Settembre 28th, 2015 Riccardo Fucile
COMPIE 79 ANNI, SOPPORTA TUTTI MA NON MOLLA A NESSUNO IL RUOLO DA LEADER
Al cinquantesimo minuto del discorso di domenica, sul Lago di Garda, con annesse gag, battute e applausi, il suo collaboratore Andrea Ruggeri sorride, con qualche collega: “Questo è Berlusconi. Qualcuno si ricorda quanti anni ha Mick Jagger? Le rock star non hanno età , nel senso che uno mica sa quanti anni ha Jagger, ma va ai suoi concerti”.
29 settembre, 79 primavere (a proposito, auguri!) probabilmente Silvio Berlusconi è il primo a sapere che (forse) non riuscirà a eguagliare il record di Fanfani, che a quell’età tornò a palazzo Chigi, sia pur per poco.
E il sogno più grande, il Quirinale, è svanito da tempo, col paradosso (dal suo punto di vista) che il luogo del sogno è stato per anni (con Napolitano) la centrale operativa dell’incubo.
Però Berlusconi, nell’indole, nel carattere, nella concezione della vita, non si può leggere solo così, raccontando con realismo i sogni tramontati.
A Daniela Santanchè, una a cui l’uomo forte piace, durante il discorso squilla il telefono: “Che dice il presidente? Di fatto sta dicendo io so’ io e voi non siete un cazzo”.
Ecco, un po’ Jagger, un po’ Marchese del Grillo, un po’ “icona pop” come lo definì Giuliano Ferrara ai bei tempi, Silvio Berlusconi non ha alcuna intenzione di lasciare ad altri le chiavi di casa, neanche con 79 primavere, un partito allo sfascio, parlamentari in fuga e un leader di quarant’anni contro.
Un dettaglio la dice lunga. Nella sua psicologia la dieta ha sempre scandito il timing delle sue ridiscese in campo e dei tempi di sovraesposizione mediatica, dopo i lunghi mesi di inabissamento che coincidono con l’assalto ai dolci.
Dopo Monti ne perse otto di chili, ora ne ha persi 12, segno che è pronto ad essere presente. Anche se, sul quanto, il dibattito è aperto, con gli avvocati che sconsigliano uscite pubbliche perchè — si sa — all’uomo la frizione sui giudici slitta spesso, ma col partito che lo invoca “sennò siamo morti” e “non resta nulla di quello che hai creato”. Le ultime informazioni arrivate ai legali dicono che il verdetto della Corte di Strasburgo, atteso per ottobre, slitta al prossimo anno ed è complicato passare i prossimi mesi nel silenzio più assoluto.
C’è, nel concedersi di Berlusconi, un misto di generosità e perfidia: la generosità di un combattente che, in fondo, pensa che se ancora c’è una chance se la vuole giocare in prima persona.
La perfidia propria di chi, in casa propria, nel dire “io so io” spiega così quanto pensa che valgano gli altri. Come accadde ad Alfano di finire spiaggiato, è accaduto anche a Giovanni Toti la cui spiaggia coincide con quella di Genova o La Spezia.
E accade agli alleati che, come in una maledizione, ogni volta che nominano il “dopo Berlusconi” se lo ritrovano lì, ingombrante a dispetto dei sondaggi.
Come la Meloni, che dopo averlo definito il “passato” lo ha invitato ad Atreju.
O come Salvini che in settimana andrà ad Arcore a parlare di amministrative.
Dice Mariastella Gelmini: “Berlusconi ha dimostrato che è ancora alla guida del suo popolo, di Forza Italia e del centrodestra. E non si sottrae in una stagione difficile. È in campo e il suo apporto è fondamentale. A chi dice che Berlusconi è il passato, dico che resta l’elemento fondativo di un centrodestra che si deve rinnovare e guardare al quel 50 per cento di italiani che non votano”.
Nè l’ex premier appare turbato da sentimenti o risentimenti nei confronti di Verdini. E non solo perchè la Ghisleri, nei suoi report ha sentenziato che “più si avvicina a Renzi più al Pd aumenta l’emorragia a sinistra”.
C’è qualcosa di più laico nell’assenza di lacrime, che attiene alla profonda conoscenza di come si fa a usare la politica per difendere i propri interessi.
Parlando di Verdini coi suoi, Berlusconi ha detto: “Finchè aveva bisogno di soldi stava con me, ora che ha paura della procura di Firenze sul processo per bancarotta si mette all’ombra del governo”.
Si è molto fantasticato sull’accordo “segreto” e sulla separazione consensuale tra Verdini e Berlusconi, col primo garante di un Nazareno sottobanco e il secondo che fa una finta opposizione.
La verità , raccontano, è che di consensuale c’è una reciproca convenienza al silenzio perchè, come dice Verdini, “ne abbiamo fatti tanti di omicidi assieme”.
Meglio, dunque, non parlare. Ma evidentemente l’accordo finisce qui se, ragionando dei nuovi responsabili al Senato, l’ex premier li chiama “mercenari”, in vendita al potente di turno. Come a dire che se avesse ancora voglia di “spendere”, saprebbe bene come non regalare parlamentari a Renzi.
Insomma, a dispetto dell’assenza, degli acciacchi, dei guai, delle sentenze, Berlusconi è ancora lì, che non molla: “Dobbiamo prepararci perchè secondo me Renzi vuole andare a votare nel 2017. Abbiamo due anni per ricostruire il centrodestra”.
Alla base della previsione, scandita con una certa sicurezza, c’è un’analisi attenta della mosse del premier che “non è concentrato sul governo, ma va molto in televisione, come se fosse in campagna elettorale”.
Gli ascolti, analizzati anche quelli, dicono che però non tira più come un anno fa e soprattutto non tirano i “suoi”.
E chissà , si domandano i maliziosi berlusconiani, se dietro le intemerate sui talk non ci sia anche questo.
Ma anche la tv dice, come i sondaggi e come i dati sull’astensionismo delle ultime elezioni, che il paese è intriso di rifiuto della politica più che innamorato dell’attuale inquilino di palazzo Chigi.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 28th, 2015 Riccardo Fucile
SENZA IMMIGRATI SAREMMO UN POPOLO IN VIA DI ESTINZIONE… ECCO TUTTI I DATI DI UNA RIVOLUZIONE IN CORSO
Per vent’anni abbiamo pensato che gli immigrati fossero utili al nostro sistema produttivo. E invece ci siamo sbagliati. Sono indispensabili.
