Dicembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
FRA I CORRIDOI DI CSM E SENATO CIRCOLA IL SUO NOME… LA NECESSITA’ DI “UN UOMO DELLE ISTITUZIONI”
Un’intervista che pesa, quella del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Un’analisi politica – del senatore del Pd Ugo Sposetti in Parlamento dal 1987 e tre elezioni presidenziali – che allude e al tempo stesso mette in guardia dalla stessa allusione.
Il risultato è che nella rosa di nomi spendibili per il Quirinale compare ufficialmente il presidente del Senato Piero Grasso.
L’ex procuratore antimafia avrebbe dalla sua alcune delle caratteristiche tratteggiate da Napolitano nei suoi vari interventi: il profilo istituzionale; l’immagine e la sostanza del rigore dell’ex magistrato, per di più antimafia, necessari ora come non mai all’Italia ultima in Europa nella classifica che misura la penetrabilità della corruzione; due anni di esperienza a palazzo Madama che gli hanno tolto le ingenuità del non politico di professione; non rappresenta nessun partito in particolare ed è tanto superpartes da essere stato votato, a suo tempo, anche dai Cinque stelle
Il presidente del Senato non sarebbe certo un “presidente notaio”, opzione che Renzi sembra aver capito dover mettere da parte; avrebbe però il profilo internazionale necessario e saprebbe bene indirizzare quella riforma della giustizia che lo stesso Napolitano il 22 dicembre davanti al Csm ha detto essere necessaria “per il recupero di funzionalità , efficienza e trasparenza” di tutto il sistema Paese.
Non solo, Grasso avrebbe anche il curriculum e il profilo giusto per districare e debellare con la giusta misura quello che Napolitano definisce “il nodo insostenibile che intreccia corruzione, criminalità organizzata e politica”.
Il presidente del Senato quindi entra nel gran ballo per il Quirinale dove sono già scesi in pista, loro malgrado e con diverse investiture, il ministro Padoan, l’ex presidente Prodi, i giudici costituzionali Sabino Cassese (ex), Sergio Mattarella e Giuliano Amato, l’ex presidente Pierferdinando Casini (sponsorizzato dai centristi, Ncd in testa).
Solo per fermarsi a qualcuno dei nomi messi in pista.
L’ipotesi Grasso aleggiava da una decina di giorni nei capannelli al Csm, in qualche anfratto di palazzo Madama, anche se nessuno l’aveva mai veramente esclamata. Lui si è sempre schernito.
“Sono pronto a prendere la reggenza della Repubblica” disse il giorno degli auguri natalizi alla stampa parlamentare.
A traghettare, cioè, il paese nei quindici giorni previsti tra le dimissioni e la convocazione dei Grandi elettori. Dopodichè, per cultura personale, Grasso non è certo uno che, pur restando ironico e disponibile, presta il fianco a certe speculazioni. Quindi, fine degli scherzi.
Ma oggi è successo qualcosa che si fa fatica a giudicare casuale, pur essendolo certamente, e che mette in chiaro il nome di Grasso.
Il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, titolare dell’inchiesta Mafia Capitale, spiega in duecento righe sul Sole 24 Ore i confini giudiziari e gli auspici politici dell’inchiesta.
Un senior della sinistra, dal Pci al Pd passando per i Ds, un uomo di mondo e di esperienze come Ugo Sposetti azzarda tra le righe in un colloquio su Il Foglio che “l’Italia del 2015 non è quella del 1992” e che quindi nessuno si azzardi a tirare fuori dal cilindro soluzioni come quella che all’epoca di Tangentopoli quando l’Italia, schiacciata dagli arresti per corruzione da una parte e dalle stragi di mafia dall’altra, portò sul Colle più alto quello che si credette essere il proprio anticorpo migliore, Oscar Luigi Scalfaro.
Scalfaro “arrivò al Quirinale — ricorda Sposetti su Il Foglio — spinto da un’onda emotiva (…) Oggi come allora registro una pressione sulla politica per far sì che al Quirinale possa arrivare una persona che rappresenti la legalità .
Spero — conclude Sposetti — che questo attivismo delle procure sia casuale perchè far eleggere alle procure il Presidente della Repubblica non mi sembra una grande idea”. Quello che Sposetti non dice al Foglio ma che circola con forza tra i senatori di più antica nomina è che “non solo Grasso è tra le ipotesi più accreditate ma lascerebbe anche libero un posto (la presidenza del Senato, ndr) strategico per saldare alleanze e maggioranze allargate”.
Ora il punto è che proprio oggi il procuratore Pignatone, toga tra le più restie a rilasciare interviste, dedica buona parte del lungo colloquio su Il Sole a ragionare sul fatto che “fenomeni come quello dell’intreccio mafia, corruzione, politica non possono essere debellati solo con gli strumenti del processo penale. C’è in primo luogo un problema di etica, di valori e della loro percezione sociale (…) Sono le persone e non solo le regole che possono fare la differenza”.
Pignatone cita il presidente Napolitano, “la legalità frana se non c’è moralità ” e punta il dito contro “una vasta area di comportamenti che non costituiscono reato e di cui la magistratura non si deve occupare ma che non per questo sono legittimi”.
La lotta alla corruzione deve quindi partire dalla classe politica e amministrativa del Paese che poi non si possono lamentare per le invasioni di campo della magistratura. Del resto, se l’ex pm Raffaele Cantone, alla guida dell’Autorità anticorruzione, è stato indicato come uomo dell’anno, si vede che il paese ha di nuovo e ancora bisogno di personalità il cui nome sia legato al concetto di legalità .
Proprio come nel 1992.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
SERVIVANO 10 METRI DI PROFONDITA’ MA SOLO A FINE LAVORI SI SONO ACCORTI CHE ERANO SOLO SETTE
“Non solo crociere”, recita il poster sotto vetro davanti al molo Ichnusa.
E in effetti qui al terminal crociere di Cagliari le maxi navi con migliaia di passeggeri non si sono mai viste, nè i turisti americani ed europei hanno sorseggiato un caffè appena sbarcati.
Solo qualche evento e l’approdo sporadico di imbarcazioni più ridotte.
