Dicembre 3rd, 2014 Riccardo Fucile
“COMPRATI” I VOTI DEI CALABRESI
La Procura di Imperia ha indagato per voto di scambio in concorso il sindaco di Diano Marina, Giacomo Chiappori.
Il primo cittadino ha ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini.
Assieme a lui, nello stesso procedimento, per il reato di voto di scambio sono indagati: il vice sindaco, Cristiano Za Garibaldi, l’assessore alla protezione Civile, Ambiente ed Ecologia, Demanio, Sport ed Igiene Urbana Francesco Bregolin, l’ex assessore Bruno Manitta (che si era dimesso dalla carica lo scorso dicembre a seguito di un altro procedimento penale), il rappresentante unico della società Gm spa, Domenico Surace, suo padre, Giovanni Surace, e Giovanni Sciglitano, titolare di un banco al mercato di Diano Marina.
Secondo l’accusa, Chiappori, durante la campagna elettorale per le elezioni comunali del 2011, avrebbe promesso, in cambio di voti, alcuni incarichi alla famiglia Surace. Secondo l’accusa, a seguito della vittoria della lista di Giacomo Chiappori, Viva Diano, Domenico Surace è stato nominato amministratore unico della società partecipata dal comune GM, società che gestisce gli stabilimenti balneari oltre ad alcune attività turistiche.
Per poter nominare Surace il sindaco, secondo l’accusa, aveva dovuto modificare lo stato societario che prevedeva tre amministratori e non uno.
Dalle indagini è emerso che Domenico e il padre Giovanni Surace controllavano un bacino di voti di famiglie calabresi.
Il fascicolo per voto di scambio era da prima stato trattato dalla direzione distrettuale antimafia di Genova, e un anno fa, la stessa DDA aveva chiesto l’archiviazione del fascicolo per le infiltrazioni mafiose ma aveva trasmesso per competenza tutti gli atti alla Procura di Imperia ravvisando l’ipotesi di un voto di scambio.
Chiappori è indagato anche per abuso d’ufficio per aver detto a un vigile urbano di annullare una multa a un ristoratore che aveva mantenuto un dehors oltre il tempo della concessione, e per finanziamento illecito per fatto tagliare alcune piante in una sua proprietà da una cooperativa che ha appalti per il Comune che avrebbe emesso una fattura inferiore al valore dei lavori compiuti.
«Rifarei tutto quello che ho fatto – ha commentato Domenico Surace – ammetto di aver appoggiato queste persone in campagna elettorale, visto che con loro ho condiviso da 10 a 15 anni di attività politica».
Maurzizio Vezzaro
(da “La Stampa“)
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Dicembre 3rd, 2014 Riccardo Fucile
OLTRE ALLE SANZIONI, VANTIAMO ANCHE IL RECORD DELLE TRUFFE COMUNITARIE
Meno male che c’è l’Europa con le sue multe a ricordarci le colpe dei nostri politici e amministratori.
Anche se siamo bravissimi a dimenticare le tirate d’orecchie di Bruxelles.
Il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti dice che non pagheremo un euro perchè la faccenda delle discariche abusive per cui la Corte di giustizia ci ha appioppato una multa salatissima è acqua passata. Sano ottimismo.
Non possiamo però non ricordare come 25 giorni fa il medesimo Galletti, dopo quell’altra sentenza con cui la stessa Corte ha revocato i fondi europei alla Campania per i danni alla salute umana provocati dai rifiuti, avvertiva che «pende sull’Italia il rischio di una nuova procedura d’infrazione proprio sul ciclo dei rifiuti in Campania che costringerebbe il nostro Paese a pagare multe per 228 milioni di euro».
In che modo possano risultare compatibili le due posizioni è francamente incomprensibile.
Indagini svolte proprio in Campania hanno portato all’individuazione di oltre 2.500 discariche abusive solo in quella Regione, prevalentemente fra Napoli e Caserta, dove si sono registrati aumenti spaventosi dell’incidenza di gravi malattie.
La verità è che la situazione dei rifiuti in Italia e soprattutto al Sud, è disastrosa.
Se ne conoscono anche le ragioni: dalle incapacità degli amministratori all’incoscienza di certa politica, agli enormi interessi che girano intorno a un affare nel quale la criminalità organizzata mantiene una solida presa.
E meno male che c’è l’Europa a ricordarcelo. Anche se poi siamo bravissimi a dimenticare subito le tirate d’orecchie di Bruxelles.
Vale per l’immondizia, e per tutto il resto.
Un caso? A maggio il capo missione di Palazzo Chigi Erasmo D’Angelis ha dichiarato che Bruxelles potrebbe infliggere all’Italia una sanzione di 800 milioni di euro per le infrazioni all’obbligo di depurare gli scarichi, aggiungendo che «per evitarla ci sono almeno 820 cantieri da aprire».
In Calabria, su 185 interventi programmati i cantieri aperti ad agosto erano cinque.
In Campania, quattro su 97.
Altro caso: le quote latte. Nonostante gli allevatori protestino da anni sostenendo che le multe non sono dovute perchè non ci sarebbe stato alcun eccesso di produzione rispetto ai livelli imposti dall’Europa, esiste una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia.
La ragione? Nonostante sia previsto per legge, lo Stato non si fa rimborsare dai produttori i soldi che i contribuenti italiani hanno dovuto pagare all’Unione Europea per le multe.
Bruxelles parla di un miliardo e 395 milioni. Ma leggete che cosa sostiene un documento appena sfornato dalla Corte dei conti: «La conseguenza finanziaria della cattiva gestione trentennale delle quote latte si è tradotta in un esborso complessivo di oltre 4,4 miliardi di euro. Per il periodo precedente al 1995/1996 l’onere si è scaricato interamente sull’erario».
Resterebbero da incassare «nei confronti degli allevatori» somme «già anticipate all’Unione a carico della fiscalità generale» per 2 miliardi 263 milioni.
«Di questa cifra il recuperato effettivo è trascurabile».
Trascurabile: proprio così c’è scritto. Ma di chi è la colpa? Di una burocrazia inefficiente? Della superficialità di qualche dirigente? Di regole fatte male?
Il sospetto è che sia una dimenticanza politicamente motivata. Magari qualche allevatore avrà anche ragione a non voler pagare, ma la legge è legge.