Senza di loro, tempo che i bambini di oggi finiranno l’università , noi italiani potremo esserci ridotti a 55 milioni, ben il 10 per cento in meno.
Altri vent’anni e saremo solo 45 milioni, più o meno come alla fine della Seconda guerra mondiale. Una decimazione.
I demografici, gli statistici e perfino i burocrati lo sanno da almeno un decennio.
Noi lo stiamo scoprendo in questi giorni, complice la questione migratoria: l’Italia come la definivano i nostri padri è in via di estinzione. Il compito di salvarla spetterà ai nuovi arrivati, provenienti sempre meno dall’est Europa e sempre più dal continente africano. Dati e statistiche alla mano e scopriamo perchè.
MENO FIGLI DA MEZZO SECOLO
Innanzitutto siamo la nazione più vecchia d’Europa. Gli ultra 65enni sono oggi il 22 per cento della popolazione e, senza l’iniezione di giovani immigrati, sfiorerebbero il 40 per cento tra trent’anni anzichè fermarsi a un più sostenibile 30 per cento (un numero comunque enorme: erano l’8 per cento al tempo delle Olimpiadi di Roma, nel 1960).
Ad aumentare velocemente il numero dei bastoni nei bar non è soltanto il progressivo allungamento della vita ma anche la nostra crescente infertilità .
Con una media di 1,39 figli per donna, siamo oggi ben al di sotto dei due figli per madre necessari a mantenere costante il livello della popolazione.
E pensare che riempivamo quasi due culle e mezzo ancora quarant’anni fa.
La riduzione della natalità non è infatti un fenomeno di oggi ma una tendenza in atto dalla metà degli anni Sessanta. Alla fine degli anni Ottanta, di conseguenza, si era ridotto il numero di donne in età fertile. E negli anni Novanta morivano già più italiani di quanti non ne nascessero.
Allora perchè sono due decadi che stentiamo a integrare coloro senza i quali non avremmo un settore edile e a fatica un’industria manufatturiera?
Perchè non abbiamo messo sotto accusa l’assenza di un sistema strutturato di accoglienza selettiva ma legale dei migranti invece di subire per anni la retorica politica delle “sanatorie” che faceva sembrare temporanea una questione che è invece strutturale?
E perchè non abbiamo obbligato la politica a coniare una struttura di aiuto alla famiglia, senza cui la maternità multipla diventa sacrificio, anzichè fingere che bastasse la rete familiare, di fatto costringendo le donne a non fare figli per poter lavorare?
Forse perchè «l’immigrazione obbliga gli Stati a pensare alla propria identità », sottolinea il demografo Giampiero della Zuanna.
Un esercizio mai facile, ancor meno quando è più semplice trovare un capro espiatorio che educare un popolo conservatore come il nostro all’inevitabilità del suo futuro: quello di nazione multietnica all’interno di un continente multietnico.
Il rapido invecchiamento della popolazione e il drastico crollo delle nascite sono andati di pari passo con l’aumento del tasso di globalizzazione dell’economia.
Per anni merci e capitali si sono mossi velocemente alla ricerca di opportunità .
Adesso, e sempre di più, lo stanno facendo anche le persone che si dirigono dove sperano di trovare migliori chance di vita. Inevitabile che tra quarant’anni la prospera Europa sarà culturalmente, religiosamente e linguisticamente più variegata degli Stati Uniti.
La Germania, demograficamente a noi simile e addirittura infeconda più di noi, l’ha capito un po’ prima.
Vero è che nel ’93, sotto le crescenti spinte xenofobe, Berlino aveva addirittura cambiato un articolo della Costituzione per limitare l’accesso all’asilo politico, ma intanto stampa e politica lavoravano sottotraccia per spiegare l’utilità sociale ed economica dei nuovi arrivi.
Tanto che nel 1999 il governo varò le leggi che garantivano il diritto di cittadinanza a tutti i nati sul suo territorio (ius soli) e oggi può accogliere 800 mila profughi siriani senza scatenare rivolte interne.
L’UNICA STRADA PER EVITARE IL DECLINO
Con il marcato calo demografico il pericolo immediato non è tanto la sparizione dell’Italia quanto un suo impoverimento economico causato sia dalla mancanza di manodopera sia dai sempre più elevati costi di mantenimento della popolazione anziana. I demografi lo chiamano tasso di dipendenza (degli anziani dalla popolazione in età lavorativa).
Rende un’idea di quanti cittadini attivi si fanno carico dei più vecchi.
Se oggi noi italiani abbiamo tre cittadini in età da lavoro per ogni over 65, tra vent’anni finiremo per averne solo due.
Un bel problema: non solo la nostra ricchezza lorda (Pil) subirà una sforbiciata dello 0,2 per cento ma, a dispetto di qualsiasi manovra e di qualunque sciopero, finiremo per non avere abbastanza lavoratori che possano pagare pur magre pensioni ai nostri figli.
La soluzione, anche se solo per un altro mezzo secolo, avvertono i demografi, l’abbiamo tutti i giorni davanti ai nostri occhi: si chiama Nicolau, Ahmed, Peace.
Sono loro che nel 2013 hanno contribuito per il 95 per cento alla crescita della popolazione a fronte di un misero 5 per cento fornito dalle nuove nascite.
Si tratta di un dato a cui ci dobbiamo abituare perchè saranno gli immigrati a contribuire alla crescita del popolo italiano in misura sempre più rilevante per i prossimi vent’anni.
I dati Eurostat indicano che l’Italia “importerà ” tra le 300 e le 400 mila persone l’anno almeno fino al 2040.
Saranno anni in cui il numero dei cittadini stranieri o di origine straniera salirà dall’attuale 8,3 per cento a poco meno di un terzo dell’intera popolazione italiana.
Sarà straniero o di origine straniera un ragazzino italiano su due e un cittadino con meno di 40 anni su tre.
Oggi una classe elementare composta soltanto da bambini di origine straniera fa notizia: domani sarà quasi la normalità .
Grazie a questa trasformazione demografica di dimensioni epocali, tra quarant’anni noi italiani potremmo ritrovarci a quota 66 milioni anzichè scendere a 45 milioni (dagli attuali 61) come rischieremmo se sigillassimo i confini.
Si tratta di milioni di cittadini in più che, se debitamente integrati, ci aiuteranno a tenere in vita la nostra macchina produttiva e a permettere ai vecchi di non morire in fabbrica.
