Dicembre 23rd, 2014 Riccardo Fucile
NONOSTANTE LE PRESSIONI DI RENZI, IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA NON VUOLE ESSERE COINVOLTO NELLA TEMPESTA DI MARZO
Sbaglia chi pensa che Giorgio Napolitano possa aspettare fino alla data del 23 gennaio, per consentire a Matteo Renzi di presentarsi al bilaterale italo-tedesco con Angela Merkel con un capo dello Stato in carica.
O che addirittura, ragionando in un’ottica tutta europea abbia deciso di aspettare il 29 gennaio, giorno in cui il Parlamento greco si riunirà per scegliere il suo presidente, col rischio — qualora come pare non si dovesse sbloccare l’impasse — di tornare di nuovo alle elezioni in un quadro di incertezza.
La data ufficiosa del 14 gennaio, per le dimissioni, non è in discussione.
Nel senso che il capo dello Stato potrebbe al massimo aspettare le successive 48 ore, fino alla chiusura delle borse del venerdì 16, ma non di più.
Fanno sapere dal Colle che, dopo il rendiconto del premier sul semestre italiano di presidenza in Europa, ogni momento è utile.
Ed è una notizia nella misura in cui negli ultimi giorni in parecchi hanno chiesto al capo dello Stato qualche giorno in più, col pretesto degli appuntamenti internazionali, ma in verità per consentire al Senato di approvare la legge elettorale in un clima più sereno evitando un cortocircuito tra discussione parlamentare sull’Italicum e successione al Colle.
Perchè è su questo che tutti gli oppositori del Nazareno hanno già cominciato a tessere la loro trama per imbrigliare il premier: “Se non dà garanzie un capo dello Stato autonomo — dice un dem vicino al dossier al Senato — sulla legge elettorale lo faremo ballare”.
E chissà se anche di questo si è parlato nel corso della visita di Renzi al Quirinale, dove ufficialmente c’è stato solo uno scambio di opinioni sulla vicenda dei Marò e sugli appuntamenti di fine anno del governo, con le misure sul lavoro che saranno varate al cdm di domani.
È però certo, rivelano fonti vicine al premier, che Renzi — dopo il colloquio con Napolitano — ha ben presente che le prossime settimane saranno ad alto rischio.
E che lo schema immaginato — arrivare al voto d’Aula sull’Italicum prima delle votazioni sul Quirinale — potrebbe cambiare.
Si spiega anche così la “cautela” di cui parlano i suoi e l’impressione che stia gestendo il dossier Quirinale “senza fretta” e soprattutto tenendo aperte le due opzioni: da un lato ha riaperto tutti i canali diplomatici con Berlusconi, dopo i contatti di sabato, ma al tempo stesso dà segnali rassicuranti alla minoranza del suo partito che chiede un profilo non solo “di garanzia”, ma “autorevole” in Italia e in Europa.
E c’è un motivo se le dimissioni di Napolitano non sono affatto rinviabili.
Ed è quella preoccupazione che aleggia al Colle ma che Renzi ha respirato anche a Bruxelles, all’ultimo vertice dell’Unione. I partner europei, che considerano l’Italia ancora un osservato speciale, si aspettano una figura “credibile e riconosciuta”.
E una figura credibile e riconosciuta in Europa è anche l’auspicio di Napolitano.
Già , credibile e riconosciuta in Europa. E che, per parafrasare il gergo di Bersani, sappia tenere il volante ben saldo quando si dovranno affrontare le prime curve.
Per questo oltre il 16 gennaio il capo dello Stato non intende rimanere. Nel timing c’è anche una scelta politica: solo così il nuovo inquilino avrà il tempo di ambientarsi, prendere dimestichezza col “volante” e tenerlo fermo nelle curve di marzo.
Perchè tutto dice che sarà quello il momento più complicato. In molti, negli ambienti che contano e con cui ha consuetudine Napolitano, prevedono curve complicate.
E se nella lettera che il commissario Moscovici ha inviato al Parlamento c’è, nero su bianco, la certezza che l’Italia sfori il tre per cento, si capisce cosa può succedere quando la commissione europea darà le pagelle di marzo sulla legge di stabilità . Ovvero è tornato il rischio di una procedura di infrazione e quindi di una manovra correttiva.
È cioè il rischio che riparta un doloroso film già visto con l’Europa che chiede aggiustamenti di conti ma anche riforme strutturali, altrettanto dolorose.
Perchè è vero che alcuni capitoli sono stati affrontati, a partire dal mercato del lavoro, ma è altrettanto vero che ce ne sono altri su cui l’Europa ha chiesto di usare il bisturi sia nella famosa lettera del 2011 sia in quella con la quale chiuse la procedura di infrazione a maggio 2013.
A partire dal pubblico impiego, altro tasto socialmente molto sensibile.
Ecco, le curve. Napolitano è stanco di tenere il volante.
E non può che limitarsi ad auspicare un nuovo, affidabile pilota. Per ora il tema della credibilità internazionale non è affatto apparso un chiodo fisso del premier, convinto che l’Italia non sia un paese a “sovranità ” limitata e che il nuovo capo dello Stato debba dare il senso del cambiamento.
Anche nel tenere ferma la data del 14, slegandola dalle riforme o dai vertici internazionali, c’è una pacata disillusione di Napolitano.
Di consigli al giovane segretario ne ha dati tanti, parecchi anche disattesi, tutto ciò che poteva fare per tutelare la stabilità di governo lo ha fatto, anche per evitare che, come teorizzava qualche consigliere del premier più realista del re, le elezioni fossero la risposta alla tempesta di marzo, e ha pure fatto capire il profilo del successore per il bene del paese.
Ora tocca al giovane Matteo dimostrare la maturità . A un certo punto, uno o ce l’ha o non ce l’ha.
Non serve un giorno in più o uno in meno di permanenza al Colle.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 23rd, 2014 Riccardo Fucile
FASSINA: “E’ UN DECRETO SCRITTO CON LA MANO DESTRA”
Sono ore concitate, queste dell’Antivigilia, tra palazzo Chigi e il ministero del Lavoro. Ore dedicate a limare il decreto sul Jobs Act che vedrà la luce nel Consiglio dei ministri del 24 mattina, convocato alle 10.
