Aprile 8th, 2017 Riccardo Fucile
GENOVA, L’EX IDV ANZALONE PASSA IMPROVVISAMENTE DAL CENTROSINISTRA AL CENTRODESTRA… IL SINDACO: “NON POTEVA USARE IL LOGO DEL COMUNE”
Scoppia il caso dei manifesti di Stefano Anzalone, ex consigliere comunale Idv, che da stampella fondamentale della giunta Doria dell’ultimo anno e mezzo, in occasione dei voti sulla delibera di fusione Amiu Iren si è invece tirato indietro facendo mancare il suo appoggio, e sarebbe già in fase di avvicinamento al candidato della destra Marco Bucci.
Anzalone ha tappezzato la città di maxi manifesti anche se non ha ancora un partito che lo abbia candidato
Oggi il sindaco Marco Doria ha affrontato il tema con qualche considerazione velenosa sui soldi — “se fossero quelli del gruppo sarebbe una violazione del regolamento” ha detto il sindaco -con cui sarebbero stati pagati i manifesti e sul logo del Comune che compare sugli stessi.
Anzalone per altro ha già fatto sapere di essersi pagato i manifesti con soldi suoi. Quanto al logo si vedrà .
(da “La Repubblica“)
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Aprile 8th, 2017 Riccardo Fucile
UNA REGISTA DANESE, UNICA AL MONDO, HA ASSISTITO ALLE RIUNIONI SEGRETE
«Dovreste vivere in Italia per capire cos’è la paranoia», dice Mario Giarrusso, senatore e attore prestato a interpretare se stesso, «è la cosa che ti fa dubitare dei tuoi stessi amici».
La frase va finendo mentre Giarrusso è seduto in trattoria ad ascoltare quei suoi amici e colleghi che poco dopo saranno espulsi dal M5S: Francesco Campanella, Luis Orellana, Lorenzo Battista.
Nel frattempo Giarrusso raccoglie minacce di morte e si compra una pistola che, con eccesso di immaginario cinematografico, porta con sè a letto. Siamo nel 2014 e la paranoia nel M5S è al suo culmine. Poi, resterà come una ferita e una cifra comportamentale, come un sapore in bocca che non va più via.
Il documentario
Quasi due anni prima, una regista danese, Lise Birk Pedersen, ottiene, unica al mondo, di poter raccontare il M5S dal suo interno, seguendo nel privato e nelle riunioni quattro senatori grillini. Paola Taverna, Alberto Airola, Mario Giarrusso, Luis Orellana.
Nessun velo, nessuna finzione, se non la posa attoriale che ogni tanto prende chi sa di avere una telecamera accesa intorno a sè.
Il risultato è «Tutti a casa — Inside M5S», il documentario di Pedersen, ieri in anteprima al festival di Pordenone «Le voci dell’inchiesta».
È un racconto lungo tre anni, dallo Tsunami tour di Beppe Grillo, le piazze piene che annunciavano, inascoltate, il maremoto politico, a un comizio del 2015 organizzato sulla coda di Mafia Capitale, che invece annunciava la scontata vittoria del M5S a Roma.
In mezzo ci sono aneddoti divertenti e dolorosi. C’è quella volta in cui sempre Giarrusso, sfinito dalle discussioni con gli attivisti ai banchetti in Sicilia che spingono per l’accordo con il Pd di Pier Luigi Bersani, si addormenta nella cameretta di quand’era bambino, con la sciarpa del Catania sopra il letto e il padre che gli dice in dialetto di «tirar fuori le palle».
Giarrusso è un omone addolcito dall’amore per la musica classica, dilaniato per mesi dai dubbi se accettare un compromesso con i dem. Chi invece non sente ragioni è Taverna, capace far piangere una senatrice, Michela Montevecchi.
La scena si svolge durante l’assemblea che decreterà l’espulsione della collega Adele Gambaro, rea di aver accusato Grillo di scrivere post violenti («il Parlamento è una tomba maleodorante»). Interviene Taverna in italiano-romanesco: «Vojo che me fate il favore di levarve dai cojoni. Voi state qui per grazia ricevuta de Beppe Grillo, e state a sputà nel piatto in cui se magna…».
Ma c’è chi della grazia ricevuta non sa che farsene, e vorrebbe fare politica, ragionare con la propria testa, come Orellana che nell’intimità dello sconforto dice: «Per il 99% degli attivisti Beppe è perfetto e non può sbagliare».
Beppe li porta fino alle soglie del Parlamento, dove è un po’ cominciato e un po’ finito tutto.
Poi riappare solo di tanto in tanto dal vivavoce di un iPhone, su quello di Vito Crimi, dove è registrato come «Il Grigio».