Il tasso di attività degli immigrati rispetto ai locali è infatti particolarmente positivo in Italia, anche rispetto alla media europea.
A stare ai dati della Fondazione Leone Moressa, il 72 per cento degli immigrati extra Ue ha un lavoro remunerato a fronte a solo il 67 per cento degli autoctoni. Un dato che ha tenuto anche durante gli anni di crisi.
Troppo vecchi per prendere la pensione
Il demografo Antonio Golini lancia l’allarme sull’insostenibilità dell’istituto di previdenza, inventato da Bismarck nell’Ottocento. Occorre allora una riforma. E magari anche un sistema di volontariato obbligatorio
La spiegazione è abbastanza semplice: la maggioranza dell’occupazione che il nostro Paese offre è qualitativamente povera e a basso grado di scolarizzazione.
Gli italiani preferiscono aspettare piuttosto che accettare un’occupazione non in linea con le proprie caratteristiche professionali.
I più preparati lasciano l’Italia e si dirigono verso Paesi, come l’Inghilterra, che offrono opportunità di impiego più sofisticate o stipendi maggiori: a prendere un aereo sono stati 45 mila italiani nel 2013 e 91 mila l’anno scorso.
Al contrario, chi ha rischiato la vita in mare con pochi soldi e un bambino tra le braccia per sfuggire a un destino di guerra o estrema povertà non si ferma di fronte a una remunerazione insufficiente o a un lavoro faticoso.
Nei settori industrialmente in declino o privi di prospettive di carriera gli immigrati sono infatti uno su tre, a differenza che nei settori lavorativi ad alto tasso di sviluppo dove sono soltanto uno su sette.
Certo, rimane il problema della qualità scolastica e professionale degli immigrati che scelgono l’Italia come destinazione.
È mediamente inferiore a quella di chi si dirige verso il resto d’Europa (con l’eccezione della Grecia), elemento che alla lunga potrebbe avere riflessi sulla nostra competitività . Il problema però non sta tanto negli immigrati quanto negli italiani.
Il nostro Paese ha la più bassa incidenza di laureati dei paesi dell’Unione: meno del 15 per cento rispetto a una media del 25 per cento, sintomo di un’economia poco fondata su scienza e innovazione e di una classe dirigente non adeguatamente preparata.
E siccome tra simili ci si sceglie, ecco che solo il 9,5 per cento degli immigrati in Italia ha una laurea: a fronte, ad esempio, del 48 per cento di chi si stabilisce in Inghilterra o del 20 per cento di chi sceglie la Germania come nuova patria
CHE INVIDIA PER IL WELFARE FRANCESE
L’Italia non è un’eccezione in Europa. A differenza degli Stati Uniti, l’intero Continente è sulla strada del tramonto demografico.
A metà degli anni Sessanta ha cominciato a fare meno figli e a farli sempre più tardi.
Nel 2013 l’età media era 30 anni e il numero di figli, complici le difficoltà economiche che hanno messo in crisi la piccola ripresina demografica dei primi anni Duemila, si aggirava intorno ad uno e mezzo per donna.
«Perfino il termine con cui si descrive l’assenza di figli è cambiato in questi anni: child-free e non più child-less», sottolinea Golini: «Quasi a giustificare l’assenza di neonati nelle famiglie come un fattore di modernità e non un problema come invece è».
All’interno del Vecchio Continente però ci sono delle differenze importanti che dovrebbero fare riflettere chi si accinge ad elaborare la politica dei prossimi anni.
Mentre dei cinque paesi più popolati, Italia e Germania sono quelli con un tasso di natalità altamente negativo e dunque hanno disperato bisogno di immigrati (per la Spagna il problema si porrà con almeno una decade di ritardo ma in termini altrettanto drastici), Francia e Inghilterra sono demograficamente autosufficienti.
In Inghilterra sono trent’anni che la differenza tra numero di immigrati e di emigrati è positiva. In Francia – caso unico tra i paesi sviluppati – il tasso di natalità è rimasto costante nei 40 anni passati.
Oggi, con una quota di cittadini stranieri del dieci per cento, soltanto un punto e mezzo percentuale più di noi, la Francia non ha bisogno di nuovi arrivi. Non è un caso.
Dal Dopoguerra in poi l’Esagono ha puntato sul consumo interno e non sulle esportazioni (come Italia e Germania) per la crescita della propria economia, e ha fatto in modo che i consumatori non venissero meno. Ben il 4 per cento del suo Pil va annualmente in aiuti alle famiglie sotto forma di trasferimenti monetari e generosi programmi di welfare per tutti i bambini con meno di tre anni. Risultato: le donne francesi sono le più prolifiche del Vecchio Continente.
UN MILIARDO DI AFRICANI IN PIÙ
L’attuale fabbisogno di immigrati non durerà per sempre.
Tra circa venti o trent’anni comincerà ad attenuarsi. «Gli immigrati per quanto giovani non sono dei neonati e anche loro invecchiano», sorride Elena Ambrosetti, demografa dell’Università La sapienza di Roma: «Si arriverà a un punto in cui, immigrati o no, il numero degli italiani diminuirà comunque. Senza contare che una società non riesce a integrare un numero eccessivo di nuovi arrivati». Soprattutto se culturalmente non omogenei.
Fino ad oggi i nostri immigrati provenivano soprattutto dai paesi dell’Est Europa (rumeni in testa) e dal Nord Africa (soprattutto marocchini).
Le ondate immigratorie dei prossimi decenni – al netto degli imprevisti della Storia come la guerra siriana – saranno soprattutto di matrice subsahariana e numericamente più rilevanti che in passato. Per rendersene conto basta guardare all’enorme delta demografico che separa l’Europa e dall’Africa.
Il Continente Nero avrà entro il 2050 circa un miliardo di persone in più a fronte di un’Europa che rischia di perdere il 16 per cento della sua popolazione.
Oggi i giovani tra i 25 e i 29 anni – la classe di emigranti per definizione – sono 51 milioni in Europa e 95 in Africa.
Tra solo vent’anni saranno 41,12 milioni in Europa e ben 151 milioni in Africa; fra trent’anni 40,9 milioni in Europa e 186 in Africa.
Il loro sbocco naturale, soprattutto se l’Africa non avrà compiuto il tanto atteso balzo in avanti in termini economici, saranno le sponde del Mediterraneo.
«Si tratta di cifre folli di adulti con bambini», avvertono i demografi, praticamente in coro: «È ora di pensare a che tipo di società si vuole e cominciare a prendere provvedimenti per tempo».
