Settembre 27th, 2015 Riccardo Fucile
MAGGIORANZA DI SEGGI MA NON DI CONSENSO NELL’OPINIONE PUBBLICA…AVANZA CIUDADANOS AL 17%
Una vittoria che rischia di essere mutilata.
Gli indipendentisti catalani, infatti, hanno conquistato la maggioranza assoluta al Parlamento locale. Quando lo scrutinio è arrivato al 97% delle schede, la lista Junts Pel Sì del presidente secessionista Artur Mas ha ottenuto 62 seggi e il 39,6%, mentre quella dei radicali separatisti di Cup è a 10 seggi e il 8,2%: insieme raggiungono il 47,8%, e quindo non raggiungono la maggioranza assoluta cui puntavano.
Dietro Junts Pel Sì arriva invece il partito moderato anti-sistema Ciudadanos (25 seggi e il 17,9%), contrario all’indipendenza
Gli indipendentisti avranno il maggior numero dei seggi al Parlamento regionale catalano, ma non superando il 50 per cento dei voti non possono presentarsi a Madrid come titolari della maggioranza assoluta degli elettori della Catalogna.
L’obbiettivo di Artur Mas, leader della coalizione indipendentista Junts pel Sì, è infatti la proclamazione di una dichiarazione unilaterale d’indipendenza nell’arco di 18 mesi.
Il voto di oggi serviva a rafforzare la sfida lanciata da Mas al governo centrale di Madrid, che è sempre stato inflessibile sull’indipendenza della regione di Barcellona dal resto della nazione iberica.
È una netta sconfitta, invece, quella del Partido Popular del premier spagnolo Mariano Rajoy, assolutamente contrario all’ipotesi dell’indipendenza: per i moderati solo il 8,4% dei voti e una forbice 11 seggi.
L’attuale partito di governo sarebbe superato dai socialisti del Psc (12,8% e 16 seggi), dalla lista di Podemos (8,9% e 11), e dalla seconda lista indipendentista, quella dei radicali di sinistra della Cup (8,2% e 11), alleata di Mas.
Alle urne erano chiamati 5 milioni e mezzo di cittadini negli oltre 2mila seggi , aperti dalle 9 di domenica mattina. I dati delle elezioni si fanno segnalare anche per l’incremento dell’affluenza ai seggi: alla fine alle urne sono andati il 77% degli aventi diritto.
L’aumento della partecipazione al voto è stato del 9% rispetto alle elezioni del 2012: un record assoluto.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 27th, 2015 Riccardo Fucile
QUANDO GOVERNAVA BERLUSCONI GRIDAVANO ALL’ATTENTATO ALLA DEMOCRAZIA , ORA CHE RENZI FA PURE DI PEGGIO SI SONO CUCITI LA BOCCA
Cari elettori Pd, urlavate contro il “nemico” Berlusconi, oggi siete silenti con l’“amico” Renzi: vi rendete conto che sta realizzando il suo programma?
Lavoro: abolizione dell’art. 18 (licenziamento senza giusta causa), art. 4 (controllo a distanza) e art. 13 (demansionamento) dello Statuto dei Lavoratori.
Limitazione del diritto di sciopero nei luoghi di cultura per decreto.
L’avesse fatto B. sarebbe successo il finimondo. Ma non ci riuscì.
Riforme costituzionali: dal bicameralismo perfetto, che pure ci ha salvato da molte brutte leggi (anche ad personam), al nuovo Senato dei consiglieri regionali, che avranno l’immunità ma pochi poteri e competenze, consegnando al governo un potere enorme senza i necessari contrappesi.
L’avesse fatto B. sarebbe successo il finimondo. Ma non ci riuscì.
Lotta al malaffare: politici arrestati, indagati e salvati in Parlamento. Addio presunta “superiorità morale della sinistra”.
B. almeno non diceva “Daspo per i politici corrotti”.
Lotta ai reati fiscali e all’evasione: l’allievo ha superato il maestro.
Le soglie di punibilità penale di B. triplicate per le dichiarazioni infedeli (da 50 mila a 150 mila euro) e quintuplicate (da 50 mila a 250 mila) per il mancato versamento dell’Iva, la tassa più evasa.
B. depenalizzò il falso in bilancio e fu il finimondo. Ora è tornato, ma è più morbido di prima.
Lotta alla mafia: tutti contro la Bindi e il suo: “La camorra è un elemento costitutivo della società e della storia napoletana”, nessuno scandalo per le parole di Renzi: “Il racconto che ci siano regioni in mano alle mafie non è vero. È uno slogan” (Otto e mezzo 14/09/2015).
Il mondo capovolto. L’avesse detto B. sarebbe successo il finimondo.
Scuola: pubblica fiaccata e finanziamenti alle private. Cominciò B. e fu il finimondo. Lotta ai privilegi e ai costi della politica: auto blu, nuovo jet, legge per intascare i rimborsi elettorali anche senzia bilanci “puliti”.
