Luglio 8th, 2016 Riccardo Fucile
MINORI SOTTRATTI AI GENITORI PER DARLI A FAMIGLIE ITALIANE: IL LATO OSCURO DELLE ADOZIONI INTERNAZIONALI
Una rete di trafficanti insospettabili ha cercato di far entrare in Italia bambini sottratti ai loro genitori in Congo.
I casi dimostrati sono almeno cinque: le loro sentenze di adozione li dichiarano orfani, ma hanno famiglie che li reclamano.
L’indagine avviata dalla Commissione per le adozioni internazionali (Cai), cioè l’autorità di controllo della Presidenza del Consiglio su enti e procedure di adozione, ha un seguito ancor più sconvolgente.
L’organizzazione in Africa ha potuto operare grazie alle presunte coperture e alle omissioni dei vertici dell’associazione “Aibi — Amici dei bambini” di San Giuliano Milanese.
Secondo le segnalazioni raccolte, i responsabili di Aibi non hanno denunciato quanto sapevano, hanno fornito informazioni non corrispondenti al vero. E, attraverso i loro assistenti locali, avrebbero addirittura ostacolato la partenza per l’Italia di decine di bimbi, mettendo così a rischio il trasferimento di tutti i centocinquantuno minori già adottati in Congo da famiglie italiane
L’inchiesta di copertina “Ladri di bambini”, su “l’Espresso” è stata realizzata grazie a una fonte interna ad Aibi, a contatti diretti con la capitale Kinshasa e a un lavoro di ricerca sui documenti dell’associazione cominciato nel dicembre 2012.
Ne esce un racconto agghiacciante come la trama di un film horror.
Nel tentativo di fermare l’indagine della Cai, diciotto bambini tra i 3 e i 13 anni, già adottati da genitori italiani e quindi con cognome italiano, vengono tenuti in ostaggio per un anno e mezzo, fino al 29 maggio scorso, in due orfanotrofi a Goma nella regione più pericolosa nell’Est del Paese africano.
Una bambina, Amini, 9 anni, figlia adottiva di una coppia di Cosenza, scompare nel nulla.
Altri piccoli sono vittime dell’attacco di un commando che tenta di rapirli e vengono portati al sicuro soltanto dopo lunghe trattative.
Un affidatario congolese che su richiesta della Commissione adozioni della Presidenza del Consiglio e su mandato dell’autorità giudiziaria locale ha messo in salvo quei bambini, come ritorsione viene arrestato su ordine del presidente del Tribunale dei minori di Goma: lo stesso giudice che Aibi, nelle comunicazioni interne, indica come proprio partner.
Durante la detenzione l’affidatario subisce torture: lo immergono in una buca con gli escrementi della prigione, lo picchiano e gli ustionano i genitali.
Altri due incaricati della Cai nelle delicate trattative, due consulenti giuridici, vengono arrestati e a loro volta minacciati di torture per essersi interessati al rilascio dei bambini.
Una suora, anche lei impegnata nei contatti per la liberazione dei piccoli ostaggi, è accusata dallo stesso giudice-partner di Aibi di traffico di minori. Accuse false, ovviamente.
Il presidente-padrone di Aibi, Marco Griffini, 69 anni, un ex sondaggista di mercato e fervente cattolico, dal mese di giugno 2014 quando probabilmente intuisce di essere sotto indagine, comincia la sua guerra personale contro la presidente della Commissione per le adozioni internazionali, il magistrato di lungo corso Silvia Della Monica.
Per due anni Griffini insulta il suo operato e spinge alcuni genitori adottivi a protestare davanti a Palazzo Chigi, inducendo così numerosi parlamentari a presentare interrogazioni al governo per chiedere che la scomoda presidente della Cai sia rimossa.
Tra i più attivi, i senatori Carlo Giovanardi e Aldo Di Biagio, sicuramente all’oscuro dei pesanti retroscena.
Il risultato più stupefacente è che Griffini ha (apparentemente) vinto la sua guerra. Giovedì 9 giugno, proprio quando gli ultimi diciotto bambini tenuti in ostaggio stanno finalmente partendo dalla capitale Kinshasa per l’Italia, una manina con una coincidenza fin troppo sospetta fa firmare al premier Matteo Renzi il decreto di revoca delle deleghe di presidente al magistrato Della Monica, confermata solo come vicepresidente della Cai.
