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IL GOVERNO BLANDISCE CERTI TARGET CON POLITICHE AD HOC: FAVORI ALLA BORGHESIA AFFARISTICA E AI BOTTEGAI

Febbraio 1st, 2023 Riccardo Fucile

LA MELONI TRASFORMISTA FA UN PO’ DRAGHI E UN PO’ BRIATORE

Ormai va componendosi definitivamente il puzzle dei referenti sociali privilegiati dal governo Meloni; la base da blandire con provvedimenti legislativi e politiche ad hoc.
Una prima traccia ce la forniva Antonio Padellaro su il Fatto cartaceo della scorsa settimana (25 gennaio), maneggiando il bandolo maleodorante che unifica una serie di provvedimenti (depenalizzazione dell’evasione fiscale, rottamazione delle pendenze esattoriali, via la Spazzacorrotti, taglio alle intercettazioni, abolizione della Severino con rieleggibilità dei condannati) direttamente a vantaggio di una tipologia ben precisa: la neo-borghesia affaristica.
Dunque, un orientamento di stampo thatcheriano, secondo la descrizione della “Lady di ferro” tratteggiata dallo storico del Novecento Tony Judt: “una parvenu della lower middle-class con un’inclinazione per gli uomini d’affari nouveau riche”.
Ma a fianco degli arricchimenti dalla dubbia origine e di spudorata ostentatività, tipici di questi anni, c’è il secondo target – tanto per Margaret Thatcher come per Giorgia Meloni – che anche in questo caso è Judt a segnalarci: “riduzione delle tasse, libero mercato, privatizzazione di imprese e servizi, patriottismo, individualismo”.
Istanze riconducibili a un altro conservatorismo, che allignano nel modo piccolo dei bottegai e dei padroncini; nelle loro nevrosi ansiogene di mantenere un qualche distacco dall’odiata moltitudine degli ultimi; cui si vuole togliere persino il modesto puntello del reddito di cittadinanza per impedirgli di galleggiare.
Ecco – però – apparire, a fianco dei furbetti/furbacchioni insofferenti delle regole e degli impauriti alla ricerca di protezione e rassicuramento, un terzo soggetto, di ben maggiore peso: i signori dell’ordine costituito e i loro fiduciari (politici e maîtres à penser) preposti a giustificare il vigente sistema delle disuguaglianze.
Potremmo chiamarli i cittadini del Mondo Davos; con la loro post-ideologia, che mentre attesta la fine di tutte le ideologie promuovendo il pensiero unico semplificatorio fornisce alle due signore la corazza di convinzioni con cui promuovere le rispettive ascese politiche.
La figlia del droghiere di Grantham, nella marginale contea del Lincolnshire, e la ragazza venuta dal quartiere periferico della Garbatella; la prima eleggendo a propria guida spirituale un simil-filosofo austriaco – Friedrich Hayek – e l’altra cercando la pietra filosofale del successo negli States; nell’America della scuola di Chicago, a lezione dall’economista hayekiano Milton Friedman: il profitto è una forma di bene sociale e senza di esso una società libera non può funzionare; negli ultimi duecento anni grazie al libero mercato tutti gli indicatori di benessere si sono impennati; il capitalismo garantisce il dinamismo, il socialismo assicura dignità ma non mantiene quanto promesso; compito del governo è quello di garantire lo stato di diritto e poi levarsi di torno.
Insomma, il sogno americano spiegato al popolo e riassunto nella formula friedmaniana “la responsabilità sociale dell’impresa è la massimizzazione del profitto”. Sempre la stessa solfa da oltre mezzo secolo. Ma mentre la dama arrivata dall’Inghilterra profonda non aveva avuto modo di verificare gli effetti di tali corbellerie dottrinarie, la nostra borgatara dalla voce rauca avrebbe – volendo – modo di constatare il disastro prodotto – tanto alle persone come all’ambiente – da un turbocapitalismo senza regole, che elegge l’interesse avido a proprio criterio-guida.
Ed è stupefacente giungere a una tale valutazione, considerando che la premier veniva annunciata come la portabandiera di una destra sociale propugnatrice di tutt’altre tesi: ostilità e disprezzo nei confronti delle cricche pluto-masso-giudaiche (il “demo” resta da valutare), propensione al nazional-popolare (l’Italia descritta come “Grande Proletaria”), valorizzazione del ruolo pubblico in economia (l’IRI non è vanto del Fascismo?), malevolenza verso l’anglicizzazione del mondo (il “Dio stramaledica gli inglesi” è mood del Ventennio o no?). Un armamentario arrugginito di cui non si sente la necessità ma che la premier accantona per qualcosa di ben più pericoloso: la determinazione a farsi cooptare dall’establishment politico (la Casta), la sovresposizione ai richiami plutocratici delle diseguaglianze, dello sfruttamento e della demofobia (leggi l’odio verso gli ultimi). Un po’ Mario Draghi, un po’ Flavio Briatore.
Per cui, la nostra puffetta mannara Giorgia on my mind ci sta cantando una vecchia canzone che suscita soltanto ricordi tristissimi di impoverimenti e disunione civica.
(da Il Fatto Quotidiano)

