
Cinque milioni l’anno per i prossimi venti per “progetti innovativi nel campo navale”.
Lupi/1.
Il ministero di Maurizio Lupi — cioè Infrastrutture e Trasporti — ottiene di poter affidare, in deroga alla legge, ancora per un altro anno un bel po’ di consulenze con contratti di collaborazione coordinata e continuativa.
Lupi/2.
Cinque milioni e mezzo sono stanziati per la tutela e la promozione del patrimonio culturare “e storico”. Come spenderli li decide, chissà perchè, il ministero delle Infrastrutture dopo aver fatto una telefonata a quello dei Beni culturali.
Expo 2015.
Nonostante gli scandali sulla corruzione e gli appalti, un piccolo comma consente a Expo Spa di fare gare d’appalto senza passare per Consip, cioè la centrale degli acquisti che dovrebbe individuare i prezzi più convenienti. Non proprio una grande idea per un’impresa che è già nell’occhio del ciclone per vicende non edificanti. Un’altra norma, invece, autorizza la spesa di 7,5 milioni di euro per interventi sul Duomo di Milano in vista di Expo 2015.
Sicilia 1990.
Trenta milioni l’anno fino al 2017 per “i soggetti colpiti dal sisma del 1990 che ha interessato le province di Catania, Ragusa e Siracusa”.
Molise 2002.
Cinque milioni di euro per le zone colpite dal terremoto del 2002, quello in cui crollò la scuola di San Giuliano.
Sardegna.
La regione guidata dal democratico Pigliaru è autorizzata, non si sa perchè, a utilizzare 50 milioni di trasferimenti statali destinati al pagamento del debito per finanziare investimenti. Sempre alla sola Sardegna vengono destinati 5 milioni di euro per la ristrutturazione delle scuole (anche se palazzo Chigi sta attuando un piano nazionale sul tema che riguarda, ovviamente, anche la Sardegna).
Poste.
Il governo trova 535 milioni che spettano al gruppo di Francesco Caio (erano dovuti in base a una sentenza Ue su aiuti di Stato), la “copertura” arriva riducendo il fondo per pagare i debiti dei ministeri. Per garantire il servizio universale(cioè la distribuzione di lettere) ci sono 264 milioni l’anno dal 2015, meno che in passato ma i postini hanno quattro giorni lavorativi per consegnare la posta non prioritaria.
Irap.
Attenzione, dicono i tecnici della Camera: introdurre un credito d’imposta Irap per i lavoratori autonomi senza dipendenti potrebbe causare una procedura d’infrazione Ue.
Ci sono 130 emendamenti alla Camera, ma il testo pare blindato ed è difficile che ci siano modifiche, perchè poi dovrebbe tornare al Senato.
Stefano Feltri e Marco Palombi
(da “il Fatto Quotidiano”)
argomento: governo | Commenta »
Dicembre 22nd, 2014 Riccardo Fucile
AVEVA 70 ANNI… CELEBRE LA SUA VERSIONE DI “WITH A LITTLE HELP FROM MY FRIENDS” DEI BEATLES
Aveva compiuto 70 anni nel maggio scorso: Joe Cocker si è spento oggi, a Crawford, in Colorado, dopo una vita trascorsa cantando.
Il suo agente, Barrie Marshall, ha confermato la notizia data dalla Bbc, e ha dichiarato: «Era semplicemente unico, sarà impossibile riempire il vuoto che lascia nei nostri cuori».
Due giorni fa voci sulla sua morte si erano diffuse sul web, subito smentite: «Non credete a tutto quello che leggete su Internet — aveva fatto sapere il manager — Joe è vivo e sta bene».
Oggi sembra invece che il grande cantante inglese, malato da tempo di un tumore ai polmoni, se ne sia andato davvero.
Gli inizi e le cover dei Beatles
Aveva iniziato la carriera musicale nella sua città natale, Sheffield, all’età di 15 anni, con il nome d’arte di Vance Arnold; la sua prima band gli Avengers, poi i Big Blues (1963), e infine The Grease Band (1966).
Il suo primo singolo la cover dei Beatles“I’ll Cry Instead”, dall’album “A Hard Day’s Night”.
Dopo un qualche successo in Gran Bretagna con il singolo “Marjorine”, la sua fama è scoppiata con la sua versione di “With a Little Help from My Friends”, un’altra cover beatlesiana.
Nel 1969 aveva cantato a Woodstock, e la sua interpretazione del brano di “Leon Russell Delta Lady” era stata un nuovo successo.
I problemi con l’alcol e il grande successo
All’inizio degli anni settanta la sua carriera si bloccò per una serie di problemi soprattutto legati all’abuso di alcol; Cocker ritornò però prepotentemente a scalare le classifiche nella seconda metà degli anni ottanta, con la sua versione di “You Can Leave Your Hat On”, scritta da Randy Newman, dal film 9 settimane e ½. Di inizio decennio il duetto “Up Where We Belong”, (brano scritto da Buffy Sainte-Marie e Will Jennings) e cantato con Jennifer Warnes dal film “Ufficiale e gentiluomo”, Oscar per la miglior canzone); più in là nel tempo arriveranno “Unchain My Heart”, “When the Night Comes”, “N’oubliez jamais”.
