Dicembre 12th, 2014 Riccardo Fucile
TIMORI PER L’ELEZIONE DEL SUCCESSORE ALLA PRESIDENZA E PER I RAPPORTI CON L’UE
Giorgio Napolitano e Matteo Renzi sono ormai alla coabitazione forzata, da separati in casa.
La conferma è arrivata l’altra sera in un passaggio clamoroso del discorso che il capo dello Stato ha svolto alla Accademia dei Lincei, a Roma, quello sull’antipolitica grillina e leghista come “patologia eversiva”, tanto per intenderci.
Un passaggio completamente ignorato da stampa e agenzie (con pochissime eccezioni, tra cui l’Huffington Post) e che ritaglia l’identikit attuale del presidente del Consiglio, secondo le allusioni del Quirinale: “Un banditore di smisurate speranze ” arrivato alla guida del governo “senza alcun ben determinato retroterra”.
Parole durissime, di grande disincanto e forte delusione verso il “giovane” premier, che il politologo Gianfranco Pasquino, presente alla prolusione di Napolitano di mercoledì scorso, ha riassunto in questo modo: “Il presidente ha preso le distanze da Renzi da un mese e mezzo, in maniera sottile ma evidente”.
Il riferimento temporale di Pasquino è ben preciso. Ossia l’inizio di novembre, quando Repubblica e Fatto danno conto della “stanchezza” di Napolitano e della decisione irrevocabile di andarsene nel primo mese del 2015.
Dalle colonne del quotidiano di Ezio Mauro, con il timbro di Stefano Folli, la scelta del capo dello Stato viene tratteggiata in senso minaccioso verso lo stesso Renzi.
Per due motivi. Il primo: “Piuttosto che sciogliere le Camere e darti le elezioni anticipato mi dimetto prima”.
Il secondo: “Me ne vado anche se tu mi hai chiesto e continui a chiedermi di rimanere fino alla primavera”.
Adesso, però, in questa fase, quel “banditore di smisurate speranze” contiene soprattutto la stizza di Napolitano per un’altra, cruciale partita. Quella della sua successione.
Ed è per questo che dal Colle non è giunta alcuna smentita sul destinatario di quell’affermazione. Anzi.
Ambienti del Quirinale precisano, in modo perfido, che più che un attacco si tratta di un invito a Renzi a salvarsi da se stesso e dall’improvvisazione che sembra guidare la sua azione di governo.
È la vicenda del metodo Quartapelle, dal nome della deputata trentenne del Pd che Renzi voleva incasellare alla Farnesina al posto della Mogherini.
Di qui l’ampio riferimento ai giovani senza un ben determinato retroterra, sempre nell’intervento ai Lincei.
Raccontano che Napolitano rimase letteralmente scioccato dalla proposta, una cosa mai vista nella sua lunga parabola istituzionale e politica e fu necessaria una trattativa di alcuni giorni per trovare un compromesso sul nome di Paolo Gentiloni, attuale ministro degli Esteri.
Ecco, il capo dello Stato è terrorizzato dal metodo Quartapelle applicato all’elezione del prossimo presidente della Repubblica, che Renzi vorrebbe “accomodante” per non farsi oscurare.
In pratica, la distanza di questo dicembre tra Napolitano e Renzi si misura sul futuro inquilino del Quirinale. Anche perchè le avvisaglie del tormentone dei nomi circolati va nella direzione temuta da Re Giorgio, quello del metodo Quartapelle.
Sia nella versione musical-architettonica (Riccardo Muti e Renzo Piano), sia in quella giovane, ritenuta debole e senza autorevolezza ( Roberta Pinotti e Raffaele Cantone). Al contrario, Napolitano vorrebbe pilotare la sua successione ma sa che il suo candidato prediletto, Giuliano Amato, piace a Silvio Berlusconi ma non a Renzi. Come poi è emerso chiaramente dall’appuntamento di ieri a Torino tra Napolitano e il presidente della Repubblica tedesca, Joachim Gauck, la preoccupazione del Colle è quella di evitare “polemiche unilaterali e contrapposizioni paralizzanti” tra Roma e Berlino.
Anche in questo la critica a Renzi è fin troppo evidente. Non solo.
C’è una grave ragione che obbliga Napolitano, dal suo punto di vista, a seguire con attenzione la partita dei grandi elettori del capo dello Stato.
Il presidente della Repubblica, raccontano sempre, è consapevole di come il premier venga percepito dai maggiori attori della scena europea. E l’impressione ricavata, nonostante l’ego smisurato di Renzi, è del tutto negativa.
Ecco perchè un eventuale ticket Renzi-Pinotti, per fare un esempio, spaventa il Quirinale.
Con un premier percepito negativamente (e senza investitura elettorale) e un capo dello Stato non autorevole a chi si rivolgerebbero la Merkel e Draghi, per non dire Obama?
Sinora questo ruolo è stato sempre riconosciuto, a partire dal 2011, a Napolitano, lord protettore di ben due governi scelti da lui (Monti e Letta) e garante obtorto collo dell’ultimo.
E il metodo Quartapelle del banditore di smisurate speranze rischia di azzerare questo schema.
Fabrizio d’Esposito
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 12th, 2014 Riccardo Fucile
PENE PIU’ ALTE E PRESCRIZIONE PIU’ LUNGA, MA CON CALMA
Più anni di carcere, prescrizione più lunga per corruzione, concussione e induzione. “Pagare tutto, pagare fino all’ultimo giorno” esclama il premier. “Condannati in carcere anche se patteggiano e gli avvocati non ci provino ad allungare i tempi per arrivare alla prescrizione” fa eco il ministro Guardasigilli Andrea Orlando.
La crociata contro la corruzione partorisce un topo un po’ più grande, ma sempre troppo piccolo.
È qualcosa ma si poteva, si doveva, fare di più. Tanta buona volontà , ottime idee, ma il tutto è confinato in un disegno di legge.
“Non si può ricorrere al decreto su questioni di giustizia” dice il premier. Peccato che pochi mesi fa sia passato con decreto il taglio delle ferie dei magistrati e il pensionamento anticipato di 500 magistrati.
“Questo testo avrà una corsia privilegiata, sarà veloce e, se necessario, metteremo la fiducia” promette Renzi. Ma soprattutto il provvedimento è un’altra occasione sprecata.
Nella bozza circolata alle 18.00, un’ora prima che iniziasse la riunione dei ministri, era previsto un comma che istituiva la legislazione premiale per i pentiti in questioni di corruzione: sconti di pena da un terzo fino alla metà per chi aiuta la magistratura a ricostruire i percorsi della corruzione e le vie del riciclaggio.