Un missile che, appena qualche ora prima, avrebbe abbattuto tutta l’operazione di salvataggio: se fossero ancora a terra in Congo, i piccoli dovrebbero aspettare altre settimane perchè la nuova presidente, il ministro Maria Elena Boschi, ricominci daccapo la trafila burocratica delle autorizzazioni.
Un tempismo spietato contro il magistrato che sta ancora indagando e che, grazie a due anni di lavoro paziente e riservato, è riuscita a far liberare tutti i bambini tenuti in ostaggio.
Fabrizio Gatti
(da “L’Espresso”)
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Luglio 8th, 2016 Riccardo Fucile
ECOMAFIE, IL DOSSIER DI LEGAMBIENTE: SCENDONO I GUADAGNI DEI CLAN
A più di un anno dall’entrata in vigore della legge sugli ecoreati, il rapporto “Ecomafia 2016, le storie
e i numeri della criminalità ambientale in Italia” è quello della ‘scossa elettrica’.
Così lo ha definito il direttore generale di Legambiente Stefano Ciafano, presentando in Senato i dati raccolti dall’Osservatorio nazionale ambiente e legalità dell’associazione, grazie al contributo delle forze dell’ordine e raccolti nel volume edito da Edizioni Ambiente con il sostegno di Cobat.
Il primo dato è che il fatturato delle ecomafie è sceso di quasi 3 miliardi di euro, assestandosi sui 19,1 miliardi.
I reati ambientali sono in leggera flessione e crescono gli arresti, “primi segnali di una inversione di tendenza dopo l’introduzione dei delitti contro l’ambiente nel Codice penale”.
Nel 2015 sono stati accertati 27.745 reati ambientali (più di 76 al giorno), arrestate 188 persone, 24.623 quelle denunciate. Più di 7mila i sequestri.
Si tratta di un fenomeno nazionale, ma spiccano i numeri negativi che riguardano le quattro regioni con una presenza tradizionalmente radicata della criminalità organizzata: Campania, Puglia, Sicilia e Calabria.
E se la Campania è maglia nera per numero di reati, sul fronte della corruzione legata a illeciti ambientali (302 inchieste in 5 anni in Italia, con 2.666 arresti) al primo posto per più alto numero di indagini c’è la Lombardia, seguita da Campania, Lazio, Sicilia e Calabria.
“La prevenzione è la moneta buona che scaccia quella cattiva — ha dichiarato Rossella Muroni, presidente nazionale di Legambiente — è necessario creare lavoro, filoni di sviluppo economico e produttivo nei territori più a rischio, sostenere le centinaia e centinaia di cooperative e di imprese, che anche nel sud stanno cercando di invertire la rotta, puntando su qualità ambientale e legalità ”.
LA PRESENZA DEI CLAN
Nei primi otto mesi dall’entrata in vigore della legge sono stati contestati 947 ecoreati, con 1.185 denunce dalle forze dell’ordine e dalle Capitanerie di porto e il sequestro di 229 beni per un valore di 24 milioni di euro.
Sono 118 i casi di inquinamento e 30 le contestazioni del nuovo delitto di disastro ambientale.
Nonostante il calo complessivo dei reati, ne cresce l’incidenza in Calabria, Campania, Puglia e Sicilia.
Se ne sono contati 13.388, il 48,3% sul totale nazionale, mentre nel 2014 l’incidenza era del 44,6%.
E soprattutto in queste aree che si registrano anche ritorsioni da parte della criminalità organizzata ai danni degli amministratori che si impegnano contro i reati ambientali. L’Osservatorio nazionale ambiente e legalità di Legambiente ha censito in Italia dal 1994 ad oggi 326 clan, con un volume di affari pari a 19,1 miliardi di euro solo del 2015 con un calo di quasi 3 miliardi rispetto all’anno precedente (22 miliardi) “dovuto principalmente — spiega Legambiente — alla netta contrazione degli investimenti a rischio nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa, che hanno visto nell’ultimo anno prosciugare la spesa per opere pubbliche e per la gestione dei rifiuti urbani sotto la soglia dei 7 miliardi, a fronte dei 13 dell’anno precedente”.
