Marzo 15th, 2018 Riccardo Fucile
I NODI VENGONO AL PETTINE DOPO IL RISULTATO ELETTORALE DELUDENTE
«Perchè non torni a trovare Berlusconi? Potrebbe esserci di nuovo bisogno di te», gli chiese Fedele Confalonieri incontrandolo a Roma pochi giorni prima di Natale. «L’amicizia per Berlusconi, dal mio punto di vista, è quella di sempre. Però i tempi non sono ancora maturi», rispose lui.
E si vede che adesso sono maturati, i tempi, se è vero che venerdì scorso Denis Verdini, a due mesi e mezzo dal niet pronunciato di fronte al presidente di Mediaset, s’è materializzato di nuovo ad Arcore.
Perchè lì, a Villa San Martino, lontano dai riflettori che hanno illuminato le tappe del processo al Pd di Renzi, si sta consumando l’altro processo agli sconfitti del 4 marzo. Con la differenza che – al contrario di quanto è capitato ai democratici, dove è stato il leader a pagare per tutti – in questo caso è il leader a mettere sotto processo quelli che hanno gestito la macchina elettorale.
Due su tutti, Niccolò Ghedini e Licia Ronzulli, l’avvocato e l’assistente personale, finiti nel mirino di mezzo partito e di quella vecchia guardia – a cominciare da Gianni Letta e Fedele Confalonieri – che avevano provato a estromettere dal rapporto diretto con Berlusconi.
E che adesso, insieme ad Adriano Galliani (per lui si parla di un ruolo di primo piano nel partito) e forse al figliol prodigo Denis Verdini, sarà chiamata a gestire questa fase difficilissima.
Nel rapporto con la Lega di Salvini, nell’«intelligenza» con Pd e Cinquestelle, nel dialogo col Colle, certo. Ma anche, forse soprattutto, nella riorganizzazione interna della casa di Arcore e anche di Forza Italia.
Raccontano di un Berlusconi furibondo. Furibondo lui, furibondi i vertici aziendali e della pubblicità di Cologno Monzese per l’impatto devastante che il risultato elettorale degli azzurri ha avuto su Mediaset, a cominciare da Piazza Affari.
L’ex premier era letteralmente fuori di sè da quando s’è ritrovato davanti agli occhi la lista degli eletti di Forza Italia.
Molti di quelli su cui si era impegnato in prima persona sono fuori dal Parlamento o erano addirittura stati fatti fuori dalle liste all’ultimo secondo oppure retrocessi in posizione ineleggibile.
Fuori in Lombardia Francesco Ferri, a cui era stato affidato il compito di selezionare le candidature dal mondo dell’impresa e delle professioni; fuori in Campania Vincenzo Caputo, già vicepresidente dei giovani di Confindustria; fuori in Friuli Stefano Blasoni, imprenditore con duemilacinquecento dipendenti.
Ma sono solo tre dei tantissimi esempi che si potrebbero fare.
Dentro, nella lista degli eletti, l’ex premier si ritrova gente «che attribuiscono a me – dice ora – ma che nemmeno conosco».
Come Annaelsa Tartaglione, già miss Molise, eletta in Puglia. O come Matilde Siracusano, già concorrente di Miss Italia nel 2005, su cui si consuma dietro le quinte uno spassosissimo remake del «Ruby nipote di Mubarak» andato in scena anni fa.
Nel senso che, all’interno del cerchio magico, qualcuno la segnala per le liste come «nipote di Antonio Martino». Ma la parentela, come per l’illustre precedente, si rivelerà una bufala. Col risultato che, comunque, ora Siracusano si ritrova alla Camera, proprio come il suo «falso» zio ex ministro. Chi è Matilde Siracusano, ex concorrente di Miss Italia eletta in Sicilia (e scambiata per nipote di Antonio Martino)
I nodi che vengono al pettine dopo il disastro elettorale e il sorpasso della Lega vanno ben oltre la gestione del partito.
Nelle settimane della presentazione delle liste e della campagna elettorale, per esempio, persino Fedele Confalonieri e Gianni Letta fanno fatica a parlare con Berlusconi.
Lo cercano ad Arcore ma anche loro, come decine di parlamentari, non riescono a superare il filtro imposto dal cerchio magico. Ne sanno qualcosa quelli che vengono a sapere dai giornali dell’esclusione dalle liste o della retrocessione da caselle considerate «blindate» a posti senza speranza.