Ore di trattativa, di scritture e riscritture, anche se a sera il profilo del decreto comincia a uscire dalle nebbie. E prende la forma di un decreto più vicino ai desiderata di Angelino Alfano, che lo vuole scritto con la “mano destra”, rispetto a quelli della minoranza Pd.
Cesare Damiano, dal suo ufficio in commissione Lavoro alla Camera, parla di una “battaglia furibonda”.
“Domani d-day della politica italiana. O via l’articolo 18 o via il governo per crollo credibilità ” twitta dall’altro fronte il capogruppo di Ndc in Senato Maurizio Sacconi.
Il dossier è fisicamente nelle mani di palazzo Chigi, dove lavorano i consulenti economici del premier Tommaso Nannicini e Filippo Taddei.
Al ministero del Lavoro invece nel pomeriggio si è tenuto una mega vertice sulla vertenza Meridiana, con il sottosegretario Teresa Bellanova.
Stando alle indiscrezioni, il decreto sembra andare nella direzione più hard, quella che prevede in sostanza una cancellazione di quel poco che restava dell’articolo 18 dopo la mediazione dentro il Pd: sembra confermata l’ipotesi dell’opting out, e cioè la possibilità per l’azienda di optare per l’indennizzo anche in caso di licenziamento illegittimo di natura disciplinare, con una quota di risarcimento che oscilla tra 30 e 36 mensilità .
Così come pare assai probabile l’inserimento nel decreto dello “scarso rendimento” come fattispecie per il licenziamento di tipo economico, che dunque non contempla il reintegro, ma solo un indennizzo economico.
In una delle bozze di palazzo Chigi è contenuta anche l’ipotesi di estendere le nuove norme ai dipendenti già assunti nelle imprese con meno di 15 dipendenti che dovessero superare questa quota dopo l’entrata in vigore del decreto.
Ma in circolazione non c’è solo la bozza “Chigi”: anche i tecnici di Poletti, che resta il ministro proponente, stanno lavorando a un loro testo più “di sinistra”, che non comtempla il diritto per l’azienda di monetizzare un licenziamento illegittimo di natura disciplinare.
Alla fine, forse nella notte, toccherà a Renzi prendere la decisione definitiva. Del secondo decreto previsto, e voluto dal premier, quello sull’estensione dell’Aspi, invece ancora si sa poco.
E dal ministero ribadiscono che molto difficilmente potrà essere pronto per il Cdm della Vigilia.
Nel dettaglio, l’indennizzo per i licenziamenti economici oscillerà tra 3 e 26 mensilità , a seconda dell’anzianità di servizio, una quota che fa arrabbiare la minoranza dem: “Non mi pare che possa funzionare come deterrente”, spiega ad Huffpost Stefano Fassina, che parla di un decreto “scritto con la mano destra”.
“Non ho mai avuto dubbi che sarebbe finita così, non mi ero fatto illusioni. E’ evidente che se il decreto avrà queste caratteristiche avrà avuto ragione chi parlava di una regressione, e si aggraveranno le divisioni dentro il partito”.
Nei 30 giorni successivi al decreto, dunque entro fine gennaio, la Commissione Lavoro della Camera darà un parere consultivo e assolutamente non vincolante sul testo del governo. Ma a quel punto i giochi saranno fatti.
I sindacati, a partire da Cgil e Uil sono già sul piede di guerra.
“Bisogna evitare errori che rischiano di danneggiare milioni di lavoratori”, avverte il leader della Uil,Carmelo Barbagallo. “Con le nuove regole del Jobs act, più che un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti rischiamo di essere in presenza di un contratto a tempo determinato fortemente incentivato”, aggiunge ribadendo che “così come è strutturato al momento, si potrebbero generare condizioni paradossali favorevoli all’azienda che decidesse di lucrare sul licenziamento”.
Numeri alla mano, la Uil vede il rischio che, grazie agli sgravi fiscali per il nuovo contratto, un licenziamento illegittimo (per un dipendente con uno stipendio lordo di 22mila euro l’anno) possa fruttare 7200 euro all’azienda dopo un anno e 11600 dopo due tre anni di contratto.
Secondo Barbagallo, “va escluso ogni criterio che, di fronte ad un atto considerato immotivato e illegittimo, eluda il diritto del lavoratore di rivolgersi con serenità a un giudice terzo. Ecco perchè è impensabile la sola idea di attribuire all’impresa la decisione di qualificare lo ‘scarso rendimento’, tout court, come un licenziamento economico e, quindi, di prevedere, nel caso dell’illegittimità , sanzioni bassissime”.
“I decreti attuativi saranno ancora peggio della legge delega”, profetizza il responsabile Lavoro di Sel Giorgio Airaudo.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Dicembre 23rd, 2014 Riccardo Fucile
OGNI ANNO SI PUNTA A RACCOGLIERE 500 MILIONI, MA LE CESSIONI RESTANO VIRTUALI
È alle stampe il prossimo capitolo del libro dei sogni della finanza pubblica.
Il ministero dell’Economia, l’Agenzia del demanio, la Cassa depositi e prestiti (Cdp) e gli enti locali stanno preparando l’elenco di immobili pubblici da privatizzare nel 2015. È la seconda tranche, dopo il pacchetto trasferito a Cdp nel 2014.
L’idea è nata con l’esecutivo Monti quando il ministro dell’Economia Vittorio Grilli aveva annunciato che l’Italia avrebbe venduto patrimonio pubblico per almeno un punto di pil all’anno.
L’incasso preventivato era di 15 miliardi di euro, una somma sovrastimata in modo assurdo e superiore ai proventi da privatizzazioni che si concretizzano in un anno nell’intero territorio dell’Ue. Per le sole cessioni immobiliari in Italia si stimava un incasso fra 3 e 5 miliardi di euro.
Dalla fine del 2012 sono cambiati due governi, il ministro dell’Economia è Pier Carlo Padoan, ma l’obiettivo resta lo stesso. Secondo lo slogan dei funzionari di Stato addetti alla vendita, gli immobili pubblici devono muoversi.
Ogni anno si mette su piazza un pacchetto da 500 milioni di euro, lo si vende e si libera il percorso alle successive ondate di dismissioni. Come ogni slogan, suona bene. Come ogni slogan, racconta la realtà in modo semplificato.
Che cosa, in effetti, stia accadendo in questa liquidazione straordinaria è abbastanza lontano dall’enfasi delle aspettative.