D’altronde sono dieci anni che la Commissione europea, a fronte dell’invecchiamento progressivo del Continente e dei sempre maggiori flussi migratori da cui è investito, ribadisce alcune indicazioni di base: primo, una profonda riforma del sistema pensionistico volta a garantire l’equità intergenerazionale; secondo, un massiccio investimento degli Stati membri in un sistema efficiente di accoglienza e integrazione dei migranti; terzo, politiche fiscali volte a conciliare la vita professionale e privata delle famiglie così da rinverdire il tasso di fertilità nazionale.
Il mix tra queste tre diverse politiche darà vita alle società di domani.
Occuparsene subito significa presentarsi preparati all’appuntamento con il proprio futuro. Per non restarne travolti.
Federica Bianchi
(da “L’Espresso”)
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Settembre 28th, 2015 Riccardo Fucile
COSI’ TASSE E PASTICCI FRENANO LA CONCORRENZA
Le liberalizzazioni hanno funzionato per i cellulari e i collegamenti internet.
Dove l’apertura alla concorrenza non ha raggiunto il suo scopo, se non in misura poco incisiva per le tasche delle famiglie, è il mercato dell’energia elettrica.
Dove l’ex monopolista continua ad avere un peso preponderante su tutti gli altri e non c’è mai stata una vera guerra di offerte grazie alle quali un consumatore attento avrebbe potuto trarre benefici e risparmi.
Detto in altri termini: il mercato è stato completamente liberalizzato nel 2003, ma non esiste una vera concorrenza.
In pratica, sia le famiglie che le partite Iva e le Pmi (così come era accaduto in precedenza per la grande e media industria) possono scegliere liberamente con quale gestore sottoscrivere il contratto di fornitura dell’elettricità .
Ma questo non si è tradotto in una diminuzione delle bollette. Le quali rimangono, per buona parte delle famiglie, tra le più alte dell’Unione Europea.
Basta leggere le tabelle pubblicate nella relazione annuale dell’Autorità per l’energia. Soltanto chi consuma meno di 2500 kilowattora all’anno può vantare prezzi medi leggermente inferiori della media Ue.
Per tutte le altre fasce di consumo superiori, gli utenti pagano quasi il doppio della media degli altri stati membri.
Questo vale per le famiglie, partite Iva e piccole imprese per lo più artigianali. Ma non per l’industria.
Quest’ultima può acquistare energia all’ingrosso, mettendo in concorrenza i maggiori fornitori. Oltre a godere di incentivi (pagati in bolletta da tutti gli utenti) destinati ai settori cosiddetti energivori, cioè i grandi consumatori di elettricità .
Ma perchè non ha funzionato la concorrenza? E perchè non sono scese le bollette? Una parte della risposta la si trova nella bolletta stessa, mettendone in fila le varie voci di cui è composta.
Il costo effettivo dell’energia è pari al 43 per cento della somma che esce effettivamente dal portafoglio del consumatore.
Per la parte rimanente, il 13,5 per cento è composto dalle tasse e dall’Iva, il 19,3 per cento va ai servizi per la gestione della rete e il 25 per cento circa per quelli che vengono definiti “oneri generali di sistema”.
Tutte queste cifre significano sostanzialmente due cose.
La prima è che gli operatori possono farsi concorrenza solo su una parte della bolletta, circà la metà relativa al costo dell’energia.
L’altra metà – ed è il secondo elemento – se na va in costi fissi determinati per legge (e regolamentati dall’Autorità ) come sostegno al “sistema”.
Non per nulla vengono definiti “oneri impropri”.
In pratica, paghiamo per altri: il grosso di questi incentivi è destinato alle rinnovabili (84% del totale), per la dismissioni delle centrali nucleari e relative scorie (7,5%), per gli energivori (4,6%), per la promozione dell’efficenza (1,6%), per le tariffe agevolate delle Ferrovie (1,4%).
Il secondo elemento che ostacola la concorrenza è la dipendenza dell’Italia dalle forniture di gas dall’estero, essendo la produzione nazionale sufficiente a soddisfare non più del 10 per cento del fabbisogno.
Fino a due anni fa, i due terzi dell’energia veniva prodotta dalle centrali alimentata a gas.
Ma l’aumento della produzione da rinnovabile e il crollo del prezzo del gas hanno rivoluzionato il mercato, al punto che il governo Monti ha imposto all’Authority di rivedere il prezzo dell’energia per il “mercato tutelato”, adeguandosi ai cambiamenti in atto. Il che ha permesso, nel corso del 2015, di far scendere, in piccola parte, le bollette.
“Mercato tutelato” è l’ultimo elemento che spiega perchè la concorrenza fino a oggi non è mai decollata.
Il termine significa che gli utenti hanno dal 2003 la possibilità di passare al mercato libero scegliendo una offerta migliore (se la trovano) ma non l’obbligo.
Quest’ultimo scatterà solo dal 2018. Per cui solo un utente su quattro ha deciso di fare il “salto”: una base troppo ristretta per una vera concorrenza di prezzo.
I consumatori: “Con il mercato libero spese più alte del 20%”
Da tempo gli operatori fanno pressione per abolire il mercato di tutela, dove il prezzo della componente energia è fissata trimestralmente dalla’Autorità in una sorta di prezzo calmierato. In modo da aumentare la platea degli utenti.
Fino a ora si è opposta proprio la Autorità , che ancora in un recente documento ha dimostrato come i prezzi del mercato tutelato sono mediamente più convenienti del mercato libero.
E come i consumatori non siano ancora pronti ad affrontare un mercato completamente liberalizzato. In sostanza, un circolo vizioso da cui si uscirà soltanto fra due anni.
(da “La Repubblica”)
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Settembre 28th, 2015 Riccardo Fucile
RENZI AVEVA GARANTITO: “TUTTA A SPESE DEI PRIVATI”… ORA DELRIO SCOPRE CHE DOVRA’ PAGARE TUTTE LE PERDITE
Il 23 luglio 2014, Matteo Renzi inaugurò la nuova autostrada Brebemi, “tutta finanziata dai privati, senza oneri per lo Stato”.
Fu il premier a prendere in giro gli italiani o la banda della Brebemi a prendere in giro lui?
Se l’onnisciente di Rignano avesse chiesto in giro, avrebbe potuto rivelare agli esausti contribuenti che, dei 2,4 miliardi che costerà la Brescia-Bergamo-Milano, almeno 1,7 li pagheranno loro.