Eppure la struttura di vetro e acciaio con pilastri alti decine di metri è stata ultimata nel 2008. Realizzata dall’ex Gecopre, il costo totale è 5 milioni di euro, più 490mila per l’arredo esterno: panchine, fioriere, lampioncini.
Pronta, nuova, ma mai usata. Il motivo?
Il fondale in quel punto è troppo basso per i giganti del mare. Circa 7 metri, abbassato di uno, ma ne servirebbero almeno 10 — dicono gli esperti. E quindi niente da fare.
Peccato che il cavillo sia saltato fuori un po’ tardi, cioè quando il cantiere era già terminato. Un dettaglio che ha contribuito a far andar deserta la gara a caccia di un gestore per l’hub del Mediterraneo.
Lo sbarco tra i tir
Nel frattempo, e sono passati altri cinque anni, i crocieristi arrivano lo stesso nel sud dell’Isola, ma qualche molo più in là .
Precisamente al molo Rinascita, non certo accogliente: in mezzo all’area industriale, tra i tir, praticamente senza servizi.
Scendono dalla scaletta e devono per forza salire su un bus: o quello della canonica visita guidata o sulla navetta messa a disposizione.
A piedi non si può girare: e in ogni caso non c’è nè un bagno pubblico, nè un negozio, nè un bar. Ed è pronto un nuovo progetto, la concessione è già stata firmata, per un altro terminal amovibile, da spostare all’occorrenza.
Stessi materiali dell’originale: acciaio e vetro e una linea simile.
Il veliero vuoto
Sul molo Ichnusa la struttura completata ricorda un veliero con tanto di finestre oblò sui lati: da qui si vede il porto, la passeggiata di via Roma fino al quartiere storico Castello.
Il percorso al terminal è segnato dai grossi vasi bianchi con le palmette, qualche panchina in legno.
Telecamere puntate, citofoni senza targhette per i due piani con oltre 2mila metri quadri che avrebbero dovuto ospitare negozi, ristoranti e pizzerie affacciati su una piazza coperta. Fronte mare e fronte città .
Ed è già tempo di acciacchi: macchie di ruggine sui tiranti, una luce a terra in frantumi e gli angoli trasformati in orinatoi occasionali.
Nessun lucchetto o catenaccio: anzi, i maniglioni dell’ingresso sulla banchina sono stati chiusi dall’interno alla bell’e meglio con dei lacci che lasciano comunque un’ampia fessura di circa dieci centimetri.
Come se i crocieristi, o chi per loro, dovessero entrare da una settimana all’altra.
C’è un fondale da scavare, oppure no
Per tentare di recuperare la destinazione originale del terminal si è pensato anche di sistemare il fondale del molo Ichnusa.
Il costo ulteriore per il progetto è di circa 2 milioni di euro.
Nel 2011 l’ok del ministero dell’Ambiente, ma poi tra favorevoli e contrari l’ennesima impasse: tra reperti archeologici da tutelare per la Soprintendenza e la necessaria Valutazione d’impatto ambientale della Regione.
Il risultato è lo stallo: l’operazione potrebbe infatti compromettere la stabilità del molo e avere conseguenze (anche economiche) incalcolabili.
Ma ormai la struttura c’è, che si fa?
Non più crociere ma yacht
Resta il target del turismo di lusso, seppur con obiettivo e portata ridimensionati: dalle crociere agli yacht fino a 150 metri e crociere medie.
Un progetto ambizioso sostenuto con energia dall’Autority portuale retta dal presidente e commissario Giorgio Massidda (ex senatore Pdl) e ora da un commissario straordinario. Quindi nuova gara e in questo caso c’è pure un’assegnazione per 25 anni affidata all’Ichnusa Marina Srl: ma una settimana fa si è mossa la Procura di Cagliari. Perquisizioni della Finanza e tre indagati per turbativa d’asta: il sospetto è che la società , creata apposta (e giusto in tempo) per partecipare al bando abbia vinto a maggio di quest’anno in virtù dei criteri poco limpidi, quasi creati “su misura”.
Tutto parte da un esposto anonimo su presunte irregolarità e dalla denuncia dell’ex amministratore delegato sulla presenza di un socio occulto.
La vincitrice è stata travolta (anche) dai veleni interni. La nuova vita del terminal parte quindi con la cattiva stella.
E per il momento resta la meta di qualche passeggiatore solitario.
Una scatola, bellissima, da riempire.
Monia Melis
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Dicembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
IL DECRETO SCEGLIE LA VIA “ALITALIA”: UNA GOOD COMPANY DA RIVENDERE TRA 2-3 ANNI
L’ennesimo decreto “Salva Ilva” è arrivato nel Consiglio dei ministri del 24 dicembre, esattamente due anni dopo il primo, firmato da Mario Monti.
Allora si sancì che la fabbrica rimaneva aperta contro la decisione della magistratura di Taranto di chiuderla.
Letta, poi, estromise i Riva dalla gestione dell’acciaieria con la nomina di un commissario.
Oggi Renzi li fa fuori definitivamente e si appresta a mettere in campo, da gennaio, una nuova operazione Alitalia (“speriamo che i risultati siano diversi”) ribadendo che bisogna rispettare le disposizioni dell’Autorizzazione integrata ambientale — cioè fare in modo che Ilva smetta di uccidere i tarantini — che comunque sono in larga parte inattuate nonostante il tempo passi.
La via scelta dal governo dunque — anche se il testo del decreto non è ancora definitivo — è quella dell’amministrazione straordinaria grazie a quella particolare forma di procedura della “legge Marzano” inaugurata nel 2008 con la ex compagnia di bandiera.
Chi parla di “nazionalizzazione”, insomma, rischia di non aver capito qual è il meccanismo messo in campo.
La procedura, attualmente, prevede che gli azionisti chiedano questa forma di intervento in stato di quasi-insolvenza.
Stavolta probabilmente toccherà all’attuale commissario Piero Gnudi: a quel punto il governo può nominare un amministratore straordinario (si fa il nome di Andrea Guerra, ex Luxottica oggi consigliere dell’inquilino di palazzo Chigi) che gestisca un la “good company” (la parte sana di Ilva), mentre i debiti pregressi e i rami d’azienda destinati alla morte verranno lasciati nell’impresa originaria (bad company) con la garanzia dello Stato. Questa struttura societaria dovrebbe durare — secondo le intenzioni del premier — tra i 18 e i 36 mesi al termine dei quali la good company verrà venduta.