«Il presidente non c’è». «Il presidente non può rispondere». «Il presidente sta riposando». A tutte le ore del giorno e della notte.
Il muro eretto da Ronzulli (ad Arcore) e Ghedini (a Roma) pare invalicabile anche per i vecchi amici. Capita, però, che qualcuno riesca a forzare il blocco.
Antonio Angelucci, per esempio, scopre di essere scivolato in posizione ineleggibile e, furibondo, chiama Arcore. Respinto.
Ma al secondo tentativo, quello che il ras delle cliniche riesce a urlare all’orecchio della Ronzulli dev’essere talmente convincente che quest’ultima, spaventata, risolve il problema in mezzo secondo. Col risultato che oggi Angelucci è di nuovo tra gli eletti. Piccoli, grandi, dettagli di cronaca degli ultimi mesi di Forza Italia che, adesso, sembrano destinati alla storia.
Berlusconi, adesso, è pronto a riaffidarsi alla vecchia guardia.
Letta pontiere dei rapporti col Colle e col Pd, Confalonieri a presidiare (anche) i tavoli con la Lega, Galliani a occuparsi del partito e, chissà , magari Verdini consulente (stavolta esterno) sullo scacchiere del Parlamento.
Da sciogliere, tra le altre cose, anche la delicata partita che riguarda i capigruppo. Romani e Brunetta puntano alla riconferma.
L’ex premier, però, potrebbe voler dare un segnale di discontinuità . L’ennesimo di questa dolorosa fase che si è aperta, per Forza Italia, nella notte tra i 4 e il 5 marzo.
(da “il Corriere della Sera”)
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Marzo 15th, 2018 Riccardo Fucile
PIROZZI DICE DI VUOL FAR DECADERE IL CONSIGLIO REGIONALE DOPO LA PROCLAMAZIONE, MA GLI ALTRI GRUPPI LO SMENTISCONO
Il PD traccia il solco, Pirozzi lo difende.
C’è un piano per far cadere Nicola Zingaretti, appena rieletto come governatore della Regione Lazio, con il “metodo Marino”. Ovvero attraverso le dimissioni dal notaio dei 26 consiglieri regionali eletti con liste concorrenti a quella del centrosinistra che ha visto la vittoria del presidente uscente ma che non è stata capace di ricevere abbastanza preferenze da garantire la maggioranza nel consiglio.
L’esistenza del piano era stata raccontata stamattina da Simone Canettieri sul Messaggero e successivamente smentita dal centrodestra.
Ma a uscire definitivamente allo scoperto con l’agenzia di stampa AGI è Sergio Pirozzi: “È una iniziativa politica piuttosto semplice, che consentirà però di scoprire tutte le carte e vedere chi veramente era d’accordo con chi: attendere la proclamazione degli eletti, e poi recarsi da un notaio per ufficializzare le dimissioni in blocco di tutti i consiglieri regionali di minoranza, dopodichè indire una conferenza stampa per spiegare a tutti quello che succederà , ovvero che la regione Lazio tornerà al voto entro 60 giorni, e che Nicola Zingaretti non potrà più ricandidarsi”.
Ma se il piano di Pirozzi è chiaro, e secondo l’ex allenatore dell’Urbetevere servirà anche a “scoprire chi ha accordi sottobanco con chi. Io non ho necessità di poltrone, di sistemare parenti o amici, la mia è una mossa politica per riportare al voto la Regione”, non sembra chiaro agli altri che debbono aderirvi.
“No, non c’è nessun patto. Le cose che dice l’articolo sono lunari: dimissioni, notai… non ho saputo nulla di tutto questo”, ha detto il consigliere regionale Stefano Parisi, sconfitto alle elezioni da Zingaretti, stamattina a La7.
Anche il Messaggero raccontava della reazione non entusiastica del MoVimento 5 Stelle Lazio. In particolare di Roberta Lombardi: la neo capogruppo grillina si è presa «un po’ di tempo» per parlarne con gli altri eletti del M5S (10 in tutto) e soprattutto con il capo politico Luigi Di Maio.
E in effetti la mossa metterebbe in difficoltà anche il M5S, non tanto per il problema del divieto di terzo mandato che a quanto pare i grillini stanno per rimuovere, quanto per la difficoltà di agire in questo particolare momento politico nel quale balla Palazzo Chigi e Di Maio non ha certo rinunciato all’idea di arrivarci.