Esattamente quello che chiedono i magistrati. E nello specifico il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, quello che ha scoperchiato il verminaio di Mafia Capitale.
L’altra sera, davanti alla Commissione antimafia, il numero uno della procura capitolina ha chiesto “una legislazione premiale per combattere la corruzione. Come è stato fatto contro la mafia e il terrorismo”.
Detto fatto, nella bozza con il timbro del Ministero della Giustizia in circolazione alle 18 si poteva leggere al comma I) dell’articolo 1 che “chi si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori anche aiutando concretamente le forze di polizia e la magistratura nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per individuare gli altri responsabili” potrà beneficiare di uno sconto di pena pari alla metà o un terzo del totale della pena.
Un’ora, tuttavia, dopo tutto questo non c’era più.
Alfano e i ministri di Ncd hanno sollevato una serie di obiezioni sul fatto che “serve più tempo, è una norma delicata, da meditare”.
Possiamo immaginare che Forza Italia abbia fatto arrivare lo stesso messaggio. E la norma premiale, che i magistrati chiedono con insistenza da quando il concusso è punito come il corrotto, è sparita.
I tecnici di via Arenula, che pure l’avevano scritta, possono solo dire, terminata la riunione, che “in effetti occorre più tempo. Ai tempi del terrorismo servirono anni”. Ma la corruzione oggi è l’emergenza. Come lo fu il terrorismo negli anni settanta.
Le richieste della magistratura, che hanno detto “basta propaganda, servono misure concrete”, sono state però in parte esaudite: è prevista una più efficace confisca dei beni (il sistema dei reati di mafia applicato a quelli di corruzione) e alcune modifiche al patteggiamento che sarà concesso solo dopo la confessione e insieme con la restituzione dei beni frutto della corruzione. si beni dello stesso valore dei proventi della corruzione.
Il provvedimento contro la corruzione è un testo con buone intenzioni. Ha il merito di levare la pustola marcia della corruzione dalla palude del “salvo intese”, cioè dell’annuncio, in cui è rimasta in questi mesi e di portarla in Parlamento.
Solo che non cambierà nulla nel breve periodo. Di certo non cambierà nulla per gli ultimi scandali che hanno conquistato all’Italia la prima pagina del New York Times sotto il titolo biasimevole: “Non c’è angolo del Paese immune dalla mafia”.
Ma veniamo al testo. Tre articoli sotto il titolo: “Disegno di legge recante modifiche alla legge penale sostanziale e processuale per un maggior contrasto al fenomeno corruttivo”.
I tecnici di via Arenula sono impazziti nelle ultime 48 ore nel cercare di riorganizzare ben nove disegni di legge lasciati a bagnomaria tra Camera e Senato.
Un lavoro di ricognizione necessario per non lasciare in piedi pezzi di proposte e consegnare un prodotto il più possibile organico.
L’ultima volta c’aveva provato il governo Monti e il ministro Severino. Era il 2011 ma sappiamo quanto dovette essere sacrificato sull’altare del governo delle larghe intese. Molto fu fatto allora.
Un grosso passo avanti viene incardinato oggi, seppure dall’esito incerto. Il resto dovrà completarlo il disegno di legge parlamentare (quello del governo, seppur annunciato, è ancora fermo in via Arenula) che modifica la prescrizione e che in settimana dovrebbe avviare l’iter in Commissione Giustizia alla Camera.
PENE PIU’ALTE
Sul fronte delle sanzioni il ministro Orlando, dopo mesi di scandali, dal Mose a Mafia capitale passando per Expo, è riuscito a rompere il tabù del centrodestra che non ne vuole sapere di aumentare le pene da cui deriverebbe un inevitabile allungamento della prescrizione.
Il disegno di legge prevede invece che la corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio, oggi punita da 4 a 8 anni, passa a un minimo di 6 ad un massimo di 10. Più duro anche il 319 quater, “l’induzione indebita a dare o promettere utilità ”, l’articolo che ha diviso in due la vecchia concussione e che è stato applicato nel processo Ruby: l’allora ministro Severino fissò la pena dai 3 agli 8 anni; oggi viene portata a 5 la minima e 8 la massima
Sparisce del tutto il ritocco di cui si era in queste ore circa la corruzione in atti giudiziari. E non c’è un articolo ad hoc e generale sulla prescrizione (che pure sarà più lunga, 12 anni e mezzo anzichè 10, grazie alle pene più alte). Sarebbe inutile benzina sul fuoco.
RESTITUIRE IL MALTOLTO
Sulle confische — il patrimonio è sempre il vero lato debole di delinquenti e corrotti — è stato deciso di applicare la disciplina del codice antimafia, quindi saranno sequestrati e poi confiscati tutti i beni di cui i condannato non potrà dimostrare la provenienza (art.2 del disegno di legge).
Mafia Capitale, ad esempio: Carminati risulta nulla tenente ma gli sono stati sequestrati una villa da 600 milioni e varie aziende; se dovesse essere condannato in via definitiva, o dimostra come è diventato proprietario di quei beni oppure gli vengono confiscati per sempre.
Ma ciò che le toghe aspettavano in gloria da tempo è il patteggiamento con ammissione del fatto e la restituzione del profitto del reato (art.3).
Detta più facilmente, l’imputato potrà patteggiare solo se ammette la sua colpa (nei fatti ora resta non colpevole) e se restituisce beni in misura uguale alla corruzione. Qualche esempio: l’ex governatore del Veneto Giancarlo Galan, indagato per corruzione per il Mose, circostanza per cui si sarebbe intascato oltre dieci milioni dal Consorzio Venezia Nuova, oggi come oggi se la potrebbe cavare con un patteggiamento di due anni di pena (quindi sospesa) e la restituzione di due milioni circa.
In una straordinaria intercettazione tra Carminati e il manager Fabrizio Testa che ha appena patteggiato un anno e pochi mesi per una corruzione di Finmeccanica, dice Il Cecato: “Bene, hai patteggiato un anno, tra tre anni c’è la non menzione e tra quattro ti puoi anche fare eleggere”.
Ecco, i magistrati hanno chiesto di spezzare questa perversione. E i patteggiamento sarà subordinato alla restituzione e al risarcimento totale del danno”.
Un’occasione sprecata.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 12th, 2014 Riccardo Fucile
CARMINATI AVEVA IL PROGETTO DI ALLARGARE GLI INTERESSI CRIMINALI GRAZIE A BUROCRATI E POLITICI AMICI…ECCO QUALI
Sognavano di costruire un impero. Tra tangenti, ricatti e minacce, la “mafia Capitale” si sentiva in grado di arrivare ovunque.