Se il gioco funziona — e gli 1,2 miliardi sequestrati ai Riva resteranno a disposizione per le bonifiche — l’operazione sarà stata più o meno in pareggio, altrimenti per l’ennesima volta si saranno privatizzati i guadagni e socializzate le perdite.
Il probabile acquirente finale, peraltro, è la cordata tra la multinazione Arcelor Mittal e il gruppo Marcegaglia (probabilmente con l’aiuto di Cdp), che non se la passa benissimo ed è pure in conflitto di interessi visto che è uno dei principali clienti di Ilva.
Anche i soldi sono uno di quei temi in cui circolano alcune imprecisioni.
Pure Renzi ha parlato di un intervento pubblico da 2 miliardi facendo confusione.
Gli 800 milioni “già disponibili” — destinati alla bonifica di Taranto città e altre cosette — citati dal premier lo sono davvero, nel senso che li hanno già messi sul piatto i governi precedenti e non sono stati spesi nemmeno nei dieci mesi del suo.
Ora sicuramente partiranno i cantieri.
L’altro “miliardo e qualche centinaio di milioni” di cui ha parlato Renzi sono i soldi destinati alla bonifica degli impianti: non è chiaro se ci si riferisca agli 1,8 miliardi che dovrebbe costare la messa in sicurezza o degli 1,2 sequestrati ai Riva a Milano e destinati proprio a questo fine.
Per capirlo bisognerà aspettare il testo finale del decreto (ancora in via di scrittura), come pure per conoscere il meccanismo di cessione di Ilva: Mittal ha chiesto di fissare un prezzo subito e poi salire con calma — con tanto di diritto di recesso – vedendo come vanno le cose con bonifiche e cause civili per i morti, cioè se l’azienda è ancora viva.
Se questa fosse la formula è probabile che la decisione sul compratore sia già stata presa.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Dicembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
“OGNI ANNO PIU’ DI UN MILIONE DI PERSONE CAMBIA POSTO DI LAVORO”… “OCCUPAZIONE PER DECRETO NON SE NE FA”
Segretario Carmelo Barbagallo (Uil), ma il nuovo contratto non creerà occupazione?
«Ha solo monetizzato i licenziamenti. Se vuole vedere come si fa a creare lavoro, vada a fare uno stage negli Usa».
E le correzioni dell’ultimo minuto?
«Non so se è merito nostro o perchè hanno capito che sarebbero stati incostituzionali. Va bene non aver dato alle imprese il diritto di monetizzare anche l’eventuale reintegro da licenziamenti disciplinari, e il caso dello “scarso rendimento”. È pericolosa invece la scelta di equiparare i licenziamenti individuali a quelli collettivi».
Per quale ragione?
«Perchè così un’azienda in crisi, invece di discutere, può licenziare i dipendenti monetizzando. Comunque, per finanziare la decontribuzione delle nuove assunzioni hanno tolto 3,5 miliardi che erano riservati allo sviluppo del Mezzogiorno. In pratica, con i soldi per lo sviluppo si paga la monetizzazione dei licenziamenti individuali e collettivi. Se qualcuno mi spiega come questo può migliorare la situazione del mercato del lavoro… ho l’impressione che i giovani a cui pensava il presidente del Consiglio quando diceva che voleva dar loro “tutele crescenti” erano sono i giovani imprenditori».
Sui giornali c’è chi dice che le nuove regole sui licenziamenti vanno estese a tutti.
«Ancora? Il premier Renzi aveva detto che non voleva togliere le tutele a chi ce l’aveva, ma darne di nuove ai giovani. Una promessa bugiarda: si toglie gradualmente a tutti l’articolo 18, e ai giovani non si da nulla. A meno che la “tutela crescente” sia considerata ricevere un paio di mesi in più sul bonus con cui vieni licenziato».
Ormai i decreti ormai sono fatti. La vostra protesta a che serve?
«Primo, ancora ci sono le commissioni parlamentari che possono intervenire. Secondo, spero sempre che il governo si renda conto di aver fatto solo un favore alle imprese. Terzo, con le imprese noi dovremo discutere i contratti: alcune cose che il governo ci ha tolto cercheremo di recuperarle nel rapporto contrattuale. E ci batteremo per contrastare i tentativi di questo governo di togliere le conquiste di sessant’anni di attività sindacale e di lotte e dei lavoratori. Se fosse veramente per il bene del paese, per creare lavoro, me ne farei una ragione pure io. Ma la verità è che occupazione per decreto non se ne fa».
Roberto Giovannini
(da “La Stampa”)
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Dicembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
“DOPO L’AZIONE REPRESSIVA, TOCCA ALLE FORZE DELLA SOCIETA’ CIVILE”
«Procuratore, cosa pensa di aver scoperto, di Roma, che già non si sapesse? La corruzione? Gli affari e il malaffare? La criminalità che spezza i pollici ai debitori?».
Giuseppe Pignatone, 65 anni, il magistrato che il 2 dicembre ha ordinato la retata di mafia Capitale, è uomo riservato e profondamente siciliano, perciò spiazzante per cultura e consuetudine: un suo cipiglio severo può introdurre un mot d’esprit, un sorriso ironico precedere una verità pungente.
«Cosa abbiamo scoperto? Magari niente di tanto nuovo e di così misterioso — sorride — infatti al mio arrivo diversi tasselli di questa inchiesta esistevano già , sparsi in fascicoli vari. Molti altri abbiamo potuto acquisirli grazie all’eccezionale professionalità dei colleghi della Procura e dei Carabinieri del Ros. Che ringrazio sinceramente, come anche Polizia e Guardia di finanza. Dunque le indagini su Carminati sono iniziate prima del mio arrivo (Pignatone si è insediato nel marzo 2012, dopo aver a lungo guidato la Dda di Palermo e retto dal 2008 la Procura di Reggio Calabria) ma grazie a un nuovo impulso e a un più efficace coordinamento, è venuta l’ora di tirare le prime conclusioni».