A quanto pare invece Parisi avrebbe ricevuto la benedizione di Matteo Salvini per la mossa delle dimissioni, per la quale si è detto pronto anche a pagare il notaio.
Una notizia curiosa, se non altro perchè Salvini in questo momento fa parte della coalizione che ha sostenuto la candidatura di Parisi.
Ci sono anche altri due ostacoli dietro il piano del notaio. Il primo è che l’articolo 43 dello Statuto del Consiglio Regionale del Lazio prevede che il governatore decada se viene sfiduciato dal Consiglio. Questa strada però prevederebbe la partenza dei lavori dell’Aula e la presentazione della Giunta da parte di Zingaretti.
C’è infine da segnalare che anche la riuscita del piano del notaio è appesa a un solo voto: un consigliere regionale guadagna uno stipendio che si aggira intorno ai 7mila euro al mese e c’è chi è arrivato alla sua prima volta in via della Pisana: ad occhio potrebbe essere possibile anche uno o più forfait rispetto al piano del notaio.
Senza contare che la particolare situazione in cui si trova la giunta di Zingaretti lo porta naturalmente alla necessità di mediare con uno o più gruppi all’opposizione: questo vuol dire possibilità di trattare da posizioni di forza su provvedimenti per il territorio o argomenti di importanza politica assoluta per le forze in campo.
Non a caso oggi Zingaretti ha incontrato Virginia Raggi e ha rilasciato un comunicato congiunto con la sindaca, non a caso poco fa Roberta Lombardi su Facebook ha apprezzato.
Infine, Pirozzi sostiene che Zingaretti non si potrebbe candidare per un altro mandato, ma non spiega perchè (le istruzioni per la candidatura a presidente di Regione dichiarano, tra le ragioni di incandidabilità , soltanto quelle della Severino).
Se Zingaretti dovesse fare il bis, può darsi che il risultato sia lo stesso per la corsa a governatore ma che migliori per il consiglio.
Insomma, la strada del notaio pare stretta. Per fortuna che Pirozzi si fa accompagnare da Salvini, che lo aveva scaricato qualche tempo fa.
(da “NextQuotidiano”)
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Marzo 15th, 2018 Riccardo Fucile
NESSUNO SI E’ PRESENTATO: “DISERZIONE CHE PREOCCUPA”… E POI CI SONO MEDICI PADAGNI CHE SI LAMENTANO DI ESSERE DISOCCUPATI
Non è la prima volta che succede e la ragioni ormai sono chiare: gli ospedali del Verbano Cusio Ossola faticano a essere attrattivi nei confronti dei medici.
Anche l’ultimo concorso per un ortopedico e quattro avvisi di mobilità per un chirurgo, un igienista, un cardiologo e un oncologo sono andati deserti.
Nei mesi scorsi non era andata meglio col reclutamento di altre figure specialistiche. Pare che nessuno voglia venire a lavorare negli ospedali dell’estremo Nord del Piemonte, a Verbania come a Domodossola.
I giovani laureati che accedono alle specializzazioni sono molto richiesti e con davanti a loro più opzioni difficilmente rispondono alle offerte di piccole strutture di provincia.
I sostenitori dell’ospedale unico provinciale – tra loro medici e addetti ai lavori – sono convinti che l’accentramento in un solo presidio di competenze, servizi e apparecchiature consentirà anche di richiamare figure professionali qualificate, contrastando l’attuale disinteresse per il Vco.
Ma se il progetto è ancora alle fasi iniziali, l’esigenza però è immediata e non può essere messa «in lista di attesa».
La direzione generale dell’Asl – dando notizia della difficoltà nel reperire professionisti specializzati – si dice impegnata nel trovare una via d’uscita al problema «per non acuire ulteriormente le criticità presenti nelle strutture aziendali» ma non nasconde la preoccupazione di fronte alla «presa d’atto delle diserzioni».
Convenzioni con medici esterni all’Asl – come nel caso dei pediatri – è una delle strade fin qua praticate.
(da “La Stampa”)
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Marzo 15th, 2018 Riccardo Fucile
POI SI E’ TOLTO LA VITA, IGNOTE ANCORA LE CAUSE DEL GESTO
Un appartamento al terzo e penultimo piano di una palazzina in via Ada Negri, a Paina, una frazione di Giussano, in provincia di Monza e Brianza.
