Dicembre 13th, 2014 Riccardo Fucile
CONSEGNE RIDOTTE E PREZZI PIU’ ALTI: TORNA LA POSTA ORDINARIA, MA IL PORTALETTERE CONSEGNERA’ SEMPRE MENO
Torna la posta ordinaria, ma il portalettere suonerà sempre di meno alla porta di casa.
E soprattutto aumenteranno i prezzi delle affrancature.
Per le Poste si annuncia una nuova rivoluzione, figlia del nuovo contratto di programma e del nuovo piano industriale che il nuovo ad Francesco Caio presenterà ufficialmente martedì, primo passo in vista della privatizzazione prevista nel 2015-2016.
Lettere, pessimo affare
Le Poste, nei piani di Caio, devono ritrovare il senso della loro missione, ma soprattutto devono rimettere in ordine i conti.
E se non si intervenisse ristrutturando tutto il servizio di recapito nel 2019 il gruppo arriverebbe a perdere per questo tipo di servizi addirittura 2,7 miliardi di euro.
Già nel 2013 il recapito ha comportato costi per un miliardo a fronte di un contributo dello Stato che si ferma a 262 milioni contro i 5-600 del 2010.
Un’emorragia continua figlia del crollo verticale dei volumi di consegna, scesi del 36% dal 2004 al 2013 con una accelerazione che si è fatta sempre più forte negli ultimi due anni.
Nessuno, o quasi, usa più le lettere, soppiantate da mail e ogni altro tipo di comunicazione elettronica.
Tanto che dal 1998 al 2013 mentre le spese delle famiglie per servizi di telecomunicazione sono passate da 27,9 a 57,4 euro al mese quelle per i servizi postali sono letteralmente crollate da 6 ad appena 2,3 euro mensili.
Di contro le Poste devono mantenere in piena efficienza una struttura monstre fatta di 19 centri di smistamento e 36 mila postini in turno giorno e notte.
Avanti di questo passo le Poste sono insomma destinate a diventare di qui a tre anni una «nuova Alitalia» con perdite colossali a carico dello Stato. Meglio dunque intervenire per tempo.
Il governo con gli emendamenti presentati alla legge di Stabilità ha deciso di assecondare i piani di Caio in vista della privatizzazione del 40% del capitale del gruppo da cui si pensa di ricavare 4-6 miliardi.
Come prima cosa si è deciso di restituire alle Poste 535 milioni in esecuzione di una sentenza della Corte europea, ma soprattutto sono stati fissati alcuni paletti in vista della definizione del nuovo contratto di programma che sarà siglato entro marzo.
Quanto al punto dolente del servizio universale, ovvero gli obblighi di servizio pubblico che ricadono sulle Poste, messo di fronte al bivio se aumentare i contributi o accettare di introdurre una certa flessibilità della consegna il governo, dopo il vertice di giovedì a palazzo Chigi con Renzi, Padoan e Caio, ha dato semaforo verde alla seconda soluzione.
Rischio stangata
Il nuovo piano recapito prevede essenzialmente tre mosse: la reintroduzione della posta ordinaria, cancellata nel 2006 per far posto alla posta prioritaria che prevedeva la consegna urbana in giornata a fronte di un aumento delle affrancature da 45 a 60 centesimi; e dall’altro la differenziazione dei prezzi su cui però si dovrà pronunciare il Garante delle comunicazione.
Per la posta ordinaria, che verrebbe consegnata in 4 giorni, si pensa ad un costo di 1 euro per ogni lettera.
Per la «nuova prioritaria», attività che verrebbe completamente ristrutturata per realizzare un servizio di eccellenza, con consegna in giornata «stile Dhl», il costo potrebbe invece salire sino a 3 euro.
Non è un caso che ieri le associazioni di consumatori Adusbef e Consumatori, di fronte al «pacchetto Poste» presentato in Senato dal governo, abbiamo fiutato l’aria parlando di «stangata».
Postini a giorni alterni
L’altro novità riguarda le modalità di recapito. Che verrà alleggerito e diventerà più flessibile.
In pratica la consegna della posta, che oggi (teoricamente avviene dal lunedì al venerdì) avverrà a giorni alterni sino ad un massimo di quarto del territorio nazionale.
E tra le ipotesi si parla anche di graduare la frequenza in base al numero degli abitanti: nei grandi centri verrebbe confermata la possibilità di consegna quotidiana e poi a scalare verrebbe via via diradata man mano che si riduce il bacino di utenza.
Mossa non indolore anche dal punto di vista occupazionale, ma le Poste hanno già smentito le stime della Cisl che nelle scorse settimane parlava di 17-20 mila esuberi.
I numeri però sono lì a dire che la ristrutturazione è di fatto «inevitabile».
In generale l’idea di Caio è quella di riposizionare il gruppo, la più grande impresa pubblica italiana con ben 143 mila dipendenti, per rimetterlo realmente al servizio del Paese, trasformando questo gigante che oggi si regge soprattutto sulla raccolta del risparmio e le polizze vita in quella che viene definita una «piattaforma per la modernizzazione del paese», «azienda sociale» e al tempo stesso anche «di mercato».
Paolo Baroni
(da “La Stampa”)
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Dicembre 13th, 2014 Riccardo Fucile
LA VOTAZIONE RASENTO’ IL MASSIMO: I CONTATTI CON UN COMMISSARIO DEL CONCORSO
C’è una seconda Lady Buzzi, dopo la compagna del faccendiere coop Salvatore. Alessandra Garrone è stata arrestata, ma le intercettazioni modellano una nuova storia di raccomandazione- corruzione che per li rami tira dentro la sorella del “tarchiato”: Anna Maria Buzzi, 57 anni, due in meno dell’uomo con le mani in tutte le paste di Roma.
Sora Buzzi è una laureata in Pedagogia che, entrata al ministero dei Beni culturali come restauratrice di libri, ha fatto una rapida carriera che l’ha portata a diventare dirigente di prima fascia a 168 mila euro l’anno e a guidare, questo dal 2012, la direzione generale per la valorizzazione del patrimonio culturale.