«Abbiamo ritenuto di poter contestare reati di associazione di tipo mafioso, corruzione e turbativa d’asta. Il Gip ha adottato questo impianto e, nella sostanza, abbiamo avuto la conferma del Tribunale del Riesame. Possiamo dire che ora esiste un punto fermo dal quale procedere: nella Capitale opera da tempo un’associazione a delinquere di stampo mafioso, che muove leve e si insinua in interessi consistenti, con contatti con la politica e la pubblica amministrazione».
«Non sarà molto — sorride di nuovo — ma direi che c’è abbondante materiale su cui riflettere e, per la Procura, ulteriori elementi da sviluppare. Lo stiamo già facendo. L’indagine continua».
Procuratore, qualcuno ha sostenuto che il suo ufficio abbia esagerato accostando alla Capitale il termine mafia.
L’Italia è un Paese libero, ogni opinione è legittima. Ho colto, specie i primi giorni, qualche scetticismo sulla reale pericolosità del cosiddetto ‘mondo di mezzo’, ho anche letto qualcosa a proposito di schemi penali adatti a certe aree del Paese, ma non a comprendere la realtà romana. Per noi contano solo le decisioni dei giudici, ma forse è bene dissipare qualche equivoco. Nessuno ha paragonato la pericolosità dell’associazione guidata da Carminati, peraltro oggi al 41 bis, a quella di Cosa nostra o della ‘ndrangheta. Però, per il nostro Codice l’associazione di tipo mafioso non è solo quella con centinaia di affiliati, che controlla militarmente il territorio e ricorre in ogni occasione all’esplosivo o alla lupara. L’elemento decisivo è il metodo mafioso, la forza di intimidazione del vincolo associativo, il sapere che un soggetto è pronto a usare la violenza e che ciò condizioni la volontà , determini le scelte di chi entra in contatto con lui. È quanto riteniamo stesse avvenendo a Roma, da anni. Tanto per essere ancora più chiari, il nostro lavoro di magistrati non potrà che deludere le aspettative di due opposti estremismi: quelli che, pregiudizialmente, coltivano un approccio “mitizzante”, per cui le mafie dominerebbero su Roma e quelli, invece, altrettanto pregiudizialmente impegnati a sostenere un modello “riduzionista”, per ridimensionare o addirittura banalizzare quanto fin qui emerso.
Altri lamentano il danno di immagine per la città icona del Paese
Comprendo e condivido l’amarezza, ma sono convinto che conoscere la realtà in cui viviamo, inclusa quella criminale, sia sempre un fatto positivo. E comunque ripeto da tempo che, sotto il profilo criminale, non è la mafia la prima emergenza di Roma, una metropoli peraltro così estesa che nessuna mafia sarebbe in grado di controllare da sola; che esistono poi legami tra bande autoctone e le cosche siciliane, calabresi, il sistema campano ecc.; che a Roma la mafia non spara, fa affari e investe. Ma da cittadino, sarei altrettanto allarmato dal fatto che corruzione, criminalità economica ed evasione fiscale sono a livelli di guardia: solo pochi giorni fa abbiamo scoperto un gigantesco riciclaggio che in due anni ha trasferito in Cina oltre un miliardo di euro, completamente nascosti al Fisco. Certo, se poi questi fenomeni si intrecciano con quello mafioso, il pericolo aumenta in modo esponenziale. Questi profili di analisi, offerti da me e da altri colleghi in diversi confronti pubblici, acquistano infine un peso ben diverso dal momento in cui sono contenuti nei provvedimenti dei giudici.
A proposito di confronti pubblici: perchè ha accettato di parlare al convegno del Pd romano, solo tre giorni prima di metterne sotto accusa un pezzo? Conosceva già molto bene le carte…
Ho accettato l’invito che un partito protagonista della vita cittadina aveva rivolto al Procuratore di Roma. Il tema — la criminalità nella Capitale — l’ho trattato altre volte su invito di sindacati, Università , associazioni private, perchè penso sia naturale interloquire con le realtà in cui si opera. Il punto non è se partecipare, ma ciò che si va a dire. Anche al seminario del 29 novembre ho ripetuto l’analisi appena ricordata e i concetti di sempre: la Procura indaga a 360 gradi, senza alcun pregiudizio, ma l’azione della magistratura ha limiti precisi, posti dalla legge. Esiste una vasta area di comportamenti che non costituiscono reato e di cui la magistratura non si deve occupare, ma che non per questo sono legittimi, rispettano i criteri di buona gestione o sono eticamente apprezzabili. Si tratta di comportamenti che dovrebbero essere sanzionati prima e fuori dal tribunale. Chi amministra sa benissimo a cosa mi riferisco.
Per completare la gamma di critiche e perplessità : l’avvocatura penale ha pubblicamente parlato di forzature mediatiche da parte della Procura.
Non entro nel merito della polemica. Mi limito a osservare che, al di là dell’utilizzo fatto dai media, nessun nostro documento è diventato pubblico se non dopo essere stato messo a disposizione delle parti, cioè una volta venuto meno il segreto investigativo.
Lei conosce la brutalità di Cosa nostra e ‘ndrangheta. La mafia Capitale ha potuto contare più su occhi chiusi o sulla paura che incuteva?
Come dicevo poco fa, il ricorso a metodi violenti era sempre possibile e di ciò gli interlocutori erano pienamente consapevoli. Ma il vero collante è costituito — come sempre, peraltro — dalla convenienza reciproca: la possibilità di entrare nei luoghi decisionali della pubblica amministrazione e il denaro. Denaro in grande quantità , la possibilità di averne sempre di più, di mantenere i rubinetti sempre aperti. Infatti il gruppo non si accontenta della Capitale, dimostra interessi che toccano anche altre regioni.
Ci sono differenze significative tra quanto emerge dalla vostra inchiesta e il modello di radicamento della ‘ndrangheta in alcune aree del nord Italia?