Continuava a impadronirsi di imprese, puntava agli appalti miliardari nel Lazio e in tutta Italia, mettendo a libro paga altri politici, altri burocrati, altri professionisti, altri dirigenti pubblici.
Fino a tentare persino la scalata al Viminale.
Ogni emergenza per loro si trasformava in denaro sonante.
Emergenza neve, emergenza abitativa e soprattutto emergenza immigrati erano parole magiche, capaci di farli “spiottare”, ossia incassare subito milioni.
Ma soprattutto di costruire altre alleanze oscure: nuovi ponti tra il “Mondo di Mezzo” e i piani alti del potere.
Massimo Carminati è solo il vertice di questa piramide criminale, una vera associazione mafiosa nata e cresciuta nel cuore di Roma.
Nell’ultimo decennio il “Nero” è riuscito a trasformare una banda di eversori e rapinatori in una potente organizzazione che mostra sul territorio la capacità effettiva di incutere timore e soggezione attorno a sè, e in molti casi ha usato la forza dell’intimidazione per piegare uomini dei partiti, dello Stato e delle imprese.
Ma l’arresto dell’estremista di destra e di altre 36 persone è solo la prima scossa di un terremoto che avrà ripercussioni per molti mesi.
I magistrati guidati dal procuratore Giuseppe Pignatone e dall’aggiunto Michele Prestipino hanno iscritto sul registro degli indagati un centinaio di persone per reati collegati alla mafia, fra loro anche l’ex sindaco Gianni Alemanno.
La trascrizione di un anno e mezzo di intercettazioni mostra uno spaccato del malaffare romano che va oltre, mostrando rapporti incredibili tra grandi imprenditori e boss della strada, tra politici e pregiudicati.
È Roma Capoccia, che non ammette presenze meridionali: nessun emissario di ‘ndrangheta, camorra o Cosa nostra era ammesso.
Per entrare nel loro territorio i padrini dovevano venire a patti, con accordi che saranno oggetto delle prossime fasi dell’inchiesta. Il lavoro dei pm Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli è solo all’inizio.
Ci sono ancora altri complici imprenditoriali e criminali nella rete di Carminati su cui si indaga. E c’è un tesoro da recuperare in giro per i continenti. Il boss si vantava di mettere da parte un milione l’anno (ma gli investigatori pensano che sono decine all’anno), denaro investito soprattutto all’estero per non creare sospetti: è l’oro di Roma sulle cui tracce si sono messi gli uomini del Ros dei Carabinieri e della Guardia di finanza.
IL PADRONE DEGLI IMMIGRATI
In questa storia di mafia non ci sono coppole e lupare, ma una schiera di persone perbene che consapevolmente si mettono al servizio della rete di Carminati.
La figura forse più inquietante è quella di Luca Odevaine, 58 anni: dal 2001 vice capo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni, poi nominato da Nicola Zingaretti direttore di polizia e protezione civile della provincia di Roma.
Siede nei comitati nazionali che devono trovare una sistemazione per i profughi che attraversano il Mediterraneo.
L’affare più ricco, perchè come dice Salvatore Buzzi, presidente della cooperativa “29 giugno” e braccio destro di Carminati, «con gli immigrati si guadagna più del traffico di droga». Odevaine viene chiamato «il Padrone» per la sua capacità di influire sullo smistamento dei profughi e sull’accreditamento dei centri di accoglienza.
Più ne sbarcano, più strutture servono e ogni persona vale 35 euro al giorno.
Con l’operazione Mare Nostrum il ritmo diventa frenetico: i centri vengono riempiti nel giro di pochi giorni. È una miniera d’oro: 150 milioni di euro da incassare, praticamente senza controlli. Odevaine sostiene di avere convinto il prefetto Morcone — con cui dice di avere preso appuntamento tramite Veltroni — a concentrare i flussi sulle regioni centro-meridionali «tanto al Nord non li vogliono».
E spinge Buzzi ad aprire altre strutture di accoglienza in Sicilia, Lazio, Campania.
Al telefono se ne citano almeno sette gestite dagli accoliti di Mafia Capitale. Creano un accordo con la più potente arciconfraternita religiosa impegnata nell’assistenza, spartendosi alcuni contratti e ipotizzando interventi del Vicariato di Roma su Alfano per smuovere altre commesse. Odevaine invece grazie al suo ruolo parla con tutti i responsabili del Viminale.
È esperto, si mostra efficiente: offre soluzioni ai dirigenti del ministero, ai sindaci e alle imprese. E intasca soldi nella sede della sua fondazione personale.
Nelle indagini è stata filmata anche la consegna di una misteriosa busta da parte di un alto dirigente de La Cascina, azienda legata alla Compagnia delle Opere ciellina.
Una relazione preziosa, che sembra aprire le porte per altri business.
Come i subappalti dell’Expo milanese. E soprattutto gli appalti negli ospedali della Regione Lazio: un contratto colossale, quasi 200 milioni.
Si discute di entrare nella partita grazie all’accordo tra Compagniadelle Opere e coop rosse, cavalcando il feeling politico tra Pd e Ncd che ispira il governo nazionale, dove il consorzio ciellino poteva contare sulla benevolenza dei ministri Alfano e Lupi.
I soci di Carminati dovevano garantire l’operatività su Roma. E il boss parla del modo di arrivare a Nicola Zingaretti e al suo staff per accaparrarsi l’affare. Puntano pure sul premier Renzi, senza riuscire ad avvicinarlo. Ma Buzzi comunque contribuisce alla cena di finanziamento capitolina del presidente del Consiglio: un evento tenuto all’Eur, poco lontano da quel fungo di cemento dove trent’anni fa nacque il gruppo neofascista che ancora domina la capitale.
Odevaine fa le cose in grande. Ed è lui a spiegare che per il salto di qualità la rete romana deve trovare alleati imprenditoriali.
Discute di contratti enormi, che finora non sono stati oggetto di indagine, come quello per il centro immigrati di Mineo, il più grande di tutti.
«I Pizzarotti sono impresa importante di Parma, molto amici di Gianni Letta, di Berlusconi. Da quello che ho capito hanno fatto un accordo perchè Lupi, il ministro Lupi gli ha sbloccato due o tre appalti grossi…». Valuta in parecchi milioni il vantaggio ottenuto dall’azienda parmense. Poi su un’altra gara per i rifugiati Odevaine assicura: «Il presidente della Commissione lo faccio io… è una gara finta».
FRONTE DEL SUD
Mafia Capitale, come in precedenza la banda della Magliana, ha continuato ad avere rapporti con Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra.
Gli investigatori del Ros lo scrivono nelle loro informative ai pm: «le altre organizzazioni criminali presenti nel territorio riconoscevano la forza del sodalizio diretto da Carminati».