Almeno B. non si è mai presentato come paladino anti-casta.
Controllo dei media e attacchi a i talk show : Renzi non ha Mediaset (che però lo coccola), ma ha messo le mani sulla Rai.
B.fece l’editto bulgaro e successe il finimondo, a Renzi — per ora — basta l’avviso ai naviganti.
Tanto sono talmente pochi i giornalisti non“educati”(e pure quelli che si scandalizzano per l’offensiva contro l’informazione).
Luisella Costamagna
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 27th, 2015 Riccardo Fucile
LO STORICO CHE ANIMO’ I GIROTONDI: “IN ITALIA INTELLETTUALI SERVI VOLENTEROSI, MOLTI SONO DIPENDENTI DAL PD”
Renzi non è Berlusconi, “non è percepito come una minaccia alla democrazia” neppure su provvedimenti come la legge sulle intercettazioni o la riforma del Senato,che dieci anni fa avrebbero portato migliaia di persone in piazza.
Magari con la benedizione di intellettuali e gente di spettacolo, che invece oggi “dipendono dal Pd e dalla politica per finanziamenti, approvazione di progetti, incarichi”.
Avvinghiati in una rete di “clientelismo”, il grande ostacolo al cambiamento in Italia. Lo storico Paul Ginsborg è un padre nobile dei Girotondi, il movimento che nel 2002 accese la scintilla dell’opposizione al berlusconismo, dando la scossa a una sinistra frastornata e sconfitta.
In centinaia di migliaia scesero in piazza contro le leggi ad personam, contro la Rai di regime, a difesa della magistratura.
Oggi, il nulla .
Anche le partite più controverse si giocano tutte dentro il Palazzo, in quello che sembra un generale torpore dell’opinione pubblica.
Professor Ginsborg, a che cosa è dovuto questo “sonno”?
Attenzione, la storia dei movimenti insegna che anche in una situazione che pare pacificata le cose possono cambiare rapidamente. Oggi il clima è simile a quello che precedette l’esplosione dei Girotondi nel 2002. Ci si lamentava, si diceva che nessuno poteva fare nulla. Poi, improvvisamente, le piazze si riempirono. Chi ci dice che non accada di nuovo, fra qualche mese?
Rispetto a Renzi, però, Berlusconi divideva più nettamente l’opinione pubblica.
L’opinione pubblica è lenta nel cogliere gli atti lesivi della democrazia, come appunto la legge bavaglio o certe riforme istituzionali. Berlusconi era immediatamente percepito come una minaccia, Renzi è più ambiguo e gode di consenso a sinistra, cioè l’area in cui nacquero i Girotondi. Se poi riuscirà ad agganciare la ripresa economica trainata dagli Usa, la gente avrà qualche soldo in più, potrà andare di nuovo in vacanza, e legherà questi miglioramenti al presidente del Consiglio.
Gli intellettuali non dovrebbero essere più pronti a cogliere certi segnali? Perchè oggi non c’è un Nanni Moretti che grida la sua indignazione in piazza?
Gli intellettuali che si schierarono all’epoca furono comunque pochi , Moretti fu l’eccezione più che la regola, come prima di lui Pasolini. Molti sono dipendenti dal Pd — più che da Berlusconi a suo tempo — e in generale dipendono dalla politica per i loro progetti e le loro carriere. Così diventano servi volenterosi e l’autonomia intellettuale viene cancellata dal clientelismo. Renzi si trova quindi al centro di un sistema di favori. Questo blocca davvero il cambiamento nel Paese. Quando 23 anni fa arrivai all’Università di Firenze, certi colleghi mi chiedevano: ‘Tu chi porti al concorso?’. All’inizio non capivo neanche che cosa volessero dire.
Dunque torniamo alla piazza. Lei vede qualche soggetto che potrebbe diventare un nuovo movimento “per la democrazia”, come recitava il “sottotitolo” dei Girotondi?
La mia generazione, quella del ’68, sta uscendo di scena e deve per forza di cose farsi da parte. È stata l’ossatura di molti movimenti degli ultimi decenni. Ora mi domando se quelli che erano giovani negli anni Ottanta, molto influenzati dal neoliberismo e dal thatcherismo, possano prendere il nostro posto. Confesso che sono scettico. Vedo però delle esperienze interessanti in Europa.
Quali?
Podemos in Spagna, Tsipras in Grecia. E Corbyn in Gran Bretagna , in modo del tutto inaspettato: il Labour era a terra, i giovani si sono riconosciuti nell’antiliberismo e dopo la sua vittoria come leader del partito, pochi giorni fa, 15 mila persone hanno fatto la tessera. In Italia, invece, non si muove nulla.
Mario Portanuova
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Settembre 27th, 2015 Riccardo Fucile
SENZA LIMITE, ALTRO CHE 240.000 EURO
La Rai di Matteo Renzi è tutta nuova, ma con alcuni sapori classici.