Gli ultimi dischi
Nel 2010 un nuovo album “Hard Knocks”, il primo di inediti dopo otto anni, è prodotto da Matt Serletic. Cocker e Serletic tornano a lavorare insieme due anni dopo con “Fire It Up”.
La sua interpretazione aveva un’intensità fisica, spesso presa in giro da John Belushi nei suoi spettacoli: al Saturday Night Live ci fu anche un indimenticabile duetto improvvisato tra di loro, in una puntata in cui Cocker era ospite.
I suoi ultimi concerti risalgono al 2011 e pochi giorni fa, il 17 dicembre, dal palco del Madison Square Garden l’amico Billy Joel aveva parlato di lui, dicendo che non stava bene e che sarebbe stato bello e giusto farlo entrare in extremis nella Rock and Roll Hall of Fame.
Il desiderio non è stato esaudito, però ci è entrato Ringo Starr, che cantò la prima versione della canzone che rese celebre Cocker, ovvero “With Aa Little Help fron My Friends”.
Premi e collaborazioni
Vincitore del Grammy nel 1983, con «Up where we belong», nel 2007 era anche stato nominato membro dell’Order of British Empire, dedicato a chi eccelle in genere nelle arti e consegnato direttamente dalla regina Elisabetta II. Cocker vantava collaborazioni con i più grandi artisti mondiali, anche con l’italiano Eros Ramazzotti, in particolare per la canzone «That’s all I need to know», inserita nell’album «Eros Live» del 1998.
UN RICORDO
Era il santo protettore di ogni addio al celibato o al nubilato, di ogni apparizione in tv di starlette grandi forme, di ogni rimpatriata tra amiche trash per l’8 marzo.
Lui che voleva solo cantare il blues bevendo birra finchè il suo enorme ventre glielo permettesse, lui che era stato una delle immagini simbolo dell’orgia di musica, pace & amore di Woodstock, lui che con la sua voce ci potevi arrotare la lama del coltello, sarà irrimediabilmente ricordato per “You can leave your hat on”, la canzone scritta da Randy Newman per il film 9 settimane e ½.
SUL PALCO DI WOODSTOCK
C’è poco da fare: Kim Basinger che si spogliava dietro le veneziane per quel malizioso di Mickey Rourke (che prima degli eccessi e della chirurgia plastica era uno che la sua porca figura la faceva persino con una come la Basinger) era un’immagine troppo forte per non imprimere nel subconscio di intere generazioni quelle note ammiccanti.
La tragica deriva che ha portato a milioni di spogliarelli casarecci accompagnati da quell’introduzione di ottoni (para-para-pa-pà / para-para-pa-pà ) non è ovviamente imputabile al genio musicale di quell’ugola di cartavetro.
LA VOCE DI 9 SETTIMANE E ½
Joe Cocker era, a dire il vero, la cosa più lontana dal glam che si potesse immaginare. Bello non era, rivoluzionariamente irsuto sì.
Esplose cantando a Woodstock la sua (indimenticabile, questa sì) versione di “With a little help from my friends” dei Beatles.
Graffiante, sporco, ribelle, terribilmente ubriaco. Questo era il Joe Cocker emblema degli anni Sessanta e Settanta.
Tanto da diventare oggetto di una celebre imitazione di John Belushi, con tanto di duetto (finito stramazzando a terra) tra i due.
Dopo la fama la caduta, poi la risalita con Kim Basinger, poi la ricaduta.
Ma ancora molta musica dal vivo e un successo internazionale come “Unchain my heart”.
Se ne va oggi a 70 anni, strappato alla vita dal cancro.
Sarebbe bello ricordarlo eccessivo e meraviglioso sul palco di Woodstock, non dietro le veneziane.
Alberto Infelise
(da “La Stampa”)
argomento: arte | Commenta »
Dicembre 22nd, 2014 Riccardo Fucile
NIENTE CARCERE PER L’OMISSIONE STRADALE CON IN NUOVO DECRETO DEL GOVERNO
Se investite qualcuno e non prestate soccorso, non dovete più temere il carcere.
E’ questo uno dei paradossali effetti della riforma che abolisce la detenzione per i reati “minori”. Tra questi c’è pure l’omissione di soccorso.
Il tutto accadrà con l’applicazione del decreto legislativo di attuazione della Legge delega 67/2014, varato dal Consiglio dei Ministri.
Volendo fare qualche esempio, i reati che compongono l’estesa lista in materia di depenalizzazione, sono: le contravvenzioni disciplinate dal Codice penale, nonchè quei reati contro il patrimonio come il furto semplice, la truffa e l’appropriazione indebita.
Tutti i reati depenalizzati
Trovano spazio anche alcuni reati commessi contro la persona, quali la lesione personale semplice, l’aver preso parte a risse da cui consegue morte o lesione di qualcuno, l’omicidio colposo semplice, l’omissione di soccorso ed infine anche molte ipotesi di reati societari che vanno dal falso in bilancio all’impedito controllo della formazione fittizia di capitale.