Chiunque volesse fare affari all’interno del grande raccordo anulare, doveva chiedere il permesso al “Cecato”.
Perchè qui è lui che comanda. E si scopre che il referente di Cosa nostra a Roma è il vecchio Ernesto Diotallevi, che si definisce in una intercettazione il «capo dei capi». Lui è legato a Riina e ai mafiosi siciliani fin dai tempi di Pippo Calò. Anche lui pare in grado di arrivare a chiunque. Mario Diotallevi, figlio del boss, intercettato lo scorso anno mentre parla con il padre, gli riferisce che avrebbe avuto un appuntamento con Aurelio De Laurentiis «al quale avrebbe proposto di acquistare la villa di Cavallo da destinare ad un giocatore del Napoli calcio».
Cosa nostra è ben rappresentata da boss palermitani che hanno lasciato l’isola e si sono trasferiti all’ombra del Colosseo.
I siciliani avrebbero fornito a Carminati sicari per commettere omicidi, ma anche appoggio “logistico”: se servivano armi i picciotti sapevano a quale porta bussare. Racconta un collaboratore di giustizia che il gruppo del siciliano Benedetto Spataro aveva anche effettuato “lavori” per conto di Carminati che, in una circostanza, aveva anche venduto ai catanesi delle armi. «Benedetto le ha prese da Carminati qui a Roma e le ha portate in Sicilia», ha dichiarato il pentito Sebastiano Cassia.
I legami dell’ex Nar arrivano anche in Campania.
A Michele Senese e a tutta la galassia a lui riconducibile. Ci sono legami con i fratelli Esposito, Salvatore e Genny, e con il figlio di quest’ultimo, Luigi, alias “Gigino a’ Nacchella”. Tutti e tre esponenti di spicco del clan camorristico facente capo alla famiglia Licciardi, già parte della “alleanza di Secondigliano”, e legatissima a Senese.
Con loro la banda di Carminati faceva affari di piccolo calibro, ma vigeva un rapporto di mutuo soccorso. Non si pestavano i piedi, anzi, spesso si trovavano a condividere le stesse zone di influenza e a darsi una mano.
Il 23 gennaio scorso i carabinieri del Ros registrano una conversazione nell’ufficio di una coop di Buzzi. Quest’ultimo racconta a Carminati un episodio che collega i romani con i calabresi e la ‘ndrangheta. Buzzi, riferendosi ad un uomo della sua cooperativa, con orgoglio dice al “Cecato”: «… è tremendo.. gli ho visto fare una volta una trattativa con la ‘ndrangheta… ce fai sparà gl’ ho detto.. a trattà su 5 lire … gl’ho detto scusa “e questo rompeva il cazzo” ce sparano sto giro… in piena Calabria!».
IL POTERE DEI RICATTI
Investigatori e magistrati evidenziano come in passato Carminati ha goduto della protezione «derivante da legami occulti con apparati istituzionali».
I camerati di un tempo adesso hanno fatto carriera e sono diventati «rappresentanti politici o manager di enti pubblici economici».
Lo spiega lo stesso boss in un’intercettazione: «Io a loro li conosco… c’ho fatto politica… ma poi ognuno ha preso la sua strada. Chi è diventato un bandito da strada, chi si è laureato… A quei tempi ci stava gente che adesso sta nell’ufficio studi della Banca d’Italia, ci sta Fabio Panetta che è il numero tre della Bce.
L’unico della Banca d’Italia che si è portato Draghi. Io ci ho fatto le vacanze insieme per tutta la vita è uno dei miei migliori amici, ogni tanto mi chiama… mi ha chiamato proprio dopo l’articolo (de “l’Espresso” ndr), mi ha detto “a Ma’ sei sempre rimasto il solito bandito da strada”, mi ha detto. Gli ho detto “sì, tu sei sempre rimasto il solito stronzo che stai lì a leccare il culo alla Bce”».
Panetta ha smentito rapporti recenti con “il Nero”. Ma le parole sono indicative delle relazioni che Carminati può vantare.
«Ma lo sai perchè Massimo è intoccabile?» dice in una telefonata alla compagna Salvatore Buzzi, «perchè era lui che portava i soldi per Finmeccanica! Bustoni di soldi! A tutti li ha portati Massimo!».
Alla sua compagna Alessandra Garrone, che come lui è stata arrestata, Buzzi racconta: «Massimo non mi dice i nomi perchè non me li dice… Tutti! Finmeccanica! Ecco perchè ogni tanto adesso… Quattro milioni dentro le buste! Alla fine mi ha detto Massimo “è sicuro che l’ho portati a tutti!’ tutti!”». La Garrone lo interrompe: «A tutto il Parlamento!». E lui precisa: «Pure a Rifondazione».
Carminati si interessa molto alle vicende del gruppo statale.
Disprezza Lorenzo Cola, il faccendiere legato ai vertici di Finmeccanica, per la collaborazione con i magistrati che ha fatto finire in cella il commercialista Iannilli, nella cui villa ha abitato fino all’ultimo.
In occasione dell’arresto, è preoccupato che la moglie di Iannilli possa parlare con gli investigatori. E in effetti una relazione dei carabinieri riporta le confidenze fatte dalla donna.
Al militare parla di come Lorenzo Cola avrebbe fatto consegnare somme di denaro all’amministratore delegato di Alenia.
La moglie del commercialista svela che esiste una organizzazione che ha forma piramidale «a tre livelli: al vertice ci sarebbe Lorenzo Cola, al secondo livello ci sarebbero i “controllori”, non meglio identificati, al terzo livello ci sarebbe “l’esercito”, ovvero le persone come Iannilli.
Cola, che avrebbe sempre utilizzato Iannilli come un bancomat, sarebbe arrivato ad estorcergli troppo denaro». E suo marito «nel corso degli anni è stato molto “generoso”, tanto che non avrebbe potuto più far fronte alle pretese di Cola e quindi si sarebbe rivolto a Massimo Carminati per ricevere protezione.
Quest’ultimo si sarebbe presentato a Cola intimandogli di desistere dalle sue intenzioni».
La donna ha dipinto Carminati «come un uomo che ha aiutato lei e la sua famiglia in un momento di grande difficoltà , affermando che non è un “bandito di strada”, è “omologo” di La Russa ed Alemanno, avendo scelto “la strada anzichè il Parlamento, ma che “… è uno di loro…”».
Ecco, il Mondo di Mezzo, appunto.