Grazie al consolidato imbroglio detto project financing, i mitici privati hanno già presentato il conto e il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio può solo tentare di limitare i danni.
Lo scontro vero sarà con il numero uno di Autostrade per l’Italia, Giovanni Castellucci, che non vuol concedere alla Brebemi l’allaccio con la sua A4, l’altra Brescia-Milano: ha un traffico cinque volte superiore alla concorrente parallela e non vuole cederle profitti.
La Brebemi comincia a 20 chilometri da Milano e finisce a 18 chilometri da Brescia, perciò tende a restare deserta.
Nei 5 mesi di esercizio del 2014 ha incassato pedaggi per 11 milioni e pagato interessi alle banche per 101.
Nel 2015 il traffico è raddoppiato, ha detto Brebemi, anche se Dario Balotta di Legambiente Lombardia ha rivelato che non c’è nessuna crescita.
Comunque, anche concedendo a fine anno ricavi per 60 milioni e costi per 30, con un margine di 30 milioni all’anno quando li ripagano i 2,4 miliardi? Mai.
Infatti già prima dell’inaugurazione hanno battuto cassa. Il presidente della Brebemi Francesco Bettoni era stato chiaro: “Se lo Stato non ci aiuta noi gli lasciamo l’autostrada e ci deve dare 2,4 miliardi”.
Già , è proprio scritto così sui contratti. Il 6 agosto scorso il Cipe, cioè il governo, ha ceduto.
Delrio tamponerà l’emorragia dell’autostrada senza traffico con 260 milioni da pagare in rate annuali da 20 milioni, la Regione Lombardia ci metterà altri 60 milioni, in più la concessione viene allungata di sei anni, a 25 anni e mezzo.
In più il ministro deve convincere Castellucci ad accettare l’innesto diretto della Brebemi sulla A4 a Brescia.
Autostrade per l’Italia può opporsi e lo farà . Il governo sta pensando a una legge (in sè sacrosanta) per imporre l’interesse generale di interconnettere le autostrade. Lo scontro è singolare.
Da una parte un privato difende il suo business.
Dall’altra Delrio difende il business di un altro privato visto che, se Brebemi va male, tocca allo Stato pagare.
La società Brebemi ha vinto la gara nel 2003, quando il suo principale azionista era proprio Autostrade per l’Italia. Il costo totale previsto era 800 milioni.
Poi accade di tutto, sul modello della Metro C di Roma.
Nelle varie procedure autorizzative il ceto politico pretende le famigerate opere compensative e altri adeguamenti. Il privato dice sì a tutto per poter poi dire “è la politica che ha fatto saltare i conti”.
Nel frattempo Autostrade per l’Italia ha passato l’affare a Intesa Sanpaolo, che nel 2007 era in preda all’estasi cementizia di Corrado Passera e del suo braccio destro Mario Ciaccia.
E la convenzione tra lo Stato e Brebemi è stata riscritta completamente, introducendo nuove clausole che garantissero la famosa “bancabilità ”.
Esempio: se i conti non tornano sarà lo Stato pagare.
Oppure: la remunerazione del capitale privato passa dal 3,59 per cento all’anno del bando di gara all’8,90. E soprattutto: a fine concessione il privato avrà diritto a 1,2 miliardi per il cosiddetto subentro.
La Brebemi è costata alla fine 1,6 miliardi ai quali andranno aggiunti 800 milioni di interessi alle banche. Dei 2,4 miliardi totali il privato che faceva tutto con soldi suoi e con i pedaggi avrà indietro dallo Stato, sull’unghia, la metà .
Tutto questo fu denunciato dal senatore Paolo Brutti il 4 luglio 2007, quando la commissione Lavori pubblici di Palazzo Madama dette parere negativo sulla nuova convenzione.
Di Pietro reagì con una tirata demagogica da vero leghista: “Brutti vada a spiegare perchè l’autostrada non si può fare ai lavoratori che ogni mattina si muovono dalle valli del Bergamasco e del Bresciano per andare a lavorare a Milano”.
Sapevano tutto ma tutti d’accordo (destra, sinistra, centro, leghisti, quirinalisti, burocrati, pubblici e privati) sono andati avanti.
Conto finale. Su 2,4 miliardi di costo dell’autostrada i contribuenti dovranno mettercene 1,7: 1,2 miliardi di penale di subentro, 320 milioni appena deliberati dal Cipe, più il valore dell’allungamento della concessione di sei anni, almeno 200 milioni.
Nella migliore delle ipotesi i privati ripagheranno un terzo dell’opera, 800 milioni.
I soldi dei contribuenti, 1,7 miliardi, saranno equamente divisi tra le banche (800 milioni di interessi) e gli azionisti Brebemi (800 milioni di giusto profitto).
Nel frattempo Bettoni, storico leader della Confagricoltura lombarda, ha espropriato ai colleghi un migliaio di ettari di terreno agricolo al cosiddetto prezzo di mercato (cioè a trattativa privata): 200 mila euro all’ettaro.
Intesa Sanpaolo, prima azionista della Brebemi, ha finanziato la Brebemi. Con Unicredit, Montepaschi, Centrobanca e Credito Bergamasco ha preso 600 milioni dalla Bei (banca europea pubblica) al 2 per cento per girarli alla Brebemi al 7 per cento.
Uno spread di 30 milioni all’anno per vent’anni su un’opera senza rischi, visto che pagherà tutto lo Stato.
Adesso che l’affare è fatto Intesa vuole uscire dall’attività “non strategica”, come ha confermato il presidente del consiglio di gestione Gian Maria Gros-Pietro, che però è anche presidente della Astm, holding del gruppo Gavio, secondo azionista della Brebemi. Gros-Pietro è la vera scatola nera della Brebemi.
Nel 1999 era presidente dell’Iri che privatizzò Autostrade facendo un gran regalo ai Benetton, che poi lo chiamarono alla presidenza della società da lui privatizzata giusto in tempo per vincere la gara per la Brebemi. Nel 2007 come presidente Autostrade firmò la cessione di Brebemi a Intesa Sanpaolo.
Adesso come presidente di Intesa Sanpaolo dice che è ora di squagliarsela. E questi sono i mitici privati che secondo Renzi salveranno l’Italia da burocrati e sindacalisti.
Giorgio Meletti
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 28th, 2015 Riccardo Fucile
GLI HANNO SPARATO MENTRE FACEVA JOGGING
I killer che arrivano in moto. E gli sparano a colpi di pistola. Con il silenziatore. Un’esecuzione a sangue freddo.