LA CAMPANIA TORNA MAGLIA NERA
Mentre l’anno scorso il rapporto metteva in evidenza il calo dei reati in Campania e un aumento degli illeciti in Puglia (maglia nera con il 15,4% dei reati accertati in Italia), nel 2015 la Campania (con 4.277 reati, più del 15% sul dato complessivo nazionale), è la regione con il maggior numero di illeciti ambientali seguita da Sicilia (4.001), Calabria (2.673), Puglia (2.437) e Lazio (2.431).
“L’anno scorso — ha commentato Ciafano — si sono visti i risultati di una forte azione di contrasto e di controlli serrati della terra dei fuochi, mentre quest’anno anche la classifica delle province italiane rispecchia la nuova situazione, con Napoli e Salerno ai primi posti tra quelle con il maggior numero di reati, seguiti da Roma”.
Anche su base provinciale i dati confermano il primato non lusinghiero della Campania: le province di Napoli e Salerno sono tra le due più colpite, rispettivamente con 1.579 e 1.303 reati, seguite da Roma (1.161), Catania (1.027) e Sassari (861).
GRASSO: RAFFORZARE GLI INTERVENTI CONTRO LA CORRUZIONE L’altra faccia delle ecomafie è rappresentata dalla corruzione, fenomeno sempre più dilagante.
Dal 1 gennaio 2010 al 31 maggio 2016 Legambiente ha contato 302 inchieste sulla corruzione in materia ambientale, con 2.666 persone arrestate e 2.776 denunciate. La Lombardia è la regione con il numero più alto di indagini (40), seguita da Campania (39), Lazio (38), Sicilia (32) e Calabria (27).
Al riguardo, secondo il presidente del Senato Piero Grasso, per completare il quadro della difesa penale è necessario rafforzare anche gli interventi contro la corruzione “uno dei peggiori nemici dell’ambiente — ha sottolineato — a causa di quelle collusioni nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di controllo che fanno prevalere gli interessi privati delle imprese e dei corrotti su quelli generali”.
Per Grasso “è sulla politica che grava la principale responsabilità ”.
IL CICLO DEL CEMENTO
Per quanto riguarda il ciclo del cemento, in Italia sono stati accertati 4926 reati, 13 al giorno.
Le infrazioni sono in calo, ma il fenomeno non si ferma neppure davanti alla crisi del settore edilizio. Nel 2015 sono stati costruiti 18mila immobili abusivi: in Campania si registra il 18% degli illeciti.
Seguono la Calabria (12%), il Lazio e la Sicilia (entrambe al 10%). Emblematico quanto è accaduto nell’isola, dove il sindaco di Licata Angelo Cambiano ha avviato le demolizioni di alcune ville abusive a Torre di Gaffe (Agrigento).
Nei mesi scorsi, nel corso della trasmissione ‘L’Arena’ ha confermato il pugno di ferro e, il giorno dopo, per tutta risposta, qualcuno ha appiccato il fuoco nella sua casa di campagna. Esperienze positive, invece, nella lotta all’abusivismo edilizio si registrano in provincia di Lecce.
DAL TRAFFICO DEI RIFIUTI ALL’AGROALIMENTARE
Per quanto riguarda il traffico illecito dei rifiuti, al 31 maggio 2016 le inchieste sono 314, con 1.602 arresti, 7.437 denunce e 871 aziende coinvolte in tutte le regioni d’Italia, a cui sia aggiungono 35 Stati esteri, per un totale di oltre 47,5 milioni di tonnellate di rifiuti finiti sotto i sigilli.
Solo nelle ultime 12 inchieste di quest’ultimo anno e mezzo (gennaio 2015-maggio 2016) le tonnellate sequestrate sono state 3,5 milioni, più o meno l’equivalente di 141mila tir.
Legambiente sottolinea i rischi degli illeciti legati alla filiera dell’agroalimentare: nel corso del 2015 sono stati accertati 20.706 reati e 4.214 sequestri.