Lirio Abbate
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Dicembre 12th, 2014 Riccardo Fucile
LA “29 GIUGNO” E L’APPALTO AL PREGIUDICATO CALABRESE (PARENTE DEL BOSS MANCUSO) PER IL MERCATO DEL RIONE ESQUILINO… BUZZI INTERCETTATO: “SONO LA COOPERATIVA DEGLI ‘NDRANGHETISTI”
L’ultimo affare era la raccolta dei rifiuti provocati dagli incidenti stradali di Roma con i camionicini di una società veneta.
La gara — probabilmente in corso — è nel mirino di Giovanni Campennì, partner in altri affari con Salvatore Buzzi e con la ‘Coop 29 giugno’.
Campennì puntava a pulire le strade ma aveva già ottenuto l’appalto per un mercato romano: l’Esquilino. Nonostante sia “gravato da precedenti penali per truffa, estorsione e furto” e nonostante sia figlio di Eugenio, il cognato del boss della ‘ndrangheta Giuseppe Mancuso, nonostante sia il fratello di Francesco Campennì (arrestato nell’operazione Decollo, una delle più grandi importazioni di droga mai scoperta in Calabria) era il partner prescelto da Buzzi, ras della coop ’29 giugno’ e socio di Massimo Carminati, per la pulizia del mercato Esquilino a Roma.
A tal fine viene creata, su input di Buzzi e con l’ok di Carminati, una cooperativa, denominata ‘Santo Stefano Onlus’ ma che Buzzi definisce più prosaicamente: “la cooperativa de ndranghetisti”.
Ieri per questa coop ‘de ndranghetisti’ sono stati arrestati Rocco Rotolo e Salvatore Ruggero, due calabresi già soci della ’29 giugno’, e legati — secondo i Carabineri — alle cosche della Piana di Gioia Tauro mentre Campennì è stato perquisito a piede libero.
La storia ricostruita dal Ros per gli arresti di ieri è uno scambio tra due associazioni criminali: da un lato con il benestare di Carminati, Buzzi fa entrare dal luglio 2014 la ‘Santo Stefano’, costituita appositamente da Campennì, (con la benedizione dei Mancuso) nell’affare delle pulizie all’Esquilino.
Dall’altro i Mancuso, in precedenza, hanno permesso alla ’29 giugno’ di Buzzi di operare sotto la loro protezione in Calabria nell’emergenza rifugiati aprendo un Centro e incassando dal ministero 1,3 milioni nel 2008-2009 a Cropani (Catanzaro). Durante l’inchiesta sullo scambio Cropani-Roma, Campennì è intercettato mentre raccontava l’altro affare a Buzzi.
Il 26 settembre scorso, scrive il Ros guidato dal generale Mario Parente, “Campennì informava gli astanti di aver partecipato, attraverso l’imprenditore Cassiani Giorgio ad una gara su Roma indetta dall’A.M.A: ‘abbiamo fatto una dimostrazione per l’A.M.A. di certi furgoncini, i Piaggio porter… che fanno post incidente… dopo l’incidente (di auto, Ndr) arriva il furgoncino e pulisce. Su quei furgoncini là noi li abbiamo fatto a dimostrazione”.
L’azienda che avrebbe fornito i furgoni, sarebbe stata la ‘Cassiani Tecnologie S.r.L.’ che è veneta, fattura milioni, e apparentemente senza collegamenti con calabresi o criminali.
Il Ros però prosegue: “Campennì spiegava a Buzzi che la società , per quanto formalmente amministrata da Cassiani, era riconducibile a lui: ‘Io sono Cassiani (…) sono io che gestisco lui’.
Campennì proseguiva illustrando il metodo adottato, per suo tramite dal clan Mancuso, al fine di evitare la riconducibilità a quella struttura criminale delle esportazioni di alcuni manufatti industriali: ‘le migliori sono le mie vasche. Le faccio là sotto (in Calabria) e le mando là (a Verona) (…). gliele vernicio e gliele mando lui gli mette il codice e le manda fuori… le inserisce, le immatricola, tutto a Verona’”. Le parole sull’impresa veneta sono tutte da verificare ma Buzzi era certo che Campennì non scherzasse.
Il 30 gennaio 2014 Buzzi dice: “ahh eccolo qua Giovanni è arrivato!” “è arrivata la ‘ndrangheta”.
Il Ros spiega perchè nel 2008 la ’29 giugno’ non ebbe problemi quando circa 200 africani si materializzarono in un residence di Cropani al posto dei turisti.
L’appalto da 1,3 milioni faceva piacere alla coop di Buzzi, non alla popolazione locale. Ora si scopre che c’era la benedizione del potente clan Mancuso di Limbadi: “Quando io stavo a Cropani parlavoconilPrefetto,parlavocontutti,parlavocon la ‘ndrangheta poi risalivo su”.
Ora gli amici dei Mancuso hanno ottenuto il loro ritorno: l’appalto delle pulizie all’Esquilino. I Ros hanno arrestato Rocco Rotolo e Salvatore Ruggiero, entrambi indagati per associazione di tipo mafioso.
Il 2 luglio scorso Buzzi parla con i due calabresi arrestati ieri per appianare un litigio con Campennì.
L’uomo scelto dai Mancuso lavora poco e vuole fare il capo ma, spiega Ruggiero, non si può fare molto: “Io sono andato dai Mancuso per Buzzi e i Mancuso mi hanno mandato a sto soggetto! Perchè tu (Buzzi, Ndr) sei stato rispettato, lo sai, (…) tu sei stato rispettato dai Mancuso. (…) Vengo io perchè loro mi mandano e dico ‘Salvatore, andiamo’… però dietro ci sono loro… in quella rete là comandano loro, poi in questa rete qua comandiamo noi!”. A buon intenditore poche parole. La cooperativa non si scioglie e prosegue l’appalto, almeno fino all’arrivo del Ros.
Marco Lillo
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 12th, 2014 Riccardo Fucile
AZIONE CIVILE DELLA SIN CHE GLI CONTESTA L’USO ILLECITO DELLA CARTA DI CREDITO
Le note curriculari inserite nella scheda personale della Camera dei deputati lo definiscono “esperto in politiche agricole e gestione di imprese”.
Ma, ironia della sorte, è proprio il suo trascorso al vertice di un’impresa che si occupa, guarda caso, di agricoltura a creare ora qualche fastidio ad Ernesto Carbone.
Asceso alle cronache per aver prestato la sua Smart all’allora futuro premier Matteo Renzi, l’onorevole avvocato, renziano della prima ora, componente della segreteria del Pd con delega alla pubblica amministrazione, innovazione e made in Italy, gettonatissimo ospite dei salotti televisivi, dovrà comparire davanti al giudice del tribunale civile di Roma (sezione specializzata in materia di impresa) per l’azione di responsabilità intentata contro di lui dal Sin Spa, il Sistema informativo nazionale per lo sviluppo dell’agricoltura, sul quale transitano i 6-7 miliardi di finanziamenti europei per le imprese agricole.