Sono inclusi in questa lunga lista anche alcune ipotesi di illecito fallimentare, come la bancarotta semplice e l’omessa dichiarazione dei redditi o l’infedele dichiarazione.
E ancora il danneggiamento, le omesse ritenute, la violazione di domicilio, il rifiuto di atti d’ufficio e l’abuso di ufficio.
Infine via libera, almeno senza paura di finire in cella anche per chi commetterà incesto, occulterà cadaveri o verrà trovato in possesso o sorpreso a fabbricare documenti di identificazione falsi.
(da Agenzie)
argomento: denuncia | Commenta »
Dicembre 22nd, 2014 Riccardo Fucile
SI TRATTA DEI SENATORI VACCIANO E SIMEONI E DEL DEPUTATO IANNUZZI: “IL MOVIMENTO E’ CAMBIATO”
Terremoto in casa Cinque Stelle: il MoVimento di Beppe Grillo perde tre parlamentari in un giorno solo.
Hanno rassegnato le dimissioni, infatti, i senatori Giuseppe Vacciano e Ivana Simeoni e il deputato Cristian Iannuzzi.
La conferma arriva dal capogruppo del Cinque Stelle alla Camera, Andrea Cecconi. E la motivazione è il cambiamento della “linea politica” del grillismo.
Vacciano: “Lascio il Senato non il gruppo parlamentare”.
All’interno del MoVimento, Vacciano ricopriva il ruolo di tesoriere. Si apprende che ha già inviato la lettera di dimissioni al presidente del Senato, Pietro Grasso. “Oggi ho consegnato la mia lettera di dimissioni irrevocabili dal Senato, NON dal gruppo parlamentare M5S”.
Lo scrive su Facebook il senatore del Movimento 5 Stelle Giuseppe Vacciano, confermando la notizia.
“Lascio ai colleghi e ovviamente al nostro garante la decisione sulla mia permanenza nel gruppo parlamentare sino al momento dei definitivi saluti”, sottolinea Vacciano.
E assicura: “Non ho alcun interesse in altri partiti, gruppi, movimenti, correnti e tantomeno nel continuare a svolgere attività politica di qualsiasi livello”.
“Il MoVimento contro se stesso”.
“Le decisioni prese e le scelte organizzative fatte nelle scorse settimane” dal M5S, “a mio avviso sono distanti da quanto ho sostenuto e per il quale ho combattuto in questi anni”, prosegue il senatore.
“Oggi non riesco a identificare in questo Movimento (anche se sono fermamente convinto che rappresenti l’ultima speranza per il Paese) alcuni elementi per me fondamentali, nei quali credo profondamente. Ignorare o fingere di ignorare questo fatto vorrebbe dire essere intellettualmente disonesto e approfittare della fiducia di tante persone”.
Iannuzzi, figlio della Simeoni, da tempo era apertamente in dissenso con la linea del gruppo e dei vertici.
(da “La Repubblica”)
argomento: Grillo | Commenta »
Dicembre 22nd, 2014 Riccardo Fucile
NOME DI FANTASIA, NIENTE DOCUMENTI E CODICE FISCALE… IL NUMERO DEI FINTI ISCRITTI PUO’ CRESCERE ANCHE COSI’
Da cinque giorni ho in tasca una tessera del Pd totalmente falsa.
Non è stato poi troppo difficile ottenerla, mi è bastato dare il primo nome che mi è venuto in mente. Nessuno mi ha chiesto nè una carta d’identità nè una patente.
Mi è stato specificato che anche il codice fiscale non è importante: conta solo versare i 20 euro necessari
Vuol dire che due anni sono stati presi e buttati via. Era l’aprile del 2013 quando esplosero le polemiche intorno alle primarie per il sindaco di Roma con le file di rom fuori dai seggi denunciate da Cristiana Alicata – allora dirigente del partito nel Lazio – e ignorate.
E poi lo scandalo delle tessere gonfiate, le rivelazioni dell’inchiesta Mafia Capitale e il commissariamento.
Tutto questo non sembra aver ancora insegnato nulla al Pd romano.
Matteo Orfini, il presidente del partito mandato dal segretario Matteo Renzi a fare pulizia tra i circoli della capitale, dieci giorni fa aveva annunciato di voler iniziare il suo lavoro dagli 8mila iscritti nella capitale per passare le loro tessere ai raggi X.
Ha ragione perchè iscriversi al Pd in alcuni casi è davvero troppo semplice.
Molto dipende dal fatto che è l’ultimo partito ad avere una presenza davvero capillare sul territorio, oltre 6mila circoli, un punto di forza dal punto di vista elettorale ma anche un’opportunità per chi abbia voglia di sottrarsi ai controlli centrali e usare partito e tessere per i propri interessi.
La lista completa dei circoli non è semplice da trovare, sul sito del Pd c’è una mappa 2.0 molto bella ed avanzata con le regioni da cliccare.
Peccato che non funzioni.
Per trovare l’elenco dei circoli della capitale è più utile andare a cercare sul sito del Pd Roma.