«Abbiamo ucciso un crociato», si legge nella «rivendicazione» dei terroristi di Isis che, sul Web, hanno diffuso un comunicato-proclama in cui si attribuiscono l’uccisione del cooperante italiano Cesare Tavella, 50 anni, veterinario, ucciso a colpi di arma da fuoco a Dacca, capitale del Bangladesh, nel quartiere diplomatico.
La vittima è stata colpita mentre faceva jogging. A riferire la notizia della «rivendicazione» firmata dallo Stato Islamico è stata, via Twitter, Rita Katz, direttrice del Site Intelligence Group.
La dinamica dell’agguato
Tavella, secondo la polizia (che parla di «attacco premeditato»), era in tenuta da jogging quando è stato raggiunto per strada dal commando armato verso le 19. Testimoni hanno raccontato ai media locali di aver sentito almeno tre spari, che hanno ferito l’uomo all’addome, alla mano destra e al gomito sinistro.
Gli uomini armati hanno quindi lasciato l’italiano «in una pozza di sangue» e sono poi riusciti a scappare.
Alcuni passanti hanno quindi caricato il corpo per portarlo agli «United Hospitals» dove Tavella, secondo una fonte ospedaliera, è arrivato già morto «con numerose ferite da arma da fuoco».
La polizia ha subito escluso l’ipotesi della rapina finita male, visto che la vittima aveva ancora con sè tutti i suoi effetti personali.
La rivendicazione Isis: «Ucciso un crociato»
È dai terroristi del Califfato che si apprende qualcosa in più della dinamica dell’assassinio.
Questo il testo della rivendicazione che compare in alcuni account ufficiali twitter dell’Isis. «In un’operazione di alto livello eseguita dai soldati del Califfato del Bangladesh, un’unita di sicurezza ha colpito il crociato Tavella Cesar dopo averlo inseguito in una delle vie di Dacca ed è stato ucciso con una pistola con il silenziatore per la volontà di Dio. Avvisiamo i cittadini dell’alleanza crociata che non avranno nessuna sicurezza nella casa dell’Islam e che questo è solo l’inizio». (Le parole erano scritte in arabo e tradotte, ndr).
L’allarme dal Foreign Office
Proprio oggi (lunedì) il Foreign Office britannico aveva messo in guardia i propri connazionali dalla minaccia terroristica nel Paese del sudest asiatico, riferendo in particolare di «informazioni affidabili» secondo cui «militanti potrebbero pianificare di colpire interessi occidentali in Bangladesh». Solo domenica la squadra australiana di cricket aveva rinviato la propria partenza per un tour nel Paese nel timore di attacchi mirati.
Tavella, il sogno del podere in Romagna
Il quartiere dove Tavella è stato colpito è una zona residenziale dove si trovano sedi diplomatiche, ristoranti e negozi. A Dacca il cooperante italiano faceva il veterinario. E insegnava agronomia.
Come in altro posti del mondo in cui era stato. Africa, Yemen. Viveva a Casola Valsenio, nel Ravennate, con la famiglia, moglie e figlia: vi si era stabilito una quindicina di anni fa, arrivando dal Piemonte, regione dalla quale proveniva.
Sognava di coltivare la terra, un podere che aveva acquistato assieme a un casolare da risistemare. Mutuo da pagare. E decisione di tornare a girare il mondo, nei paesi più poveri, dove era già stato anni prima, sempre da cooperante.
Tavella era il project manager di un programma quadriennale di aiuti alimentari denominato Proofs.
Gli accertamenti degli 007 italiani
Sull’uccisione l’intelligence italiana è al lavoro per raccogliere tutti gli elementi utili. Nel Paese, riflettono fonti dei servizi, c’è una considerevole presenza islamista e le modalità dell’uccisione sembrano indicare che l’obiettivo fosse proprio Tavella. Difficile, tuttavia, in queste prime ore riuscire a capire se l’italiano fosse nel mirino in quanto cooperante di una ong occidentale o per altri motivi.
La rivendicazione apparsa su Site è oggetto di un attento monitoraggio e sono stati attivati canali per confrontarsi con i servizi collegati nel Bangladesh, in modo da avere elementi più certi su quanto accaduto.
C’è anche il cordoglio espresso dal governo italiano per bocca del ministro degli esteri Paolo Gentiloni. «Stiamo lavorando per verificare la rivendicazione di Daesh», ha detto Gentiloni.
(da “Il Corriere della Sera”)
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Settembre 28th, 2015 Riccardo Fucile
MENTRE FORZA ITALIA CROLLA, LEI SI AGGANCIA ALLA LEGA
Mentre Forza Italia crolla, lei sembra quasi ringiovanire.
Il crepuscolo non la spettina: e del resto è sopravvissuta ad An e ai suoi colonnelli “palle di velluto”, alla Destra di Storace, e pure alla rottura con Berlusconi. Adesso si fa largo tessendo le maglie con “gli amici della Lega”: anche dare delle “bestie” ai pellegrini de La Mecca fa parte del progetto
L’ultima uscita è quella a commento della strage di fedeli a La Mecca, quando ha collocato le centinaia di pellegrini schiacciati dalla folla un gradino sotto le bestie. “Nemmeno le bestie”, per la precisione, frase che è andata ad arricchire il mucchio delle sue dichiarazioni-scandalo, in questa fase particolarmente vive sul fronte caro anche ai leghisti.
Perchè figurarsi Daniela Santanchè non è una che scambi la politica con un pranzo di gala, per quanto ai pranzi di gala e affini sappia come stare meglio dei tre quarti del Parlamento, e in mezzo ai ricconi sappia starci da ricca salvo poi chiarire seccata che “gli italiani hanno fame, sono senza lavoro e pagano una montagna di tasse: di tutto questo ginepraio di discussioni inutili sul ddl riforme al Paese non importa nulla”.
C’è da dire in effetti che il suo uso del linguaggio in politica è l’esatto opposto del suo uso di mondo.
E cambiando negli anni personaggio ed estetica e partiti, ma i non connotati di fondo che anzi col tempo vengono sempre più in chiaro, la sua capacità di restare in gioco è – arrivati a questo punto della storia del centrodestra berlusconiano – un dato significativo, che fa di lei una pitonessa sì, ma d’acciaio. Da tenere d’occhio, nel mentre che il resto le crolla intorno e lei invece sembra quasi ringiovanire.