Sostituì Mario Resca, l’uomo Fininvest che voleva trasformare il Mibac in Disneyland
Negli atti dell’inchiesta monstre della procura di Roma ci sono diverse telefonate tra il capotribù Buzzi e la nipote Irene figlia di Anna Maria, tra il capotribù e il cognato.
Si evince – in maniera chiara – che il faccendiere vuole aiutare la nipotina a entrare in Comune attraverso un concorso per trecento posti da istruttore amministrativo.
È del 29 ottobre 2013 la prima telefonata sul tema.
Chiama il cognato Maurizio Turchetti e Ricorda a Buzzi la prova della figlia: «C’aveva quella visita da quel dottore… Il sette me pare… Un appuntamento pigliaglie».
Salvatore Buzzi chiama subito Angelo Scozzafava, membro della commissione esaminatrice.
Alla vigilia delle prove orali, sei novembre, la nipote ventinovenne invia questo sms: «Ziooo, ti ricordi di domani? Che ansia!!!». Lui rammenta tutto a Scozzafava: «Ti ricordi di domani? Grazie». Il commissario risponde immantinente: «Certo».
La mattina del 7 novembre Buzzi messaggia alla nipote: «Tutto avvisato, vai a dormire tranquilla». E nello stesso giorno si vedrà con l’esaminatore, a cui peraltro sta cercando un appartamento da 130 mila euro a Roma per ricompensarlo dei favori sui nomadi.
Si vedono in un ristorante sulla Flaminia.
Escono i risultati del concorso e Irene informa subito zio: «Ho preso 9,8… Buonissimo, nove e otto su dieci…».
Pochi minuti e Scozzafava invia un messaggio a Buzzi, vuole sapere se è soddisfatto.
Il presidente della “29 giugno” risponde: «Sei un grande. Grazie». Il favore ha un prezzo, però. Lo dice il manovratore alla compagna Alessandra il 16 novembre, quando si prospetta il rischio dell’azzeramento del concorsone: «Lo avevo detto ad Anna Maria, lo annullano». La Garrone: «Più che altro hanno buttato cinquemila euro».
Buzzi spiega: «Anna Maria ieri m’ha detto che non glie vo da’ i soldi, gli vo fa’ un regalo… I soldi sembra corruzione invece un orologio di Bulgari nooo…».
La compagna: «Di fatto l’hai corrotto perchè hai alterato il risultato».
Felice per i risultati, il 30 novembre sera Anna Maria Buzzi si offre di pagare «il pranzo di oggi », ma il fratello Salvatore: «È un regalo mio, ho fatto pagà la cooperativa».
È appena uscita dal suo splendido ufficio nella sede dei Beni culturali in via di San Michele, Anna Maria Buzzi.
Contattata, richiama. E a “Repubblica” dice: «Smentisco ci sia un rapporto tra me e le parole di mio fratello, nelle intercettazioni io non ci sono mai. A Scozzafava non ho dato denaro, nè orologi. Mia figlia? Ha fatto quattro concorsi al Comune, non è mai entrata». In verità nell’organico del Primo municipio, dove direttore dell’Ufficio trasparenza era quel Walter Politano indagato e poi rimosso dal sindaco Marino, è inserita una “Irene Turchetti” come “referente amministrativa” e le è stata assegnata una casella di posta “comune.roma.it”. «Dopo trent’anni di onesta carriera mi hanno tirato in mezzo perchè ci sono le promozioni al ministero », chiude Anna Maria Buzzi.
Già , al ministero dei Beni culturali è alle viste la grande revisione degli uffici che porterà al taglio di sei dirigenti di prima fascia e trentuno di seconda.
La Uil ricorda come giovedì scorso si sia celebrata la giornata della trasparenza, con il ministro Dario Franceschini in sala e la signora Buzzi relatrice.
Il ministro è nervoso per questa storia. «Parlerà con gli atti fra tre giorni », dice il suo staff.
Quando Anna Maria Buzzi, candidata a occupare la poltrona di responsabile dei musei, scoprirà di essere stata tagliata fuori da qualsiasi incarico come direttore generale.
Corrado Zunino
(da “La Repubblica“)
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Dicembre 13th, 2014 Riccardo Fucile
LA DENUNCIA DI FEDERCONSUMATORI: POTREBBE SLITTARE ALLA PRIMAVERA
“Gran parte delle tredicesime verrà consumata per pagare le tasse, ma la cosa più preoccupante è che in molte piccole e medie aziende la famosa mensilità natalizia potrebbe addirittura slittare a gennaio o a marzo”.
Rosario Trefiletti, numero uno della Federconsumatori, dati alla mano, lancia in quest’intervista all’Agi un allarme sulle tredicesime.
Secondo Trefiletti, il quadro economico del paese continua lentamente ma in maniera progressiva, a peggiorare e ne risentirà anche l’andamento dei consumi in vista del Natale.
Secondo una ricerca dell’Adnkronos, infatti, almeno una impresa su quattro troverà grossi problemi nel reperimento dei fondi per le tredicesime.
“Ci arrivano segnali in questa direzione”, fa sapere Elio Lannutti, presidente di Adusbef, “piccole e medie aziende con le casse vuote di cash potrebbero decidere di far slittare di 2 o 3 mesi le tredicesime”.
“La disoccupazione è intorno al 13,2 per cento e quella giovanile oltre il 44 cioè una cifra record”, argomenta Trefiletti, “logico dunque che ci sia una drastica contrazione della spesa che sarà per certi versi, sorprendente”.
La sorpresa, secondo il leader di Federconsumatori, starà nel fatto che, mentre a Natale 2013, almeno un settore (quello dei libri, dischi e audiovisivi) era in attivo, quest’anno non si salverà alcun comparto.
“Fino al Natale scorso resisteva il classico libro o disco sotto l’albero, oggi, a quanto ci anticipano le nostre rilevazioni, non ci sarà più neanche quello.
Si spenderà , poco, solo in giocattoli e beni alimentari, ma i tre quarti della tredicesima degli italiani sono stati già destinati al pagamento delle tasse”, commenta ancora Trefiletti.