Nella mia zona di residenza ne sono indicati almeno sei. Due sono semichiusi perchè, fatta eccezione per i circoli storici, gli altri si appoggiano a strutture dove affittano spazi per poche ore a settimana: trovarli aperti al primo colpo è difficile.
Il terzo tentativo è in via Galilei 57, un enorme locale al piano terra gestito da diverse associazioni. Per il Pd devo tornare di giovedì, dopo le 18.
Giovedì 18 dicembre alle sei sono lì, accolta con incredulità e una certa emozione da un giovane pieddino: deve essere trascorso molto tempo dall’ultimo nuovo tesserato arrivato a sostenere il partito.
Mi fa entrare nella stanza a disposizione del partito una volta a settimana, racconta che pagano 400 euro al mese per averla e che 15 dei 20 euro della mia futura tessera andranno al circolo, gli altri 5 alla federazione.
Mi spiega che è in corso l’ultimissima fase del tesseramento 2014 ma che per avere la tessera del 2015 bisognerà aspettare almeno sei mesi.
Lo rassicuro, voglio sostenere il Pd, verserò la mia quota comunque e inizio a compilare i moduli.
Invento un nome, lo scrivo. Invento un numero di telefono, lo scrivo. Sbaglio il codice fiscale, sto per scriverlo di nuovo in base al nome che ho inventato ma il giovane mi spiega che non è necessario, a loro non serve.
Scrivo di essere disoccupata, invento una mail che sarà uno scherzo aprire al ritorno a casa per ricevere le comunicazioni, firmo, pago, ringrazio, saluto, vado via.
Flavia Alessi è iscritta: non una parola su di me, sui motivi che mi hanno portata a scegliere all’improvviso il Pd.
Quando il giorno dopo Flavia Alessi prova a forzare ancora di più il gioco iscrivendosi anche agli altri partiti si trova di fronte ad un’atmosfera molto diversa. Nessuno ha più soldi a sufficienza per tenere aperte tante strutture, i tesseramenti avvengono esclusivamente online oppure all’interno di circoli dove si è talmente pochi che tutti si conoscono e i nuovi arrivati vengono osservati con attenzione.
Resta una possibilità aperta solo con Sel: nel tesseramento online non è richiesto alcun tipo di documento.
Ma è più facile che in questo momento faccia gola un eventuale assalto al Pd che a Sel.
Flavia Amabile
(da “La Stampa”)
argomento: Partito Democratico, PD | Commenta »
Dicembre 22nd, 2014 Riccardo Fucile
MESSA IN SOFFITTA DA TEMPO LA RIVOLUZIONE COMUNISTA, UN POPOLO IMPOVERITO SI INTERROGA SUL FUTURO
Nessuno ti fa la domanda, anche se è negli sguardi. Nessuno ti chiede se sei venuto per il funerale della rivoluzione, o per la festa della pace.
Per tutte due, è evidente, avresti voglia di rispondere. Senti subito l’interrogativo silenzioso, insistente, colmo d’ansia, anche negli incontri casuali.
Chi ha vinto e chi ha perso? Vorrebbero saperlo persino a Miramar, quartiere dell’Avana privilegiata, dove abita gente benestante di solito convinta di sapere anche quel che non sa.
Ha vinto la ragione, è altrettanto evidente. Questa è l’altra mia risposta.
Barack Obama ha la sua parte di quella ragione: cerca di liberarsi di una sinistra persecuzione durata troppo a lungo, che non fa onore al suo paese.
Raàºl Castro amministra invece il fallimento del suo comunismo tropicale. Di solito chi fallisce subisce un’altra sorte. Armato pure lui di una parte di ragione, per ora l’ha scampata. Ma siamo soltanto all’inizio.
Nel ’61 capitai a Cuba in primavera. Poco dopo fu proclamata la Repubblica socialista. Il manto comunista che avrebbe senza preavviso di lì a poco avvolto l’isola, le sue piantagioni di canna da zucchero, la sue spiagge splendide, le belle chiese barocche e i più eleganti quartieri del continente latino americano all’Avana, prima che quella scelta politica fino allora nascosta diventasse ufficiale, visitai il paese pensando ai generosi progetti di Fidel Castro, guerrigliero sulla Sierra Maestra.
Nel mezzo secolo che seguì la storia dell’isola ha imboccato un’altra strada. Un ritorno a quelle origini è impossibile. Ma è comprensibile che in queste ore prevalga la fretta di conoscere il futuro immediato, che potrebbe essere, col tempo, non tanto dissimile da quello progettato mezzo secolo fa e poi tradito. Un’altra utopia
Dopo l’annuncio che ha tolto il fiato a mezzo mondo pur essendo atteso da tempo, si aspettano i fatti e le incognite sono tante.
E’ già buio e la città è ancora in preda a un’agitazione nevrotica. C’è folla anche sui viali residenziali di solito deserti a quest’ora. E’ tuttavia meno fitta di ieri.
Gli attempati vicini spiegano a me straniero come il cerchio che strangolava l’isola si sia spaccato.