Non pare in effetti che il crepuscolo del berlusconismo la spettini.
Ai terremoti è abituata. E’ sopravvissuta alla scomparsa del partito che le aprì le porte della politica (An), è sopravvissuta al declino dell’uomo che le diede il braccio per entrare alla Camera (Ignazio La Russa), è sopravvissuta a Fini e ai suoi ex colonnelli dopo aver dato loro indistintamente delle “palle di velluto”, è sopravvissuta a Francesco Storace e alla sua Destra, movimento del quale è stata pure candidata premier, è sopravvissuta financo allo strappo con Berlusconi, tornando a farsi benvolere persino dopo aver detto di lui che “vede le donne solo in orizzontale”.
E’ sopravvissuta alla fine pure alla spaventosa mole di materiale iconografico che è riuscita a produrre negli anni, ai Billionarie e alle polemiche sul burqa, al tacco dodici e alla bava alla bocca, alle corse sulla spiaggia con Sallusti e alle dispute sugli interventi chirurgici, agli sfregi alla Cadillac e ai pretesi master, fino alla gaffe micidiale all’indomani della strage dell’airbus Germanwings. Quando chiese “che origini hanno i piloti dell’autobus caduto???” e poi fredda davvero come un pitone aspettò dieci ore e tremila retweet per cinguettare: “Benedetto T9, che in una giornata così triste riesce a strappare qualche sorriso”.
Insomma una paccottiglia sterminata che fa di lei quel che è: un personaggio, anzitutto, i cui panni autentici risultano sconosciuti quanto il suo cognome, che sarebbe Garnero, e la cui verità pubblica è invece Santanchè, nome che il suo ex marito chirurgo plastico le ha lasciato in comodato d’uso nonostante le nozze siano state annullate pure dalla Sacra Rota.
Caso pressochè unico, anche perchè l’onorevole è appunto donna.
Una faccenda tutt’altro facile da gestire, particolarmente nel centrodestra berlusconiano: non tanto per l’oggi declinante, quanto nell’era per intendersi del bunga bunga più sfrenato, faccende nelle quali Santanchè non s’è immischiata mai, nè dopo nè soprattutto prima.
Senza l’ombra di cene eleganti, è riuscita sostanzialmente a rimanere nelle grazie del re di Arcore, mentre innumerevoli altre via via assurgevano a stella del momento e poi cadevano nel mezzo dimenticatoio.
Certo ha vacillato tante volte. E per esempio, in quel fotografatissimo incontro al Twiga beach club (di cui Santanchè è socia) con Mara Carfagna, nell’agosto di due anni fa, pareva Carfagna quella in ascesa e lei quella che dovesse darsi da fare per restare a galla. Due anni dopo, si sa benissimo dove collocare chi tra le due indossava il cappello texano e gli occhiali a specchio, mentre si son perse le tracce della t-shirt bianca su occhiale nero e di chi la indossava.
Sarà l’indole d’imprenditrice, o la sveltezza di pensiero sempre mascherata nel look tutto tacchi e borse e messa al servizio — ma per scelta — delle dichiarazioni più mostruose, delle sparate trash, della polemica finchè morte non ci separi.
Magari mal digerita da qualche cerchio magico, magari a tratti in disgrazia: ma Berlusconi di lei non ha voluto, o saputo, fare a meno.
E così adesso per la prossima candidatura a Milano si fa anche il suo nome, segno indubbio di fecondità politica. E tocca al più citato tra i papabili per la contesa meneghina, Paolo Del Debbio, farsi carico di chiarire: “Non credo Daniela sia disponibile a candidarsi”. Vai a sapere, poi.
Per il momento, Santanchè appare concentrata più che altro a tessere la tela tra Forza Italia e quelli che chiama con cura “gli amici della Lega”.
Tra le notiziole di questa estate, spicca appunto la cena organizzata in casa Santanchè a Forte dei Marmi: lei, Del Debbio, e il segretario del Carroccio Matteo Salvini.
Mica per parlare di politica, è chiaro: una padrona di casa sa che in casi così non vi è nemmeno bisogno. “I governi non si fanno a tavola, ero a Marina di Pietrasanta in vacanza con mia figlia e ho accettato l’invito della Santanchè, ma abbiamo parlato di calcio e di figli, pochissimo di politica”, ha infatti poi chiarito pure Salvini.
Sta di fatto che certo, nel fatale riaccostarsi tra la Lega e Forza Italia (una sua parte almeno), Santanchè si trova perfettamente a suo agio.
E’ antica la sua battaglia “contro le invasioni degli immigrati”, così come le aperte critiche al velo e all’islam, fino a quel “Maometto era un poligamo e un pedofilo” che nel 2009 le valse la scorta.
Adesso, con l’esplosione della tragedia dei migranti e dei barconi, dei muri e delle quote — che si sposa così bene con quell’alleanza con la Lega che s’ha da fare – nuota come una squaletta nel brodo.
E una volta sostiene la battaglia del Giornale (di cui la sua Visibilia è concessionaria per la pubblicità ) articolando il tema “se la Merkel prende i siriani noi ci prendiamo i cristiani”; e un’altra elogia l’Ungheria che “riesce più del nostro governo a difendere con coraggio la sua frontiera e i suoi cittadini”, e un’altra ancora coglie l’occasione dell’ennesima polemica sul Cara di Mineo per assestare uno schiaffone ad Alfano — cosa che le dà una soddisfazione particolare: “Dove vive il ministro, per così dire, dell’Interno? Si rende conto della sua totale incapacità a gestire la situazione? Per non parlare poi della sua nullità in materia di sicurezza, altro fronte su cui sa solo dare aria alla bocca”.
E insomma mentre mezzo suo partito fa le valigie verso l’Ala di Verdini sperando di salvarsi la legislatura, e l’altro mezzo vagola smarrito nell’attesa spaurita del messianico ritorno del suo leader, Santanchè non fa nè l’uno nè l’altro.
O forse sia l’uno che l’altro: perchè lei, a prendere a prestito l’imitazione che ne fece Paola Cortellesi, “mangia del suo mangio”, e un modo per andare avanti tra le macerie del centrodestra certo l’ha già trovato.
(da “L’Espresso”)
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Settembre 28th, 2015 Riccardo Fucile
DOVEVA ESSERE UNA FESTA, SI E’ TRASFORMATO IN UN BLITZ DELL’ISPETTORATO
È finita con una multa di quasi 20 mila euro quella che doveva essere una festa tra le vigne di Castellinaldo d’Alba, in provincia di Cuneo.