“Spese fuori controllo”
Alla base della citazione promossa nei confronti del deputato del Pd dalla stessa società a capitale misto pubblico-privato (controllata dall’Agea, l’Agenzia pubblica per le erogazioni in agricoltura), che Carbone ha guidato tra l’aprile 2012 e lo stesso mese del 2013 come presidente e amministratore delegato, ci sono le presunte “irregolarità riscontrate dal Collegio sindacale per spese non riconducibili a fini aziendali” effettuate con la carta di credito del Sin. Strisciate per un totale di 23.335,73 euro, quasi la metà (10.732,75) per saldare i conti del ristorante, oltre a viaggi e trasferte (altri 2.964,44), alberghi (1.142,05), noleggio auto con conducente (1.452,29), voli aerei per Londra e la Croazia (4.563,20) e acquisto di biglietti del treno (2.481).
Rilievi già oggetto di una lettera di contestazione del 14 febbraio scorso nella quale il cda del Sin spiegava che “per talune di queste spese (ristoranti) le giustificazioni” fornite da Carbone “non consentono di qualificarle come spese di rappresentanza”.
Quanto a quelle per il trasferimento dal luogo di residenza a quello di lavoro, “non essendo mai stata assunta dal Cda alcuna delibera in merito”, non possono “essere poste a carico della società ”.
Poi ci sono i “voli aerei effettuati nei weekend estivi dal giugno ad agosto 2012 verso e dalla Croazia” e quelli “verso e da Londra” tra l’ottobre e il novembre dello stesso anno.
Viaggi “difficilmente riconducibili agli scopi sociali”. Premessa che rimanda all’invito “a provvedere con cortese sollecitudine al rimborso a favore” del Sin delle somme contestate.
Il collegio dei revisori: “Conti al ristorante non qualificabili come spese di rappresentanza e viaggi non riconducibili agli scopi sociali”
Lo scontro Carbone-collegio revisori
Addebiti ai quali, come ricostruisce l’atto di citazione, Carbone risponde con una nota dell’8 aprile 2013.
Dopo averla esaminata, il successivo 11 giugno (quando l’ormai neo-onorevole del Pd aveva già cessato l’incarico al Sin), il Collegio sindacale informa i nuovi vertici aziendali che “la rilevata assenza di giustificativi inerenti le spese” contestate sarebbe, secondo Carbone, “conseguente alla superficialità con la quale il Collegio avrebbe esaminato la relativa documentazione” dal momento che sul retro delle ricevute avrebbe annotato “espressa indicazione del relativo titolo di spesa”.
Ma il collegio ribadisce “di aver esaminato tutti gli originali delle fatture” i quali “non riportavano alcuna indicazione del relativo titolo”.
Di certo, le giustificazioni dell’ex presidente e amministratore delegato non sono bastate a convincere gli azionisti del Sin, che il 27 marzo hanno dato il via libera (con sei voti a favore e un astenuto) all’azione di responsabilità nei confronti del parlamentare del Pd.
Carbone: “E’ un atto ritorsivo”
Carbone non ci sta e sentito da ilFattoquotidiano.it parla addirittura di “atto ritorsivo” nei suoi confronti, meditando querele contro chi ha dato il via alla causa intentata nei suoi confronti. “Nella mia esperienza al Sin, che ho lasciato con un incremento degli utili di circa il 30%, mi sono ridotto lo stipendio da 480mila a 60mila euro lordi, ho tagliato gli emolumenti ai dirigenti ed eliminato tutti i benefit. Mi è capitato di bloccare dei pagamenti al collegio sindacale e questo, evidentemente, a qualcuno non è andato giù”, contrattacca l’ex presidente.
Quanto alle spese con la carta di credito aziendale, tutto legittimo assicura lui: “Mi chiedono conto dei voli dalla Croazia, ma non dicono che il 14 e il 17 agosto stavo tornando in Italia per partecipare ai Cda del Sin — prosegue Carbone — Mi chiedono indietro poco più di mille euro per il noleggio con conducente, ma non dicono che durante il mio mandato ho rinunciato e restituito due Audi A6 a disposizione della mia carica”.
Ho lasciato con un incremento degli utili di circa il 30%, mi sono ridotto lo stipendio da 480mila a 60mila euro
L’omessa vigilanza sul dg
Ma oltre alla restituzione delle somme contestate, al deputato del Pd la sua ex azienda chiede anche il “risarcimento dei danni per omessa vigilanza sull’attività dell’allora direttore generale, Paolo Gulinelli“.
Anche Gulinelli era inciampato sulle carte di credito. Il 10 ottobre 2014 è stato condannato in primo grado con rito abbreviato a due anni di reclusione con l’interdizione, sempre per due anni, dai pubblici uffici (pena principale e accessoria entrambe sospese) e al risarcimento dei danni in favore del Sin (da determinarsi in separato giudizio) che gli contestava spese per alcune decine di migliaia di euro, e di Almaviva, socio privato dello stesso Sin, quantificati in 15mila euro. Condanna scaturita dall’esposto, giunto in Procura il 5 dicembre 2012, nel quale il Collegio sindacale ipotizzava a carico di Gulinelli “l’uso di carta di credito aziendale per spese non riconducibili a fini istituzionali”, si legge nelle motivazioni di condanna dell’ex direttore generale. “Non avendo ricevuto delucidazioni fino al giugno 2012, il Collegio aveva chiesto spiegazioni all’allora presidente Carbone”.
Che, il 22 ottobre dello stesso anno, risponde con una lettera richiamata in sentenza dal giudice: “…’all’esito delle verifiche effettuate’ non apparivano sussistere ‘comportamenti anomali’…”.
Ma il collegio dei revisori confermava le irregolarità .
Così, il 16 gennaio 2013 Carbone scriveva un’altra lettera, questa volta all’Agea, per ribadire che “non erano emersi, alla data della nota ‘…elementi tali da giustificare una segnalazione nelle sedi competenti per sospette fattispecie di danno’…”.
Ma evidentemente il tribunale che ha condannato Gulinelli deve averla pensata diversamente. Anche sulla questione dell’omessa vigilanza sull’operato dell’ex dg, Carbone respinge ogni addebito: “Sono stato presidente e amministratore delegato quando la persona che avrei omesso di controllare non era più direttore generale. Io non sono nè la Guardia di Finanza nè la magistratura: alcuni acquisti palesemente estranei all’attività istituzionale furono da lui rimborsati, ma rispetto ad una nota spese di un dirigente per un pranzo di rappresentanza io non avevo poteri ispettivi per sindacare quanto da lui dichiarato. Tra l’altro quando sono arrivato al Sin non c’era alcun regolamento sulle spese di rappresentanza, fui io a farlo adottare”.