In quest’appartamento, tre cadaveri. Tutti con ferite da arma da taglio. I deceduti sono un 28enne, la madre di 58 anni e la nonna di 88.
I corpi sono stati scoperti nella tarda serata di mercoledì 14 marzo: un vicino di casa, insospettito perchè non sentiva alcun rumore e perchè non aveva visto nessuno per tutto il giorno, ha chiamato i carabinieri. La porta era chiusa dall’interno.
I vigili del fuoco l’hanno sfondata e nelle stanze gli investigatori hanno trovato le vittime.
Intorno all’una della notte di giovedì 15 marzo, conclusi gli iniziali accertamenti, i carabinieri della Compagnia di Seregno hanno riferito che l’ipotesi principale sarebbe quella di un doppio omicidio (la madre e la nonna, Monica Cesano e Paola Partavicini) seguito da un suicidio: quello del ragazzo, l’assassino.
Si chiamava Alessandro Turati. Nell’appartamento non c’erano segni di una rapina. I primi accertamenti della scientifica sui cadaveri avrebbero escluso tracce di aggressioni. Le donne sarebbero state uccise nel sonno e nei minuti immediatamente successivi sarebbe da collocare il suicidio.
La ricostruzione della scena del crimine porta a ipotizzare che i delitti siano avvenuti mentre le vittime dormivano.
L’arma del delitto potrebbe esser stata la lama di un coltello della cucina, lo stesso che il 28enne avrebbe rivolto contro se stesso. Non sembra, ma le verifiche sono state parziali, che quest’ultimo fosse in cura per problemi psichiatrici.
Tutti i residenti della palazzina saranno risentiti in queste ore per andare a ritroso nella storia della famiglia e capire se ci fossero stati nei giorni scorsi dei litigi. Il ragazzo avrebbe lasciato una traccia scritta a spiegazione della propria azione con alcuni bigliettini.
(da “Il Corriere della Sera”)
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Marzo 15th, 2018 Riccardo Fucile
NONOSTANTE ABBIA UN PASSAPORTO UE, CONDANNATO PER AVER OLTREPASSATO LA FRONTIERA CON LA SERBIA… LA DENUNCIA DI AMNESTY INTERNATIONAL CONTRO UN REGIME CRIMINALE
I presunti “atti di terrorismo” per cui un tribunale ungherese ha condannato a sette anni di reclusione Ahmed Hamad consisterebbero in un lancio di sassi contro la polizia che sparava acqua dai cannoni e gas lacrimogeni verso i migranti, e l’aver varcato “illegalmente” il confine dalla Serbia, pur essendo in possesso di un passaporto europeo.
L’uomo in questione è siriano-cipriota e la sentenza arriva dalla corte di Szeged, cittadina meridionale dell’Ungheria.
I fatti risalgono al 16 settembre del 2015, un giorno dopo la chiusura della frontiera da parte del Governo di Viktor Orbà¡n, quando centinaia di migranti forzarono l’apertura del cancello di frontiera scontrandosi con la polizia.
Ahmed faceva parte del gruppo e parlava alla folla dall’altoparlante. La difesa ha sostenuto che lui non fece altro che tirare dei sassi e non ha alcuna affiliazione terroristica.
Condannato nel novembre del 2016 a 10 anni di carcere, venne assolto dalla corte d’appello che annullò la sentenza ordinando un nuovo processo, che si è concluso nella giornata di ieri.
Ahmed è apparso in tribunale ammanettato e con i piedi incatenati, sorvegliato da diversi poliziotti col volto coperto dal passamontagna.
A tutti gli effetti, un trattamento da vero terrorista quando in realtà , avendo un passaporto europeo, sarebbe potuto entrare in Ungheria senza visto.
Si presentò invece ai cancelli per aiutare i suoi parenti e altri cittadini siriani.
“Non siamo andati al confine per causare problemi – ha dichiarato – Non la mia cultura e neanche la mia religione lo incoraggerebbe”.
Tra le circostanze attenuanti approvate dalla corte: la mancanza di precedenti penali, il suo dovere di sostenere le sue due giovani figlie e l’inferno che ha sofferto.