Per esempio lo stipendio del direttore generale, Antonio Campo Dall’Orto: 650 mila euro. Niente bonus per risultati, nessun legame tra retribuzione e obiettivi dell’azienda. Ma 650 mila euro garantiti ogni anno per tre anni, oggi come direttore generale, presto come amministratore delegato con pieni poteri.
Un bel miglioramento per Campo dall’Orto, oltre mezzo milione in più di quanto percepiva come consigliere di Poste Italiane, poltrona di ripiego in attesa che la sua provata fede renziana gli fruttasse un posto più adatto alle sue competenze televisive.
La presidente Monica Maggioni ha una struttura della retribuzione diversa.
Ha scelto di non ricevere un compenso specifico da presidente del consiglio di amministrazione, ma di mantenere quello che aveva come direttore di Rai News 24 , intorno a i 300.000 euro.
In aggiunta avrebbe potuto chiedere un emolumento da presidente, invece la Maggioni ha chiesto di essere equiparata a un normale consigliere di amministrazione, 66.000 euro. Nell’insieme, si arriva comunque a circa 366.000 mila euro.
Che è quanto guadagnava, prima di lei, nel 2014 Anna Maria Tarantola, che però a quel reddito cumulava la pensione da ex vicedirettore della Banca d’Italia.
E che a inizio mandato prendeva ancora di più, 448 mila euro.
Gli stipendi dei vertici Rai sono sempre un argomento delicato, la loro storia racconta molto della cultura aziendalee del rapporto con la politica.
Prendiamo il caso del direttore generale: sono tanti o sono pochi i 650.000 euro per Campo Dall’Orto?
Sono meno della metà degli altri capi azienda pubblici (Eni ,Enel, Finmeccanica) e circa gli stessi che guadagnava Luigi Gubitosi all’inizio del suo mandato nello stesso ruolo, quando si è insediato nel 2011.
A giugno 2015, però, il Cda della Rai, su proposta di Gubitosi, aveva deliberato che a tutta l’azienda si applicasse il tetto fissato dalla legge per la Pubblica amministrazione: 240 mila euro.
Anche per Gubitosi e Tarantola, all’epoca già in scadenza di mandato.
E per tutte le tante figure apicali che negli anni si sono accumulate qua e là per l’azienda, strapagate anche quando cambiano incarico.
Gubitosi ha poi rinunciato all’assunzione a tempo indeterminato.Anche in Rai vigeva la pratica tutta italiana del doppio contratto al capo azienda: uno da amministratore delegato, a termine, e uno a tempo indeterminato da direttore generale.
Così da assicurare o una consistente liquidazione, se i soci non sono contenti, o un comodo parcheggio dentro l’azienda.
Gubitosi ha rinunciato al tempo indeterminato e, quando è scaduto il mandato, è uscito dall’azienda. Prima di andarsene, è anche riuscito ad allontanare altre figure apicali ormai prive di mansioni ma non di stipendio.
Resta solo l’ex direttore generale Lorenza Lei, che a suo tempo arrivò a guadagnare intorno ai 750 mila euro all’anno: c’è pronta una lettera di licenziamento, ma ancora non le è stata consegnata.
Che fine ha fatto quello slancio di austerità ?
Il 20 maggio 2015, due giorni dopo che Gubitosi aveva convocato i dirigenti per tagliare i loro stipendi a 240 mila euro, l’agenzia Reuters comunica che la Rai ha avviato il collocamento di un bond da 350 milioni.
Addio tetto: è la falla (voluta) nella legge su gli stipendi pubblici, l’azienda che emette un bond sui mercati quotati viene trattata come Enel, Finmeccanica, Eni, aziende a controllo pubblico ma le cui azioni sono negoziate in Borsa, con molti azionisti privati nel capitale. E che quindi, è il ragionamento, devono essere libere di cercare i migliori top manager, pagando la tariffa di mercato, sempre superiore a 240 mila euro.
La Rai è tutta in mano al Tesoro e, si vede bene in questi giorni, sotto il diretto controllo della politica. Il mercato non c’entra nulla nella scelta dei vertici. Ma basta un bond e salta ogni tetto.
A suo tempo anche i renziani si erano indignati: Michele Anzaldi, deputato Pd e membro della Commissione di vigilanza Rai,il 6 maggio scorso diceva: “Con l’emissione di bond, la Rai potrebbe aggirare il tetto e tornare a stabilire compensi superiori al limite di 240 mila euro.A tutte le amministrazioni e aziende pubbliche vengono chiesti sacrifici, sarebbe paradossale se alla Rai quegli stessi sacrifici entrassero dalla porta e uscissero dalla finestra.Il tetto deve rimanere anche a Viale Mazzini”.
Chissà se ora darà battaglia anche allo stipendio dei due renzianissimi nuovi vertici. Dalla Rai fanno notare due cose: che il bond non è stato emesso per far saltare i limiti ai compensi, bensì per ristrutturare l’oneroso debito della Rai.