Incominciamo dalla lista. È ancora provvisoria e sarà ufficializzata nel mese di gennaio ma l’elenco di 23 immobili demaniali preso in visione da “l’Espresso” è sostanzialmente quello definitivo.
Il pezzo singolo di maggior valore è l’ospedale militare San Gallo di Firenze, quotato 28,3 milioni di euro per 17 mila metri quadri in uso al ministero della Difesa e alla Curia. Poi si possono citare la Cavallerizza Reale di Torino (10 milioni di euro), oggi occupata dal Teatro Stabile, l’isola di Poveglia, di fronte al Lido di Venezia, stimata 2,8 milioni di euro. Sempre a Venezia, sul Canal Grande c’è palazzo Duodo (12 milioni), palazzo Schiavi a Udine (2,3 milioni di euro) e una ventina di altri edifici, per lo più di uso militare oppure ospedaliero, a Cremona, Padova, Piacenza, Ravenna, Trieste, Catanzaro.
A volte, insieme agli immobili ci sono aree molto estese come la caserma Vittorio Emanuele III di Trieste (oltre 91 mila metri quadrati) o la Mameli di Milano in zona Niguarda con i suoi 101 mila metri di superficie fondiaria che un tempo ospitavano il terzo reggimento bersaglieri e che la giunta Pisapia aveva ipotizzato di destinare ai rom, scatenando le proteste leghiste.
Spesso sono immobili affittati come quelli occupati dall’Ente Cassa di risparmio di Firenze che, secondo i documenti del Demanio, ha un contratto in scadenza con un canone di 283 mila euro all’anno “versato in misura pari al 10 per cento”.
Mentre si definiscono le cessioni per il 2015, si può già guardare all’esito dell’operazione varata l’anno scorso. La prima tranche è stata messa sul mercato all’inizio del 2014 dopo una selezione durata qualche mese. Erano 40 fra ex caserme, isole d’incanto, splendidi palazzi storici nelle più belle città d’Italia.
A un anno di distanza il bilancio sintetico è il seguente. Cessioni: zero. Soldi incassati: zero. Spese per interessi passivi, personale e servizi di brokeraggio esterno per trovare candidati all’acquisto: diversi milioni di euro. Gli ottimisti della volontà si sono scontrati con il paradosso del mattone: a valori alti può corrispondere un prezzo pari a zero quando l’offerta langue
Ci sono state una quarantina di manifestazioni di interesse, alcune dall’estero. Quasi tutte si sono arenate.
A Firenze, che con Venezia raccoglie il gradimento più alto, si è arrivati a una fase più avanzata, la cosiddetta due diligence, per l’area di Costa San Giorgio, che ingloba parti di un convento del tredicesimo secolo, da destinare a usi alberghieri.
E c’è un preliminare d’acquisto per l’area fiorentina dell’ex caserma Vittorio Veneto, a 250 metri da Ponte Vecchio. Ma si parla di cose relativamente piccole.
Tra i beni di taglia maggiore offerti a gennaio 2014 dal fondo Fiv, gestito dalla Cdp, qualcosa si è mosso intorno all’ex caserma romana di via Guido Reni (quartiere Flaminio), che dovrà ospitare la nuova Città della scienza.
La giunta Marino ha decretato la prima parte di una trasformazione urbanistica che prevede anche uno sviluppo con aree commerciali e residenziali in una zona poco lontana dal Maxxi. Il prossimo passaggio è la gara per cercare lo studio architettonico al quale affidare il masterplan dell’area.
Procedono, anche se a rilento, le trattative per insediare l’accademia della Guardia di finanza nel sito degli Ospedali riuniti di Bergamo (120 mila metri quadri).
Prima che i finanzieri firmino il contratto di affitto, bisognerà però mettersi d’accordo su chi deve accollarsi la ristrutturazione. E non è una trattativa facile considerato che i lavori sono stimati in qualche decina di milioni di euro.
I costi di ammodernamento sono un onere economico forte rispetto a strutture pensate per usi speciali, militari o sanitari, spesso abbandonate da anni.
Succede anche con la trasformazione delle caserme bolognesi Sani, Mazzoni e Masini, un progetto dove pure la collaborazione fra i funzionari dello Stato e il sindaco di Bologna Virginio Merola procede bene.
L’area che si vuole restituire alla città è così grande che i primi sopralluoghi i dirigenti della Cdp li hanno fatti in automobile. Con il benestare della Soprintendenza, che spesso è della partita, bisognerà cercare un accordo sulle demolizioni da eseguire e sulle volumetrie da rendere disponibili. E bisognerà anche risolvere la questione delle occupazioni abusive che interessano le aree dismesse della zona.
Un caso molto intricato è la riconversione dell’Ospedale a Mare al Lido di Venezia, dove da poco c’è stato l’avvicendamento fra Est capital di Gianfranco Mossetto e Hines Italia di Manfredi Catella come partner privato incaricato della valorizzazione. Anche qui c’è stato un lungo contenzioso con il Comune su chi dovesse sostenere le spese impreviste per la bonifica dell’area.
Le dimissioni del sindaco Giorgio Orsoni, sotto accusa per l’inchiesta sul Mose, non hanno certo contribuito a velocizzare un progetto che si trascina da anni.
Da quando la Cdp ha rilevato l’immobile, dando un contributo sostanzioso alle finanze municipali, ci sono stati soltanto costi per la messa in sicurezza della zona e il giallo sui documenti introvabili delle bonifiche fatte dal Comune.
E’ in fase di progettazione avanzata lo sviluppo sugli immobili del Policlinico di Milano, che però è un’operazione precedente alla lista del 2014, e si spera di fare lo stesso con le quattro palazzine storiche di corso Lanza, nella zona collinare di Torino, la più pregiata della città .
Gli altri immobili dell’annata 2014 non si sono mossi. Ad esempio, per l’isola veneziana di Sant’Angelo, richiesta da una ricca signora inglese, si dovrà aspettare la decisione sul nuovo canale per il transito delle grandi navi in laguna che interessa proprio Sant’Angelo. Insomma, gli ostacoli non mancano.
Alla Cassa depositi e prestiti fanno il possibile con l’aria di dire: è un lavoro sporco ma qualcuno lo deve fare.
Lo Stato ha bisogno di liquidi e la società guidata dal presidente Franco Bassanini può solo rispondere obbedisco e tenersi qualche mal di pancia.