Che ammette di essere seriamente preoccupato anche per il settore tecnologico.
“Forse spenderemo ancora in telefonini”, dice, ” ma le stime ci dicono che i personal computer, ad esempio, non è detto che abbiamo ampio mercato”
“Sarà un Natale molto freddo, ma non ci sorprende affatto perchè noi avevamo già stimato una contrazione del 6,2 per cento nella spesa per i regali sotto l’albero. Resteranno in cifra assoluta poco più di 3 miliardi di euro destinati perlopiù all’acquisto di giocattoli per bambini e generi alimentari” prosegue Trefiletti.
Ma la Federconsumatori e Adusbef hanno una ricetta per far ripartire l’economia.
Di che si tratta? “C’è un punto su cui noi insistiamo molto che è questo”, risponde Trefiletti, “gli ingredienti sono semplici: ok alla spending review, al recupero di risorse attraverso la lotta all’evasione fiscale a cui va aggiunto un 10/15 per cento dell’ammontare complessivo delle nostre riserve auree pari a 100 miliardi in cifra assoluta
Alla somma di queste due cose bisogna ancora aggiungere un piano straordinario per il lavoro che sblocchi i grandi investimenti pubblici e privati, mettendo in sicurezza le scuole, investendo in ricerca, nelle infrastrutture, nel turismo o nella banda larga”.
“Sono sicuro che questo sarebbe il mix giusto per far ripartire l’economia”, prosegue Trefiletti, “basta, invece, alla riduzione dell’Irap, cioè delle tasse sulle imprese o agli 80 euro. Attenzione, si tratta di manovre che ho apprezzato, ma adesso non sono più sufficienti. Sarebbero ‘manovrine’ che riuscirebbero a smuovere molto poco nel processo di riduzione della disoccupazione soprattutto quella giovanile e meridionale”.
Al governo Renzi, Federconsumatori manda un segnale preciso. Non si può più attendere, avverte Trefiletti, perchè il paese è a rischio e gli italiani hanno ormai le tasche vuote.
“Tasche svuotate dalle tasse” conclude “e, per qualcuno, forse anche senza la fatidica tredicesima mensilità “.
(da “Hugffngtonpost”)
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Dicembre 13th, 2014 Riccardo Fucile
COME PIGNATONE E PRESTIPINO STANNO TRASFORMANDO LA FAMIGERATA CITTADELLA GIUDIZIARIA
La nebbia si è dissolta. E nel porto adesso può riprendere la navigazione. Che era ferma da anni, decenni, c’è chi dice da sempre, perchè così vanno le cose nella Capitale: si gira si gira ma in tondo, chè tanto il porto è grande e ce n’è per tutti. Nonostante e grazie alla nebbia.
La decisione con cui venerdì sera il giudice Bruno Azzolini, presidente della III sezione del Tribunale di Roma, ha blindato l’accusa di mafiosità nei confronti del generone rosso-nero che è l’ossatura di Mafia Capitale corrisponde a quel momento in cui sale la brezza, il freddo e caldo non condensano più l’umidità , la nebbia viene spazzata via.
La contestazione del reato 416 bis regge e viene confermata dal terzo giudice (quello del Riesame dopo il gip e l’altro del sequestro dei beni) in poche settimane.
Carminati e soci restano in carcere come gli altri 21 dei 39 arrestati con l’accusa, tra le altre, di associazione mafiosa (tra i 40 indagati, il 416 bis è contestato in 16 posizioni).
Le vie del diritto e della giurisprudenza sono quasi infinite (perdonate l’ossimoro).
E ci sarà ancora una lunga battaglia legale per dimostrare che “a Roma la mafia non c’è”, che la “vera mafia sta altrove” e che questi sono “delinquenti comuni che rubano, certo, ma che c’entra la mafia”.
La storia e la cronaca ci insegnano che il primo indizio di mafiosità è negare la mafia. “I boss babbiano sempre” ha ben scritto e raccontato Francesco Merlo su Repubblica pochi giorni fa. Intanto però a Roma la mafia c’è. E lo scrivono i giudici.
L’istruzione di questa indagine e del processo che ne seguirà rinvia simbolicamente, pur nella diversità dei numeri e dei fatti, alla seconda metà degli anni ottanta quando a Palermo un gruppo di giudici tra cui Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Antonino Caponnetto, Leonardo Guarnotta, Giuseppe Di Lello e Piero Grasso misero in piedi il primo maxi processo a Cosa Nostra.
C’erano stati 200 morti ammazzati tra cui il generale Dalla Chiesa, tanti giudici e poliziotti, politici come Pio La Torre che con Rognoni nel 1982 aveva scritto il reato di associazione mafiosa.
Per la prima volta la giustizia, lo Stato erano riusciti a connettere i fili di una storia criminale che tutti vedevano ma nessuno voleva collegare. Perchè prevaleva la voce dei boss che ripeteva: “Cosa Nostra? Noi la chiamiamo amicizia”.
Giuseppe Pignatone è diventato procuratore di Roma nel febbraio 2012. Pochi mesi dopo lo ha raggiunto un magistrato che è un po’ il suo alter ego, Michele Prestipino. Hanno lavorato insieme prima a Palermo e poi a Reggio Calabria.
Nel 2006 hanno arrestato, dopo 40 anni di latitanza, Bernardo Provenzano. Arrivano a piazzale Clodio e cercano di rispondere a una domanda che non ha risposte da decenni: esiste la mafia a Roma?
Posta la questione, l’analizzano secondo un metodo empirico e logico. Quasi banale. Che possiamo riassumere in quattro mosse. Tanto semplici quanto rivoluzionarie. Come spesso accade alla verità .
1) Il lavoro di squadra. Gli uffici della più grande cittadella giudiziaria d’Italia sono un mondo complesso, pieno di incrostazioni, dove la regola principe è sempre stata il compromesso. Fare senza strafare. Agire ma sapendo che la politica ha i suoi tempi, i suoi metodi e riti. Ecco che Pignatone ha riorganizzato l’ufficio lasciando da parte alcuni colleghi certamente per bene ma troppo “timidi” per segnare una discontinuità . E ascoltato le voci, rimaste isolate, di pm e sostituti che invece sostenevano che certi dubbi vanno approfonditi.