E a Bruxelles fanno fatica a capire le ragioni per cui ci mostriamo così refrattari a rispettare le numerosissime regole che noi stessi ci diamo, tanto da essere insieme il Paese con più leggi e con il più alto tasso di illegalità .
Difficile dunque stupirsi se incombono ancora sulle nostre teste 94 (novantaquattro) procedure d’infrazione.
Una delle quali, quella sui ritardi nei pagamenti pubblici a imprese e fornitori, aperta addirittura la scorsa estate nei confronti dell’Italia da un commissario italiano in procinto di lasciare l’incarico: Antonio Tajani, peraltro esponente di spicco di un partito (Forza Italia) che ha governato per nove anni fra il 2001 e il 2011, periodo in cui quei debiti delle pubbliche amministrazioni crescevano come la panna montata.
Secondo l’ultimo rapporto della Commissione Ue sul contrasto alle frodi comunitarie, l’Italia ha confermato nel periodo 2011-2012 anche il poco edificante record delle truffe.
Ne sono state scoperte 109, più del doppio delle 51 registrate in Germania. E pure qui il piatto piange.
Per la Corte dei conti lo Stato italiano avrebbe dovuto recuperare nei dieci anni compresi fra il 2003 e il 2012 dai beneficiari di contributi comunitari indebiti per frodi e irregolarità varie una somma pari a un miliardo 124 milioni.
Non riuscendo a incassare però che alcune briciole.
Soltanto in Campania e Sicilia, e limitatamente all’agricoltura, sono venute alla luce 839 frodi per un ammontare di 191,2 milioni.
Di questi, ne sono stati recuperati appena 12,4: il 6,5 per cento.
Il risultato è che il conto viene presentato come al solito ai contribuenti. Già il 3 ottobre del 2006 l’Italia si era beccata una condanna a versare nelle casse comunitarie 310,8 milioni di euro, con la pesante motivazione di non aver «agito con la rapidità e la diligenza necessarie nell’azione di recupero di aiuti indebitamente pagati».
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera”)
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Dicembre 3rd, 2014 Riccardo Fucile
RIVELATO IL PIANO STRAGISTA DI COSA NOSTRA: “PIANO SCARTATO PERCHE’ AVREBBE FATTO TROPPO CLAMORE”
Volevano farlo saltare davanti al Palazzo di Giustizia di Palermo.
La prima versione del piano di morte per uccidere Nino Di Matteo prevedeva l’utilizzo di un’autobomba che doveva esplodere all’arrivo del corteo delle macchine blindate nei pressi degli uffici giudiziari.
Sono i nuovi dettagli del racconto di Vito Galatolo, il neo-pentito dell’Acquasanta che ha svelato le fasi di preparazione dell’attentato con il quale Cosa Nostra voleva rilanciare lo stragismo a Palermo e uccidere il magistrato.
Un attentato spettacolare, che presumibilmente avrebbe fatto numerose vittime, e che poi viene bocciato proprio perchè avrebbe provocato una reazione di indignazione collettiva che i boss del gotha mafioso vogliono a tutti i costi evitare.
Di questi argomenti, i boss discutono nel corso di numerose riunioni convocate nel dicembre 2012 appositamente per definire i dettagli dell’agguato.
Nel summit del 9 dicembre, in un appartamento di via Lincoln, i picciotti dei clan palermitani leggono la lettera con la quale Matteo Messina Denaro ordina il progetto di morte nei confronti del pm che “si è spinto troppo oltre”, e vengono a sapere che all’attentato sarebbero interessate “anche entità esterne” a Cosa Nostra.
Le lettere inviate dal boss di Castelvetrano al commando sono più di una, e vengono lette durante le riunioni da Girolamo Biondino, il fratello dell’ex autista di Totò Riina: a un certo punto i boss comunicano al superlatitante di aver già acquistato il tritolo, ma di non essere in grado di confezionare l’ordigno esplosivo, e allora Messina Denaro fa sapere che “non c’è problema”, perchè al momento opportuno arriverà “un artificiere”.
Tra il dicembre 2012 e il marzo 2013 i mafiosi lavorano a tappe forzate: raccolgono i 600 mila euro necessari a pagare oltre 150 chili di tritolo, acquisiscono l’esplosivo, e trovano persino il modo di farsi cambiare una parte del quantitativo, ritenuta “troppo umida” e dunque inefficace.
Poi passano allo studio delle abitudini del pubblico ministero che in quel momento è ancora un “bersaglio” facile: è scortato solo da cinque uomini dei carabinieri e da due automobili, e soprattutto conduce una vita abbastanza abitudinaria.
Per questo motivo, scartata l’idea dell’esplosione al Tribunale, i picciotti si concentrano sulla zona dove risiede il magistrato.
Poi, però, a fine febbraio 2013, in procura arriva un anonimo: chi scrive si qualifica come uomo d’onore di Alcamo e dice che già da due mesi segue gli spostamenti di Di Matteo per preparare un attentato ai suoi danni.
È il primo dei messaggi anonimi che avvertono il magistrato di un piano di morte in preparazione per lui.
Nello stesso anonimo si fa cenno al fatto che Totò Riina in persona avrebbe avallato il progetto di strage.
Pochi giorni dopo arriva il secondo anonimo, quello che fa riferimento agli “amici romani di Matteo” Messina Denaro, che non vogliono un “governo di comici e froci”, alludendo all’escalation del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo.
I pm della Procura di Caltanissetta hanno chiesto a Galatolo se fosse lui l’informatore che in quei mesi manda a ripetizione avvertimenti al pm della trattativa Stato-mafia, con lettere anonime indirizzate alla Procura di Palermo, ma il picciotto dell’Acquasanta ha negato.
C’è dunque un’altra gola profonda nel commando mafioso che preparava il ritorno allo stragismo?
Quel che è certo è che le lettere che arrivano in procura raccontano dettagliatamente la fase preparatoria dell’agguato riferendo particolari sulle abitudini di Di Matteo che già all’epoca di rivelano esatti, e che oggi vengono riscontrati dal lungo racconto di Galatolo.