E adesso spetterà ad un altro giudice stabilire se l’azione intentata dal Sin nei confronti di Carbone, proprio per omessa vigilanza sull’operato di Gulinelli, sia o meno fondata.
Antonio Pitoni
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 12th, 2014 Riccardo Fucile
ERA STATO IL SINDACO ORSONI A FARE I NOMI DEI “MAGGIORENTI” DEL PARTITO
A fare i loro nomi era stato l’allora sindaco di Venezia Giorgio Orsoni ai pm che indagavano sullo scandalo Mose.
Ora Michele Mognato e Davide Zoggia , deputati veneziani del Pd, sono indagati nell’ambito dell’inchiesta Mose.
Si indaga per finanziamento illecito dei partiti in relazione ai contributi che Giovanni Mazzacurati, presidente del Consorzio Venezia Nuova all’epoca dei fatti, avrebbe versato nel 2010 a Giorgio Orsoni per la campagna elettorale a sindaco di Venezia.
Orsoni, che aveva concordato con la Procura di Venezia un patteggiamento respinto dal giudice, in piena bufera giudiziaria in corso per convincere la stampa della sua tesi difensiva aveva spiegato: “Io chiedevo i fondi su richiesta del partito ma non mi sono mai occupato di organizzare nè finanziare alcuna iniziativa elettorale così come non potevo di certo sapere se quei soldi provenissero da fondi neri”.
In quella sede i nomi non li aveva fatti, ma poi agli inquirenti aveva spiegato chi chiedeva e aveva anche spiegato i rapporti con Mazzacurati: “Mazzacurati è venuto diverse volte a casa mia, ogni tanto mi lasciava dei carteggi e delle buste, non sempre — aveva raccontato Orsoni — ho aperto per vedere cosa c’era dentro”.
Alla domande del se li avesse poi portati al Pd. “Può anche essere, ma non ricordo. I fatti sono avvenuti anni fa”.
L’avvocato amministrativista prestato alla politica, che conosceva da 30 anni l’imprenditore che lo ha accusato di avergli chiesto sempre più soldi, aveva confermato di essere stato spinto a chiedere il denaro dalle pressioni dei “maggiorenti” del Pd.
“I miei interlocutori nel Partito Democratico erano sostanzialmente il segretario, che era Mognato” e po tra gli altri “Zoggia che era fra l’altro il delegato agli enti locali a livello nazionale e che, pur essendo occupato anche per altre elezioni, perchè essendo il delegato nazionale poi si doveva occupare di altre cose, però era presente spesso anche a Venezia” aveva detto Orsoni.
Che aveva aggiunto: “Non avendo nessuna esperienza politica e tanto meno elettorale non avrei saputo come organizzarmi… non avrei saputo come reperire le risorse per sostenere una campagna elettorale, della quale non conoscevo i costi”. Poi arrivarono 300mila euro: cifra che mi sembrava enorme”.
I due, che si sono detti estranei ai fatti, sono stati sentiti in Procura, dal pool di magistrati che indagano sulla vicenda, martedì scorso nell’ambito della conclusione delle indagini che dovrebbero portare a processo l’ex sindaco Orsoni.
I due deputati del Pd hanno smentito le affermazioni di Orsoni, e hanno negato di essere stati i destinatari finali del finanziamento in nero di 450mila euro messo a disposizione da Mazzacurati sui 550mila totali ricostruiti dai magistrati.
È stato sentito l’ex assessore ai lavori pubblici della giunta Orsoni ma all’epoca dei fatti (2010) segretario veneziano del partito, Alessandro Maggioni che non è indagato che ha spiegato, in circa un’ora di incontro, che all’epoca dei fatti si occupava di aspetto organizzativi e non economici.
Nei prossimi giorni altri politici potrebbero essere sentiti dalla Procura veneziana. L’ex sindaco dovrebbe andare a processo dopo che appunto l’ipotesi di patteggiamento con la Procura era stata respinta dal Gup perchè ritenuta troppo ‘leggerà specie sul fronte economico, la proposta di 16mila euro da versare al fondo per la giustizia.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 12th, 2014 Riccardo Fucile
COME PER IL TERREMOTO DELL’AQUILA, C’E’ CHI GIOIVA PER LE TRAGEDIE ALTRUI
Roma come L’Aquila. Imprenditori e uomini d’affari che si augurano o sorridono delle tragedie perchè è da quelle che arrivano i loro lauti guadagni.
Come il costruttore Francesco De Vivo Piscicelli che la notte del terremoto nel capoluogo abruzzese confidò al cognato: “Io ridevo stamattina alle 3 e mezzo dentro al letto”.
Racconta il Corriere della Sera che, come Piscicelli, anche Salvatore Buzzi sorrideva all’idea che potessero esserci tragedie o emergenze sociali.
Così, era da poco iniziato il 2013, e dal suo telefono, già sotto controllo del Ros dei carabinieri, parte un messaggio all’indirizzo di “Scozzi”, in confidenza Angelo Scozzafava, ex direttore del dipartimento Promozione dei servizi sociali e della salute del Campidoglio.
Il testo dell’sms d’auguri per l’inizio del nuovo anno dice tutto: “Speriamo che il 2013 sia un anno pieno di monnezza, profoghi, immigrati, sfollati, minori, piovoso così cresce l’erba da tagliare e magari con qualche bufera di neve: evviva la cooperazione sociale”.
Un messaggio scherzoso, forse, ma che ben rappresenta gli interessi che sono dietro le imprese e cooperative impegnate nelle emergenze.
La Coop di Salvatore Buzzi 29 giugno si occupava proprio di “profughi e sfollati”.
Ma il re delle Coop, braccio destro dell’ex Nar Massimo Carminati nella Mafia Capitale, si occupava anche d’altro.
Come dell’emergenza neve del 2012 a Roma, dove, scrive Giovanni Bianconi sul Corsera, “Buzzi aveva spiegato in un altro colloquio che per partecipare alla gestione di quell’emergenza aveva concordato una tangente di 40mila euro per Claudio Turella, il funzionario del Comune al quale gli investigatori hanno trovato 500mila euro in contanti”, nelle buste del Comune di Roma.
Buzzi, nelle sue conversazioni private intercettate dai carabinieri, non è un tipo che nasconde la mole d’affari nel giro delle emergenze.
E’ lui che nel 2013 spiegava: “Noi quest’anno abbiamo chiuso con quaranta milioni di fatturato ma tutti i soldi, gli utili li abbiamo fatti sui szingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati. Tutti gli altri settori finiscono a zero”.