È presto per parlarne, anche se una prima differenza pare evidente: i meccanismi di insediamento scoperti dai colleghi del Nord, dalla Dda di Milano in particolare, narrano una immigrazione che si radica in Lombardia e riproduce le strutture associative proprie della ‘ndrangheta calabrese, i cosiddetti “locali”, fortemente legati ai luoghi di origine, ma in grado di instaurare le relazioni tipiche dei contesti altamente sviluppati, cioè crescenti rapporti con la borghesia locale, una enorme disponibilità di denaro e anche prestiti usurari, attentati incendiari, intimidazioni. Infatti chi, per ingordigia o necessità , ha pensato di mettersi in affari con le cosche, spesso ha finito per subire minacce e cedere ad azioni tipicamente mafiose. ‘Mafia Capitale’, invece, non è una ramificazione delle mafie tradizionali e non sembra aver incontrato particolari barriere allo scambio con il “mondo di sopra”, ben dotato di denaro (non suo, peraltro, ma pubblico, cioè nostro) e, in alcuni suoi esponenti, disponibile a spalancare le porte al “mondo di sotto” per moltiplicare i profitti. Ma ripeto: l’analisi è complessa e in questa prima fase appartiene soprattutto all’accusa. Aspettiamo le conferme nel processo.
In cosa il “mondo di mezzo” è diverso — se lo è — dalla contiguità espressa dall’“area grigia” che affianca le mafie storiche?
Trent’anni di processi dicono che l’area grigia serve le mafie prestando nomi puliti, fedine immacolate, saperi professionali, gestione finanziaria di capitali e beni illeciti. Il mafioso traffica in droga, il professionista che ne mette in sicurezza il bottino riceve in cambio ricchezza e potere; l’imprenditore pensa di risolvere i propri problemi cedendo la sua rete di relazioni e così via. Nella Capitale, le premesse sembrano identiche: vedremo quali ulteriori elementi di conoscenza ci offriranno le indagini e le decisioni dei giudici. Intanto possiamo dire che sembra accentuata un’interazione — direi paritaria — tra ambiti profondamente diversi, che però realizzano una sofisticata convergenza di fini. E con un ruolo di primo piano di esponenti dell’amministrazione cittadina che si sono adoperati per deviare fondi pubblici a favore dell’associazione mafiosa, da questa ripagati in denaro per l’accesso al network politico-burocratico di cui erano al centro. Parrebbe, la loro, un’adesione inedita e volontaria, con la piena consapevolezza — almeno per alcuni – del ruolo centrale di Carminati e dei suoi accoliti. Nella nostra inchiesta tutto si mescola: il mafioso parla da manager e da burocrate, il funzionario si presta a operazioni corruttive di impatto economico a volte minimo a volte significativo, pronto a ripeterle qualunque sia la postazione che la politica sceglie per lui; l’imprenditore accetta o addirittura cerca la protezione del mafioso, mentre delicati incarichi amministrativi di nomina politica vengono affidati a persone indicate da Carminati. Altra caratteristica, è l’assoluta trasversalità dei rapporti con il mondo politico e della corruzione che ne consegue.
Denaro pubblico usato per scambiare entrature, influenze, favori. Sembrerebbe eliminata, o quanto meno molto ridotta, la fase tipica dell’accumulazione illecita da narcotraffico o estorsione.
Sembrerebbe di sì, ma ricordo che le nostre indagini sono durate appena due anni. Sta di fatto che, un simile fenomeno criminale determina ricchezze significative, come dimostrano i sequestri eseguiti finora (oltre 300 milioni), mentre l’aggiudicazione di appalti milionari alle società di Buzzi e Carminati è stata bloccata in extremis dagli arresti. La sottrazione di risorse rilevanti aumenta la capacità corruttiva della delinquenza e intanto riduce la qualità di vita della comunità , specie a danno dei più deboli: servizi ridotti ai minimi termini, costi esorbitanti, esclusione sociale. Una precisa raffigurazione di quanto ha denunciato a giugno papa Francesco: “La corruzione viene pagata dai poveri. Pagano gli ospedali senza medicine, gli ammalati che non hanno cura, i bambini senza educazione …”.
Procuratore, non le pare che l’analisi stia scivolando nel campo della politica? La magistratura dovrebbe svolgere compiti diversi.
Quale sia il nostro compito è chiaro: noi facciamo indagini, accertiamo dei fatti, processiamo i responsabili togliendo a chi delinque una certa idea di impunità , oggi purtroppo assai diffusa. Ed è quanto stiamo cercando di fare, spesso con norme, risorse e strutture inadeguate. Qui si aprirebbe un capitolo diverso, anche se pertinente, poichè ci si chiedono — giustamente — risultati sempre più sofisticati e in tempi accettabili, mentre si aggrava a vista d’occhio la carenza di risorse, specie di personale amministrativo e di sistemi informatici. Ma torniamo all’indagine. Un effetto indotto dall’azione repressiva dovrebbe essere quello di creare spazi di libertà (politica, economica, imprenditoriale) e nuove opportunità di iniziativa per le forze della società civile che vogliano impegnarsi, ma che trovano l’ostacolo della criminalità . Come del resto è accaduto qualche anno fa in Sicilia.
Cioè, voi arate il campo, ma qualcuno deve difendere il solco. E pure seminarlo, altrimenti la ripulitura del terreno è vanificata.
Al di là di citazioni non so quanto appropriate, più o meno è così. È chiaro che fenomeni di questo tipo non possono essere debellati solo con gli strumenti del processo penale. C’è in primo luogo un problema di etica, di valori e della loro percezione sociale. Allora cadono le braccia a terra pensando alle vicende milanesi e veneziane con il ritorno sulla scena, dopo vent’anni, di uomini e imprese già condannati durante la stagione di Tangentopoli. In altri termini: le buone regole sono importanti, ma in ultima analisi sono sempre le persone, non soltanto le regole, a fare la differenza. Come ha detto il presidente Napolitano “la legalità frana se non c’è la moralità ”. Fatta questa premessa, è certo che vadano cambiate anche alcune regole.
Dunque il rilancio dell’Autorità anticorruzione, le sue prescrizioni e il suo impiego sui fronti più delicati, vanno nella direzione giusta.
Senza dubbio. E con il presidente Cantone è già iniziata, nel rispetto delle reciproche competenze, una positiva collaborazione. Così come sono positive l’introduzione del reato di autoriciclaggio e la previsione dell’archiviazione per lieve entità del fatto che, speriamo, attenui l’attuale ingolfamento degli uffici giudiziari con una miriade di questioni bagatellari.