2) Il monitoraggio ragionato e organico dei fascicoli.
“Abbiamo solo letto insieme tanti fascicoli già avviati da altri colleghi” ha ammesso Pignatone davanti all’Antimafia. C’era l’indagine per minacce, quella per violenza privata, l’altra per droga, altre sparse su vari episodi di corruzione nella pubblica amministrazione (Ama, Atac, Eur spa, Finmeccanica etc), esposti sui costi esorbitanti nella gestione dei campo rom. Chiamati a raccolta i titolari dei fascicoli, sono emerse subito le connessioni: nomi, luoghi, momenti. Pezzi di un puzzle che aveva un’unica cornice. Bastava volerla vedere.
3) Le modalità operative della Direzione distrettuale antimafia.
Che ha seguito due direzioni: a) Non si è cercata la quantità ma la qualità . Ad esempio: meno arresti per spaccio spicciolo e maggiore attenzione a ricostruire l’organizzazione dello spaccio. Anche perchè la droga è da sempre il business delle organizzazioni criminali. b) E’ stato privilegiato il binario del sequestro dei beni dei gruppi criminali. Un miliardo 200 milioni nel 2014 e 700 nel 2013, il triplo e il doppio degli anni precedenti. Follow the money, il precetto di Falcone.
4) Il “capitale sociale”.
Chi segue queste vicende ricorderà l’espressione coniata nell’inchiesta Crimine Infinito (2011) quando Milano (Ilda Boccassini) e Reggio Calabria (Pignatone) dimostrarono come la ‘ndrangheta faceva affari al nord utilizzando una rete di professionisti insospettabili nella politica, nei tribunali e tra i manager.
Per la prima volta la procura non ha avuto timore di guardare negli occhi “il capitale sociale” di Roma e della sua organizzazione criminale.
Saltano fuori i 18 politici coinvolti, dall’ex sindaco Gianni Alemanno al presidente del consiglio comunale Mirko Coratti (Pd), passando per assessori comunali e regionali e sindaci della provincia. Salta fuori il commercialista, uno dei più noti in città , Luigi Lausi (indagato per associazione mafiosa), che siede in decine di cda e collegi revisori ed è amministratore giudiziario di enti (Eur spa) e di patrimoni mafiosi (Fasciani). Lausi consuma, con la stessa facilità , aperitivi con l’ex Nar e cene con i principali notabili della città , compresi vertici investigativi e giudiziari.
C’è l’avvocato penalista, Gianpaolo Dell’Anno, figlio del giudice di Cassazione che era nel collegio di Carnevale, sposato con un giudice che è dirigente in un importantissimo, vitale ufficio istituzionale.
Lo studio di Dell’Anno è considerato nelle indagini “il luogo d’incontro dei vertici delle associazioni criminali in città e nel Lazio”.
Spunta Luca Odevaine, il regista dell’emergenza immigrati, quello che dettava luoghi e costi, con le sue ramificazioni in prefettura e al Viminale ancora tutte da approfondire.
Quando erano a Reggio, Pignatone e Prestipino dissero che “bisogna stare attenti a chi si dà la mano in città ”. A Roma non l’hanno ancora detto. Ma forse lo pensano.
Quattro mosse.
Il risultato è Mafia Capitale, organizzazione “originale”, “originaria”, che “privilegia la corruzione ai morti per strada” ma che usa violenza, intimidazione, omertà per fare affari. E con “un capitale umano” ancora molto da scoprire. Un “mondo di mezzo” che forse non vuole scoprirsi nè accettarsi come complice.
(da “L’Espresso“)
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Dicembre 13th, 2014 Riccardo Fucile
OTTO DEPUTATI CHIEDONO DI ESSERE SOSTITUITI IN COMMISSIONE, POI MARCIA INDIETRO… CIVATI: “O RENZI CAMBIA REGISTRO O NUOVO PARTITO”
Tornano a spirare venti gelidi tra la minoranza del Pd e i vertici del partito.
In attesa dell’assemblea nazionale convocata a Roma per domenica, otto deputati della minoranza del Pd in commissione Affari costituzionali della Camera hanno chiesto di essere sostituiti (e poi hanno fatto marcia indietro) per le votazioni degli emendamenti alle riforme, essendo in dissenso ma non volendo mandare “sotto” il governo e i relatori, come accaduto mercoledì scorso quando il governo è stato battuto sui senatori a vita proprio grazie ai voti degli esponenti della minoranza.
“Abbiamo lo stesso la maggioranza”, è stata la reazione ufficiosa dell’esecutivo, cui i fatti hanno dato ragione: i dissidenti, tra cui Rosy Bindi, Alfredo D’Attorre, Gianni Cuperlo, Roberta Agostini, non hanno partecipato al voto degli emendamenti all’articolo 3 del ddl Riforme (sui senatori nominati dal presidente della Repubblica), ma la decisione non ha fatto venir meno i numeri alla maggioranza che ha respinto tutte le proposte di modifica.
I deputati della minoranza del Pd sono quindi rientrati in Commissione.
“Per il momento non sono arrivate richieste di sostituzione”, ha riferito Emanuele Fiano, capogruppo in commissione e relatore alle riforme. L’unico ad essere sostituito — viene riferito — è il deputato di minoranza Giuseppe Lauricella assente per tutto il giorno. Con l’approvazione senza modifiche dell’articolo 3 rimangono nel testo i senatori di nomina presidenziale, nonostante la modifica dell’articolo 2 — su cui il governo è stato battuto — che ha cancellato dal Senato dei 100 la previsione dei 5 senatori nominati. Di fatto i 5 senatori sono ancora previsti dal testo firmato dal ministro delle Riforme Maria Elena Boschi: all’articolo 3, appunto, ma anche all’articolo 39.