Un’operazione decisa molti mesi prima dell’entrata in vigore dei limiti alle retribuzioni, grazie al rating concesso dall’agenzia Moody’s l’azienda della tv pubblica paga ora un interesse molto basso, l’1,5 per cento e deve osservare anche gli stessi obblighi di trasparenza delle società quotate (più o meno, perchè non c’è traccia di una relazione sulle politiche di remunerazione, con gli stipendi spiegati nel dettaglio).
Seconda osservazione da Viale Mazzini: i due top manager guadagnano comunque molto meno di loro omologhi di altre società a controllo pubblico prive di tetto.
Vero, ma si può osservare, incassano comunque molto di più di quanto avrebbero avuto se le ultime direttive di Gubitosi fossero rimaste in vigore.
L’austerità Rai è così, facile da annunciare,difficile da realizzare.
Stefano Feltri e Carlo Tecce
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 27th, 2015 Riccardo Fucile
LA SOLUZIONE: SARANNO AMESSI SOLO QUELLI CONTROFIRMATI
Che differenza c’è tra queste due cifre: 85 milioni da una parte e 300 emendamenti dall’altra? C’è un abisso.
Di fatto, della montagna spaziale di proposte di modifica al ddl Boschi, prodotte dalla “Calderoli machine”, non ne rimarrà che appena un pugno.
Nel film Highlander la profezia diceva che, tra gli immortali, “ne resterà soltanto uno”. In questo caso, i tecnici di Palazzo Madama hanno stabilito che sopravviveranno soltanto 200, massimo 300, emendamenti a firma del senatore leghista, alla riforma costituzionale.
Di fronte a un fenomeno inedito ed eccezionale, quello del numero abnorme di rilievi legislativi targati Lega, la soluzione sarà altrettanto “eccezionale”, come annunciato dal ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, e come ha più volte ripetuto il presidente del Senato, Pietro Grasso, negli ultimi giorni.
Almeno su questo i due sono d’accordo. La seconda carica dello Stato, secondo quanto viene riferito, ha sottolineato anche, quasi a muso duro, che il suo giudizio sull’ammissibilità e sulla bocciatura degli emendamenti “sarà inappellabile”.
Al massimo, per cortesia istituzionale, fornirà una spiegazione della propria decisione.
In pratica, in mancanza di un accordo politico, tra Calderoli e la maggioranza, i milioni di emendamenti prodotti da un computer grazie a un algoritmo decadranno in blocco.
Sarà data tuttavia al senatore del Carroccio la possibilità di indicare quali emendamenti vuole che rimangano in piedi. Ovviamente dovranno essere un numero ragionevole, altrimenti ci si affiderà al caso. Anzi, questo vive, questo muore. Questo resta, questo va via.
Il colpo di machete ai milioni 76 milioni di emendamenti (il senatore leghista ne ha intanto ritirati 9 milioni in tutto agli articoli 1 e 2 della riforma) sarà una decisione mai presa prima dalla presidenza del Senato, anche perchè non ci sono precedenti in materia.
“È stato Calderoli a creare un precedente inedito – dice chi in questi giorni sta ragionando su come risolvere il rompicapo – quindi anche noi dobbiamo creare un primo intervento che faccia giurisprudenza”.
Il presupposto è che “un senatore e un pc non possono paralizzare un organo costituzionale”, pertanto da giorni si scava nei meandri del regolamento del Senato. Saranno dichiarati non ammissibili tutti gli emendamenti che non sono stati controfirmati e che sono stati prodotti da una macchina.
Insomma, l’Italia reale non può stare appesa a una diavoleria tecnologica.
Al netto di tutto questo, secondo i tecnici di Palazzo Madama, che già hanno sacrificato parte delle loro vacanze estive per ordinare i 500mila emendamenti che Calderoli aveva presentato in commissione, rimarrebbero al massimo 300 proposte di modifica.
Che sarebbero gli emendamenti originali, poi moltiplicati all’infinito.
In fondo, viene fatto notare che Calderoli ha mantenuto in piedi 19 emendamenti all’articolo 1 su 6 milioni di proposte di modifica che aveva presentato, e 6 emendamenti su 3 milioni all’articolo 2. Non solo.
Nei corridoi di Palazzo Madama si racconta anche che degli 85 milioni di emendamenti che il senatore ha depositato attraverso un cd, 200 di questi li avrebbe presentati in formato cartaceo. Potrebbero essere questi gli “emendanti Highlander”, cioè quelli resistenti anche ai colpi di machete e di forbici.
Intanto Grasso sta studiando, per giudicarne l’ammissibilità , le 1200 proposte di modifica presentate da tutti i gruppi parlamentari all’articolo 1 e all’articolo 2. Secondo le stime, sugli altri articoli della riforma dovrebbero esserci 1800 emendamenti in totale, al netto del taglio che sarà applicato su quelli della “Calderoli machine”.