Proprio a seguito della sua inchiesta, il Governo ha annunciato un intervento legislativo in tema di corruzione. E due ministri “pesanti” — alla Giustizia e dell’Interno — si sono espressi per un sistema premiale.
Siamo ancora in una fase preliminare, aspettiamo un testo definitivo. Ciò non toglie che sia di fondamentale importanza introdurre un meccanismo che contrapponga corrotto e corruttore, favorendo la collaborazione spontanea di chi paga ai danni di chi si fa corrompere.
Ed è altrettanto auspicabile, secondo la sua esperienza, l’inasprimento delle pene per il reato di corruzione, pure annunciato dal Governo?
Sul punto, come pure per altre situazioni che in un certo momento destano particolare allarme sociale (penso ai reati ambientali o al cosiddetto omicidio stradale), mi limiterei a richiamare l’attenzione sulla necessità della coerenza per non creare attese, destinate magari ad andare deluse. Provo a spiegarmi: è in fase avanzatissima di discussione un disegno di legge che limita il ricorso alle misure cautelari. Così, mentre da un lato si intende procedere per ridurre i casi di carcerazione preventiva, dall’altro si dichiara la volontà di innalzare le pene anche allo scopo di ottenere il risultato opposto. Ovviamente il Parlamento è sovrano e certamente terrà conto anche di questa esigenza di coerenza delle norme.
Lionello Mancini
(da “il Sole24 ore”)
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Dicembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
E NEL PD E’ LOTTA PER LE PRIMARIE TRA DE LUCA E COZZOLINO
A volte ritornano. Anzi, tante volte ritornano.
E l’ennesimo ritorno in campo sarà quello di Clemente Mastella. L’appuntamento è per le regionali in Campania. Il Corriere della Sera scrive che Mastella, uscito pulito dalle vicende giudiziarie sue e della sua famiglia, è pronto a tornare in campo.
Una lista, dove forse lui non sarebbe candidato ma probabilmente la moglie sì. Il progetto è quello dunque di una lista per le prossime elezioni regionali ma a questo giro non con Forza Italia: il feeling con Berlusconi si è infatti rotto.
“Per loro è come se io e quelli che mi sono vicini non esistessimo, eppure è stato grazie ai miei voti se alle ultime elezioni europee qui hanno preso il 29%, altrimenti non sarebbero andati oltre il 12%”.
Già è questo il punto. Le europee per Mastella sono state una clamorosa sconfitta in senso di leadership.
Infatti candidato nella circoscrizione Sud non viene rieletto pur avendo ottenuto 50.440 voti, ed è per questo che ora ha deciso di ricominciare a correre da solo. Attenzione però, perchè di certo non si parla di ricostituire l’Udeur, ma una lista che potrebbe anche vederlo candidato.
Pone dei dubbi inoltre Mastella, che in quanto ad analisi politica si dimostra ineccepibile, sulla tenuta del centrodestra: “dopo le elezioni regionali non resterà più nulla, perchè la deriva leghista e Salvini rischiano di prendersi la coalizione”.
Insomma Mastella, da moderato, indica il segretario leghista più come un ostacolo che come un novello Berlusconi capace inoltre di poter si riuscire a racimolare dei voti ma non riscrivere le alleanze di governo.
È un Mastella a tutto campo che mette alle strette anche Caldoro: “ l’aria tira a favore del centrosinistra e perdere delle aree potrebbe risultare decisivo”.
Escluso inoltre una possibile fuga d’amore verso l’NCD l’ex sindaco di Ceppaloni punzecchia ancora Forza Italia sulle passate elezioni europee del maggio scorso.
Se lo staff campano del Cavaliere, De Siano in testa, è stato avvisato e Caldoro messo alle strette non resta da aspettare la prossima mossa.
A quale forza moderata Clemente Mastella ha teso la mano?
Nell’area di centrosinistra l’attenzione è tutta rivolta alla data delle Primarie.
I due ‘competitor’ campani, Vincenzo De Luca e Andrea Cozzolino, sono da diverse settimane in campagna elettorale e non vogliono assolutamente perdere altro tempo, chiedendo a Roma di dare il via libera alle Primarie di coalizione.
Insomma, il rinvio non è cosa gradita in Campania, anche perchè una ulteriore indecisione potrerebbe a scombussolamenti poco graditi e, perchè no, a dare un vantaggio al centrodestra che appare ancora in ritardo.
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Dicembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
E CHIAMA IL PREMIER… SANTANCHE’ RASSEGNATA: “ORMAI POSSO VOTARE PER CHIUNQUE”
Dentro Forza Italia la chiamano la “teoria Minzolini”, essendo stato l’ex direttore del Tg1 il primo a proporla rompendo un tabù.
È quella che postula «l’accordo con il diavolo» in persona, l’unico che potrebbe portare alla tanta agognata (da Berlusconi) pacificazione nazionale.
Un diavolo con le fattezze bonarie di Romano Prodi.
«Pensaci presidente – gli ha ripetuto più volte Minzolini – solo Prodi riuscirebbe a tenere testa a Renzi». La novità è che il ragionamento ha iniziato a far breccia nella testa del leader forzista.
E non è un caso se, prima di Natale, nell’intervista a Repubblica, Berlusconi abbia messo in chiaro di non avere nomi da proporre e di non avere nemmeno pregiudiziali nei confronti di nessuno. È stato il primo passo.
Certo, l’antica ostilità nei confronti del Professore è dura a morire, ma il pragmatismo dell’ex Cavaliere è proverbiale. E in cambio di un eventuale disco verde alla candidatura di Prodi al Quirinale sarebbe lunga la lista dei desideri da esaudire.
Primo tra tutti quel «riconoscimento politico» che Berlusconi, ancora nella condizione psicologica del condannato ai servizi sociali, ritiene sia suo diritto esigere.
Su Prodi, fanno sapere ora dal cerchio magico, «certamente non c’è un veto».
E anche questa è una novità non da poco.
L’inimmaginabile diventa possibile? Tra il dire e il fare c’è ancora di mezzo un lunghissimo mese di trattative, ma forse anche di questo hanno parlato Renzi e Berlusconi nello scambio telefonico di auguri avuto la sera del 24 dicembre, dopo il Consiglio dei ministri.