Ed è lui che al telefono diceva: “Tu c’hai idea di quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende di meno”.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 12th, 2014 Riccardo Fucile
“LA INCONTROLLATA CORRUZIONE HA PORTATO IL LIVELLO DEL DEBITO PUBBLICO A VETTE ENORMI”
L’inchiesta sulla corruzione a Roma “sta a ricordare che, virtualmente, non c’è angolo dell’Italia che sia immune dall’infiltrazione criminale”: è il commento pubblicato oggi nell’edizione internazionale del New York Times in una corrispondenza da Roma apparsa in prima pagina.
“Persino per un Paese in cui la corruzione è data per scontata nella vita quotidiana – osserva il quotidiano statunitense – le rivelazioni hanno sbalordito i cittadini”. Un’inchiesta, quella sulla mafia a Roma, che “solleva nuove domande circa la capacità dell’Italia di riformasi e soddisfare le richieste di una responsabilità di bilancio fatte dai suoi partner dell’eurozona”.
L’autrice dell’articolo, Elisabetta Povoledo, non sembra avere dubbi: “La diffusa e incontrollata corruzione di fondi pubblici rivelata dall’inchiesta è un esempio della situazione che ha portato il debito pubblico dell’Italia a uno dei livelli più alti in Italia”.
Nel testo si ricorda anche che poco dopo le elezioni comunali del 2013 (Marino era stato eletto a marzo), il boss Massimo Carminati dava ai suoi “collaboratori” della banda istruzioni su come trattare con i neoeletti rappresentanti in Campidoglio: “Dite loro che abbiamo fatto questo e quello… e chiedete quali sono i loro progetti – diceva intercettato nel giugno 2013 – Chiedete: che te serve? Che posso fa pe te?”.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 12th, 2014 Riccardo Fucile
MANIFESTAZIONI IN 54 CITTA’… CAMUSSO: “SUL LAVORO NORME DA ANNI ’20″… BARBAGALLO: “FERMIAMO L’ITALIA PER FARLA RIPARTIRE NELLA DIREZIONE GIUSTA”
“Così non va”. È lo slogan scelto da Cgil, Uil e Ugl per lo sciopero generale in corso in tutta Italia. Una protesta che ha visto un’unica sigla sindacale, defilarsi, la Cisl. Tutti in piazza, l’adesione sarebbe del 70% secondo le stime fornite dagli organizzatori, per chiedere al governo di cambiare le politiche economiche e del lavoro (Jobs Act, legge di stabilità e provvedimento sulla P.a.).
Lo sciopero riguarda tutti i settori, dalla sanità agli uffici pubblici, dalla scuola ai trasporti, compreso quello ferroviario.
I cortei in cinquantaquattro piazze. A Torino c’era la segretaria della Cgil, Susanna Camusso, a Roma, Carmelo Barbagallo, segretario della Uil e a Genova, il segretario della Fiom, Landini, che ha detto: «Grande risposta dei lavoratori contro le politiche del governo».
TENSIONI A TORINO E MILANO
A Torino otto manifestanti sono stati bloccati dalla polizia durante gli scontri avvenuti al corteo di studenti e centri sociali in corso Regina Margherita.
Sono stati portati in questura e la loro posizione è al momento al vaglio. A quanto si apprende durante i tafferugli almeno un paio di poliziotti sarebbero rimasti contusi. Gli scontri si sono verificati davanti a una delle sedi della Regione Piemonte, in corso Regina Margherita.
Dopo il lancio di pomodori e uova il gruppo di manifestanti camminando si è avvicinato alle forze dell’ordine fino a quando non c’è stato il contatto fisico. Da lì sono partite delle cariche. I manifestanti hanno continuato a lanciare oggetti, tra cui alcuni bastoni e pietre, la polizia ha caricato usando i manganelli. Le cariche sono state almeno tre.
Quando la situazione è tornata tranquilla, il corteo, che si era staccato da quello principale in piazza Castello, ha proseguito la marcia fino a piazza della Repubblica, dove si trova il mercato di Porta Palazzo. Il gruppo continua a marciare tenendo uno striscione con la scritta “Ci riprendiamo tutto”. Numerosi gli slogan contro Renzi e il suo governo.
A Milano si sono registrati momenti di tensione quando il corteo dello sciopero sociale, con moltissimi studenti, è arrivato in piazza Duca d’Aosta davanti al Pirellone, sede del consiglio regionale. Sono stati esplosi alcuni petardi e lacrimogeni. La polizia ha caricato i manifestanti con i manganelli.
Un altro gruppo di studenti e antagonisti ha poi preso a pallonate un cordone dei carabinieri. Le forze dell’ordine in tenuta antisommossa stanno difendendo la sede della Regione Lombardia dall’assedio di antagonisti e studenti che, travestiti da babbi Natale, hanno cercato di entrare nell’edificio per consegnare al governatore Roberto Maroni dei pacchi dono simbolici.
CAMUSSO: NON ESCLUDERE I SINDACATI
Dal palco di Torino la leader della Cgil, Susanna Camusso, lancia un nuovo attacco al governo. «Forse per Renzi lo Statuto dei lavoratori è vecchio perchè ha 40 anni. Non vorremmo sentirgli dire che anche la Costituzione è vecchia perchè ne ha 70. Quando si inizia così non si sa dove si finisce». Non si cambia il lavoro e non si esce dalla crisi andando contro il mondo del lavoro.
«Vorrei che le promesse diventassero realtà – ha aggiunto – fateci vedere cosa state scrivendo nei decreti attuativi della riforma del lavoro».
Poi sfida il premier: “Se il messaggio di Renzi è “tiriamo dritto” sappia che sappiamo tirare dritto anche noi. Non abbiamo bisogno di sentirci minacciati”. E il segretario della Cgil torna a chiedere “un confronto” al governo Renzi.
BARBAGALLO: FERMARE LA CADUTA
«Oggi fermiamo l’Italia per farla ripartire nella direzione giusta», è invece il messaggio del leader Uil, Carmelo Barbagallo, dalla piazza dell’Esquilino a Roma. «Presidente ci stupisca e ci convochi: noi rappresentiamo la parte sana del Paese»”, ha aggiunto.
«Vogliamo fermare la caduta» dice ancora Barbagallo che indica a Renzi gli interventi per sbloccare il Paese. «Ci sono ancora margini per rimediare; il decreti attuativi del Jobs act devono essere ancora emanati e la legge di stabilità ancora approvata», spiega. «Se si metterà mano ai 150 miliardi di evasione fiscale, ai 27 miliardi di costi della politica e alla riforma fiscale si potrà rilanciare l’economia», conclude.
(da “La Repubblica”)
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