In pratica, 3000 proposte di modifica in tutto, cioè la metà di quelle su cui si è discusso lo scorso anno in prima lettura.
E a disposizione c’è il doppio del tempo. Vittoria che Grasso rivendica per sè dopo lo scontro avuto nella riunione dei capigruppo con la maggioranza e il governo, che volevano invece concludere i lavori l’8 ottobre anzichè il 13.
I cinque giorni in più concessi per arrivare a un accordo, qualora questo non si dovesse trovare, il presidente Grasso li farà pesare quando dichiarerà non ammissibile la montagna di emendamenti Calderoli.
Ora il senatore leghista come ne uscirà ? Arrampicandosi su una nuova trattativa.
E incassando un surplus di visibilità ancora per qualche giorno.
(da “Huffingtonpost“)
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Settembre 27th, 2015 Riccardo Fucile
“RIFARE AN? MA SE NON SONO STATI NEANCHE CAPACI DI AMMINISTRARE UNA CITTA’… SONO DEGLI INCAPACI”
La vedova di Giorgio Almirante, Donna Assunta, è molto delusa per le continue liti tra gli ex colonnelli di An sul futuro della Fondazione nata dalle ceneri del partito.
“È una vergogna – dice in un’intervista a Il Tempo – sentirli sempre parlare di soldi. Queste risorse tanto agognate dovrebbero essere impiegate in iniziative culturali o in opere di bene per le famiglie dei nostri militanti in difficoltà “.
E in vista della prossima assemblea della Fondazione An, con le beghe già iniziate, Donna Assunta puntualizza: “Qui si discute di un lascito che non è dei parlamentari o dei dirigenti, ma di una intera comunità politica. I soldi della Fondazione sono il risultato della lungimiranza di Almirante che ha trasformato il partito più povero della Prima Repubblica in quello meglio attrezzato. I soldi sono dei missini e servono per le manifestazioni pubbliche”.
Sulle numerose sedi di proprietà , un tempo Msi poi di An, abbandonate o non utilizzate, Donna Assunta osserva: “Furono comprate perchè nessuno voleva affittare sedi alla destra. E così Almirante le acquistò per fornire spazi per l’attività del partito quasi in ogni città d’Italia”
Sulla proposta, avanzata tra gli altri da Gianni Alemanno, di rifondare An, la vedova Almirante non ha dubbi: “Non sono capaci di fare nulla. Non sono stati capaci di amministrare le città dove governavano, come possono creare un nuovo partito? Il partito c’era, il Msi, e c’è ancora nel cuore di tanti italiani. Mentre loro pensano solo ai soldi”.
Nessun dubbio neanche su ciò che dovrebbe fare la Fondazione An: “Promuovere cultura e opere di bene. Questi signori dovrebbero riempire di iniziative culturali anche via della Scrofa, che è desolatamente vuota.”
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Settembre 27th, 2015 Riccardo Fucile
LO STORICO DIRIGENTE DEL PCI AVEVA 100 ANNI
E’ morto a Roma Pietro Ingrao, storico dirigente del Pci e presidente della Camera. Aveva compiuto 100 anni a marzo. Anche Matteo Renzi in una nota ha salutato il compagno Ingrao. “Con Pietro Ingrao scompare uno dei protagonisti della storia della sinistra italiana. A tutti noi mancherà la sua passione, la sua sobrietà il suo sguardo, la sua inquietudine che ne hanno fatto uno dei testimoni più scomodi e lucidi del novecento, della sinistra, del nostro Paese”.
Vi riproponiamo questo ritratto di Mario Lavia scritto proprio per l’occasione dei suoi 100 anni:
Ci sono due parole, così distanti, che nel vocabolario di Pietro Ingrao hanno un posto particolare. Sono “luna” e “barricata”. La prima è bellissima, l’altra ruvida.
Perchè c’è un polo buono, umanissimo, perfino sognante ma ce n’è anche uno duro, aspro, meno noto nell’uomo che arriva alla fantastica età dei cento anni — altro che “secolo breve” — e che nella dolcezza di un lungo crepuscolo vede acquietarsi i tumulti di una vita non comune. Anzi, fantastica.
C’era un periodo in cui Ingrao diceva sempre (questa cosa di ripetere le stesse frasi è un po’ un suo tic) di essere considerato un “acchiappanuvole”, naturalmente negandolo ma sapendo in cuor suo che almeno in parte era così.
Ingrao il sognatore, l’utopista. Il rivoluzionario di professione che, giovanissimo, si imbarca nella durezza della cospirazione antifascista all’ombra del Partito e della sua ideologia alla ricerca di qualcosa di eroico.
Un tratto alla Stendhal più che alla Lenin.