La tensione non accenna a stemperarsi: passata la tempesta sull’articolo 3, la minoranza Pd minaccia ancora di abbandonare definitivamente i lavori.
Sulla decisione pesa la chiusura della maggioranza e del governo a modificare il sindacato preventivo di costituzionalità sulla legge elettorale.
La fronda del Partito Democratico (ma anche M5s e una parte di Forza Italia) chiede di cambiare la norma sul controllo preventivo di legittimità da parte della Corte costituzionale, chiedendo di rendere automatico il controllo, oppure di abbassare il quorum necessario in aula per la richiesta del parere preventivo e anche di far valere la norma anche per le leggi elettorali già in vigore prima della riforma costituzionale, in modo da sottomettere al controllo anche l’Italicum.
“Ho sempre detto che mai avrei lasciato la Commissione e che semmai mi dovevano sostituire loro — ha spiegato Rosy Bindi — detto questo se non ci dicono sì all’emendamento che introduce il giudizio preventivo della Corte sulla legge elettorale, allora con sdegno me ne vado”.
A poche ore dall’assemblea nazionale, Pippo Civati torna ad avvertire: “Se Renzi si presenta con il Jobs Act e con le cose che sta dicendo alle elezioni a marzo, noi non saremo candidati con Renzi”, ha detto il dissidente democratico durante l’iniziativa dell’associazione “E’ Possibile” a Bologna.
“Se Renzi continua così — ha aggiunto — un partito a sinistra del Pd si costituirà sicuramente, non per colpa nostra”. E a chi gli chiede cosa si aspetta dall’assemblea nazionale, Civati risponde ironico: “E’ un thriller, Renzi decide di notte… Ma io sto sereno come consiglia di fare lui da tempo: io non ho niente da perdere, qualcun altro ci perse palazzo Chigi”.
Mentre si avvicina a grandi passi la partita per il Quirinale, Civati spera in un dialogo con il M5S: “Sul presidente della Repubblica vorrei che stavolta da Grillo ci fosse un segnale chiaro, l’altra volta perdemmo un treno clamoroso. Grillo è sullo sfondo: mi aspettavo un po’ più di coraggio da Pizzarotti, un po’ più di interlocuzione con le altre forze politiche, io ho pochissimi parlamentari, Grillo invece ha ancora una larghissima rappresentanza”.
Riguardo i fischi e le contestazioni che hanno accolto Massimo D’Alema a Bari nella piazza dello sciopero di Cgil e Uil, Civati ha una sua idea: “C’è molta tensione, molta incomprensione anche tra gli elettori del Pd e c’è molto spaesamento, le persone non si sentono più rappresentate e ci individuano anche come un problema. Io ho avuto un’accoglienza migliore -ricorda Civati- ma ciò che è paradossale è che è la prima volta in cui sono andato ad una manifestazione della Cgil per la quale non solo non eravamo con loro ma addirittura eravamo oggetto degli attacchi. Quindi, è chiaro che le persone più note e che magari hanno anche qualche responsabilità in più siano più fischiate delle altre”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 13th, 2014 Riccardo Fucile
PER IL GIORNALE FRANCESE SULLA CAPITALE ITALIANA SI È ABBATTUTO “IL FLAGELLO DELLA CORRUZIONE”
Vista da fuori la Roma criminale è il solito impasto di italianità , che conferma l’immagine di un Paese immobile nella sua corruzione irredimibile, stantio e incapace di uscire dai suoi clichè.
Il riflesso di un carattere nazionale venato di inefficienza e, collusioni, eppure che si sorprende di vedere la sua immagine così turpe.
“Perfino per un Paese in cui la corruzione è data per scontata nella vita quotidiana, le rivelazioni hanno sbalordito i cittadini”, scrive sul New York Times Elisabetta Povoledo, corrispondente del quotidiano americano, in un’articolo titolato “L’Italia rantola per l’ampiezza della rete criminale”.
La corrispondente del quotidiano conservatore tedesco Die Welt, ha raccontato all’inizio della settimana con un’ampia inchiesta della corrispondente Constanze Reuscher luoghi e personaggi di Roma criminale.
Spesso in Italia si sostiene che la stampa estera dia un’immagine stereotipata del nostro Paese, soprattutto per quel che riguarda gli scandali, senza badare che i corrispondenti delle grati testate internazionali spesso non fanno che reinterpretare e riproporre l’immagine formulata dai nostri media.
Un gioco di specchi dove la differenza sta solo nelle diverse formule linguistiche e nell’efficacia delle frasi che sintetizzano gli scandali.
A esempio la grande piovra assisa tra le cupole delle chiese e i cui tentacoli abbrancano la capitale ideata dalla disegnatrice Aline Boureau per l’articolo di Le Monde “A Roma il flagello della corruzione”, ricorda l’immagine tranchant dello Spiegel con la scodella di pasta sulla quale era poggiata una pistola: “Italia paese delle vacanze” — era il 1977. “Roma città in vendita”, titolava il giornale della gauche parigina, ex fenomeno editoriale ormai sbiadito, Libèration (che ieri tornava a occuparsi dell’Italia con un netto: “Sinistra contro sinistra” a proposito della lotta fratricida Pd renziano-sindacati).
Nel suo articolo Eric Jozef, decano dei corrispondenti esteri (come del resto il collega Philippe Ridet di Le Monde, altro quotidiano transalpino in crisi) ricapitola lo scandalo della “ville contaminèe” e mette l’accento sulle connessioni politiche della banda criminale.
“La mafia non uccide, corrompe”, spiega il settimanale, sempre francese, L’Express.
Sintesi che paiono titoli di B movies italiani degli Anni ’70 — ’80. E la percezione del nostro Paese non pare esser cambiata poi di molto nei media internazionali. Tramontata l’era Berlusconi — “Unfit to rule Italy”, secondo la definizione assurta a tormentone, dell’Economist — è rimasto l’armamentario interpretativo di sempre, il cui maggior pregio è la sintesi e la semplicità delle spiegazioni dell’eterna situazione italica: “Virtualmente, non c’è angolo dell’Italia che sia immune dall’infiltrazione criminale”.