La conversazione è sempre più accesa sul marciapiede nell’attesa di un taxi, tra un’orda di turisti europei di Natale. Non credo si parlasse fino a pochi giorni fa di politica ad alta voce in pubblico. Ma l’opinione dei presenti, associatisi di slancio alla conversazione, è favorevole all’“abbraccio” tra Barack e Raàºl, tra l’America e Cuba, e quindi non spiacerebbe certo al potere che l’ha voluto.
Quando affiora tuttavia la questione dei 250mila e più esuli cubani di Miami qualcuno esita. Tace. Torneranno? E se torneranno cercheranno di recuperare i loro beni? E accetteranno il potere che si dice ancora comunista? E come sarà la concorrenza americana negli affari? Nessuno chiede se i fratelli Castro reggeranno alla svolta.
Non è il caso nonostante la tolleranza poliziesca di questo particolare momento. Certi argomenti guastano l’entusiasmo.
Adesso riassumendo i pareri raccolti in vari posti e occasioni nella città emerge il dubbio, creato dai tanti punti che restano oscuri.
Un dubbio che non annulla, scalfisce soltanto, la gioia iniziale del 17 dicembre quando Barack e Raàºl hanno detto, uno a Washington e l’altro all’Avana, che era giunto il momento di farla finita con il conflitto di cinquant’anni.
Molti cubani adesso dicono “Barack e Raàºl”, come se fossero loro vecchi amici.
E Fidel? L’impressione è che se ne parli poco, come se fosse stato inghiottito dal passato. Dalla storia.
La pace, quando scoppia, la si festeggia comunque. Poi, dopo il primo grande senso di sollievo, sorgono sentimenti più sfumati.
Anche su chi sono i vinti e chi sono i vincitori. Degli uni e degli altri ce ne sono sempre in un conflitto che sta per finire. I colpi di scena, fino a pace fatta sul serio (in questo caso la fine delle sanzioni economiche) sono sempre possibili.
La fragilità economica relega il regime cubano nel campo dei vinti. E tuttavia la svolta è stata gestita, almeno per il momento, da quel regime.
La sopravvivenza politica è già un successo. Una vittoria, ma effimera. Il processo è appena iniziato e le scosse politiche al vertice non sono da escludere.
Fatte le debite proporzioni uno pensa alla Cina che pur dichiarandosi comunista applica l’economia di mercato, e che ha stretto rapporti con gli Stati Uniti mentre armava il Nord Vietnam in guerra con gli Stati Uniti.
Paragonare il piccolo, sgangherato comunismo tropicale con la grande Cina può far sorridere.
Il fatto che il comunismo, o quel che si ritiene tale, non costituisca più un avversario, o non rappresenti più un’alternativa, dà alla odierna vicenda di Cuba un valore soprattutto simbolico. Un coriandolo rispetto alla super potenza asiatica. Ma qualche similitudine c’è.
Non sono simboliche le sofferenze di uomini e donne per la simultanea responsabilità del regime locale e delle sanzioni imposte dal vicino e ricco colosso americano.
Così come non è simbolica, ma grottesca, l’insistenza dei repubblicani che al Congresso di Washington esitano o rifiutano di togliere l’embargo obsoleto e vendicativo contro Cuba.
La rivoluzione è agonizzante da tempo. L’alchimia politica ha mischiato la sua agonia con la pace.
Esausta, scarnita, con sempre meno soccorritori, la rivoluzione cubana non suscita più l’intenso odio di un tempo, e ancor meno costituisce una minaccia.
La rivoluzione disinnescata consente la pace. Barack Obama l’ha capito e cerca di chiudere il capitolo.
Nella primavera di 53 anni fa, nell’aprile del 1961, percorrevo le stesse strade buie di adesso venendo dall’aeroporto. Sul taxi ascoltavo alla radio la forte voce di Fidel che processava in pubblico i controrivoluzionari sbarcati e catturati sulla Playa Giròn e la Playa Larga, nella Baia dei Porci.
Li aveva armati e mandati la CIA, e Fidel chiedeva cosa se ne dovesse fare. La gente scandiva «al muro».
I “cusanos” (i «vermi» come li chiamava Fidel), i prigionieri, furono poi scambiati contro 53 milioni di dollari, dei prodotti alimentari e sanitari.
In gennaio gli Stati Uniti avevano rotto i rapporti diplomatici con Cuba. L’America di Kennedy fece una figuraccia. Fidel sbandierò la sua vittoria. Il pigmeo cubano umiliò allora il gigante americano.
La rivoluzione cubana ebbe un inizio romantico.
Fidel, il Che, Camillo Cienfuegos affiancati hanno acceso le fantasie non soltanto rivoluzionarie. Avevano profili da divi di Hollywood ed erano dei guerriglieri audaci e colti.
Camillo morì presto in modo non chiaro, il Che fu ucciso in Bolivia, Fidel fu un dittatore longevo e non certo rispettoso dei diritti dell’uomo che aveva predicato sulla Sierra Maestra.
Ma nonostante le sue prigioni fossero popolate di oppositori politici, usufruì sempre di una certa indulgenza. La sfida alla superpotenza, invasiva, arrogante, assolse spesso le sue alleanze con i dittatori comunisti sparsi nel mondo.