Gli rimane anche dopo, ormai dirigente di primo piano, questa ansia di andare un po’ oltre il vissuto delle interminabili riunioni e delle inestricabili controversie, e molto oltre l’orizzonte della politica, perfino della bella politica delle amate piazze, oltre anche i misteriosi riti delle Botteghe Oscure e delle stanze sudate dell’Unità di quei tempi là . Oltre la realtà quotidiana: ed ecco il cinema, i libri, l’arte
Pubblicò anche un libro di poesie molto montaliane (E muto / ogni volta / tendo la mano / Come se tu / sventura / fossi la vita).
Ed è facile pensare che fosse proprio questa carica utopistica a reggere il peso di una vicenda personale e politica complicata assai. Lo sa lui per primo, lo ha scritto mille volte: una storia politica di errori e sconfitte, di dissensi e minorità .
La “luna” di Ingrao è qualcosa che lui stesso nella accorata autobiografia (sì, riuscì a scrivere un libro accorato su di sè, “Volevo la luna”, appunto) non chiarisce bene cosa sia: non era più un comunismo che — era evidente — non si poteva realizzare, ma non era neppure l’indicazione precisa di cosa diamine potesse essere una democrazia tanto avanzata al punto di “superare” uno stato socialdemocratico di tipo europeo.
E dunque la vera sconfitta di Ingrao sta proprio nella insufficiente concretezza del modello da costruire.
L’ingraismo, frutto succoso della vicenda della sinistra italiana, era votato alla sconfitta innanzi tutto per la sconnessione con l’evoluzione reale di una società italiana che a metà degli anni Sessanta, quando Ingrao scende in campo per spostare a sinistra l’asse ideologico e politico del Pci contro la destra di Amendola, si è ormai assestata nel letto di un capitalismo difettoso assai ma in grado di assicurare occupazione e salari.
Pensò di diventare il segretario del Pci, Ingrao, nel dopo-Togliatti?
Amendola certamente lo sospettava, ed è anche per questo che contro di lui, nel ’64, fu durissimo.
Quantomeno, Ingrao pensava di vincere la battaglia per chi fosse riuscito a condizionare un mite Longo, il segretario scelto dopo la morte del Migliore.
Fu battuto ma riuscì a restare al vertice del partito, mentre i suoi venivano dispersi (e molti si lamentavano che il capo non muovesse un dito per difenderli).
Perchè non si deve pensare che lui non fosse — legittimamente — ambizioso. Come tutti gli uomini politici. E poi è vero che aveva, allora e dopo, un enorme consenso alla base.
Ci fossero state le primarie, per dire, avrebbe vinto. Quando parlò in quel congresso dello scontro con Amendola “tutta quella massa di compagni — ha ricordato lui stesso — scattò in piedi nell’applauso, e furono per me minuti indimenticabili”.
Come un grande attore, effettivamente Ingrao incantava l’uditorio.
E lui era attentissimo a creare l’atmosfera giusta, fin nei particolari, come fossero disposte le sedie, dove la tribuna, chi parla prima… Di calore, aveva bisogno. Gli piaceva essere amato, dalla base dei quartieri popolari e delle campagne umbre e dagli intellettuali marxisti di mezza Europa. E forse anche essere un perdente di successo.
Nell’immaginario prevale l’immagine bonaria del presidente della camera che passeggia fra le dune di Sabaudia, il vecchio patriarca a capotavola nella sua Lenola con familiari e famigli, decine di persone appese alle sue parole. Tutto vero.
Ma era anche un duro, Ingrao. Un antistalinista, certo, ma pur sempre cresciuto a quella scuola, una scuola che certi segni li lascia, indelebili.
Un eretico, sì, e tuttavia la Chiesa era quella, c’è poco da fare. È stato anche detestato, e certo con un Pajetta (si disse che ci fu anche qualche rivalità in campo sentimentale, parliamo dei primi anni Cinquanta) il rapporto non fu sereno, tanto meno con i “destri”, e con Berlinguer o Napolitano al massimo c’era cortesia, certo non simpatia, specie col secondo.
Con i non-ingraiani non era scioltissimo. Un duro che scelse di stare da una precisa parte della “barricata” — il titolo del suo famoso articolo sull’Unità dell’ottobre del ’56 — quella dei carri armati sovietici che calpestavano la libertà e la dignità di Budapest, la prima grande verifica di come fosse impossibile riformare il comunismo.
Allora bisognava capire, allora bisognava agire: quanto rimpianse, in seguito, di non aver fatto nè l’una nè l’altra cosa, “fu il mio errore più grande”.
Ecco, la “barricata” è la metafora di un errore che a sua volta era il simbolo del limite vero della vicenda del Pci: i dirigenti capivano che questa storia dell’Urss era inaccettabile eppure ne decretarono “l’esaurimento della spinta propulsiva” nientemeno che nel 1981, 25 anni dopo Budapest, 13 dopo Praga.