Per questo motivo, il neo pentito viene sottoposto in questi giorni a continui interrogatori sia da parte dei pm di Palermo titolari delle inchieste sulla riorganizzazione dei clan di Cosa Nostra nel capoluogo, sia dai pm nisseni che indagano sul progetto di attentato a Di Matteo e sulla strage di via D’Amelio: Galatolo, infatti, più volte ha sottolineato che il piano di morte per il magistrato di Palermo doveva essere simile a quello che il 19 luglio ’92 massacrò Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta.
“Dottore — ha detto il neo pentito nel suo primo incontro con Di Matteo — i mandanti per lei sono gli stessi che hanno voluto la morte di Borsellino”.
Giuseppe Pipitone e Sandra Rizza
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 3rd, 2014 Riccardo Fucile
LA TAX COMPLIANCE NON FUNZIONA… DIVARIO ECCESSIVO TRA DIPENDENTI ED AUTONOMI
Un’evasione fuori controllo, superiore ai 120 miliardi di euro l’anno, una strategia piena di «contraddizioni», una sostanziale «assenza di deterrenza del sistema di contrasto».
La Corte dei Conti boccia il Fisco italiano: la «tax compliance», ovvero lo sforzo dell’amministrazione di favorire l’adesione spontanea all’obbligo tributario, non funziona e serve un cambio di strategia.
Secondo la magistratura contabile «l’affievolimento del sistema sanzionatorio e il mancato potenziamento operativo dell’apparato di controllo dall’altra hanno vanificato la razionalità teorica di un sistema fiscale basato sull’adempimento spontaneo, quale è quello che riguarda i circa cinque milioni di contribuenti che operano nel settore delle attività indipendenti e che sono, pertanto, in grado di autodeterminare almeno in parte il loro grado di lealtà fiscale».
Il report della sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato è durissimo: la normativa che si è sviluppata negli ultimi 40 anni è «rilevante», ma è anche «spesso contraddittoria e mal coordinata, adottata sulla spinta di emergenze contingenti e quasi mai inquadrata in una strategia di lungo periodo di contrasto all’evasione fiscale».
C’è inoltre una «ingiustificata grave sperequazione tra il livello di contribuzione del lavoro dipendente e di pensione e quello derivante dallo svolgimento di attività economiche indipendenti. La rilevanza dello scostamento – dice la magistratura contabile – è particolarmente evidente con riguardo all’Irpef, per la quale le ritenute effettuate dai sostituti d’imposta sui redditi di lavoro dipendente e di pensione costituiscono nel 2013 oltre il 79% del gettito totale derivante da adempimento spontaneo e l’Irpef dichiarata per il 2011 deriva per l’81,4% da contribuenti il cui reddito prevalente è di lavoro dipendente o di pensione».
Quali soluzioni, dunque?
La Corte dei conti chiede una «diversa strategia di contrasto» al nero, una strategia «basata in primo luogo sull’impiego della tecnologia, sia ai fini della naturale emersione delle basi imponibili, attraverso l’introduzione della fatturazione elettronica nei rapporti tra soggetti Iva e la diffusione degli obblighi di pagamento tracciato e di comunicazione telematica dei corrispettivi, sia in chiave persuasiva e conoscitiva» per «assicurare al contribuente la tempestiva e preventiva conoscenza dei dati fiscalmente significativi»: fatture, pagamenti ed incassi, dati strutturali, consumi privati.
I magistrati contabili plaudono però ad alcune delle misure di contrasto all’evasione fiscale contenute nel ddl stabilità 2015.
In particolare, «quelle volte a favorire l’adempimento volontario, attraverso la messa a disposizione delle informazioni fiscalmente significative prima dell’adempimento e quelle finalizzate a estendere i casi di reverse charge» per spostare l’obbligo fiscale Iva su soggetti più affidabili «sembrano andare» nella direzione indicata nella relazione della Corte dei Conti sugli effetti prodotti dall’azione di controllo fiscale in termini di maggiore tax compliance.
Giuseppe Bottero
(da “La Stampa”)
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Dicembre 3rd, 2014 Riccardo Fucile
LA NORMA TRANSITORIA PER GARANTIRE SILVIO NEL PROCESSO A NAPOLI SULLA COMPRAVENDITA DI VOTI
C’è un processo, guarda caso di Berlusconi, che mette nel nulla le promesse di Renzi e Orlando sulla riforma della prescrizione.
I familiari di chi è morto per l’amianto della Eternit ed è rimasto senza giustizia possono aspettare. L’emergenza è un’altra
A Napoli c’è il caso De Gregorio, l’inchiesta sulla compravendita dei voti, dibattimento di primo grado in corso, l’ex premier alla sbarra, ma una prescrizione in agguato, autunno del 2015.
Non avremo mai la certezza che non si cambiano le regole della prescrizione col rischio di coinvolgere anche il suo processo.
Ma è un fatto, questo sì storicamente compiuto. Lì, squadernato davanti a tutti: da 90 giorni la riforma della prescrizione è bloccata per via di tre righe, sperdute in fondo a una ventina di pagine.
Tre righe pesantissime, con un nome che ha dominato il ventennio berlusconiano e che eravamo convinti di aver ormai consegnato alla cronaca del passato.
Parliamo della “norma transitoria”.
Sì, proprio lei, il fantasma del passato che torna. Potente al punto da impedire che un disegno di legge del governo, approvato il 29 agosto – quello che contiene all’articolo 3 la nuova prescrizione, o prescrizione bloccata come la si voglia battezzare – possa approdare alle Camere e correre al voto. Niente da fare.
Azzoppato prima di spiccare il volo.
Zavorrato dalla “norma transitoria”, tre righe che regolano l’applicazione effettiva della futura prescrizione. Righe su cui Renzi e Orlando si giocano la faccia non solo con i familiari delle vittime Eternit, ma con i magistrati che vedono morire i processi giorno per giorno.
Come raccontano a Milano, «massacrate decine e decine di inchieste fiscali».
Come documentano a Palermo, il caso dell’amianto nei cantieri navali con l’accusa di omicidio colposo passato da 60 a una ventina di omicidi colposi, gli altri prescritti.
Come ricordano a Firenze, messo nel nulla l’odioso processo per gli abusi sessuali e i maltrattamenti subiti per 30 anni dai bambini affidati alla comunità del Forteto.
O ancora, sempre a Firenze, nessun colpevole per i danni prodotti dai lavori dell’alta velocità nel Mugello, quelli dell’autosole e della variante di valico. A Torino, dopo Eternit, rischia ThyssenKrupp. A Bari non arriverà nemmeno al processo lo scandalo della concorsopoli universitaria
Però poi ci sono i processi della politica.