Amnesty International ha condannato la sentenza affermando che “il verdetto di oggi riflette la pericolosa sintesi delle radicali leggi anti-terrorismo ungheresi e la spietata repressione di Budapest nei confronti di rifugiati e migranti. La condanna di Ahmed dovrebbe essere annullata in appello e lui rilasciato senza indugio”.
E’ proprio nello stesso anno, l’8 settembre, che al confine tra Serbia e Ungheria, dopo che alcuni migranti frustrati per la mancanza di assistenza da parte del governo ungherese, tentarono la fuga dal campo di Roszke.
In quella circostanza Petra Laslzo, reporter ungherese di N1TV, sgambettò un padre in fuga con in braccio un bambino. Il video fece il giro del mondo e Petra fu licenziata. La sua condanna arrivò dalla stessa corte della cittadina di Szeged che ora manda in galera Ahmed.
Quasi la metà del milione di migranti entrati nell’Unione europea nel 2015 ha attraversato l’Ungheria. Fidesz, il partito nazionalista di destra di Orbà¡n, si è fortemente opposto alle quote Ue sui migranti attraverso il blocco, affermando che rappresentano una minaccia per i valori e la cultura occidentali. Il premier ungherese ha spesso usato il caso di Ahmed nelle sue campagne di propaganda anti-migranti definendolo “un terrorista”. Nel 2015 sia il Parlamento europeo che il Dipartimento di Stato degli Usa con Barack Obama espressero preocccupazione per l’arresto di Hamed.
La Corte di giustizia europea a settembre del 2017 ha rigettato il ricorso di Ungheria, Slovacchia, Cèchia e Polonia sulle quote migranti, affermando che “ripartire il numero dei profughi tra i paesi della Ue è irrinunciabile”.
(da agenzie)
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Marzo 15th, 2018 Riccardo Fucile
TRA LE IPOTESI DI ESECUTIVO IL 44% ACCETTEREBBE UN GOVERNO DEL M5S APPOGGIATO DA ALTRE FORZE, MA BEN IL 32% PREFERIREBBE UN GOVERNO DI “CONCORDIA NAZIONALE”
Un italiano su due è poco o per nulla soddisfatto per l’esito del voto.
Questo il risultato di un sondaggio dell’Istituto Piepoli i cui risultati sono stati pubblicati oggi sulla Stampa.
Varie sono le ipotesi di alleanze presentate al campione di italiani intervistato.
Due sono quelle che più delle altre potrebbero essere accettate come possibile nuovo governo: al primo posto, con il 44% di gradimento, abbiamo l’ipotesi di un esecutivo guidato dal Movimento 5 Stelle. Il partito che ha vinto, aiutato da alcune altre forze, è per l’opinione pubblica la prima scelta.
Al secondo posto abbiamo, però, con il 32% di preferenze, la possibilità di un governo di «concordia nazionale».
Il gradimento per i partiti: spiega Piepoli che per quanto riguarda il Movimento 5 Stelle possiamo notare un lieve effetto «bandwagon»: «Il M5S sembra arrivato al massimo della sua parabola; se avesse ancora un bacino di utenza da alimentare nelle intenzioni di voto di questa settimana sarebbe arrivato a sfiorare il 40%, mentre nelle nostre rilevazioni conquista soltanto un punto percentuale in più».
A perdere punti è soprattutto Silvio Berlusconi: se si andasse alle elezioni oggi, nonostante la stabilità nelle intenzioni di voto dichiarate, Forza Italia conquisterebbe meno voti proprio a causa della perdita di fiducia degli elettori nel suo leader.
(da agenzie)
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Marzo 15th, 2018 Riccardo Fucile
MA GIA’ LITIGANO SULLA POLTRONA DI PRESIDENTE DELLA CAMERA
Il problema principale, adesso, è che vogliono entrambi la stessa presidenza: quella della Camera. Poi, certo, tutti e due precisano che hanno parlato solo di questo, non del governo.
Ma è chiaro che quella delle presidenze è la prima, cruciale tappa per capire se un governo ci sarà . La telefonata di Matteo Salvini a Luigi Di Maio è arrivata alle 20.15 di ieri, dopo che il leader della Lega aveva già spianato la strada a una possibile alleanza. E ha cementato la convinzione che un patto di tendenza sovranista è più che possibile. Ormai è probabile.
Serviranno diversi incontri, per ora non ancora fissati. Ma quanto filtra è indicativo. I due leader, che si parlavano direttamente per la prima volta, su un punto concordano: «Abbiamo i numeri per fare una legge elettorale tra noi due e tornare al voto quando vogliamo».