“Avevamo paura di perdere il partito…”, ha scritto qualche tempo fa Alfredo Reichlin
E poi, cosa forse ancor meno spiegabile (se non con l’antico riflesso condizionato dell’obbedienza alla chiesa) Ingrao scelse un altro lato sbagliato della barricata nel 1969, quando il comitato centrale del Pci decise di radiare il gruppo del Manifesto, cioè — diciamo così — il distillato più avanzato dell’ingraismo, Rossanda, Pintor, Magri, Castellina, Natoli, gente che era veramente sua amica e che lui non difese, non solo, ma alzò la mano per il voto a favore che contribuì a cacciare dal partito.
Alcuni ingraiani votarono contro o si astennero (fra cui il cognato di Ingrao, Lucio Lombardo Radice). Ma lui, il capo, no. Quelli non lo dimenticarono mai.
E quando un giorno, tanti anni dopo, in una riunione il vecchio Pietro provò a spiegare a quelli del Manifesto “la linea” da seguire, Pintor con la durezza che si poteva permettere lo mise al suo posto: non siamo più i tuoi figliocci.
Piano piano gli ingraiani si dissolsero. Si emanciparono.
Achille Occhetto, ex giovane pupillo, sciolse il Pci e lui — una vita in dissenso, l’eretico per eccellenza, l’uomo che voleva andare oltre — paradossalmente divenne il capo del “fronte del No” accanto a persone non certo affini, come Cossutta, mentre gente come i “suoi” Reichlin o Bassolino non lo seguirono.
Nelle riunioni del “fronte del No”, specie nei primi mesi dopo la Bolognina, era molto molto severo con i suoi compagni anti-svolta, aveva rimesso i panni del dirigente comunista, bisogna fare così bisogna fare colà … Era di nuovo il leader-ombra, pareva rinato.
Nell’inverno del ’90 pensava di vincerla, la battaglia per “salvare” il Pci, un nuovo Pci beninteso ma pur sempre Pci con il simbolo che da decenni nelle piazze chiedeva di barrare, “falce martello e stella”.
Ma l’illusione durò poco, la “Cosa” era più forte. L’ultima sconfitta. Ci restò per un po’ nel Pds, ma non era più il suo mondo, la sua casa, la sua croce e la sua delizia, tutto cambiava.
Uscì da quel partito — non capiva Occhetto, diffidava di D’Alema, su questo era d’accordo col vecchio Natta — seguì per poco tempo Rifondazione comunista che, pur vista con simpatia, non poteva essere il lato giusto della barricata nè tanto meno, assomigliare alla luna.
Che dopo cento anni Pietro Ingrao può ammirare ancora, lì, fra le nuvole.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 27th, 2015 Riccardo Fucile
IN SETTIMANA LA DECISIONE DEL GIP
Il gip Roberta Bossi deciderà nei prossimi giorni: archiviare o rinviare Tiziano Renzi a giudizio.
La posizione del padre del premier, indagato per bancarotta a Genova, sembra essere su un’altalena: dopo il clamore dell’apertura dell’inchiesta penale la Procura aveva chiesto l’archiviazione e tutto sembrava avviato a un nulla di fatto quando uno dei creditori si è opposto e il gip ha chiesto chiarimenti.
Nel frattempo la Guardia di finanza ha prodotto documenti e pochi giorni fa si è tenuta l’udienza preliminare.
Dalle tremila pagine dell’inchiesta – al di là della effettiva rilevanza penale di cui i pm dubitano tanto da chiedere l’archiviazione – emergono particolari che possono creare qualche imbarazzo.
Tutto ruota sulla cessione della Chil Post, la società di marketing di Renzi senior, a Franco Massone nel 2010 (preceduta dal passaggio di un ramo d’azienda dal padre alla madre di Matteo Renzi) e sulla concessione di un mutuo alla Chil Post nel 2009 dal Credito Cooperativo di Pontassieve, pratica curata da Marco Lotti padre di Luca, fedelissimo del premier.
Penalmente il punto è: c’era ancora Tiziano Renzi «dietro» Massone?
Da una nota interna della banca toscana sequestrata dalle Fiamme Gialle i funzionari mettono nero su bianco la parola «prestanome»: «…per poter acquisire nuove quote di mercato la Chil Post deve essere formalmente venduta a terzi che all’atto pratico figurerebbero da prestanome».
La circostanza è stata smentita da Tiziano Renzi, interrogato dai pm che ha però dichiarato – incongruamente – «io decidevo, la gestione era mia».
Renzi senior ha anche respinto l’ipotesi che la cessione della Chil Post sia stata decisa – come afferma una collaboratrice di Massone (in causa con lo stesso) Cristina Macellaro – per svincolare le sorti della società dalla famiglia.
La cessione – ha detto ai pm la Macellaro – avvenne poichè i Renzi volevano allontanare l’azienda «dallo stesso nome Renzi considerata l’intrapresa carriera politica del figlio Matteo».