“La diffusa e incontrollata corruzione, con sottrazione di fondi pubblici rivelata dall’inchiesta è un’esempio della situazione che ha portato il debito pubblico dell’Italia a uno dei livelli più alti in Europa”, parole di Povoledo.
Molto più chiare e definitive delle paginate dei giornali del Belpaese.
Stefano Citati
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 13th, 2014 Riccardo Fucile
“IL SUCCESSO DELLO SCIOPERO GENERALE E’ UN AVVERTIMENTO AL GOVERNO: COLPISCA CORRUZIONE ED EVASIONE, NON LE BUSTE PAGA DEI LAVORATORI”
“Un grande successo, le nostre piazze uniscono il Paese mentre finora il governo le ha divise. Non è un caso se la gente non si sente rappresentata”.
Maurizio Landini parla al ritorno dal corteo di Genova che è andato molto bene. Ha la voce roca, viziata dal comizio e dalle mille discussioni avute con i lavoratori.
Ma accetta volentieri di commentare la giornata.
Com’è stato questo sciopero?
Un successo straordinario perchè non solo si sono riempite tutte le piazze, ma c’è stata un’adesione alle iniziative e allo sciopero che ha riguardato non solo gli iscritti alla Cgil e alla Uil. Le piazze hanno confermato che la maggioranza di chi lavora, dei precari, anche degli studenti, non condivide le scelte del governo. E chiede ai sindacati di proseguire, di andare avanti.
Renzi dice che lui proseguirà dritto per la sua strada.
Il presidente del Consiglio è intelligente e veloce, e allora dovrebbe valutare come rispondere a questo sciopero e aprire un confronto e una trattativa vera con i sindacati. Togliendo dal tavolo elementi negativi come la modifica dell’articolo 18.
Ci sono segnali in tal senso?
No, io non ne ho. Ma viviamo una fase di crisi della rappresentanza e della politica in cui la gente non va più a votare, come dimostra l’Emilia Romagna. C’è in giro un livello di corruzione che coinvolge tutti i soggetti e se non ci fosse la magistratura la politica non avrebbe da sola gli anticorpi. In questo contesto un governo intelligente dovrebbe rendersi conto del fatto che ci sia gente che rinuncia allo stipendio e va in piazza. Se invece si sceglie la Confindustria, che non è detto che rappresenti gli imprenditori, Renzi va a sbattere.
Poletti dice di voler dialogare sui decreti attuativi del Jobs Act.
Ma non è sufficiente. Discutere i decreti è utile ma bisogna cambiare le decisioni che sono state prese. La domanda che arriva dalle manifestazioni di oggi è di andare avanti. Sono piazze arrabbiate che non ne possono più che chiedono un cambiamento.
La contestazione contro Massimo D’Alema è parte di questo?
Il problema è che la gente non si sente rappresentata. Ci sono situazioni drammatiche. Ci sono disoccupazioni infinite, casse integrazioni senza un euro, figli che non trovano lavoro o sono precari a vita. Che nei confronti nella politica ci siano una sfiducia e una lontananza è il problema di questo momento.
L’antidoto siete voi?
Le piazze di oggi hanno offerto la possibilità di riunificare il paese. Ricostruire una fiducia richiede confronto e dialogo. E i sindacati non sono finiti, abbiamo dimostrato che non è così.
C’è un’urgenza politica nel ricostruire una nuova rappresentanza?
Prima di questo sono convinto che ci sia bisogno di ricostruire un’etica dell’agire pubblico. L’onestà e l’etica devono tornare a essere valori comuni. Ognuno nel suo campo deve fare la sua parte.
Quello che fa Renzi non basta?
Renzi rappresenta il governo e come tale deve fare delle leggi. Io osservo che il falso in bilancio non è ancora un reato, che l’autoriciclaggio ha ancora dei limiti, che i beni confiscati alla malavita organizzata non bastano. Su questo c’è bisogno di una forza che non è stata ancora usata.
Pensa che in relazione alle polemiche sul caso Mafia Capitale Poletti dovrebbe dimettersi?
Non mi permetto mai di arrivare a queste valutazioni, ognuno deve rispondere alla sua coscienza. Occorre rompere da un lato una rete culturale di clientele e affarismo e dall’altra parte occorre che il governo faccia degli atti concreti.
Fatto lo sciopero cosa farà ora il sindacato?
La riuscita dello sciopero parla a tutto il paese. Noi non ci fermeremo. Occorre riconquistare un confronto vero. Se il governo rifiuta dobbiamo pensare ad altre iniziative e il problema riguarda le imprese, la Confindustria. Non possiamo accettare che dentro le aziende passi un peggioramento dei diritti. Se seguiranno questa linea avranno dei problemi con i sindacati dentro le aziende. E poi percorreremo tutte le azioni possibili sul piano giuridico in Italia e in Europa.
Che ne pensa del piano del governo per l’Ilva ?
Che non c’è più tempo, abbiamo aspettato troppo e si sono persi troppi soldi. Nel giro della prossima settimana servono decisioni. Noi pensiamo che occorra un intervento pubblico diretto senza svendere l’azienda a gruppi privati. Un intervento pubblico non esclude, nel tempo, l’ingresso di altri soggetti.
Alessandro Guerra potrebbe dirigere un’azienda in mano pubblica?
Non lo conosco, non si è occupato di acciaierie, ma se c’è un intervento pubblico servono manager di qualità per una ipotesi di rilancio industriale.
Il prossimo 18 dicembre lei farà una iniziativa comune con Susanna Camusso e Stefano Rodotà . Che significa?
Che lanceremo una raccolta di firme per mettere in discussione il pareggio di bilancio in Costituzione. Un modo per parlare di Europa, contrastare l’austerità , allargare le alleanze dei lavoratori.
Niente costituzione di nuovi partiti, quindi?
No, l’ambizione è molto più grande.
Salvatore Cannavò
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 13th, 2014 Riccardo Fucile
LE CORRENTI DEL PD IN FERMENTO
La legge elettorale al Senato rischia di restare sepolta sotto i 5 mila emendamenti presentata dalla Lega e le resistenze della minoranza del Pd sui capilista bloccati.