Sia Salvini sia Di Maio sanno che i loro sono gli unici partiti non atterriti dall’ipotesi delle urne. Il che darebbe ragione ai timori espressi da Dario Franceschini, che sta provando in tutti i modi a spostare i partiti verso un governo costituente, per cambiare la legge elettorale e lasciare una sola Camera.
I 5 Stelle per ora non vogliono pensare a questa prospettiva che pure, lo sanno, farebbe piacere a Sergio Mattarella. Meglio, anche per spaventare i dem, andare a vedere le carte di Salvini, «e vediamo come reagisce il Pd». «Questi fanno la legge e torniamo a votare tra luglio e ottobre» ha detto Franceschini ad alcuni colleghi. È così?
Sicuramente la legge elettorale con la Lega è il piano B di Di Maio. La paura dei grillini semmai è un’altra, che Salvini chieda l’unica cosa che il M5s non è disposto a concedere: un passo indietro di Di Maio. «Se io sono disposto a non fare il premier, la stessa cosa deve dire lui».
È una condizione ancora indigeribile per i 5 Stelle, disposti invece a mettere mano al programma e firmare il famoso «contratto alla tedesca» che chiedeva Di Maio.
L’asse avrebbe anche la benedizione di Beppe Grillo, stufo dei tentennamenti del Pd e pronto a una politica di adattamento con i leghisti. E intanto oggi partiranno le consultazioni dei due capogruppo grillini, Giulia Grillo e Danilo Toninelli.
Vista da parte leghista, la soluzione preferita resta sempre un Salvini I di centrodestra che va in Aula a chiedere i voti che mancano. L’ipotesi però appare sempre più improbabile, e Salvini sa che il suo nome è il meno adatto per mettere insieme una maggioranza.
E allora via con il piano di riserva, ammiccare ai grillini: se son governi fioriranno («È l’ultima ratio prima di nuove elezioni», spiega uno stratega leghista con uso di latino), ma nel frattempo si mette paura a Fi.
L’accordo sulla spartizione delle presidenze sarebbe già fatto se, come si diceva, non ci fosse una poltrona per due, quella della Camera.
«Ho ricordato a Salvini che il M5s è la prima forza politica del Paese, con il 32% dei voti e il 36% dei deputati», dice Di Maio. Ma Salvini vedrebbe bene a Montecitorio uno dei suoi fedelissimi, qualcuno di più vicino a lui che Roberto Calderoli, l’unico leghista papabile per Palazzo Madama.
Magari non Giancarlo Giorgetti, indispensabile come futuro ministro, probabilmente dell’Economia, ma Massimiliano Fedriga, già capogruppo alla Camera che è considerato, guarda caso, il leghista in migliori rapporti con i grillini. E, ri-guarda caso, i leghisti fanno sapere che una «priorità » è «tagliare vitalizi e spese inutili», musica per le orecchie pentastellate.
Chi non crede assolutamente a un governo Lega-M5S è Romano Prodi. Il Professore lo confida a un amico: «Berlusconi non lo consentirà a nessuna condizione».
(da “La Stampa”)
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Marzo 15th, 2018 Riccardo Fucile
“UNA MAGGIORANZA VA COSTRUITA SE NON CE L’HAI, NON ASPETTANDO CHE SI FACCIANO VIVI GLI ALTRI, NESSUNO REGALA VOTI A CHI NON SI ABBASSA NEANCHE A CHIDERGLIELI”
Luigi Di Maio non rifaccia l’errore che fece Pierluigi Bersani dopo le elezioni del 2013 e chieda al Pd e Liberi e Uguali i voti per formare una maggioranza. È quanto sostiene Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano, nel suo editoriale in prima pagina dal titolo “Gli opposti cretinismi”.