Come faceva spesso, Battista Battaglino, 63 anni, pensionato, mercoledì ha invitato alcuni amici nella sua casa, in località Granera, nel cuore del Roero.
È una bella giornata, i filari del suo piccolo podere, un ettaro di terreno in collina, sono carichi di grappoli, barbera e un po’ di nebbiolo.
Così i quattro decidono di aiutare Battista a vendemmiare. Uve che il pensionato utilizza per produrre il vino per sè, quello che consuma in casa e con qualche amico. Il tutto si dovrebbe concludere con una cena in allegria.
Ma il finale è ben diverso.
Lo racconta Ada Bensa, compagna del pensionato: «Stavamo raccogliendo l’uva, ridendo e prendendoci in giro perchè in quelle vigne è anche difficile stare in piedi. Ad un certo punto siamo stati letteralmente circondati da carabinieri e funzionari dell’ispettorato del lavoro. Ci hanno chiesto i documenti e hanno redatto un verbale di denuncia di lavoro nero».
La multa per Battista Battaglino è di 19.500 euro, 3900 per ognuno dei 4 amici e del pensionato.
La donna è indignata: «È assurdo. Volevamo aiutare Battista e gli abbiamo procurato un danno enorme. In campagna è consuetudine aiutarsi l’un l’altro. Si è sempre fatto, senza il timore di essere catalogati come evasori, o peggio ancora, ritenuti dei caporali che sfruttano le persone facendole lavorare in nero».
Ada Bensa scrive anche a «Specchio dei Tempi» per denunciare quello che per tutti, cittadini e viticoltori, è una vera ingiustizia.
«Battista coltiva da solo quel pezzo di terra, è in pensione e ci passa il suo tempo – dicono gli amici -. Quando l’uva è matura ci chiede di aiutarlo. Bisogna fare in fretta, altrimenti i grappoli marciscono e lui non potrà fare il suo buon vino. Per quello eravamo lì, come facevamo da anni, a turno non sempre tutti, a seconda dei nostri impegni». L’indignazione è quella dell’intero territorio.
Il sindaco di Castellinaldo, Giovanni Molino è amareggiato: «Non siamo un paese in cui vige il caporalato. Qui la gente si aiuta, si spacca la schiena tra le vigne, su queste colline. È assurdo che un uomo come Battista, che manda avanti questi pochi filari da solo, con grande sacrificio, venga additato come evasore. Sono terreni che erano già del padre, vigne che avranno 70-80 anni. Lui le cura tutto l’anno ancora con metodi vecchi, quelli di una volta. Non ha neanche i mezzi più moderni per coltivare e raccogliere, tutto viene fatto a mano. È pazzesco che debba pagare una multa del genere».
Battista è ancora amareggiato e non ha molto da dire su quanto successo: «Lascerò andare tutto, abbandonando le vigne perchè non merita lavorare tanto per poi avere questi bei risultati. L’unica cosa che potevo dare a questi amici era una cena per ringraziarli. Purtroppo non abbiamo neanche fatto quella».
Il sindaco lancia una proposta: «Ho intenzione, a novembre, di invitare questi funzionari del lavoro a una riunione con tutti coloro che coltivano un pezzo di terra, dalle grandi aziende di questo territorio ai piccoli agricoltori. Voglio che ci spieghino cosa dobbiamo fare per lavorare senza la paura di dover pagare multe».
Mercoledì Battaglino e i suoi amici saranno a Cuneo, convocati dall’Ispettorato del Lavoro. Ribadiranno la loro posizione. «Speriamo sia usato un po’ di buon senso» conclude Ada Bensa.
(da “La Stampa”)
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Settembre 28th, 2015 Riccardo Fucile
FINALMENTE UN GOVERNO SERIO: NIENTE VISTO AL PASSAPORTO, NON E’ GRADITA SUA VISITA
Matteo Salvini non potrà andare in Nigeria come annunciato alcune settimane fa.
La partenza era in programma per domani ma a quanto ha spiegato il leader della Lega intervenendo su radio Padania, ha ritirato il passaporto senza il visto necessario.
“Me ne faro’ una ragione, ci tornerò quando avranno compreso che noi siamo qua per aiutarli” ha detto Salvini, spiegando con una certa delusione che “era tutto pronto, avevo anche fatto la vaccinazione per la febbre gialla e sono stato due giorni a letto.
E invece non si parte.
Secondo il segretario federale non avevano capito che “volevamo portare li’ sviluppo e investimenti”.
O più probabilmente si erano informati sul soggetto e l’hanno ritenuto “indesiderato”: potrebbe sempre chiedere a Belsito di metterci una parola buona per una visita in Tanzania.
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Settembre 28th, 2015 Riccardo Fucile
“PER IL SINDACO NOME IN SETTIMANA”
“Una nuova «discesa in campo”, 22 anni dopo.
Silvio Berlusconi giura di essere tornato a pieno titolo sulla scena politica, nonostante l’età , le delusioni, «i tradimenti» degli alleati e i tentativi della magistratura (e degli altri leader europei invidiosi del suo successo) di eliminarlo dalla vita pubblica. Nonostante i «quattro colpi di stato» che si sono susseguiti in questo ventennio.
In forma, vivace, allegro.
Con Francesca Pascale arriva a Calvagese prima di pranzo per chiudere la tre giorni di formazione politica organizzata da Mariastella Gelmini sul lago di Garda.
«Questa mattina segna il mio rientro sulla scena della politica», annuncia ai fan che riempiono una sala in verità non enorme.
L’armamentario è un po’ polveroso.
L’anticomunismo, («L’ideologia più criminale della storia»), i magistrati, l’Italia che perde prestigio.
Come sfondo il racconto di questi vent’anni. Con le riforme compiute e la rivoluzione liberale non ultimata per via, appunto, dei colpi di Stato, l’ultimo dei quali quello che ha portato alla condanna giudiziaria e alla conseguente incandidabilità .
Anche se poi dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo Berlusconi confida a breve in una piena riabilitazione.
Sulla «persecuzione» dei magistrati, e sul caso Ruby, il leader azzurro ora ci scherza anche su.
Come quando ricorda la passeggiata in Crimea a fianco di Putin con la gente che lo acclama col soprannome che gli hanno appiccicato da quelle parti: «Silvio rubacuori».
Andrea Senesi
(da “il Corriere della Sera“)
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