Le giustificò come inevitabili, anche se non lo erano. In particolare l’intesa interessata con l’Unione sovietica che comperava lo zucchero invenduto.
Il comunismo tropicale conservò anche nei suoi momenti peggiori (ad esempio la persecuzione dei gay nel mezzo dei Sessanta) molte simpatie.
Barack ha capito che malgrado le colpe di Fidel l’isolamento diplomatico e le sanzioni imposte dagli Stati Uniti erano puro sadismo.
Erano una punizione indegna. L’isola immiserita (e pur sempre invasa da turisti benestanti e non, affascinati dai suoi abitanti e le sue bellezze naturali) era il teatro di un’utopia fallita, alimentata anche dall’orgoglio.
Visto da vicino era lo spettacolo triste di un orgoglio stanco e tarato da mille furbizie indispensabili per sopravvivere. Ma quell’orgoglio, al contrario dell’economia sempre più debole, dava energia.
Di quel sentimento ha approfittato, con l’ausilio della polizia, il gruppo dirigente, attorno ai fratelli Castro. Fratelli sempre uniti ma di recente costretti a una diversità dei ruoli imposta dall’emergenza.
Raùl, 83 anni, il fratello minore di Fidel, che di anni ne ha 88, è approdato a un pragmatismo che lo allontana dagli ideali e lo spinge a guardare al concreto. Vale a dire al dollaro.
Non è una svolta volgare, un tradimento, è la saggezza. Il paese soffre. Non può più essere il teatro di una rivoluzione con la sola prospettiva della bancarotta.
Con la fine degli aiuti dell’Unione Sovietica l’economia cubana è crollata del 40 per cento. Ed ora, con la crisi che attanaglia il Venezuela, dove non c’è più il generoso amico Chavez e il prezzo del petrolio precipita, anche gli aiuti latino americani vitali sono praticamente finiti.
Cuba era sempre più sola. L’abbraccio alla super potenza è la via di scampo.
Per ora avviene con dignità . Raàºl non rinnega formalmente il comunismo, cui si richiama tuttora con retorica clericale.
Salva così l’orgoglio e soddisfa il fratello Fidel, indebolito dalla malattia e ritiratosi nella Storia. Forse lo risentiremo. Non è escluso che parli ancora dalle rovine della rivoluzione.
Ma la sua voce arriverà dal passato.
Bernardo Valli
(da “la Repubblica”)
argomento: Esteri | Commenta »
Dicembre 22nd, 2014 Riccardo Fucile
HA BATTUTO GLI ISLAMISTI ALLE URNE: “IL PASSATO NON TORNA”
Mabrouk, scrive l’Economist: congratulazioni Tunisia, «Paese dell’anno».
Nuova Costituzione, urne no stop, diritti alle donne. E da oggi un presidente scelto dal popolo.
Un caso unico, nel disastro delle primavere arabe: «La Tunisia ha preso una sua strada, siamo musulmani moderati che accettano tutti…».
L’avvocato Beji Caid Essebsi, per i giornali Bce, porta occhiali da sole che valgono più d’un manifesto politico: uguali a quelli che usava Habib Bourghiba, padre della Tunisia moderna. Un vezzo. Con Bourghiba, Bce condivise il governo e la stessa idea di Tunisia.
A 88 anni, ha sorpreso tutti per la rapidità con cui ha fondato il partito Nidaa Tounes e s’è preso il Paese, quasi trasformando la Rivoluzione dei Gelsomini in una seconda indipendenza: «Ma no – obbietta al Corriere –, la rivoluzione è stata una tappa nella storia. Abbiamo avuto i liberali del Destour, poi Bourghiba. Ora tocca a noi. Gli ultimi vent’anni con Ben Ali hanno deviato la nostra marcia riformista verso uno Stato moderno. Spero d’avere la forza per arrivarci».
Lei è il primo leader d’una Primavera araba che abbia bloccato gl’islamisti con regolari elezioni.
«Io voglio essere il presidente di tutti i tunisini. La Primavera araba è un’altra cosa. Questo Paese ha fatto una rivoluzione tunisina, non araba. Ponevamo il problema della libertà e la libertà , si sa, non ha frontiere. Però lo scopo non era d’intromettersi negli affari dell’Egitto o della Libia. Se vogliono prendere esempio, facciano. Ma sia chiaro: noi non esportiamo rivoluzioni».
Perchè i Fratelli musulmani hanno fallito?
«Hanno tentato di risolvere i problemi. Ma una soluzione va accettata dalla volontà popolare e quella non era la soluzione che i tunisini cercavano. Quel che va bene per alcuni, non deve per forza andar bene a tutti».
Ma farà coalizione con loro?
«Bisogna aspettare i dati definitivi. Il governo attuale sta in carica fino a gennaio, poi ci saranno i ricorsi e un premier da proporre: almeno un mese. Non so se faremo coalizione con loro, ma non è urgente. E poi non sono più solo: devo consultarmi con gli alleati».
L’accusano di riportare al potere i benalisti…
«Dentro Nidaa Tounes, nessuno s’è compromesso con Ben Ali. E lo stesso Ben Ali è già stato processato e condannato. Noi continueremo a cercare di recuperare i soldi finiti all’estero».