Intanto i due schieramenti si guardano con curiosità .
«Prodi al Quirinale? È un tema – ammette il senatore Pd Massimo Mucchetti – su cui un pezzo di mondo berlusconiano sta ragionamento seriamente». Per averne una riprova basta ascoltare Daniela Santanchè. Che proprio a Romano Prodi pensava quando la scorsa settimana, ad Agorà , si è spinta fino a immaginare un voto favorevole all’arcinemico: «Ho votato Napolitano per spirito di servizio nei confronti del movimento politico. Votato Napolitano posso votare chicchessia se questa fosse la decisione di una squadra alla quale appartengo».
Certo, dalle parti di Renzi questa strana alleanza prodiana che mette insieme falchi berlusconiani come Minzolini e Santanchè, insieme a esponenti della minoranza interna come Mucchetti e Pippo Civati, è vista al momento con sospetto.
Di tutto il premier ha bisogno tranne che di un candidato che plana sul Colle più alto a dispetto del segretario del Pd.
Ma intanto il ghiaccio che ha tenuto bloccati i rapporti tra Berlusconi e Prodi ha iniziato a sciogliersi. Come fa notare un berlusconiano della cerchia stretta, «per il Cavaliere rimettere in piedi un pilastro della seconda Repubblica come Prodi avrebbe il non secondario effetto di restaurare anche l’altro pilastro su cui si è retto il ventennio, ovvero se stesso» .
Simul stabunt , appunto. Oltretutto, di recente, ci ha pensato la Crimea a metterli sulla stessa sponda del fiume.
L’opinione di Berlusconi su Putin e la guerra in Ucraina è nota. Anche il Professore condivide la critica alle sanzioni occidentali contro Mosca, definite di recente «un suicidio collettivo».
Ed è stato Prodi a volare al Cremlino lo scorso 18 dicembre, su invito di Putin, per un colloquio a quattr’occhi con lo zar.
Un privilegio riservato a pochi, tanto più che il Professore non ha formalmente alcun incarico.
Uniti oggi sulla Russia e domani sul Quirinale? «Berlusconi – confida un amico – non spera più nella grazia. Ma nella pace. E la pace la possono fare solo due nemici».
Francesco Bei
(da “La Repubblica“)
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Dicembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
ACCONTENTATI I SUOI MANDANTI: MENO DIRITTI PER TUTTI… IL RITORNO IN AZIENDA RESTA PER POCHI CASI: AGLI ALTRI LICENZIATI INGIUSTAMENTE SOLO UN RISARCIMENTO… E I SOLDI PER I SUSSIDI NON AUMENTANO
A due giorni dal Consiglio dei ministri della vigilia di Natale arrivano le prime reazioni ai due decreti legislativi con cui il governo attua la legge delega sul Jobs Act. Secondo la Cgil le misure presentate dal premier Matteo Renzi danno “il via libera alle imprese a licenziare in maniera discrezionale lavoratori singoli e gruppi di lavoratori”.
I decreti sono due: uno riforma l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e tutta la disciplina sul contenzioso tra impresa e lavoratore licenziato.
Il secondo è dedicato agli ammortizzatori sociali, le misure di sostegno che scattano quando si perde il lavoro, e introducono la “Naspi, Nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego” (riguarda solo i dipendenti, statali esclusi).
Dopo il Consiglio dei ministri, Renzi ha annunciato una “rivoluzione copernicana” e ha spiegato che “nessun imprenditore può dire che c’è in Italia un sistema che disincentiva la libera azienda”.
Il Nuovo centrodestra, con Maurizio Sacconi, avrebbe voluto anche la clausola dell’opting out, cioè la possibilità per il datore di lavoro di aggirare il residuo obbligo di reintegro in caso di licenziamento ingiusto sostituendolo con un maxi-risarcimento economico.
Le norme si applicano ai nuovi assunti, ma nei decreti ci sono incentivi a favorire il cambiamento del mercato del lavoro per assoggettare quante più persone possibili alla nuova disciplina. Qui sotto vi spieghiamo cosa cambia.
COSA CAMBIA
Reintegro più difficile, tutele poco crescenti.
Con il Decreto legislativo sulle tutele crescenti cambia la disciplina sui licenziamenti. Il giudice resta coinvolto, ma con meno poteri: può stabilire la nullità di un licenziamento (lo garantisce la Costituzione) ma anche nel caso di licenziamenti individuali senza giusta causa, come nella riforma Fornero, la discrezionalità tra reintegro sul posto di lavoro o risarcimento.
Ma l’indennizzo monetario diventa l’esito di gran lunga più probabile.
SOLDI, NON REINTEGRO
La novità anche simbolica del decreto legislativo riguarda i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, soggettivo o giusta causa.
Il reintegro sul posto di lavoro, stabilito dal giudice, resta soltanto in un caso.
Se il lavoratore riesce a dimostrare “direttamente” la “insussistenza del fatto materiale contestato”.
Come spiega sul suo blog Pietro Ichino, è una novità rilevante: “Non basta che la decisione del giudice circa la radicale insussistenza del fatto contestato sia fondata su presunzioni. E soprattutto, non basta che la decisione del giudice si fondi sull’insufficienza della prova circa il fatto acquisita per documenti o per testimoni, ovvero sulla possibile sussistenza di un ragionevole dubbio circa la colpevolezza del lavoratore: quando di questo si tratti, il lavoratore avrà diritto soltanto all’indennizzo giudiziale, secondo la nuova regola generale, ma non alla reintegrazione”.
Non c’è più il riferimento al contratto nazionale di categoria, che poteva prevedere tutele aggiuntive. Lo scopo sembra essere quello di scoraggiare il ricorso al giudice e spingere il lavoratore a trovare un accordo economico con l’azienda al momento del licenziamento.
QUANTO SI PUà’ INCASSARE
Chi ottiene una sentenza favorevole in caso di licenziamento discriminatorio, nullo o comunicato a voce e quindi inefficace, può avere una indennità che va da cinque mensilità e come massimo una cifra calcolata sulla base dell’ultima retribuzione per il periodo in cui il lavoratore è stato fuori dall’azienda, ma tolti i redditi da lavoro maturati nel frattempo.