Solo l’amministratore delegato della Cassa, Giovanni Gorno Tempini si è permesso una sortita polemica quando ha detto: «Non siamo accumulatori seriali di immobili». Ma il risultato finale rischia di essere proprio questo.
È vero che i tempi di una privatizzazione del genere sono per forza di cose lunghi. È vero che non è colpa del Demanio e che non è colpa della Cdp. Potrebbe essere colpa del Mercato, se il mercato non avesse ragione per definizione.
Di chi è colpa allora?
Forse di un certo modo di interpretare la politica degli annunci intorno a operazioni complesse, che mostreranno qualche effetto fra molti anni ma che vanno contabilizzate subito e devono generare pronta cassa, in modo da rassicurare chi ha timori sullo stato dei conti pubblici.
En passant, servono anche a rimettere in moto il poltronificio creando nuove società , nuovi consigli d’amministrazione sotto l’egida del diritto privato e con gli stipendi pagati dal contribuente.
È il caso di Investimenti immobiliari italiani sgr (Invimit), una società pubblica di gestione dei fondi immobiliari progettata per raccogliere una montagna di denaro. Invimit, nata a marzo del 2013 con il premier Mario Monti dimissionario da tre mesi, è presieduta da Vincenzo Fortunato, ex capo di gabinetto di Giulio Tremonti e commissario liquidatore della Stretto di Messina.
Amministratore delegato è l’ex direttrice dell’Agenzia del Demanio, Elisabetta Spitz. Invimit sgr prevede ricchi emolumenti per i suoi manager (90 mila euro per Fortunato, 300 mila per Spitz) ma è di fatto un doppione di Cassa depositi sgr (Cdpi) poco giustificabile a fronte di vendite inesistenti.
D’altra parte, il Tesoro italiano ha già messo sul mercato quello che era semplice monetizzare, con le cartolarizzazioni di Tremonti (Scip 1 e Scip 2) lanciate negli anni 2001 e 2002.
Adesso resta il fondo del barile e non è abbastanza per attirare i ricchi di tutto il mondo.
Gianfrancesco Turano
(da “L’Espresso”)
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Dicembre 23rd, 2014 Riccardo Fucile
LA VITTIMA E’ SOLO LA LEGALITA’
L’ eccezione è sempre eccezionale, direbbe monsieur de La Palice. Invece alle nostre latitudini è normale.
Nel senso che la misura straordinaria costituisce ormai la norma, la regola, la prassi. I
l caso più eloquente investe l’abuso dei decreti: 20 in 10 mesi, per il governo Renzi.
Una media in linea con quella dei suoi predecessori, dato che Letta ne aveva sparati 22, Monti 25.
Sicchè questo strumento normativo, che i costituenti brevettarono per fronteggiare i terremoti, è diventato il veicolo ordinario della legislazione.
Significa che in Italia i terremoti sono quotidiani, peggio che in Giappone.
Come d’altronde i voti di fiducia, che hanno l’effetto di terremotare il Parlamento. Quello ottenuto dal governo sulla legge di Stabilità era il trentesimo della serie: dunque una fiducia ogni 10 giorni, record planetario. E oltre la metà delle leggi approvate sotto il ricatto del voto di fiducia.
C’è sempre un argomento che giustifica la misura eccezionale: forza maggiore.
Se non intervengo per decreto, chissà quando si decideranno a intervenire le due Camere. Se non pongo la fiducia, magari mi voteranno contro.
E così via, fra un maxi emendamento e una seduta notturna sulla manovra finanziaria, per scongiurare l’esercizio provvisorio.
Del resto la XVII legislatura s’aprì con la rielezione del presidente uscente. Non era mai avvenuto, ma quella scelta fu possibile – come disse lo stesso Napolitano – perchè la Costituzione aveva lasciato «schiusa una finestra per tempi eccezionali». Dalla forza maggiore deriva l’eccezione, dall’eccezione l’eclissi della regola
Dovrebbe trattarsi di un’eclissi temporanea; invece è divenuta permanente. Così, in ogni democrazia i governati conferiscono un mandato ai loro governanti; ma gli ultimi tre esecutivi (Monti, Letta, Renzi) non hanno ricevuto alcun mandato.
La loro investitura deriva dalla necessità , dallo stato d’eccezione.
L’urgenza permanente inocula un elemento ansiogeno nella nostra vita pubblica.
E anche in quella privata, come no. Tu scopri che l’ultimo Consiglio dei ministri si è tenuto alle 4.40 del mattino, t’accorgi che il prossimo è stato convocato alla vigilia del Natale, e allora ti ficchi un elmetto sulla testa: dev’esserci una guerra, benchè nessuno l’abbia dichiarata.
In secondo luogo, l’urgenza impedisce programmi a lungo termine, però in compenso alleva misure frettolose, strafalcioni, commi invisibili come quelli votati (si fa per dire) dai senatori sulla legge di Stabilità .
In terzo luogo e infine, chi decide sull’urgenza? Per dirne una, quest’autunno il Parlamento si è riunito a raffica per eleggere due giudici costituzionali.
Ne ha eletto uno, dell’altro non si sa più nulla. Il primo era urgente, il secondo no.
Da qui il frutto avvelenato che ci reca in dono il nostro tempo. Perchè la dottrina del male minore – cara a Spinoza come a Sant’Agostino – ci abitua a stare in confidenza con il male, sia pure allo scopo d’evitarne uno peggiore.
E perchè, laddove sussista una causa di forza maggiore, dovrà pur esserci una forza minore, una vittima sacrificale.
Ma quella vittima è la legalità .
Michele Ainis
(da “La Stampa”)
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Dicembre 23rd, 2014 Riccardo Fucile
DIMENTICATE DAL JOBS ACT, MUNTE DA FISCO E INPS
Fregati da una “esse”. Il pacchetto lavoro di Renzi si chiama Jobs (al plurale) Act. Una lettera che aveva fatto bene sperare il popolo delle partite Iva, fiducioso che, con il giovane premier, anche i nuovi lavoratori (al plurale) potessero avere maggiori tutele.
Ma l’unica cosa ad aumentare sono state le tasse.
Dimenticati dal Jobs Act ma non da Fisco e Inps, dal 2015 i freelance andranno incontro a un salasso.
La legge di Stabilità rivoluziona il regime dei minimi, uno status agevolato destinato agli under 35.