“Il valore complessivo dei sequestri effettuati — rileva il rapporto — ammonta a più di 586 milioni di euro. Tra le tipologie specifiche di crimini agroalimentari la contraffazione è tra le più diffuse e colpisce principalmente i prodotti a marchio protetto, come l’olio extravergine di oliva, il vino, il parmigiano reggiano e così via. In espansione il fenomeno del caporalato: sono circa 80 i distretti agricoli, indistintamente da Nord a Sud, nel quale sono stati registrati fenomeni di caporalato.
Le Ecomafie, inoltre, continuano i loro affari anche nel racket degli animali con 8.358 reati commessi nel 2015.
A rischio anche i beni culturali: lo scorso anno ne sono stati recuperati o sequestrati dalle forze dell’ordine per un valore che supera abbondantemente i 3,3 miliardi.
Un valore 6 volte superiore a quello registrato nell’anno precedente, quando si era “fermato” intorno ai 530 milioni.
Per quanto riguarda i roghi, hanno mandato in fumo più di 37mila ettari e più del 56% si è concentrato nelle quattro regioni a tradizionale insediamento mafioso.
Alla Campania va un’altra maglia nera per il numero più alto di infrazioni, 894 (quasi il 20% sul totale nazionale), seguita da Calabria (692), Puglia (502), Sicilia (462) e Lazio (440).
Luisiana Gaita
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Luglio 8th, 2016 Riccardo Fucile
“DALLE BANCHE ITALIANE LA PROSSIMA CRISI IN EUROPA… CE’ UNA VIA D’USCITA: SOLDI PUBBLICI COME VUOLE RENZI
L’immagine di copertina è tutto fuorchè incoraggiante: un pullman dipinto con i colori della bandiera italiana, in bilico su un burrone e con una inequivocabile scritta sulla fiancata: “Banca”.
Nel suo ultimo numero, l’Economist mette in guardia sulla fragilità del nostro sistema bancario definendolo “traballante” e possibile causa della “prossima crisi europea”.
Ma se da lato il settimanale economico definisce il nostro Paese “la quarta maggiore economia e una delle più deboli”, mettendo in evidenza tra i rischi principali proprio la montagna di sofferenze bancarie che riempiono i bilanci delle banche e che sono all’origine delle turbolenze che hanno colpito alcuni istituti, Monte dei Paschi in testa, dall’altra – un po’ sorprendentemente – il giornale delinea come possibile soluzione proprio la via che il governo italiano sta cercando di battere a Bruxelles, scontrandosi però con il veto – per via indiretta – della Germania.
Quella di un intervento pubblico nel capitale delle banche in difficoltà , sospendendo però le nuove regole sui salvataggi bancari – il cosiddetto bail in – che prevedono che a pagare il conto siano anche azionisti, obbligazionisti e in ultimi istanza anche correntisti sopra i 100 mila euro.
“Le pressioni del mercato sulle banche italiane non diminuiranno finchè la fiducia non verrà ristabilita e ciò non succederà senza fondi pubblici.
Se le regole sul bail-in verranno applicate con rigidità in Italia, le proteste dei risparmiatori mineranno la fiducia e apriranno le porte del potere ai movimento Cinque Stelle”, scrive l’Economist.
L’argomentazione del settimanale economico è questa.
Il combinato disposto delle ferree regole di bilancio e le nuove norme sui salvataggi bancari arrivate – si sottolinea – “dopo che altri Paesi avevano salvato con soldi pubblici le banche” rischia di alimentare l’idea “che l’Italia ottenga scarsi benefici dalla supposta condivisione dei rischi all’interno dell’Eurozona, ma sia allo stesso danneggiata dai molti vincoli che deve rispettare”.
Il pericolo più grande è alle porte: “Se gli italiani dovessero perdere fiducia nell’euro, la moneta unica non sopravvivrebbe”.
Per questo, continua l’Economist, “non c’è motivo di rispettare alla lettera le regole. se questo dovesse mettere a rischio la moneta unica”. Quindi “la risposta giusta è autorizzare il governo italiano a finanziare i meccanismi di difesa delle sue banche vulnerabili con capitali pubblici che siano sufficienti per placare i timori di una crisi sistemica”.
L’Italia, continua il giornale, “ha comunque bisogno urgentemente di fare piazza pulita nel settore bancario. Con i capitali che fuggono e un fondo di salvataggio finanziato dalle banche stesse già ampiamente esaurito, ciò necessiterà una iniezione di denaro pubblico”, cosa appunto proibita dalle nuove regole dell’Eurozona.