In caso di licenziamento senza giusta causa, se non viene accordato il reintegro, il giudice può stabilire un risarcimento economico pari a “due mensilità della retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio”, con un minimo di quattro mensilità e un massimo di 24.
Tradotto: soltanto dopo 12 anni di servizio un dipendente può aspirare al risarcimento massimo in caso di licenziamento ingiusto.
Sono le tutele crescenti: i dipendenti appena assunti sono licenziabili con un rischio economico minimo per l’azienda.
LICENZIAMENTI COLLETTIVI
C’è l’indennizzo invece del reintegro anche nel caso dei licenziamenti collettivi quando vengono violate le procedure o i criteri di scelta se il dipendente è stato assunto con le tutele crescenti, cioè con le nuove regole.
LA DIMENSIONE
Oggi le imprese con meno di 15 dipendenti non sono tenute ad applicare l’articolo 18 sul reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa.
Con la riforma di Renzi anche per loro vige il sistema delle tutele crescenti ma il risarcimento massimo è limitato a sei mensilità .
SINDACATI E PARTITI
La nuova disciplina, a differenza di quella precedente, si applica anche a “datori di lavoro non imprenditori, che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, di istruzione ovvero di religione o di culto”.
Fino a oggi i sindacati potevano non applicare lo Statuto dei lavoratori e l’articolo 18 ai loro dipendenti, ora dovranno usare il sistema delle tutele crescenti con possibilità di reintegro per il dipendente licenziato.
COSA NON CAMBIA
Ammortizzatori sociali, è diverso solo il nome.
Per Matteo Renzi la faccenda si riassume così: “Più tutele a chi ne ha bisogno, più libertà a chi vuole investire: non lo riconosce solo chi è ideologico o in malafede”.
In attesa di vedere quante assunzioni porterà la cancellazione dell’articolo 18 per i nuovi assunti, si può dire che l’estensione delle tutele è falsa.
Il premier si riferisce, infatti, all’estensione degli ammortizzatori sociali anche ai lavoratori precari (ma non alle partite Iva, già colpite dalla stangata del nuovo regime dei minimi): peccato che nella maggior parte dei casi — come risulta dallo stesso decreto pubblicato dal governo — ci si limiti a cambiare nome a quelli esistenti.
NASPI
Al posto dell’Aspi (assicurazione sociale per l’impiego) arriva il Nuovo Aspi o Naspi: si tratta sempre di una forma di sostegno al reddito per i lavoratori subordinati che perdono il posto pagato con apposite trattenute in busta paga.
La sua durata massima passa da 12 mesi a quasi un anno e mezzo (78 settimane, per la precisione), ma l’importo dell’assegno cala.
Non solo, come ha scritto Stefano Fassina nel suo blog su Huffington Post: “L’assegno scende a circa 400 euro al mese nel semestre finale: maggiore durata e minore importo si compensano per i più ‘fortunati’, gli altri ci perdono”.
Insomma, non proprio un affare.
ASDI
Dopo la Naspi, c’è l’assegno di disoccupazione detto appunto Asdi.
Per il momento si tratta solo di una sperimentazione tra maggio e dicembre 2015: ha durata massima di soli sei mesi e ammonta al 75% del trattamento Naspi, cioè circa 300 euro al mese.
In sostanza si tratta del vecchio “sostegno all’inclusione attiva” appositamente rinominato.
La concessione del sostegno è subordinato alla quantità di Isee familiare (deve essere molto basso) e all’adesione a un progetto personalizzato redatto da un centro per l’impiego, previsione straordinariamente fantasiosa stante l’attuale funzionamento di quegli enti e del mercato del lavoro.
Come che sia, l’Asdi è l’unico capitolo su cui ci sono risorse nuove: nel decreto presente sul sito si parla di 300 milioni sul solo 2015 e si prevede che “all’eventuale estensione si provvede con risorse previste da successivi provvedimenti”.
Fonti di governo, nei giorni scorsi, hanno riferito di problemi nel reperimento delle coperture sollevati dal Tesoro: il testo, ad ogni buon conto, è stato approvato “salvo intese” e dunque non è ancora definitivo.
DIS-COLL
È l’indennità di disoccupazione mensile per i precari (co.co.co. e co.co.pro., non le partite Iva e neanche le altre forme di contratti precari) che perderanno il lavoro durante il 2015.
Si chiama Dis-Coll e più o meno ricalca la Nuova Aspi di cui abbiamo parlato prima: viene pagata in proporzione al numero di mesi in cui si erano versati i contributi (la metà ), ma comunque per non più di sei.
Anche questa nuova forma di sostegno al reddito è una sperimentazione valida solo per l’anno prossimo, anche perchè nel frattempo dovrebbe arrivare un decreto attuativo che cancella le collaborazione coordinate (l’idea, vagamente ottimista, è che tutti passino a usare il contratto unico a tutele crescenti al posto di quelli precari, che pure resteranno in vita).
Anche in questo caso si tratta, comunque, della rimodulazione di un ammortizzatore già esistente, solo che quello che prima era un pagamento forfettario viene rateizzato mensilmente.
Nello stesso decreto viene chiarito che su questo capitolo non ci sono risorse aggiuntive, anzi viene finanziata con “quelle già previste per il finanziamento della tutela del sostegno al reddito dei co.co.co”.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
IL PROCESSO CONTABILE DAVANTI ALLA CORTE DEI CONTI PER DANNO ERARIALE ANDRA’ AVANTI
Andrà avanti il processo contabile a carico di Matteo Renzi, a giudizio davanti alla Corte dei Conti insieme ad altre sette persone per un presunto danno erariale legato al conferimento di incarichi di direttore generale realizzato quando era presidente della Provincia di Firenze, tra il 2006 e il 2009.
Sul caso la sezione giurisdizionale della Toscana ha emesso una «sentenza non definitiva con contestuale ordinanza».
Alberto Bianchi, avvocato del premier, aveva chiesto di non accettare l’atto di citazione con cui nel marzo scorso la Corte, nonostante la richiesta di archiviazione avanzata dalla procura, aveva disposto il giudizio contabile.
Invece secondo i giudici anche Renzi deve presentarsi all’udienza fissata per il 15 luglio 2015.
(da “La Repubblica”)
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