Con le vecchie regole, le giovani partite Iva pagavano il 5% di Irpef, a patto di guadagnare meno di 30 mila euro l’anno.
Dal primo gennaio l’aliquota triplica: passa al 15%.
Ma è solo l’inizio, perchè 30 mila euro, a quanto pare, sono troppi. Il governo ha introdotto delle soglie differenti a seconda dell’attività svolta.
Per pagare il 15%, i commercianti devono incassare meno di 40 mila euro.
I giovani professionisti meno di 15 mila. Una cifra, secondo l’osservatorio Adepp, al di sotto del compenso medio (18.640 euro lordi, pari a 723 euro al mese) delle partite Iva iscritte all’Inps.
In altre parole: chi ha introiti mensili anche meno che decorosi, sforerà .
E rientrerà nei regimi tradizionali.
In questi casi, Confprofessioni Lazio ha calcolato un incremento della tassazione dei giovani professionisti stimata intorno al 500%. L’aliquota passerà dal 5% al 22,48% per l’area tecnica, del 23,77% per l’area economico-sociale, del 24,58% per l’area sanitaria e del 25,11% per l’area giuridica.
Ma non è finita. Il governo ha dato il via libera agli aumenti contributivi Inps per gli iscritti alla gestione separata. Una misura, prevista dalla Riforma Fornero e bloccata dai precedenti governi, che porterà l’aliquota dal 27 al 33% entro il 2018. Con un primo scatto oltre il 29% già dal primo gennaio del 2015.
I freelance iscritti ad alcune casse professionali, con aliquote che vanno dal 12 al 22%, sono un po’ più fortunati. Gli iscritti all’Inps che rientreranno nel regime dei minimi, vedranno evaporare in tasse il 44% dei loro (bene che vada) 15 mila euro. Chi invece ha la colpa di avere una partita Iva e uno stipendio decente dovrà sopportare una pressione fiscale del 52% nel 2015 e del 56% nel 2018.
“Chi potrà , migrerà dall’Inps alle casse professionali. Per gli altri, sarà dura resistere alla tentazione di chiudere la partita Iva”, dice Samanta Boni, consigliere di Acta, l’associazione dei freelance.
NUOVI CONTRIBUTI E VECCHIE TUTELE
L’aumentare dei doveri contributivi non corrisponde a un allargamento delle tutele. Le partite Iva sono le grandi assenti nel Jobs Act. I co.co.co avranno un salario minimo. I dipendenti hanno 80 euro in busta paga. Gli stessi 80 euro che Renzi aveva promesso sarebbero arrivati anche nelle tasche degli autonomi. E invece, nulla.
Anche il vocabolario dell’esecutivo dimentica le partite Iva. Poletti e Renzi parlano di “sussidio di disoccupazione universale”.
Anche se l’universalità non include i freelance. L’indennità di disoccupazione esiste. Ma a cifre minime. Ne ha diritto chiunque abbia versato all’Inps almeno tre mesi di contributi.
Va da poco meno di 11 a 22 euro al giorno, ma solo per un massimo di 61 giorni. Chi incappa in malattie gravi non ha una rete di salvataggio.
Daniela Fregosi è una partita Iva. Si occupa di formazione. Nel 2013 le è stato diagnosticato un tumore. Su Change.org ha lanciato una petizione che ha raccolto oltre 75 mila firme. La foto che accompagna la lettera recita: “I lavoratori autonomi non hanno il diritto di ammalarsi. Vallo a dire al mio cancro al seno”.
La petizione è una delle attività messe in campo da Acta.
Le altre stanno passando in queste ore dai social network. L’associazione ha lanciato #siamorotti, contro il salasso delle partite Iva, e #DicaNo33, contro l’aumento dell’aliquota Insp. I due hashtag sono stati citati in 12 mila tweet, diventando trending topic. Per molti si tratta del “pacco di Natale”.
C’è chi chiede solo di “trovare sotto l’albero la mia partita Iva”. Chi accusa: “Si fanno pagare alle partite Iva i tagli che il governo non sa fare”. E chi ricorda: “Meno male che Renzi doveva aiutare i freelance”.
Ci aveva sperato, il popolo delle partite Iva. Renzi è un under 40, come molti di loro. Ha fatto del nuovo e dell’innovazione una bandiera. E per dimostrarlo aveva scelto l’incubatore di startup H-Farm per la sua prima visita ufficiale da premier.
“Non si comprende — ha scritto in una nota il presidente di ConfProfessioni Lazio, Andrea Dili – perchè mentre a parole il governo dichiara di voler puntare su giovani, competenze e qualificazione professionale, nei fatti si finisce per affossare proprio uno dei comparti più giovani, innovativi e dinamici del mercato del lavoro italiano”.
“Ci aspettavamo un cambio di passo che non è arrivato”, conferma Samanta Boni. Neppure la campagna Twitter ha sortito alcuna reazione.
E gli autonomi si ritrovano stretti tra un governo sordo e i sindacati che vanno avanti a tentoni.
“Acta ha firmato con il Nidil (il sindacato degli atipici della Cgil) una lettera inviata al presidente del Consiglio. Ma la collaborazione si è fermata qui. I freelance sono una realtà che i sindacati faticano a rappresentare”.
Paolo Fiore
(da “L’Espresso”)
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Dicembre 23rd, 2014 Riccardo Fucile
PARLO’ DELL’ALLARGAMENTO DEL CAMPO NOMADI ALLA CENA CON IL SINDACO
“Tor de Cenci 2010, la Belviso fa la campagna elettorale sullo sgombero de Tor De Cenci”. Il problema è che i rom “non sanno dove cazzo portarli. Allora fanno quella famosa cena de Alemanno (…) e lì diciamo ‘Caro sindaco, ci allarghiamo noi a Castel Romano perchè c’abbiamo lo spazio”.
La gestione dei campi nomadi raccontata, come in una telecronaca, dalla viva voce di Salvatore Buzzi.
C’è anche questo nelle carte di Mafia Capitale, l’inchiesta che ha svelato la complicata rete fatta di rapporti, interessi e denaro che per anni ha legato la banda dell’ex Nar Massimo Carminati e l’ecosistema politico-imprenditoriale capitolino. Qual è la “famosa cena con Alemanno” a partire dalla quale, secondo Buzzi, la banda comincia a guadagnare “87 mila euro al mese” solo dalla gestione del campo di Castel Romano?