La telecamera entra nelle assemblee e dà ragione ai retroscena che hanno raccontato i giornali, incuranti degli attacchi di un Movimento che si è subito rimangiato le promesse di trasparenza. Si vede come «Il Grigio» impone le scelte: «Fate come volete, ma sappiate che…»; la sua rabbia impietosa quando viene messo in discussione.
Senza filtri
Dove si spegne lo streaming si accende l’occhio di Pedersen su semplici cittadini entrati in un gioco più complesso di loro, dove parlare liberamente diventa sempre meno gradito.
La regista ha detto di aver cominciato senza sapere nulla del M5S, mossa da curiosità . La fortuna l’ha premiata e le ha permesso di raccontare cosa è successo davvero, senza pregiudizi e con quel rigore scandinavo che come nulla fa passare dal comico al drammatico.
Le liti feroci, il potere di Grillo, il conformismo di alcuni, la ribellione di altri, le epurazioni, la deriva personalistica e autoritaria del M5S, Airola che preme Sì sul tablet per espellere Gambaro, l’addio amaro di Orellana: «Ascoltare cosa dicono gli altri dovrebbe essere lo scopo di chi sta in Parlamento».
È un documento storico su un esperimento antropologico. E che parla di oggi, parla di quanto è successo a Genova, e potrebbe risuccedere.
La parola onestà si sente riecheggiare fino al finale, a Roma, dove si chiude come si era cominciato, sui volti del pubblico a un comizio di Grillo che è anche spettacolo: «La manifestazione dell’onestà », dopo Mafia Capitale. Poco prima le telecamere mostravano Taverna e Airola fumare nelle stanze del Senato, dove è vietato farlo, inconsapevoli che l’onestà comincia sempre dal rispetto delle piccole regole.
Ilario Lombardo
(da “La Stampa”)
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Aprile 8th, 2017 Riccardo Fucile
IL GENERALE JEAN: “IL PRESIDENTE USA CERCA DI RITROVARE IL CONSENSO INTERNO”
In politica, la teoria della distrazione è stata spesso usata per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle difficoltà dei governi in carica.
La politica estera è stata spesso il mezzo usato, dato che più di altre materie riesce a portare lo sguardo fuori dai confini nazionali.
Per questo la decisione del Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di sferrare un attacco con 59 missili Tomahawk contro la base aerea militare siriana di al-Shayrat potrebbe avere più obiettivi.
Quello, dichiarato, di impedire altri attacchi chimici da parte del regime di Bashar al-Assad, ma anche, secondo il generale Carlo Jean, “di ricompattare il fronte repubblicano, diviso sulla figura e le politiche di Trump, e mascherare i recenti insuccessi nel campo delle riforme”.
Senza dimenticare la doppia valenza anche in materia di politica estera: “Questo è anche un avvertimento alla Corea del Nord — continua il generale — per dire che il tempo della ‘pazienza strategica’ obamiana è finito”.
“L’attacco mirato” americano, come lo ha definito lo stesso Trump, partito da due cacciatorpediniere della Marina ha raggiunto i risultati sperati.
John McCain, senatore repubblicano esponente dell’ala più critica nei confronti del Presidente, ha espresso soddisfazione per l’operazione militare: “Un’azione così orribile — ha dichiarato a Fox News riferendosi all’attacco chimico nel villaggio di Khan Shaykhun — necessitava di una risposta da parte degli Stati Uniti e credo che il Presidente abbia l’autorità per prendere una decisione del genere”.
“L’operazione — continua Jean — è servita a ricompattare il fronte repubblicano, le parole di McCain lo testimoniano. Inoltre, ha spostato l’attenzione dai problemi che l’amministrazione sta affrontando in politica interna”.
E i problemi non sono pochi.
La recente rimozione di Steve Bannon, capo degli strateghi del Presidente, dal Consiglio Nazionale di Sicurezza, l’organo che discute le decisioni più importanti in materia di Politica Estera e Sicurezza Interna, rappresenta un duro schiaffo per il magnate americano che dell’ex direttore di Breitbart News, sito di riferimento dell’ultradestra, ha fatto il suo ideologo.
Un’altra poltrona a saltare nel National Security Council dopo quella di Michael Flynn, coinvolto nello scandalo Russiagate.
Ma questa estromissione è solo l’ultima di una serie di sconfitte che hanno macchiato la reputazione di grande riformatore che il tycoon si era creato durante la campagna elettorale. Come, ad esempio, la plurima bocciatura del tanto discusso “Muslim Ban” o il forzato ritiro della sbandierata riforma sanitaria che avrebbe dovuto sostituire l’odiato Obamacare.