La riforma costituzionale, invece, deve fare i conti alla Camera sempre con le proposte di modifica dei democratici “dissidenti”.
Come quella che mira ad alzare il quorum per l’elezione del presidente della Repubblica. O quella che prevede più poteri al futuro Senato nel modificare testi votati alla Camera.
O ancora l’eliminazione delle norme che consentirebbero al governo di chiedere il sì dei deputati senza modifiche alle sue proposte.
E sullo sfondo si agita lo spettro di una norma transitoria che affiderebbe alla Corte costituzionale un giudizio preventivo sull’Italicum. E qui le due proposte di riforma si intrecciano. Al punto che hanno convinto il governo a chiedere alla Camera una “pausa” di riflessione fino a stamattina
Troppo forte il rischio di andare nuovamente sotto su un emendamento delle opposizioni interne ed esterne.
Meglio usare la notte per cercare nuove mediazioni. Comunque a Montecitorio sono stati approvati i quattro articoli che riguardano il federalismo.
E molti emendamenti, sono stati ritirati con la promessa di essere esaminati in aula.
Tipo quelli forzista che chiedono la nascita di un minimo di 7 e un massimo di 12 macroregioni. Ma sul resto la trattativa è aperta.
Per esempio, con il Nuovo centrodestra sui poteri del Senato: e ancora con Forza Italia sulle regole per l’elezione dei giudici costituzionali.
Ma soprattutto a bloccare l’iter sono gli scontri interni al Partito democratico. E a Palazzo Chigi così comincia a fare capolino l’idea di portare il provvedimento in aula il 16 dicembre senza avere concluso l’esame in commissione.
Mentre a Palazzo Madama si cercano strade per bloccare la valanga degli emendamenti leghisti. Emendamenti che farebbero slittare l’approvazione dell’Italicum a gennaio.
Ipotesi che verrebbe letta come uno scacco per il governo.
L’accusa è quella di «tradimento ». Il tribunale sarà allestito nella sala congressi di un hotel dietro villa Borghese. La giuria sarà quella dei mille delegati d’assemblea del Pd. Matteo Renzi promette d’essere un pubblico ministero impietoso contro quella «vecchia guardia» che, a suo avviso, ormai manovra apertamente per far saltare il banco. «Devono sapere che stanno scherzando con il fuoco — avverte il premier alla vigilia dell’appuntamento -. Perchè noi intendiamo andare avanti, ma se ci verrà impedito “loro” saranno additati davanti alla pubblica opinione per aver portato il paese nel baratro. D’Alema vorrebbe la crisi del mio governo e la nascita di un “tecnico”.
“Pensa di trattarmi come Berlusconi nel 2011. Ma le cose non sono come tre anni fa. Se cado, si va al voto». Questa improvvisa escalation di toni tra la segreteria Renzi e la minoranza ha una ragione vicina e un retroterra lontano.
La ragione vicina risale a mercoledì, all’ormai famoso voto in commissione affari costituzionali della Camera che ha mandato sotto il governo grazie a voti dei “dissidenti” democratici.
Le versioni che circolano in parlamento a mezza bocca sono due, totalmente inconciliabili. Mentre la minoranza sostiene che il ministro Boschi era stata avvisata di non forzare la mano, anzi le era stato consigliato di accantonare il punto dei senatori a vita proprio perchè non c’era accordo, i renziani raccontano tutta un’altra storia: «C’era stato un incontro prima della seduta e “loro” avevano promesso di non mettere mai e poi mai in difficoltà il governo in commissione. Poi in aula avrebbero votato contro, ma in commissione no. Anzi, era venuta proprio da “loro” l’idea di sostituire quei membri della commissione che, eventualmente, si fossero trovati in un dissenso tale da impedirgli il voto sulle proposte della maggioranza ».
Lo scambio insomma sarebbe stato questo: lealtà in commissione, mano libera in aula (dove i voti della minoranza non sono determinanti). «Invece — prosegue il renziano — ci hanno pugnalato alle spalle».
Il punto dunque è questo. Per Renzi la minoranza ormai si comporta come un partito nel partito, a nulla sono valsi i ripetuti voti negli organismi dirigenti del Pd per indurli a rispettare la disciplina di gruppo.
Per questo il sospetto che stia avanzando strisciante il vecchio progetto di scissione è tornato ad affacciarsi a largo del Nazareno.
Dove danno in uscita per primo Pippo Civati, a fine gennaio, poi forse Stefano Fassina e qualche dalemiano.
Di certo c’è che oggi l’ex rottamatore della prima Leopolda salirà sul palco di Bologna insieme a Sel per lanciare il suo manifesto in dieci punti, rivolto a tutto ciò che si agita a sinistra del Pd. Ieri Civati era in piazza con la Cgil e sabato prossimo, a Genova, sarà di nuovo a un comizio insieme a Vendola. Un’agenda che i renziani tengono d’occhio
Quanto agli altri della minoranza — la rabbia per i toni ultimativi e «autoritari» del premier è l’unico sentimento comune per il momento prevale l’attendismo.
Una scelta tattica, per capire il gioco di Renzi sul Quirinale. Dove davvero la minoranza, grazie al voto segreto, potrà fare la differenza e influire pesantemente sulle scelte.
Così come su legge elettorale e riforme costituzionali, entrambe a forte rischio.
Un bersaniano come Nico Stumpo invita i renziani a non cercare la prova di forza sulla legge elettorale: «Il Mattarellum non glielo voterebbe nessuno, nè Lega, nè Berlusconi nè 5 Stelle. Con i grillini ci parlo, so come la pensano».
Se tutto dovesse precipitare non resterebbe che il Consultellum, «ma a quel punto non credo che a Renzi convenga andare al voto. Con lo sbarramento al 2% chissà quante liste possono nascere…».
In questo clima, è facile prevedere che l’assemblea di domani si trasformi facilmente in una resa dei conti. Bersani ci sarà , così come Rosy Bindi, Cuperlo ed Epifani.