L’Economist giudica “buone” le nuove regole sul bail-in, ma ricorda la particolarità del caso italiano, dove oltre 200 miliardi di titoli bancari sono in mano a piccoli investitori, non ad investitori istituzionali che conoscono i rischi, come nella maggior parte dei Paesi europei.
“Obbligare gli italiani comuni ad accollarsi di nuovo le perdite danneggerebbe pesantemente il premier Matteo Renzi, facendo svanire la sua speranza di vincere il referendum sulle riforme costituzionali in autunno. Renzi vuole che le regole siano applicate con flessibilità “, conclude il settimanale.
Per questo, la ricetta dell’Economist è chiara: “per dare alle norme sul bail in una opportunità maggiore di essere messe in atto in futuro, doverebbero essere cambiate escludendo gli investitori privati che detengono questi titoli” dai soggetti coinvolti nel salvataggio.
(da “Huffingtonpost“)
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Luglio 8th, 2016 Riccardo Fucile
LE LACRIME DI CHINYERY: “SIAMO SCAPPATI DOPO LA MORTE DI NOSTRO FIGLIO PER UNA BOMBA DI BOKO HARAM, QUI SOGNAVAMO UNA NUOVA VITA”
Un fazzoletto bianco ben stretto sulla testa. I piedi nudi. Un pantalone rosso che fa fatica a tenersi,
come gli occhi, come le gambe che traballano a ogni parola. Si stende per terra e piange.
Lo stesso pavimento sul quale ha passato la notte nella speranza che Emmanuel, prima o poi, tornasse. Non dovrebbe esistere nessun dolore grande come quello di Chinyery. Lo sa anche Filomena, anzi suor Filomena, 29 anni, bellissima, mentre l’accarezza.
La stringe, passandole una mano sulla fronte come è accaduto mercoledì sera quando tutti piangevano e Chinyery ha detto: “Mettetevi in cerchio” e poi si è messa a cantare, anzi non era un canto, “assomigliava a qualcosa che arrivava dal cielo”, qualcosa che partiva chissà da dove e arrivava ovunque. Una voce che si alzava e diceva: “Dio perchè?”.
Chinyery, perchè?
“Non lo so. Voglio andare in carcere. Fatemi andare in carcere. Voglio guardare quell’uomo in faccia, negli occhi e chiedergli perchè? Perchè mi hai fatto questo? “.
Conoscevate Mancini?
“Mai visto in questi otto mesi, da quando siamo arrivati a Fermo. Eravamo usciti per comprare una crema per il corpo. Passeggiavamo, quando all’improvviso quei signori hanno cominciato a insultarmi. “Africans scimmia”, “africans scimmia”. Mi ha preso, mi ha spinto, mi ha dato un calcio. Emmanuel mi ha difeso. Quel segnale stradale l’ha preso l’uomo italiano, però, poi lo ha colpito. Ed Emmanuel è caduto per terra”.
Perchè eravate in Italia?
“Vivevamo in Nigeria. Ero studentessa al secondo anno di medicina, Emmanuel lavorava. Avevamo un bambino di due anni e mezzo. Avremmo dovuto sposarci, mancava meno di un mese. Poi una bomba di Boko Haram ha distrutto tutto. Volevano colpire una chiesa. Hanno distrutto anche la nostra casa: è morto il nostro bambino. Sono morti i genitori di Emmanuel. Non avevamo niente eppure avevamo tutto. In quell’istante abbiamo perso ogni cosa. Siamo scappati subito. L’Italia era un sogno, volevamo trovare tutto quello che avevamo perso”.
Com’è stato il viaggio?
“Un incubo. Quattro mesi passando da Niger e arrivando in Libia. Poi è accaduta una cosa bella”.
Cosa?
“Aspettavamo un bambino, il nostro bambino. Eravamo partiti da soli, senza nessun aiuto. E avevamo di nuovo trovato tutto: tutta quella fatica, tutto quell’orrore aveva una giustificazione. Lo stavamo facendo per il nostro bambino e per tutti gli altri che sarebbero arrivati. Non sapevamo che invece eravamo soltanto all’inizio”.