Travaglio suggerisce ai 5 stelle, che hanno preso il 32,7% alle elezioni del 4 marzo, come costruire una maggioranza del 50% più uno
Bisogna costruirla: non aspettando che si facciano vivi gli altri e poi meravigliandosi perchè “finora non s’è visto nessuno” (e ti credo!). Ma facendo ai partner una proposta che non possano rifiutare. Se Di Maio vuole i voti del Pd derenzizzato e di LeU, glieli chieda. Poi vada a parlare con Martina e Grasso su un’offerta chiara, realistica, generosa e rispettosa della democrazia parlamentare (che non si regge su maggioranze relative, ma assolute). Proprio quello che non fece il Pd nel 2013, quando pareggiò col M5S: si pappò le presidenze delle due Camere, designò Bersani come premier, stese un programma e una lista di ministri, poi pretese che i 5Stelle sostenessero al Senato il suo governo di minoranza. Risultato: il famoso e disastroso incontro in streaming. Quella di Bersani e Letta era una proposta che Crimi e Lombardi non solo potevano, ma dovevano rifiutare. Quando poi Grillo, venti giorni dopo, ne avanzò una non solo accettabile, ma auspicabile per il M5S, per il Pd e soprattutto per l’Italia — “eleggiamo Rodotà al Quirinale e poi governiamo insieme” — fu il Pd napolitanizzato e lettizzato, cioè berlusconizzato a rifiutarla. E condannò il Paese a cinque anni di vergogne. Ora Di Maio crede che avere quasi doppiato il Pd lo autorizzi a fare altrettanto.
Il direttore del Fatto aggiunge
Luigi Di Maio continua a ripetere che sul programma non si tratta perchè l’hanno scelto gli elettori; sui ministri non si tratta perchè li hanno scelti gli elettori; e ovviamente non si tratta neppure sul premier (lui), perchè l’hanno scelto gli elettori.
Dimentica sempre di precisare: i suoi elettori. Che sono tanti. Ma non tutti.
Arrivare primi (come lista) con il 32,7% significa partire favoriti per l’incarico di formare un governo (anche se Mattarella potrebbe iniziare col centrodestra, cioè con la prima coalizione, sempre che non si sfasci nel frattempo). Ma non conferisce il diritto divino di fare un governo con i voti altrui, per giunta gratis.
Nessuno regala voti a chi nemmeno si abbassa a chiederglieli. Se il Pd pretendesse poltrone, i 5Stelle farebbero bene a rifiutare. Ma se chiedesse alcuni punti programmatici condivisibili, perchè no? La cosa sarebbe meno difficile se Di Maio aprisse la sua squadra di esterni ad altri indipendenti di centrosinistra, per un governo senza ministri parlamentari. E bilanciasse la sua premiership lasciando la presidenza di una Camera alla Lega. Dopodichè, è ovvio, è sul programma che dovrebbe garantire il cambiamento che gli elettori hanno appena chiesto. La palla tornerebbe al Pd, che dovrebbe scegliere: accettare una soluzione equilibrata o suicidarsi con nuove elezioni. Intendiamoci: il Pd sarebbe capace di optare per la seconda ipotesi. Ma almeno sarebbe chiaro di chi è la colpa.
(da “Huffingtonpost“)
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Marzo 15th, 2018 Riccardo Fucile
AUMENTO DI 23,8 MILIARDI RISPETTO AL MESE PRECEDENTE… ALTRO CHE SFORARE IL 3%, TRA POCO CI PIGNORANO ANCHE IL COLOSSEO
Il debito pubblico cresce ancora e segna un nuovo record. Il dato, comunicato dalla Banca d’Italia, si è attestato a 2.279,9 miliardi di euro, con un aumento di 23,8 miliardi rispetto al mese precedente.
L’incremento, spiega via Nazionale, è dovuto all’aumento da 29,3 a 54,5 miliardi delle disponibilità liquide del Tesoro, solo in parte compensato dall’avanzo di cassa delle amministrazioni pubbliche (1,2 miliardi) e dall’effetto complessivo degli scarti e dei premi all’emissione e al rimborso, della rivalutazione dei titoli indicizzati all’inflazione e della variazione del cambio dell’euro (0,2 miliardi).
Con riferimento alla ripartizione per sottosettori, il debito delle amministrazioni centrali è aumentato di 23,3 miliardi e quello delle Amministrazioni locali di 0,5 miliardi. Il debito degli Enti di previdenza è rimasto invece pressochè invariato.
A gennaio le entrate tributarie contabilizzate nel bilancio dello Stato sono state pari a 33,7 miliardi, in calo di 1,6 miliardi rispetto a quelle rilevate nello stesso mese del 2017.
Al netto di alcune disomogeneità contabili, osserva Bankitalia, si può stimare che le entrate tributarie siano state sostanzialmente in linea con lo scorso anno.
(da agenzie)
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