La compravendita di Berlusconi. Ma non solo.
A Napoli molte delle corruzioni contestate all’ex deputato del Pdl Alfonso Papa.
Ancora a Bari il processo per corruzione di Raffaele Fitto, condanna in primo grado che potrebbe scomparire proprio grazie alla prescrizione.
Inutile chiedersi allora perchè servono 90 giorni – tre, lunghi, mesi – per far sì che la riforma della prescrizione compia poche decine di metri, da palazzo Chigi alla Camera. In questi 90 giorni lo scontro sulla “norma transitoria” è stato intestino.
Dice il testo che il nuovo sistema – prescrizione bloccata in primo grado, ma poi via al “processo breve”, due anni per l’appello e uno per la Cassazione – «si applica ai procedimenti in cui la sentenza di condanna in primo grado è pronunciata successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge».
Se il dibattimento di Berlusconi a Napoli finisce prima che la legge sia approvata, allora Silvio può stare tranquillo perchè il suo processo sta per “morire” per prescrizione.
Se invece la legge fosse stata approvata prima, allora l’ex Cavaliere avrebbe dovuto preoccuparsi. Adesso può dormire sonni di piombo perchè i 90 giorni persi, che diventano 150 se si parte dal consiglio dei ministri del 30 giugno con il primo annuncio della riforma della prescrizione, lo mettono in sicurezza perchè il processo di primo grado finirà prima che la legge sia approvata.
Tuttavia la destra della politica, Ncd dentro al governo e Forza Italia fuori, non dà tregua, non farà passare la legge se quelle tre righe, cui il Guardasigilli Orlando sarebbe disposto a rinunciare, non garantiranno il salvacondotto ai processi in corso.
Quante colpe ha il Pd? A volerle misurare in anni, sul Pd gravano 8 anni di colpe.
La legge ex Cirielli, approvata da Berlusconi per se stesso nel dicembre 2005, avrebbe potuto essere buttata nel cestino da Prodi l’anno dopo. Ma non se ne fece niente. Promesse da marinaio anche allora.
Il Pd ne dette garanzia nelle piazze, ma se ne scordò in Parlamento.
E la ex Cirielli è ancora lì a mietere vittime, 1.552.435 milioni di processi in 10 anni. Processi di tanti, sull’altare dei processi di pochi, la casta, Berlusconi in testa.
Grande delusione. Non c’è altro da dire.
Liana Milella
(da “La Repubblica“)
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Dicembre 3rd, 2014 Riccardo Fucile
DAL PD A FORZA ITALIA, E’ UNA CORSA A PRENDERE LE DISTANZE DAI POLITICI COINVOLTI
Ernesto Carbone spegne l’ennesima sigaretta. Solitamente scherzoso, oggi ha l’aria grave: “Il procuratore capo di Roma è una persona seria. E io ha piena fiducia nella magistratura e in Pignatone”.
Pausa, si allontana per una telefonata. Poi Carbone, la cui consuetudine con Renzi non è un mistero, prosegue: “Mi auguro che il Pd romano sappia reagire con decisione davanti a fatti così gravi. Con de-ci-sio-ne”.
“Pulizia” aveva detto la Boschi. “Decisione” dice il fedelissimo. Maniere forti.
Il rischio di un passaggio da Mafia Capitale al Paese Infetto è breve. E nel Palazzo è tangibile la paura.
Lo spiega il socialista Lello Di Gioia: “Queste vicende le paghiamo tutti. Fuori di qui l’immagine è di una classe politica corrotta, senza distinzioni tra livello locale e nazionale, destra e sinistra. Astensionismo, rabbia, delegittimazione della politica. Queste storie le paghiamo tutti”.
Ecco che i renziani, con le loro parole nette, dure, lasciano intendere una sorta di “pulizia” del Pd romano, il più coinvolto, legato alla “Ditta”. Ma senza risparmiare nessuno.
Ha fatto effetto che Patanè, ultimamente si era schierato con Renzi, e non era il solo. La grande bonifica, assicurano, arriverà a fine gennaio, quando il premier si occuperà personalmente del caso Roma. Dopo cioè l’elezione del presidente della Repubblica, il che lascia intendere quanto pesi nel Pd la faccenda.
Nel frattempo i suoi devono tenere alta la tensione. Far capire all’opinione pubblica che il segretario-premier bonificherà la palude malavitosa.
Perchè l’inchiesta è davvero devastante.
Uno come Massimiliano Smeriglio, attualmente vicepresidente della Regione Lazio in quota Sel, praticamente l’aveva prevista in un libro un paio d’anni fa. Passa in Transatlantico.
A domanda, risponde: “questa inchiesta è una bomba”. Pausa: “Atomica”.
E siamo solo all’inizio. Ecco perchè, dopo il silenzio di ieri, i politici sembrano più ciarlieri. E si schierano, senza se e senza ma, con la procura di Roma.
È una sindrome quasi da ’92, quando Milano divenne il simbolo dell’Italia nuova, emblema della rigenerazione morale sulle macerie della Prima Repubblica.
Pignatone, magistrato moderato, che pare aver portato luce nel porto delle nebbie, luogo di tutela dei potenti e di oblio per i loro peccati, diventa la ciambella a cui si aggrappa una classe politica intimorita, per rendersi presentabile all’esterno.
Per una volta, il processo politico va più veloce di quello penale. Indifendibili tutti. Colpevoli. Chi ha letto le carte dichiara senza girarci attorno.
Come Alessia Morani, ex responsabile giustizia del Pd: “Emerge un quadro spaventoso. Io sto a fianco della magistratura e di Pignatone. Mica possiamo stare a guardare. Il Pd romano deve fare subito uno scatto di reni, dare segnali radicali. Sottolineo, subito”.
Parole che raramente si sentono del Palazzo, senza le solite premesse, il garantismo di circostanza, il “fino al terzo grado di giudizio stiamo a vedere”.
Walter Verini, che di Veltroni fu braccio destro e sinistro, sospira: “Occorre una tabula rasa a Roma, solo così si possono mettere le basi di una rinascita”.
Già , tabula rasa. Pure gli azzurri, quelli delle crociate contro la magistratura scaricano Alemanno.