Nulla di vero, ha dichiarato Tiziano Renzi. La cessione avviene perchè lui, avendo «annusato» le perplessità della banca, cerca soluzioni alternative «libero dal senso di colpa per non aver completamente ottemperato a un impegno preso con Lotti». Quanto al prestito concesso dal Credito Cooperativo, Marco Lotti, ascoltato dagli inquirenti, ha dichiarato che non ci furono favoritismi: «C’erano tutti i presupposti e io gestii solo una parte della pratica».
Il prestito non è stato interamente restituito. La Chil Post è fallita.
Ora parola al gip.
Erika Dellacasa
(da “il Corriere della Sera”“)
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Settembre 27th, 2015 Riccardo Fucile
DA INIZIO LEGISLATURA PERSI 40 SENATORI E PIU’ DI 30 DEPUTATI
È il tempo di Carneade, o meglio del terzino dell’Atalanta, come si diceva un tempo e lo cantava benissimo Roberto Vecchioni: «Fossi stato un genio / o almeno un terzino dell’Atalanta…».
Geni pochi o niente, ma di terzini dell’Atalanta ce n’è una folla, tutti di colpo al centro del villaggio: la destra italiana per un giorno o almeno un pomeriggio rimane emotivamente appesa alle mosse del senatore Domenico Auricchio, finchè non è passato da Forza Italia ad Ali, cioè al partito di Denis Verdini.
Chissà come va misurata la moralità di Auricchio visto il suo commento alle paturnie di Raffaele Fitto solo otto mesi fa: «Fossi in lui avrei già lasciato il partito, anzi la politica che dovrebbe essere prima di tutto coerenza e lealtà . Abbia rispetto per chi gli ha dato tutto».
E cioè per Silvio Berlusconi: «Tradire Berlusconi sarebbe come tradire me stesso. Gli ho detto che non lo tradirò mai. Lui mi ha preso sotto braccio, mi ha chiamato “Mimì” e mi ha sorriso»
Così parlava Mimì Auricchio una settimana fa.
Se volete il Carnevale siete nel posto giusto.
La fantastica Eva Longo (ex Dc, ex Ccd, ex Fi, ex fittiana, ora verdiniana) nel gennaio del 2014 così escludeva l’ipotesi di un ritorno in Forza Italia, dove ancora la Longo risiedeva, di Nunzia De Girolamo, nel frattempo passata con Angelino Alfano: «Non possiamo accettare palesi e vili tradimenti». Non si andava leggeri, con gli altri, e non ci si va nemmeno adesso e infatti la suddetta De Girolamo venti minuti dopo essere rincasata da Berlusconi impegna del sarcasmo: «Adesso Alfano canta meno male che Renzi c’è».
Sospetto da cui si poteva essere sfiorati da almeno un paio d’anni.
Ma è l’ora del terzino dell’Atalanta: la scissione è un brivido universale, sebbene passeggero. Un tempo se ne andavano Pierferdinando Casini e Gianfranco Fini, o almeno Clemente Mastella e Marco Follini, fino a Sandro Bondi e Denis Verdini, adesso tocca a Monica Faenzi e Giuseppe Galati, di cui il lettore probabilmente non conosce le biografie a memoria.
E però è un andirivieni talmente massiccio che il centrodestra ormai si divide in alfaniani, verdiniani, fittiani, berlusconiani, salviniani, meloniani, e la geografia parlamentare pare quella dell’Jugoslavia dopo la dissoluzione.
Da inizio legislatura, Forza Italia ha perso fra isterie istantanee oltre trenta deputati e quasi quaranta senatori, e allora, davanti alle cedevolezze del senatore Peppe Ruvolo («Ribadisco la mia lealtà alla linea del presidente Berlusconi e diffido chicchessia dall’utilizzare impropriamente il mio nome», settembre 2013; «la linea politica intrapresa da Forza Italia mira a rincorrere i populismi», settembre 2015) fioriscono interviste a Domenico Scilipoti e Antonio Razzi, incaricati di ridefinire i confini dell’etica politica.
Che effettivamente sono piuttosto elastici.
Giovanni Mottola, già vicedirettore del Giornale, a inizio anno indirizzava un consiglio e un po’ di disprezzo al solito Fitto («Se crede che il leader di Forza Italia sta sbagliando perchè non va a fondarsi il suo partitino?»).
Ora Mottola il consiglio l’ha fatto suo, e quantomeno rimane nella parte che vuole le riforme. Altrove si trovano motivazioni più friabili: il senatore Francesco Amoruso è passato con Verdini perchè «Berlusconi non mi ha difeso» in una periferica polemica fra capoccia forzisti pugliesi. Del resto Forza Italia è il partito in cui si giustifica il passaggio dal sì al no alla fine del bicameralismo, cioè alla più importante riforma degli ultimi settant’anni, perchè «Renzi ci ha fregato nell’elezione del capo dello Stato» (Maurizio Gasparri, ancora pochi giorni fa).
E certi terzini presto o tardi finiscono in tribuna.
Mattia Feltri
(da “La Stampa”)
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