Proprio l’ex segretario alleminacce di Renzi su una total disclosure sulle passate gestioni della “ditta”, risponde a brutto muso: «Magari tirasse fuori i bilanci della mia segreteria, io non ho niente da nascondere».
Per la verità il premier distingue l’atteggiamento di chi, come Bersani o Epifani, «vuole essere coinvolto sulle scelte, ma non trama », rispetto a quello di altri.
Uno su tutti: Massimo D’Alema, il nuovo nemico che palazzo Chigi ha messo nel mirino.
All’ex presidente del Consiglio si attribuiscono progetti di sovvertimento generale del quadro. Il disegno sarebbe quello di un altro governo, guidato magari da un tecnico alla Padoan (proprio il nome di Padoan sarebbe stato fatto dal centrista Mario Mauro ad alcuni senatori della minoranza Pd) per rassicurare i mercati in caso di crisi di governo.
Un gioco rischioso, secondo Renzi, perchè la situazione internazionale in questo momento è molta diversa rispetto al 2011 e perchè il ministro dell’Economia non si presterebbe.
Allora tutte le cancellerie europee, gli Usa e le istituzioni finanziare mondiali si auguravano una rapida uscita di scena del Cavaliere, incapace di mantenere gli impegni sul risanamento.
«Oggi invece tutto il mondo sta con il fiato sospeso sperando che Renzi ce la faccia. Mentre per “loro” è più importante far fuori l’usurpatore e far arrivare la Troika».
L’ultima battaglia è appena iniziata.
Francesco Bei
(da “La Repubblica“)
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Dicembre 13th, 2014 Riccardo Fucile
LA PRESUNZIONE D’INNOCENZA SPESSO ULTIMO RIFUGIO DELLE CANAGLIE
A maggio, nel suo forum con Il Fatto, Matteo Renzi rispose sui quattro inquisiti del Pd promossi sottosegretari e su quelli candidati al Parlamento europeo: “Per me, finchè non sei condannato, sei innocente. Io sono su posizioni diametralmente opposte a voi. Non cambierò mai idea su una persona in base a un avviso di garanzia. Difendo la presunzione di non colpevolezza, in questo sono più fedele alla Costituzione di voi. Poi, se uno è condannato, se ne va”.
Ora, dinanzi allo scandalo Mafia Capitale, che aggiunge mafiosi, terroristi neri, cravattari, spacciatori, professionisti della violenza alla formazione-tipo del malaffare, il premier sembra vacillare.
È troppo presuntuoso per ammetterlo, ma basta sentirlo parlare: “Fuori i ladri dalla politica” è una frase che, alla luce della presunzione di non colpevolezza come la intende lui, pare un tantino azzardata.
Andrebbe pronunciata fra una decina d’anni (se basteranno), dopo la Cassazione: ora siamo appena agli avvisi di garanzia e alle misure cautelari, neppure ancora confermate dal Riesame. Eppure Renzi legge le carte con le intercettazioni e dice “ladri”.
Come qualunque cittadino dotato di media intelligenza. Poi però si ricorda delle sue interviste e dei suoi inquisiti (a cui si sono aggiunti il neogovernatore Bonaccini e diversi neoconsiglieri emiliani e calabresi) e mette una toppa peggiore del buco: “Subito i processi”.
Pura propaganda, con un’indagine così complessa ancora in corso e con un sistema farraginoso come il nostro.
Ma anche una resa incondizionata al potere giudiziario di un presunto primatista della politica: come se non bastasse quel che emerge dalle intercettazioni per farsi un’idea di certi politici e decidere di conseguenza (politicamente, non giudiziariamente).
Non c’è niente da fare: pare proprio che nemmeno un premier giovane e sveglio come lui riesca a divincolarsi dalle fumisterie e dalle tartuferie della vecchia politica, che da sempre usa la presunzione d’innocenza come l’ultimo rifugio delle canaglie: un gargarismo utilissimo per buttare la palla in tribuna e sfuggire fino alle calende greche alle proprie responsabilità dinanzi alle indecenze emerse da questa o quell’indagine.
Se un politico o un pubblico amministratore è indagato perchè filmato o intercettato o immortalato da una contabile bancaria a incassare mazzette, non dev’essere dimissionato perchè è indagato, ma per i fatti gravi che lo rendono un potenziale, probabile corrotto.
Magari quei fatti, al terzo grado di giudizio, non basteranno per condannarlo.
Oppure la mannaia della prescrizione calerà prima.
Ma è giusto che la soglia probatoria richiesta per mandarlo in galera sia molto più alta di quella necessaria per lasciarlo a casa.
Altrimenti, siccome Carminati, Buzzi e pure la mamma di Loris sono solo indagati dunque innocenti, perchè non portiamo al governo o in Parlamento anche loro, poi quando arriva la Cassazione ne riparliamo?
Viceversa: se, per assurdo, 10 o 20 anni fa un leader di sinistra avesse fatto quel che abbiamo fatto noi, cioè avesse letto le carte, guardato i fatti e poi chiamato “delinquenti” Berlusconi, Previti e Dell’Utri senz’aspettare la Cassazione (oggi son buoni tutti), si sarebbe beccato anche lui decine di querele e cause civili, e da allora sarebbe imputato a vita per diffamazione: ma avrebbe migliorato la propria reputazione e nessuno si sarebbe mai sognato di chiederne le dimissioni.
Un politico vero, per dare un giudizio e prendere una decisione (subito, non dopo la Cassazione), non guarda i registri degli indagati e i dispositivi delle sentenze: legge gli atti, valuta i fatti e poi decide se i protagonisti sono degni di restare al loro posto o meno.
Se poi proprio non capisce, chieda una consulenza ad Antonio Mancini, il pentito della Magliana intervistato dal Fatto e da Announo.
L’altro ieri Mancini ricordava che Carminati era imputato a Perugia con Andreotti per il delitto Pecorelli.
Sandro Ruotolo obiettava: “Ma poi la Cassazione li ha assolti”.
E Mancini: “Sapesse quante volte hanno assolto me!”.
Un genio.
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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