Imbarazzo, sgomento: “O è colpevole o se non ha capito chi gli stava attorno è ugualmente colpevole” sussurrano. Giovanni Toti è parlamentare europeo.
Non passa nel Palazzo. Risponde a telefono.
Scusi Toti, quale è la vostra linea sull’inchiesta di Roma? “Innanzitutto sto leggendo. E mi pare un puttanaio, da tutte le parti”. E in relazione al puttanaio, la linea? Graniticamente garantisti? “Vabbè, è chiaro che fino al terzo grado di giudizio uno non può essere definito colpevole, ma è chiaro che, al tempo stesso, diciamo che chi ha sbagliato pagherà . Ed è giusto che paghi”.
Il non detto su Alemanno e suoi che hanno sbagliato è affidato a un lungo sospiro. Neanche tanto sofferto.
(da “Huffingtonpost“)
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Dicembre 3rd, 2014 Riccardo Fucile
PER LE PERSONE CIVILI QUELLA DI MARE NOSTRUM E’ STATA UNA TRAGEDIA, PER LORO UN’OPPORTUNITA’ CRIMINALE
«In una situazione di crisi, occorre guardarsi dai pericoli ma saper riconoscere le opportunità ». Lo ha detto John F. Kennedy nel 1959 a Indianapolis.
Ma negli ultimi 40 anni chi ha saputo metterlo in pratica meglio di chiunque altro a Roma è stato Massimo Carminati, l’ex terrorista dei Nar affiliato alla Banda della Magliana che da decenni coniuga politica, affari e criminalità organizzata nella capitale del nostro Paese.
Per tutti noi quella di Mare Nostrum è stata una tragedia. Per Massimo Carminati un’opportunità .
Da un’inchiesta condotta negli ultimi mesi da Il Sole 24 Ore, e convalidata ieri dalla serie di arresti in seguito all’indagine condotta dal Servizio centrale del Ros e dalla sua sezione Anticrimine di Roma per conto della Procura , è emerso che quello dei «barconi della speranza», anzichè un’emergenza umanitaria, è stato un grande business. Per Carminati è stata anche un’occasione per rafforzare quella tela di relazioni grazie alla quale nel sottobosco romano è noto anche come «l’ultimo re di Roma».
Carminati si è dimostrato un re magnanimo. Che ha saputo condividere con la sua corte. E in quest’ultima vicenda in particolare con quello che la Procura ritiene sia stato il suo socio occulto, Salvatore Buzzi, presidente di un importante consorzio di cooperative legate alla LegaCoop, le cosiddette «cooperative rosse».
Attenzione, non si sta parlando di attività criminali – di droga, di pizzo o di economia sommersa. No, a predisporre e raccordare l’emergenza migranti è stato il «Tavolo di coordinamento nazionale» presieduto dal più istituzionale dei ministeri, quello dell’Interno, del quale era membro un uomo prezzolato dal duo Carminati-Buzzi.
Leggendo gli atti dell’indagine «Mondo di mezzo», diretta dai pm romani Giuseppe Cascini, Paolo Ielo e Luca Tescaroli, torna in mente un altro tavolo, parliamo de «U tavolinu», dove il «ministro dei Lavori pubblici» di Cosa Nostra, Angelo Siino, spartiva appalti e fondi pubblici con aziende e politici.
Il ruolo di Siino, secondo le accuse della Procura di Roma, sarebbe stato svolto da Luca Odevaine, l’uomo al servizio del duo criminale membro del Tavolo di coordinamento nazionale, ex direttore di gabinetto del sindaco Walter Veltroni, ex capo della polizia provinciale e Protezione civile con Nicola Zingaretti, ed ex pregiudicato.
Dall’indagine de Il Sole 24 emerge che, per via delle centinaia di milioni di fondi statali e comunitari, quella dell’accoglienza è stata una straordinaria mangiatoia.
Per capirlo basta questa frase di Buzzi a un complice: «Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati, eh? Il traffico di droga rende di meno».
A mangiare tutti insieme appassionatamente sono stati i «fascio-mafiosi» di Carminati che secondo la Procura avevano in Gianni Alemanno l’esponente politico di riferimento di maggior spicco e i «rossi» di Buzzi, che avevano invece al proprio servizio uno stretto collaboratore del predecessore di Alemanno al Campidoglio, Walter Veltroni.
In una sorta di iper-compromesso storico criminal-clientelare condotto in piena luce del sole e, almeno formalmente, sotto la tutela delle massime autorità dello Stato.
Per usare le parole del Gip Flavia Costantini, è infatti emerso «un trait-union tra mondi apparentemente inconciliabili, quello del crimine, quello della alta finanza, quello della politica».La prima fase del «business dei migranti» inizia nell’estate del 2008, quando arriva la prima grande ondata di immigrati. Il 25 luglio di quell’anno, per fronteggiarla, il Governo Berlusconi dichiara lo stato d’emergenza che attribuisce ai prefetti potere derogatorio.
Il 6 agosto Angelo Chiorazzo, un potentino trasferitosi a Roma e legato al mondo dell’ex Dc, si reca a Palazzo Chigi per incontrare il sottosegretario Gianni Letta.
Chiorazzo è rispettivamente presidente e consigliere d’amministrazione de La Cascina e di Auxilium, che insieme formano una rete di cooperative «cattoliche». E pensa di avere le carte in regola: la Auxilium già gestisce il Centro di accoglienza richiedenti asilo (Cara) di Bari e quello di Ponte Galeria, a Roma
Letta lo mette subito in contatto con l’uomo che dal Viminale gestisce l’emergenza umanitaria per il Governo, il prefetto Marco Morcone, già allora capo del Dipartimento Immigrazione del Ministero, il quale apre una corsia preferenziale per Chiorazzo.
E, grazie al regime derogatorio previsto da un’ordinanza del Consiglio dei Ministri, nel giro di pochissimo tempo, Auxilium ottiene un appalto da oltre un milione per aprire un nuovo Cara a Policoro, in provincia di Matera (terra di Chiorazzo e di suo fratello Pietro, anche lui impegnato nello stesso business).
Che tempistica e modalità fossero del tutto inusuali lo hanno dichiarato il prefetto di Matera Giovanni Monteleone e il suo collaboratore Michele Albertini, nelle loro deposizioni al pm Henry Woodcock (che sulla vicenda aveva aperto un’inchiesta, conclusasi con l’archiviazione delle posizioni di Letta e Morcone).