Ma prima di rompere con Ben Ali, lei fu suo portavoce: salva qualcosa di quel regime?
«Non prendo posizioni di principio, devo governare il Paese con la nuova Costituzione. Mi smarco non dalle persone, perchè non ha senso, ma dalle politiche terribili dell’epoca di Ben Ali. Non guiderò il Paese da dittatore, ma da cittadino fra i cittadini. Credete che alla mia età voglia prendermi tutto?».
Nei quattro anni dopo la rivoluzione, avete sentito la vicinanza dell’Occidente?
«L’Occidente ha salutato il nuovo modello di società tunisina, poi però non ci ha offerto molto. Di noi s’è occupato il Fondo monetario, che fa il suo lavoro: il sostegno politico è un’altra cosa».
Lei ha detto che rompere con Assad fu un errore. Riaprite l’ambasciata a Damasco?
«Lo deciderà il governo, ma io farò tutto il possibile in questa direzione. I principi di dialogo, ai quali voglio tornare, possono dare risultati».
La Tunisia è il Paese che dà più volontari al jihadismo…
«Il terrorismo è una sfida. Cercheremo la verità sugli esponenti politici uccisi negli ultimi due anni, il silenzio sulle loro morti è un’umiliazione per il nostro popolo. Con un Paese vicino come l’Algeria, le relazioni sono migliorate proprio nella cooperazione sulla sicurezza».
L’altro vicino è la Libia.
«La Libia è un problema enorme. Non esiste più uno Stato, solo gruppi armati. Un accordo tocca ai libici: sono contrario a ogni intervento esterno. Forse, è pensabile un’azione regionale con Algeria, Mali, Niger, Egitto… Ma non possono esserci forze militari straniere, solo un intervento politico che preme a tutti, Italia compresa».
La Tunisia è il primo Paese visitato da Renzi premier…
«Siete i nostri vicini più vicini. Voi ci capite e noi vi capiamo. Lo sa che i miei avi venivano dalla Sardegna? Continueremo a incoraggiare le aziende italiane perchè delocalizzino qui».
È il leader più anziano dopo Mugabe, il re saudita, Napolitano ed Elisabetta II. Non le pesa un mandato di 5 anni?
«Napolitano e la regina hanno svolto un ruolo fondamentale nella stabilità di Italia e Regno Unito. L’età non mi disturba: la giovinezza è uno stato dello spirito. Adenauer ha guidato la Germania in età avanzata».
Per non dire di Bourghiba: tiene il suo busto nello studio.
«Sono cose importanti. Il prestigio d’uno Stato si restaura con l’equilibrio delle istituzioni, con la qualità degli uomini e con la maestà dei monumenti. La statua sull’Avenue Bourghiba, la via principale di Tunisi, è una questione nazionale…».
Quale statua?
«L’Avenue si chiamava Jules Ferry, dal presidente francese del protettorato, e aveva una statua di Ferry con un beduino ai suoi piedi. Con l’indipendenza fu messo un monumento equestre di Bourghiba, ma Ben Ali lo fece togliere. Che senso ha l’avenue Bourghiba senza Bourghiba? C’era anche una statua del cardinale Lavigerie, primate d’Africa. Oggi lì c’è Ibn Khaldoun, il padre della sociologia moderna, e per fortuna l’hanno lasciato. Bourghiba e Kaldoun. Questo è il messaggio: siamo gente aperta, c’interessa la conoscenza. Ora che la storia s’è ripresa lo spazio della cronaca, se la statua di Bourghiba torna dove stava, significa che la Tunisia torna ai suoi figli».
Presidente Essebsi, lei è l’erede di Bourghiba?
«Bourghiba non ha eredi. Però vengo dalla sua scuola e ho imparato molto».
Francesco Battistini
(da “il Corriere della Sera“)
argomento: Esteri | Commenta »
Dicembre 22nd, 2014 Riccardo Fucile
SILVIO APRE A RENZI E NON ESCLUDE UN CANDIDATO PD ALLA PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA: “E’ GIUSTO SCEGLIERE INSIEME ANCHE IL CAPO DELLO STATO”
«Il problema non sono le radici politiche. Ma che sia un presidente della Repubblica equilibrato, un garante ». Niente pregiudiziali, nemmeno nei confronti di un rappresentante del Pd. O di quella area.
Silvio Berlusconi cambia lo schema di gioco. Ogni volta che negli ultimi venti anni si è eletto il capo dello Stato, il paletto piantato con forza è stato sempre lo stesso: non uno di sinistra. Adesso la tattica viene rivoluzionata. È pronto a «concorrere » anche per la scelta di un Democratico. Purchè capace di essere «garante di tutti». Una svolta in grado di cambiare marcia al dibattito in corso sul successore di Giorgio Napolitano.