Siete partiti?
“Siamo arrivati in Libia. Una notte sono entrati in casa degli uomini e hanno messo tutto sottosopra. Hanno rubato e ci hanno picchiati selvaggiamente. Io gridavo che aspettavo un bambino ma a loro non importava. Hanno continuato a colpire. Sono andati via. E io ho cominciato a perdere sangue”.
Siete partiti lo stesso
“Sì. E quelle perdite non si sono mai fermate. In mare sono durate quattro giorni. Siamo arrivati in Sicilia e poi a Fermo”.
Interviene Filomena, che la accarezza. È stata la prima ad accoglierla insieme con le Piccole sorelle Jesus Caritas, l’ordine che qui a Fermo ha costruito questo miracolo: dare una casa, che significa la costruzione di un futuro, a questi 120 ragazzi che scappano dall’orrore: “Aveva l’emorragia anche quando è arrivata qui. L’ho portata io in ospedale”. Il bambino non c’era più.
“È difficile fidarsi di qualcuno per quelli come me. Poi ho incontrato Don Vinicio e le suore. Sono i nostri Santi”.
Avevate un sogno?
“Volevamo sposarci. Lo abbiamo ripetuto all’infinito. Ma non avevamo i documenti. E allora Don Vinicio ha esaudito il nostro più grande desiderio”.
Sul telefonino ha tutti gli articoli che parlavano della loro storia: “La favola di Chinyery ed Emmanuel, scappati da Boko Haran trovano l’amore in Italia”. L’amore Chinyery, l’amore.
“E invece ieri… Il dolore, ancora il dolore. Ora voglio portare Emmanuel in Nigeria, deve dormire lì (Chinyery ha chiesto di lavare tutto il corpo di Emmanuel e poi di bere quell’acqua)”
E lei?
“Io invece voglio tornare in Italia a fare quello che avevamo deciso insieme: lo so che gli italiani non siete così, questa è la nostra casa, ma spero che queste persone abbiamo una sorta di punizione per quello che hanno fatto. Non può rimanere tutto impunito. Non è possibile”.
Arriva don Vinicio: “L’università di Ancona le ha offerto una borsa di studio per proseguire gli studi di Medicina”.
“Ma a me serve Emmanuel. Dov’è Emmanuel? Non eravamo marito e moglie. Ma molto di più: esiste qualcosa che non è possibile separare?”, chiede.
Piange. Barcolla. A braccio la accompagnano nella sua stanza.
Si alza quella voce. Chinyery ha ripreso a cantare.
(da “La Repubblica”)
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Luglio 8th, 2016 Riccardo Fucile
IL REATO PREVEDE FINO A SEI ANNI DI CARCERE
Proprio l’Anac di Raffaele Cantone, baluardo di incorruttibilità spesso usato come scudo e solido rifugio dal Movimento 5 stelle, rischia di inguaiare le sorti di Virginia Raggi.
Già , perchè l’Autorità anticorruzione ha presentato un esposto sulle consulenze alla Asl di Civitavecchia (firmate da un dirigente che è, casualmente, anche la madre della deputata M5s Marta Grande) non dichiarate dall’allora consigliere comunale se non dopo il deflagrare del “caso scontrini” che ha portato alla caduta di Ignazio Marino.
Scrive Ilario Lombardo su La Stampa
La Procura di Roma apre un fascicolo dopo l’esposto presentato da tale Associazione nazionale Libertà e Progresso, considerata vicina al Pd. Il fascicolo è un atto dovuto, spiegano i magistrati, senza indagati e senza ipotesi di reato. Ma è solo la prima scossa. La successiva, che in molti sanno arriverà , è firmata dall’Autorità Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone chiamata a vigilare su eventuali violazioni delle norme sulla trasparenza.
L’Anac prova a fare chiarezza con un’indagine. Infine, spedisce un’altra segnalazione in Procura. Questa volta però il peso è totalmente diverso.
Perchè potrebbe prefigurare la formulazione di un’accusa precisa: la sindaca di Roma rischia un’indagine per falso ideologico in atto pubblico.
La pena arriva fino a sei anni di carcere. Saranno i magistrati a stabilire se le dimenticanze di Raggi siano un reato o meno.
(da “Huffingtonpost”)
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