«Non risultava nessun tipo di gara» testimonia Albertini, «e il ministero – la direzione centrale – ci diceva anche il prezzo che avremmo dovuto pagare.… In tre mesi abbiamo quantificato circa 1 milione e 200mila euro, per cui capite bene che non stiamo parlando di noccioline.
Quindi sollevai questa problema: “guardi io non sottoscrivo nessuna convenzione, fino a quando voi per iscritto non ci dite che lo schema è quello, che la ditta è quella, che il prezzo è quello. Perchè almeno che risulti che io sto sottoscrivendo 49 euro perchè me lo state dicendo voi, non perchè io ho valutato se 49 euro è un prezzo congruo o meno”… Altrimenti, sinceramente con tutte le deroghe della norma io non avrei sottoscritto nulla».
Le stesse perplessità le manifesta il prefetto Monteleone: «Un giovedì mi ha chiamato il prefetto Morcone e mi ha detto: “Abbiamo individuato nella città di Policoro una struttura ricettiva dove sabato arriveranno duecento extracomunitari. Perchè c’è un’emergenza nazionale”. Io sono rimasto molto sorpreso, perchè mi sono trovato, diciamo, bypassato (…) Mi dissero che (…) che sarebbe seguita di lì a poco una convenzione-tipo che dovevamo far firmare alla Prefettura, senza sapere chi fossero questi qua. Io ho appreso dopo di questa Auxilium. L’ho appreso un giorno dopo, due giorni dopo (…) E’ arrivato tutto prestabilito da Roma. Tutto».
La seconda fase del business dei migranti ha inizio nella primavera del 2011, quando il Governo Berlusconi requisisce il «Villaggio degli aranci», un complesso residenziale di 404 unità abitative costruito dalla ditta Pizzarotti e C. Spa, di Parma, su 25 ettari nella piana di Catania appartenente (nulla e che vedere con l’omonimo attuale sindaco di Parma ndr).
Occupato fino a poco prima dai militari americani di base a Sigonella, il Villaggio viene trasformato nel Cara di Mineo.
Anche lì, sempre grazie al regime di deroga, l’appalto viene assegnato senza gara al ribasso.
A prenderlo è un raggruppamento che, oltre alla stessa Pizzarotti, include Legacoop (le ex cooperative rosse), la Cascina, e il Consorzio «Calatino terra di Solidarietà », ente creato dai comuni locali popolato da persone legate all’attuale ministro dell’Interno Angelino Alfano.
A occupare la poltrona di presidente del Consorzio è Giuseppe Castiglione, prima presidente della Provincia di Catania, poi deputato del Pdl e ora sottosegretario all’Agricoltura in quota Ncd da sempre legato al ministro, e dopo di lui Anna Alois, neo-eletta sindaco di Mineo, anche lei del Ncd. Esperto del presidente del Consorzio: Luca Odevaine.
Nell’estate del 2012, indagando su Carminati per conto dei Pm di Roma Paolo Ielo e Giuseppe Cascini, i carabinieri del Ros si accorgono del suo coinvolgimento nella gestione di un campo-nomadi alla periferia di Roma.
E scoprono il suo legame con Salvatore Buzzi, un pregiudicato divenuto presidente di un consorzio di “cooperative sociali” legate alle Legacoop (vedi box).
«Si erano divisi il mercato distribuendo mazzette. In pratica ogni appalto era diviso in lotti di maggioranza e lotti di minoranza», rivela a Il Sole 24 Ore una fonte che chiede l’anonimato.
Il grande salto avviene nel periodo di Alemanno, quando le cooperative controllate dal sistema «Carminati/Buzzi» moltiplicano di oltre 15 volte il proprio fatturato.
Ma la vittoria elettorale di Ignazio Marino non cambia nulla. Anche perchè, come spiega lo stesso Buzzi in una conversazione captata dal Ros alla vigilia delle elezioni comunali del 2013, l’associazione si era coperta su ogni fronte: «La cooperativa campa di politica. Il lavoro che faccio io lo fanno in tanti, perchè lo devo fare io? Finanzio giornali, finanzio eventi, pago segretaria, pago cena, pago manifesti. Lunedì c’ho una cena da ventimila euro (…) C’ho quattro cavalli che corrono col Pd, con la Pdl ce ne ho tre e con Marchini c’è… c’ho rapporti con Luca (Odevaine) quindi va bene lo stesso. Lo sai a Luca quanto gli do? Cinquemila euro al mese. Ogni mese (…) un altro che mi tiene i rapporti con Zingaretti 2.500 al mese. Un altro che mi tiene i rapporti al comune 1.500, un altro a… sette e cinquanta… un assessore diecimila euro al mese… ogni mese, eh! (…) Per le elezioni siamo messi bene… siamo coperti».
Una volta arrivati a Odevaine gli investigatori raggiungono il cuore istituzionale dell’emergenza migranti. In quanto responsabile della protezione civile della provincia di Roma (con Zingaretti), Odevaine era infatti entrato a far parte del Tavolo di coordinamento nazionale istituito dal Viminale per fronteggiare la crisi.
Una circolare del ministero dell’Interno del 13 dicembre 2012 spiega che una della mission del Tavolo è quella di «provvedere all’elaborazione di un’ipotesi di ripartizione» dei compiti.
A coordinare la ripartizione delle mazzette secondo la Procura sarebbe invece stato Odevaine. Nell’ordinanza del Gip si legge infatti che costui ha fatto in modo di «orientare le scelte del Tavolo di coordinamento nazionale al fine di creare le condizioni per l’assegnazione dei flussi di immigrati alle strutture gestite dai soggetti economici riconducibili a Buzzi».
I politici avevano anche un benefit collaterale: il ricorso alle cooperative per gli appalti ha infatti favorito la costituzione e il controllo di preziosissimi bacini di voti.
Claudio Gatti
(da “il Sole 24ore”)
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Dicembre 3rd, 2014 Riccardo Fucile
IL COMUNE DI ROMA PAGA 600 EURO A PERSONA PER I ROM AI GESTORI DEL CENTRO DI ACCOGLIENZA DI VIA VISSO: DA UN LATO SONO UN BUSINESS, DALL’ALTRO PORTANO VOTI ALLA BECERODESTRA
Voi paghereste seicento euro al mese per vivere in uno stanzone affollato e senza finestre? Sicuramente no.