Quella immortalata dalla foto poi postata su Facebook in cui il sindaco è a tavola con il ministro Giuliano Poletti, lo stesso Buzzi, l’ex ad dell’Ama Franco Panzironi e il deputato Pd Umberto Marroni?
Le tempistiche narrate da Buzzi farebbero propendere verso questa ipotesi.
E’ 11 aprile 2014. Il presidente della cooperativa “29 giugno” viene intercettato nel suo ufficio mentre istruisce il suo collaboratore Claudio Caldarelli, incaricato di “presentare presso i competenti uffici amministrativi comunali la documentazione contabile per ottenere il pagamento dei canoni di locazione dei campi nomadi di proprietà o gestiti dalle cooperative riconducibili allo stesso gruppo”.
E poichè Caldarelli al V Dipartimento, che gestisce le Politiche sociali del Comune di Roma, deve andarci preparato, Buzzi gli racconta come è cominciato tutto.
Il racconto parte dal 15 settembre 2005 “quando viene fatto lo sgombero” del campo rom di Vicolo Savini e “i nomadi vengono portati a Castel Romano dove c’era un accordo tra Veltroni (ai tempi sindaco della Capitale, ndr) e Deodati”, proprietario dei terreni. Una parte degli ospiti del campo, però, “vanno a finire” su un terreno adiacente la cui proprietà è riconducibile a Salvatore Buzzi: “Questo avviene il 18 settembre 2005″.
Buzzi comincia a percepire dal Comune un affitto per il terreno, un rapporto che continua anche sotto l’amministrazione Alemanno (oggi indagato con Buzzi per associazione mafiosa): “Succede che prima pigliavamo 72 mila euro al mese perchè prendevamo 40 mila euro sul campo K e 32 sul campo M perchè finalmente Alemanno ce paga l’affitto”. “Tempo al tempo che succede?
Tor de Cenci 2010, la Belviso (Sveva, allora vicesindaco in quota Pdl, ndr) fa la campagna elettorale sullo sgombero de Tor de Cenci…sgombero Tor de Cenci non sanno dove cazzo portarli (i rom, ndr).. allora fanno quella famosa cena de Alemanno.. quanto costa la cena.. e lì diciamo <caro Sindaco ci allarghiamo noi a Castel Romano perchè c’abbiamo lo spazio.. perchè i 3 ettari e mezzo che abbiamo comprato.. il campo (inc) solo con un ettaro..2 ettari e mezzo sono liberi..ci possiamo allargarci noi su questa parte del campo e ne facciamo un altro in cambio se tu me dai l’affidamento a 24 mesi>..e lì sono gli 87 mila euro al mese“.
Il racconto di Buzzi si sposta, quindi, al 2010 e si concentra sul campo di Tor de Cenci, del quale nella precedente campagna elettorale la Belviso aveva promesso la chiusura.
Il 2010 è l’anno in cui anno entra nel vivo il Piano nomadi avviato dall’amministrazione Alemanno nel 2009 e l’ex vicesindaco preme sull’acceleratore: allora assessore alle Politiche Sociali, il 1° aprile la Belviso prende carta e penna e scrive una lettera a tutti i residenti della zona tra Eur, Tor de Cenci, Spinaceto e Mezzocammino per annunciare che il campo stava per essere chiuso.
Obiettivo: spostare tutti a Castel Romano, tra i 7 campi autorizzati previsti dal Piano nomadi insieme a Salone, Camping River, Candoni, Lombroso, Gordiani, Camping Nomentano.
Il 2010 è anche l’anno della cena in cui Buzzi siede a tavola con il gotha della politica capitolina. E’ quella la “famosa cena de Alemanno” di cui parla il capo della “29 giugno”? L’ex ras delle cooperative non dà riferimenti temporali in merito, ma le date sono compatibili.
La foto del convivio aveva fatto il giro della stampa nel 2013: il 28 settambre 2010 al Centro di Accoglienza “Baobab” sedevano allo stesso tavolo tra gli altri Salvatore Buzzi, Gianni Alemanno, il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, Franco Panzironi (ex amministratore dell’Ama, arrestato), Daniele Ozzimo (al tempo consigliere Pd, quindi assessore alla Casa con Ignazio marino e oggi indagato), e il parlamentare del Pd Umberto Marroni.
“Quella sera non si parlò del campo di Castel Romano — racconta il deputato a IlFattoQuotidiano.it — la cena era stata organizzata per festeggiare la fine della vertenza tra il mondo della cooperazione e la giunta capitolina e la firma del protocollo di intesa. Anzi, noi, come gruppo Pd, prendemmo più volte posizione contro lo smantellamento del campo di Tor de’ Cenci. No, a quel tavolo non si parlò della cosa”.
Ma, ad avvalorare l’ipotesi, nella foto compare un altro protagonista di quella che, secondo gli inquirenti, costituirà poi il nucleo gestionale del campo.
Dietro la tavolata dei politici, con indosso una maglietta della nazionale di calcio siede Luciano Casamonica che a Castel Romano, secondo quanto scrivono i pm nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva un ruolo preciso, quello del mediatore culturale: “Il territorio in esame (…) rientrava in quello in cui era maggiore la permeabilità all’influenza del clan Casamonica, senza contare la natura della popolazione (nomade) con cui il sodalizio del Carminati si sarebbe dovuto relazionare. Per tali motivazioni, l’organizzazione si avvaleva del supporto fornito dal clan presente in quel contesto, in modo da tenere sotto controllo le problematiche che sarebbero potute sorgere nel rapporto con i nomadi. In particolare, il sodalizio si avvaleva dell’opera prestata da Casamonica Luciano” che “a fronte del sostegno prestato aveva ricevuto un corrispettivo di circa 20mila euro al mese“.
Marco Pasciuti
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 23rd, 2014 Riccardo Fucile
LEGALIZZATE 7.000 SALE
Matteo Renzi tuonò: «Adesso basta con le marchette in Parlamento!».
Sentendosi rinfacciare sulla «Stampa» da uno del suo partito, il presidente della commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia: «Veramente il primo a fare le marchette è stato il governo. Al Senato ha presentato novanta emendamenti…». Alcuni del quali con nome e cognome.
Per esempio, quello sui giochi messo a punto dagli uffici delle Finanze, che ha un destinatario preciso: la Sisal, società concessionaria presieduta dall’ex ministro delle Finanze ed ex commissario dell’Alitalia Augusto Fantozzi, controllata dalla holding lussemburghese Gaming invest.