L’attuale presidente della Repubblica, infatti, non ha ancora rassegnato le dimissioni, ma giovedì scorso ha confermato che il giorno dell’addio è ormai «imminente ». Il suo secondo mandato con ogni probabilità terminerà a metà gennaio. E le prime votazioni per il nuovo capo dello Stato non ci saranno prima della fine di gennaio. Eppure, nonostante manchi più di un mese a quell’appuntamento, la grande corsa verso il Quirinale è già partita. Una “maratona” con tanti candidati e soprattutto una quantità enorme di punti interrogativi. Il leader di Forza Italia, allora, vuole sgombrare il campo da alcuni di questi. E dai dubbi che ruotano intorno alla linea che seguirà il suo partito.
Come spesso capita da quasi un anno a questa parte, da quando cioè ha cominciato a scontare la sua condanna dopo la sentenza del processo Mediaset, l’ex Cavaliere è rimasto per tutta la domenica a Villa San Martino, ad Arcore. Impegnato nella registrazione di un video che sarà trasmesso per Natale nei club di Forza Italia.
Il tono della voce è basso. La condizione di affidato ai servizi sociali ha avuto un evidente effetto sul suo umore. «Tutti mi chiedono come sto. E come vogliono che stia? In libertà condizionata », ammette senza troppi giri di parole. «Anche se tra poco finirà ». «Fino ad allora preferirei non fare interviste, non voglio parlare. Ho evitato di espormi, non ce n’è bisogno».
Capisco, però ormai tutti sono concentrati sulla presidenza della Repubblica. Ne discutono tutti, è uno spartiacque di questa legislatura. La gara per salire sul Colle è iniziata. Lei avrà delle preferenze?
Si ferma un attimo. Sembra quasi che non voglia rispondere. Ma poi si lascia andare. «Guardi, nei giorni scorsi mi hanno anche attribuito l’indicazione di Giuliano Amato. Ma non è vero. Io ho tracciato un identikit. Ho sempre pensato e ancora penso che il presidente della Repubblica debba essere una persona equilibrata, seria, competente e che non stia da una parte sola».
Ritiene che questo identikit si attagli su qualcuno?
«Qualunque cosa io dica, verrebbe interpretata come il tentativo di bruciare questo o quel candidato. E io non voglio bruciare nessuno. Non intendo fare liste prima che l’argomento debba essere affrontato ufficialmente ».
Il punto, però, è se lei e il suo partito sarete della partita oppure no.
«Ecco, di questo sono sicuro. Ossia, sono sicuro che dobbiamo concorrere all’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Del resto, è una logica conseguenza ».
Una logica conseguenza di cosa?
«È una logica conseguenza del fatto che noi stiamo partecipando all’approvazione delle riforme. Noi non ci sottrarremo nè sulle modifiche alla Costituzione nè sulla nuova legge elettorale. Quindi pensiamo di poter contribuire anche sul capo dello Stato».
Fa parte dunque del patto del Nazareno?
«No, non ne fa parte. Dico solo che votando insieme la nuova Costituzione, si può votare insieme anche per il Quirinale».
Ne ha già parlato con Renzi?
«No. Ma vedo che il presidente del consiglio continua a dire che il successore di Napolitano va scelto con il concorso di tutti. Con il concorso nostro, della Lega, del Movimento 5Stelle. È giusto così, siamo d’accordo».
Anche i grillini?
«Lo dice Renzi. Per quanto ci riguarda, comunque, il discorso è semplice: per eleggere il presidente della Repubblica c’è bisogno di un certo numero di voti. Noi in Parlamento abbiamo circa 150 “grandi elettori”. Vogliamo concorrere. Non c’è niente di diverso da questo. La mia posizione è assolutamente in linea con quello che serve».
Lei dice che Forza Italia ha 150 tra parlamentari e rappresentanti delle regioni. Però il Pd ne ha oltre 450. È probabile che tocchi a democratici indicare un nome.
«Vedremo cosa accadrà . Vedremo se e cosa il leader dei democratici ci dirà ».
Ma sarebbe un problema per lei se il candidato fosse espressione di quel partito o di quell’area?
«Noi guardiamo alla persona. Non ha importanza se è di quella parte o di quell’altra. Non va giudicata dal fatto se ha radici in un’area o in un’altra. Si deve trattare di una persona seria, accettata da tutti. Deve essere un garante per tutti quanti. Che svolga il suo ruolo di garanzia nei confronti di ognuno e non di una sola parte. Solo questo, punto e basta».
Ed è sicuro di portare con se l’intera dote dei 150 “grandi elettori” di Forza Italia? Nel suo partito sembra esserci un bel po’ di confusione.
«Non mi pare che ci siano divisioni. Ne sono certo e poi tra un po’ spero di tornare in pista».
Perchè dice “spero”?
«Perchè i magistrati devono decidere se applicare lo sconto dei 45 giorni ogni sei mesi di pena ».
Ha dei dubbi?
«Io no. La mia buona condotta non è in discussione. Sono stato assolutamente ligio alle direttive. Non sono mai mancato un giorno nell’espletamento del mio servizio sociale. E lì, alla Sacra famiglia sono proprio contenti di quel che ho fatto. Nessuno si è lamentato, anzi sono sistematicamente apprezzato. Quindi spero a febbraio di poter tornare in pista. Ora devo salutarla. E non mi faccia dire niente ».
Claudio Tito
(da “La Repubblica”)
argomento: Berlusconi | Commenta »