Eppure questa è la cifra che il Campidoglio versa all’ente gestore della “Best House Rom” per ciascun rom ospitato nel centro di accoglienza di via Visso.
Ciò significa che per una famiglia di sei persone le casse pubbliche spendono 3600 euro: il costo di un affitto in una casa di lusso nel centro di Roma.
Lo scandalo, uno dei tanti consumati sulla pelle dei cosiddetti “zingari”, è stato denunciato dal consigliere comunale radicale Riccardo Magi nelle ore immediatamente precedenti alla retata che ha portato all’arresto di 37 persone per l’inchiesta “Mondo di mezzo”.
Tra gli arrestati figura Emanuela Salvatori, responsabile dell’ufficio rom del Campidoglio e coordinatrice dell’attuazione del “Piano rom e interventi di inclusione sociale”.
Un altro degli arrestati è Salvatore Buzzi, ramo Lega Coop, che nelle intercettazioni dice: “Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico de droga rende meno”
Nel business “immigrati” rientrano anche i settemila rom che vivono nei campi attrezzati di Roma.
Si tratta degli stessi rom contro i quali manifestano Casapound e le destre romane per capitalizzare voti.
Un doppio sfruttamento altamente redditizio: i rom fruttano soldi alla destra e alla sinistra grazie agli appalti delle cooperative che gestiscono i campi, e fruttano voti – specialmente alla destra – perchè ripetere che gli zingari sono “culturalmente” ladri (lo ha sottolineato Ignazio La Russa) è sempre un ottimo argomento per scaricare sugli intoccabili la responsabilità di una mala gestione amministrativa.
È vero, gli uomini di Maurizio Carminati – il capo della banda di fascio-mafiosi, ex appartenente alla banda della Magliana – hanno mangiato abbondantemente sull’emergenza profughi e sull’accoglienza dei migranti a Roma, e non soltanto sui rom.
Tuttavia sono i rom a essere prigionieri – letteralmente – del sistema che impedisce loro di uscire dai campi e prigionieri di un razzismo che non trova corrispondenze in nessuna etnia.
Che i rom vogliano vivere nei ghetti, all’interno delle baracche, è per esempio una delle tante favole che la politica racconta ai cittadini per dimostrare che i campi nomadi fanno parte della cultura zingara.
Non è vero, e lo dimostra il fatto che l’Unione europea è pronta a multare l’Italia proprio perchè non sta smantellando i campi attrezzati.
L’inchiesta della Procura di Roma sulla Mafia Capitale sta svelando quello che da tempo associazioni come la 21 luglio denuncia da anni, e cioè che dietro questa falsa necessità dei campi rom si nasconda una speculazione tutta italiana e tutta mafiosa sulla pelle dei settemila rom censiti nella Capitale: siccome questi ghetti pestilenziali hanno bisogno – dice la politica – di sorveglianza continua e persone che si occupino dell’integrazione, allora ecco gli appalti per i vigilantes, gli scuolabus appositi per i rom e così via.
Ma quanto spende il Campidoglio per sole settemila persone, in maggioranza bambini? 42 milioni in tre anni “e non sappiamo dove siano finiti questi soldi”, diceva un funzionario del Comune all’Huffington Post durante una visita del campo di via Gordiani, dove le famiglie vivono in prefabbricati cadenti con i bagni rotti.
Di quella cifra, 32 milioni erano arrivati grazie al Piano Nomadi di Gianni Alemanno.
Sempre durante la giunta Alemanno, era stata approvata una norma che nell’applicazione pratica impediva ai rom – molti dei quali italiani – di accedere alle graduatorie delle case popolari.
Di questa ennesima misura discriminatoria si era occupato persino il quotidiano britannico “The Guardian”.
Anche questo serviva a perpetuare l’esistenza dei campi nomadi, con un duplice scopo: raccontare alla cittadinanza che in fondo gli “zingari” non vogliono vivere come tutti gli altri, e continuare il business degli appalti intorno ai rom.
L’inchiesta che sembra smantellare la cupola fascio-mafiosa – ma c’è di mezzo un pezzo della sinistra – potrebbe servire finalmente a decostruire tutte le menzogne razziste che tutta la politica, in maniera davvero bipartisan, ha utilizzato per dipingere i rom come aggressori, criminali e ladri di bambini.
Un racconto che ha fatto breccia anche nelle anime più progressiste.
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Dicembre 3rd, 2014 Riccardo Fucile
“I VIVI SOPRA, I MORTI SOTTO” E LA MAFIA CAPITOLINA
Si erano presi Roma. Le sue strade e il Campidoglio. Ne avevano ridotto un sindaco, Gianni Alemanno, a utile pupazzo, nè il cambio di maggioranze li aveva sorpresi, perchè – dicevano – di “nove cavalli” (gli assessori) della giunta Marino, «sei sono nostri».
E se l’erano presa perchè Lui, Massimo Carminati, er Cecato, er Guercio , l’ex camerata dei “Nar” figlio ed epigono della Banda della Magliana, protagonista della coda di sangue del novecento “deviato” (omicidio Pecorelli, strage di Bologna), che di Roma era diventato Re e Padrone, di Roma aveva compreso meglio di chiunque altro l’anima.
Fino a farne il format del suo dominio.
«È la teoria del Mondo di Mezzo compa’ – spiega al suo braccio destro Riccardo Brugia il13 dicembre del 2012, ignaro della cimice del Ros dei carabinieri – Ci stanno, come si dice, i vivi sopra e i morti sotto. E noi stiamo nel mezzo. Perchè ci sta un mondo, un Mondo di Mezzo, in cui tutti si incontrano. E tu dici: “Cazzo! Come è possibile che un domani io posso stare a cena con Berlusconi..”.
E invece, il Mondo di Mezzo è quello dove tutto si incontra. Tu stai lì. Non per una questione di ceto. Ma di merito.
Perchè anche la persona che sta nel Mondo di Sopra ha interesse che qualcuno del Mondo di Sotto gli faccia delle cose che non può fare nessuno. E quindi tutto si mischia..