L’obiettivo è rianimare il Superenalotto, ormai da tempo in caduta verticale.
La ragione è che si vince troppo poco in rapporto con altri giochi d’azzardo.
Per metterci una pezza non resta che consentire di aumentare la percentuale di vincita con, testuale, «l’adozione di ogni misura utile di sostegno della offerta di gioco». Interventi che però potrebbero anche avere ripercussioni sul gettito erariale: in un senso positivo, ma come pure nel senso opposto.
Che fare, allora? Siccome nessuno ha la palla di vetro, ecco che nell’emendamento salta fuori una innovazione formidabile, tenuto conto dell’inflessibilità con cui i guardiani dei nostri conti dispensano il prezioso bollino.
Qui, infatti, il problema della copertura non solo non viene preso in considerazione, ma si precisa che considerati «obiettivi e ineliminabili margini di aleatorietà » delle scelte che saranno fatte, «i provvedimenti adottati ai sensi del presente comma non comportano responsabilità erariale quanto ai loro effetti finanziari».
Un capolavoro
In quell’emendamento, in realtà , c’è anche una specie di sanatoria per le migliaia di negozi di scommesse privi di concessione statale ai quali verrebbe offerta «una opportunità di redenzione nella direzione del circuito ufficiale e legale di raccolta di scommesse».
In che modo? Pagando una certa somma entro la fine di gennaio 2015 come tassa di ingresso nel sistema alla luce del sole.
La questione ha almeno una decina d’anni e non è mai stata risolta: nasce da una serie di ricorsi presentati a Bruxelles da soggetti che si ritenevano discriminati, e per questo hanno ritenuto di poter operare anche senza aver ottenuto (ma neppure chiesto) la prevista autorizzazione.
Parliamo di un fenomeno che negli anni ha raggiunto proporzioni enormi, se si pensa che il volume delle scommesse raccolte da costoro è dell’ordine di 2 miliardi e mezzo l’anno contro i 3,7 miliardi dei negozi regolari: semplicemente astronomica l’evasione fiscale connessa a questo sistema parallelo.
La relazione tecnica quantifica lo stima in circa 7 mila punti, a fronte dei 7.400 legali, distribuiti sull’intero territorio nazionale.
Anche se «dagli accertamenti condotti dalla guardia di Finanza emerge che la rete degli operatori non autorizzati è principalmente localizzata nelle grandi aree urbane e nelle zone meridionali, dove la raccolta media è di gran lunga più alta».
Accertamenti che peraltro hanno innescato una forma di intimidazione senza precedenti nei confronti dei dirigenti dell’Agenzia dei Monopoli e dei finanzieri incaricati dei controlli e del recupero delle imposte non pagate presso questi negozi non autorizzati, che si sono visti recapitare almeno 160 cause e atti di diffida individuali.
Tutto questo avviene sullo sfondo di un passaggio cruciale.
È quello del rinnovo delle concessioni in scadenza sia per i giochi numerici cosiddetti «a quota fissa» che per il lotto.
E qui gli emendamenti del governo contengono un’altra sorpresa. Non per la durata delle concessioni, fissata in nove anni, nè per la base d’asta stabilita in 700 milioni di euro, e neppure per il livello degli aggi o per gli altri obblighi imposti agli eventuali partecipanti.
Ma per la composizione della commissione di gara: che dovrà essere «composta di cinque membri di cui almeno il presidente e due componenti scelti tra persone di alta qualificazione professionale (e i due rimanenti?, ndr ), inclusi magistrati o avvocati dello Stato in pensione».
Ricordiamo male o il governo aveva deciso di vietare l’affidamento di incarichi pubblici ai pensionati statali? Verissimo.
Salvo poi concedere, com’è stata concessa, una deroga per i componenti delle commissioni. La ragione? Che si fa fatica a convincere i dipendenti pubblici a farne parte, causa la modestia dei compensi. Allora, porte aperte ai pensionati…
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera”)
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Dicembre 23rd, 2014 Riccardo Fucile
FAZIO CHE STRAZIO
Renzi è in calo nei consensi e, misericordiosa, arriva larga parte di stampa e tivù a supportarlo. Rai in testa.
Dopo l’avvincente intervista dei “balilla” incolpevoli di venerdì, nell’indimenticabile proscenio di Rai1 gestito da Clerici e Vespa, due sere fa è toccato al salotto buono di Che tempo che fa su Rai3.
Ovviamente, e come quasi sempre, Fabio Fazio non ha fatto domande ma si è limitato a balbettare sospiri adulanti.
Il pubblico è parso apprezzare, almeno giudicare dallo share (11.46 per cento).
È stato un momento emozionante e non privo di una qual certa tensione. Da una parte c’era Fazio, che non avendo mai posto domande vere non si è mai aspettato di ricevere risposte vere, solo che l’ospite pareva esagerare — persino per lui — quanto a fumosità .
Dall’altra parte troneggiava Renzi, senz’altro abituato a ricevere inchini, ma forse imbarazzato pure lui per l’overdose di salamelecchi del presentatore, che arrivava a definirlo espressione di “innovazione e positività ”.
In un certo senso l’uno mandava in cortocircuito l’altro, in un parossismo irresistibile di retorica e autocelebrazione.
Per una dimenticanza casuale e per nulla colpevole, Fazio non è parso granchè interessato a temi come il papà del premier indagato per bancarotta, l’appalto senza gara a Farinetti e i 112 reati depenalizzati.
Fortunatamente, per il giubilo degli astanti, Renzi ha regalato parole cariche di saggezza.
Commoventi, in particolare, i passaggi “I magistrati scrivano le sentenze e non i comunicati stampa” e “Bisogna smettere di rubare, non di fare i grandi eventi”.
Non senza ardite dosi di spericolatezza, Renzi ha anche detto che “l’evasione fiscale è come una rapina”.
Considerando che Berlusconi ha una condanna definitiva per frode fiscale, sarebbe stato forse d’uopo ricordargli che è dunque bizzarro riscrivere la Costituzione con un “rapinatore”, ma Fazio non gliel’ha fatto notare: per gentilezza, s’intende.
Auspicando che, nella sua bulimia televisiva, Renzi accetti prima o poi di confrontarsi anche con quei giornalisti e programmi che detesta neanche troppo cordialmente, e che dunque evita come la peste (e il dietologo), corre qui l’obbligo di denunciare uno strano evento.