“Non ha i voti dei Repubblicani”, ha spiegato l’amministrazione che ha quindi evitato di mandare la proposta in Parlamento.
L’altro sgambetto, invece, era arrivato dall’ala democratica sulla nomina di Neil Gorsuch a giudice della Corte Suprema. Una proposta che per cinque “sì” non ha raggiunto la maggioranza di 60 voti necessaria all’approvazione.
Una battaglia, quella sul posto vacante alla Corte Suprema, che l’amministrazione Trump non ha però intenzione di perdere: per questo, dopo i risultati, il Senato ha fatto scattare la cosiddetta “nuclear option”, ossia una revisione della maggioranza necessaria per la nomina del giudice della Corte Suprema che passa, così, da 60 a 51 voti su 100.
L’operazione militare di giovedì notte rimane, comunque, un avvertimento a più di un attore internazionale.
Prima di lanciare i 59 missili, l’amministrazione ha avvertito il Cremlino, quindi indirettamente il governo di Damasco che ne è uno dei principali alleati, e altri Paesi dell’area.
“L’intento non è quello di dichiarare guerra — continua Jean — bensì di avvertire che l’uso di armi chimiche contro la popolazione non è tollerato”. Un avvertimento che non si limiterebbe al solo governo siriano ma, in concomitanza con la due giorni di incontri tra Trump e il Presidente della Cina, Xi Jinping, nella residenza di Mar-A-Lago, anche alla dittatura nordcoreana che negli ultimi mesi sta portando avanti una politica provocatoria nei confronti del Giappone, alleato degli Usa, con diversi test missilistici nel Mar del Giappone.
“La concomitanza degli eventi, l’azione militare e la visita di Xi Jinping, potrebbe non essere casuale — dice il generale — questo attacco suona come un avvertimento anche per il regime di Pyongyang, come a dire che ‘il tempo della pazienza strategica obamiana è finito.
Quindi ponderate bene le vostre azioni perchè gli Stati Uniti sono pronti a colpire’. E nel caso di un attacco alla Corea del Nord, potenza nucleare, è ovvio che non si tratterebbe di un avvertimento”.
A chi teme che l’operazione militare statunitense possa rappresentare un elemento di allontanamento tra Trump e il Presidente russo, Vladimir Putin, Jean risponde che questo lancio di missili è avvenuto solo dopo aver avvertito Mosca, che non ha in Putin il destinatario finale del messaggio: “Si tratta di un avvertimento — conclude — niente di più. Mosca e altri partner locali sono stati informati per tempo del piano. Inoltre, la Russia non può permettersi di tirare troppo la corda con gli Stati Uniti per diversi motivi. Prima cosa, non ha le capacità militari sufficienti per affrontare una potenza militare come quella americana che, tra l’altro, ha un accesso al Mediterraneo molto più agevole rispetto a Mosca che, invece, ha come passaggio obbligato il Bosforo turco. Secondo, se Washington mettesse in atto una strategia di ribassamento del prezzo del petrolio, Mosca potrebbe veramente finire in ginocchio”.
Gianni Rosini
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 8th, 2017 Riccardo Fucile
“SE ENTRANO IN 100.000 E 7 DIVENTANO JIHADISTI E’ GIUSTO RESTARE APERTI, E’ UN RISCHIO CHE VALE LA PENA CORRERE”
“Se entrano in 100 mila e 7 diventano jihadisti non è un buon motivo per chiudersi: se lo facciamo falliamo in umanità “. Jonas Jonasson, lo scrittore svedese che si è conquistato fama mondiale con “Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve” parla al Corriere della Sera.
Se accogli centinaia di migliaia di immigrati provenienti da Paesi islamici, se dai riparo a tutte queste vite disperate, è naturale poter “importare” anche qualche terrorista. È il prezzo da pagare per la nostra società aperta. Ma è giusto farlo, è un rischio che vale la pena correre. La Svezia e la Germania hanno mostrato una grande responsabilità in questo. Preferisco vivere in una società aperta che nel suo contrario. Come potremmo vivere in un mondo fatto così?».
“La Svezia non è un paradiso perduto. È ancora un Paese pacifico. Se si nega questo fatto, allora sì che vince il terrorismo”, dice. Si legge ancora sul Corriere:
Lei parla di «società aperta». Ma tra muri e controlli alle frontiere, che anche Svezia e Danimarca hanno introdotto, sembra si stia andando nella direzione opposta.
«Siamo stati costretti a farlo, visto che gli altri Paesi europei non volevano collaborare. Con qualche eccezione: l’Italia ha fatto cose splendide. Purtroppo i populismi si stanno diffondendo e la Svezia non può fare anche la parte degli altri e accettare 10 mila migranti al giorno…».
(da “Huffingtonpost”)
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