«. Brugia è estasiato da tanta sapienza. E non è dato sapere se colga nell’affresco le reminiscenze di Tolkien e del suo “ Signore degli Anelli ”. Certo, strappa al Maestro un’ultima confidenza. «Sono cose che la gente non sa, non capisce. A me una volta mi fece una battuta il magistrato: “Ma lei la conosce la Teoria?” E io: “La conosco bene”. E lui: ”Lo so che lei la conosce molto bene”. Allora, io: “Dunque, le domande finiscono qui”. E lui: “Vada”»
TRE MONDI, UNA MAFIA
“ Il Mondo di Mezzo”, “ Il Mondo di Sopra”, “ il Mondo di sotto”, dunque.
Carminati, la Politica, la violenza di strada. In una sola parola, la Mafia. Che, nelle oltre 1.200 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare del gip Flavia Costantini, diventa “Mafia Capitale”. «Fenomeno criminale originale e originario», chiosa il magistrato. Per Roma, una “prima volta”, almeno nella sua definizione giuridica.
Del Mondo di Mezzo, Carminati è il padrone. E non potrebbe essere altrimenti.
«Perchè sofisticata figura criminale». Perchè «preceduto e inseguito dal mito dell’impunità », figlia di «legami con appartenenti alle forze dell’ordine e dei Servizi». Perchè uomo cui non è necessario esercitare la violenza, ma semplicemente minacciarla, o anche solo evocarla.
Ora con spaventosi silenzi, ora con improvvise collere («A quello – si lascia andare – bisogna farlo urla’ come un’aquila sgozzata»).
Non fosse altro perchè porta con se l’epica nera della Banda della Magliana (che pure, in privato, liquida come la «storia di quattro cialtroni»).
Perchè vanta «di aver portato 4 milioni di euro in borsoni a tutto il Parlamento, Rifondazione compresa, per conto di Finmeccanica».
E perchè siede da “primus inter pares” al tavolo dei mammasantissima che a Roma trafficano da sempre.
I “napoletani” di Michele Senese, i calabresi, Cosa Nostra, gli incartapecoriti eredi delle ricchezze della Banda della Magliana (Ernesto Diotallevi ed Enrico Nicoletti), i Casamonica padroni di Roma- est.
Per dialogare con il Mondo di Sotto Carminati ha deciso che alla sua destra sieda un attempato camerata dei tempi andati, Riccardo Brugia, «che coordina le attività criminali, il recupero crediti» e «custodisce le armi».
Mitragliette e “Makarov calibro 9” silenziate («Quelle che fanno “clack” e che prima che se ne accorgono s’è già allagata la macchia di sangue»). Un tipo cui fanno corona Giovanni De Carlo, capobastone a Ponte Milvio, piuttosto che Roberto Lacopo, gestore del distributore Eni di corso Francia, “l’Ufficio” a cielo aperto di Carminati in quel di Roma nord.
Dove si danno ordini, si cambiano assegni a strozzo e si innesca la ferocia di tale Matteo Calvio e dei suoi mozza orecchi quando qualcuno prova a dire no, o ad alzare la cresta
Per fare del Mondo di Sopra un docile esecutore, ci sono invece Fabrizio Testa (già Destra sociale di Alemanno, quindi ex Enav e Technosky), Luigi Gramazio (consigliere regionale Pdl) e Salvatore Buzzi, gestore di una rete di “cooperative sociali” (la “Eriches 29 giugno”), una storia di sinistra alle spalle, una lontana esperienza in carcere (per omicidio) e un presente da traffichino. Il “lobbysta” in Campidoglio, diciamo così, il custode del “libro nero” in cui annota la contabilità della corruzione politica
I SOLDI AI PARTITI
Alla Mafia Capitale interessa infatti restare attaccati alla mammella della spesa pubblica, degli appalti nel settore dei rifiuti, dell’assistenza ai nomadi e ai minori, del verde pubblico. «In una logica rigidamente bipartisan», scrive il gip e secondo uno schema in cui «Mafia Capitale è un fiume carsico, che origina nella terra di mezzo, emerge in larghi tratti del mondo di sopra, inquinandolo, per poi reimmergersi».
E, del resto, con la politica, dove non può arrivare l’intimidazione, c’è sempre la corruzione.
Finchè dura Alemanno, il gioco è semplice. Dagli appalti alle nomine delle municipalizzate (l’Ama su tutte, dove il presidente, Franco Panzironi «è a disposizione »). Non fosse altro perchè nelle mani di Carminati è Riccardo Mancini, già tesoriere della campagna elettorale e della fondazione “Nuova Italia” dell’ex sindaco, nonchè ex ad di Eur spa, la società dal grande peso nelle commesse. Lo chiamano ora “er ciccione”, ora “il maialetto”, ora “er porcone”.
È un fatto che “stecchi” le tangenti che prende con Carminati.
E che quando finisce in carcere per le commesse di filobus della Breda, l’ordine che arriva sia secco: «Se deve tene’er cieco ar culo». Starsi zitto. Cosa che farà .
Nè i cambi di maggioranza sono un problema. Come, alla vigilia delle ultime elezioni comunali, dimostra lo sfogo di Buzzi: «Io pago tutti. Questo è il momento che paghi di più perchè stanno le elezioni. Poi per cinque anni, i miei non li paghi più. Quell’altri li paghi sempre a percentuale su quello che te fanno. E se punti sul cavallo sbagliato…
Mo’ c’ho quattro cavalli che corrono col Pd, poi con la Pdl ce ne ho tre e con Marchini c’ho rapporti con Luca (Odevaine, ex vice capo di gabinetto con la giunta Veltroni, quindi capo della polizia provinciale).
A Luca gli do 5 mila euro al mese. A un altro che mi tiene i rapporti con Zingaretti (il Presidente della Regione ndr), 2 mila e 500 al mese. 1.500 a quello che mi tiene i rapporti al comune, 10 mila al mese a un assessore.
“Mo’ siamo messi bene perchè con Marino siamo coperti, Alemanno coperti e con Marchini c’ho Luca che piglia i soldi e per questo non rompesse il cazzo».
E in effetti, nessuno “ha rotto il cazzo”. Fino a ieri. Con un solo sopravvissuto alla tempesta.
La vecchia conoscenza Gennaro Mokbel. Il gip ha deciso che resti libero.
Carlo Bonini
(da “La Repubblica”)
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