Giusto in contemporanea con la deificazione renziana su Rai3,
La7 trasmetteva “Natale nel paese delle meraviglie” (2.67 per cento). Un best of di Maurizio Crozza, durante il quale il finto Renzi partecipava a una conferenza stampa. Accanto a lui, la finta Madia e la finta Boschi.
Renzi, cioè Crozza, lasciava che fossero le ministre a rispondere alle domande. Esse, con consueta e ormai nota competenza granitica, ripetevano ossessivamente due dei mantra preferiti dal renzismo: “80 euro” e “41 percento”.
Renzi, cioè Crozza, sorrideva felice. Di quella felicità vagamente ottusa, un po’ ipnosi e un po’ paresi, che sa infondere sul volgo ottimismo e speranza.
Nel frattempo le finte ministre insistevano con gli 80 euro e il 41 percento.
Solo che lo facevano così tanto che i (finti) giornalisti non ne potevano più, si arrabbiavano e cominciavano a sparare domande vere.
Argute, spinose: per nulla concordate.
E Renzi, cioè Crozza, abbandonava piccato la conferenza stampa. Vedere quel momento di satira in contemporanea con “l’intervista” di Fazio a Renzi era appena straniante.
Quasi che, mai come oggi, la satira fosse ormai molto più reale della realtà stessa.
Con una sola differenza, però sostanziale: pare assai improbabile che, nel mondo reale, i giornalisti (veri?) si ribellino come quelli finti.
Andrea Scanzi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 23rd, 2014 Riccardo Fucile
“SOLDIPUBBLICI.GOV.IT  ” STESSE FUNZIONI DI UN PORTALE DELLA BANCA D’ITALIA
Un’interfaccia semplice, pulita, lineare, come da tradizione consolidata della comunicazione renziana.
Un archivio che permette di consultare intuitivamente tutte le voci di spesa di comuni, province e regioni.
Soldipubblici.gov.it   è online, dopo l’annuncio del premier in diretta tv da Fabio Fazio, domenica sera. L’avvio è stato stentato.
Il sito non ha funzionato per quasi un’ora a causa dell’elevato traffico di visitatori. Nemmeno il primissimo battesimo era stato fortunato: a inizio dicembre Renzi aveva anticipato la nascita del portale durante la trasmissione di Enrico Mentana Bersaglio Mobile, su La7.
Solo che nessuno nel governo si era premurato di acquistare il dominio: l’indirizzo soldipubbli  ci.it  era stato “rubato” da un anonimo acquirente, causando a Renzi qualche imbarazzo e un buon numero di sberleffi in rete.
Come funziona.
Si apre con tre grandi numeri che scorrono al centro della pagina: il totale del denaro speso da tutte le amministrazioni locali nel 2014 e poi le cifre — separate — di Comuni e Regioni.
L’archivio è indirizzato attraverso tre direttive: chi, quanto e cosa.
Chi spende (Comuni, Province, Regioni), quanto spende (con il confronto tra l’anno corrente e il 2013, che però in molti casi è assente) e per quali beni o servizi (personale, acquisti e noleggi, cancelleria, manutenzioni, e via dicendo).
In pochi secondi si può quindi verificare — per fare un esempio — che il Comune di Roma nel 2014 ha investito per i suoi mezzi di trasporto 59.667.369,87 euro, mentre nel 2013 la stessa voce era costata “solo” 1.133.188,01 euro.
Per un cittadino, orientarsi con numeri nudi e definizioni generiche rimane piuttosto complicato.
È davvero così utile sapere che — per fare un altro esempio — nel 2014 la Regione Liguria spende poco meno di 200 mila euro per “cancelleria e materiale informatico e tecnico?”. Le cifre sono presentate senza ulteriori informazioni: non si conosce il prezzo d’acquisto unitario del materiale in questione, nè la quantità , nè le aziende a cui si è rivolta l’amministrazione.
Bandi e appalti, su Sol  dipubblici.it  , restano irrintracciabili.
Il doppione.
A poche ore dal lancio, in rete sono comparse le prime polemiche. “Non è niente di nuovo”, si appoggia a “numeri che già avevamo”, un “servizio inutile, di cui — per paradosso — non si conosce nemmeno il costo.”
In effetti il sito utilizza le cifre elaborate da Banca d’Italia e dalla Ragioneria dello Stato, rese pubbliche su Siope.it  .
Un progetto nato addirittura nel 2006, molti anni e governi prima di Renzi.
Siope.it   offre un servizio più approfondito di quello diSoldipubblici.it  : permette l’analisi dei dati aggregati e il confronto diretto tra le voci di spesa di enti diversi in differenti periodi.
Consente, inoltre, di salvare le proprie ricerche esportandole in un file.
La grafica è sicuramente meno accattivante di quella del sito renziano, che è più immediato e semplice da consultare.
In sostanza, più che di una rivoluzione della trasparenza, si tratterebbe dell’ennesimo restyling. Passo dopo passo.
A Soldi- pubblici.it   bisogna concedere per lo meno il beneficio del dubbio: è appena stato lanciato, è nella versione di prova, i suoi servizi — promettono — saranno raffinati e implementati.
Per adesso però c’è molta forma e poca sostanza. Non è una novità : anche l’altro cavallo di battaglia del renzismo internettiano — il sito passodopopasso.it   — è stato riempito di grafiche esteticamente gradevolissime quanto spoglie di contenuti.
Era nato con la promessa di rendere conto con rigore e tempestività dei provvedimenti adottati dal governo nei “mille giorni per cambiare l’Italia.” L’analisi più lucida e impietosa sui suoi insuccessi l’ha formulata il sito Openpolis: “Mancano informazioni base su tempi, azioni e attività del governo. Pochi e datati gli strumenti messi a disposizione dei cittadini (…). Risulta deficitario in tutti gli aspetti presi in considerazione. A questo dobbiamo aggiungere una scarsa attenzione alla questione della verificabilità delle informazioni pubblicate: le news non sono datate, le fonti non sono riportate e non vengono forniti link di approfondimento”.
Il sito, nota di colore, è nato allo stesso indirizzo ip del portale ideato dall’ex ministra Micaela Vittoria Brambilla: vacanzea4zampe.info; i governi in rete non lasciano tracce indimenticabili.
Tommaso Rodano
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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