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DOPO AVER OTTENUTO I CARRI ARMATI (LA PRIMA FORNITURA SARÀ DI 120 TANK), KIEV CHIEDE ALL’OCCIDENTE GLI F-16 PER CONTINUARE LA CONTROFFENSIVA CONTRO I RUSSI

Febbraio 1st, 2023 Riccardo Fucile

GLI USA INTANTO PREPARANO PIÙ DI 2 MILIARDI DI DOLLARI DI AIUTI MILITARI PER L’UCRAINA, INCLUSI PER LA PRIMA VOLTA RAZZI A LUNGO RAGGIO

Gli Stati Uniti stanno preparando più di 2 miliardi di dollari di aiuti militari per l’Ucraina che dovrebbero includere per la prima volta razzi a lungo raggio, oltre ad altre munizioni e armi: lo riportano alcuni media citando la Reuters.
Gli aiuti militari, secondo due dirigenti americani, dovrebbero essere annunciati già questa settimana. Si prevede inoltre che includano attrezzature di supporto per i sistemi di difesa aerea Patriot, munizioni di precisione guidate a distanza e armi anticarro Javelin.
Ottenuti i carri armati (la prima fornitura sarà di 120), ora Kiev punta ai caccia.
«All’inizio gli alleati dicono sempre “impossibile”, ma poi tutte le armi che abbiamo chiesto sono arrivate» ha ricordato il ministro della Difesa ucraino Oleksii Reznikov. Per il momento, però, la Polonia chiarisce che non tenterà fughe in avanti consegnando gli F16 unilateralmente, ma agirà solo in concerto con gli altri membri della Nato.
Londra forse farebbe anche da sola, ma giudica i propri caccia troppo sofisticati per un addestramento rapido. L’americano Biden ribadisce il suo no ai jet, e l’unica apertura viene dal presidente francese Macron per il quale «non si può escludere nulla».
Secondo il New York Times molti Paesi confinanti con la Federazione russa aiutano a evitare le sanzioni occidentali. L’amico di ferro, il bielorusso Lukashenko, ha ammesso la possibilità di un «aiuto più intenso alla Russia»
(da agenzie)

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DIETRO ALLE DIMISSIONI DEL CAPO DELLA SEGRETERIA PARTICOLARE DI ADOLFO URSO, VALENTINA COLUCCI, E DEL SUO PORTAVOCE, GERARDO PELOSI, C’È LA SMANIA E L’ANSIA DI FARSI NOTARE DEL MINISTRO DELLE IMPRESE E DEL MADE IN ITALY

Febbraio 1st, 2023 Riccardo Fucile

IL CASO DELLO SCIOPERO DEI BENZINAI, QUANDO URSO HA “VENDUTO” ALLA MELONI UN ACCORDO CHE NON C’ERA. E POI SI È SCAGLIATO CONTRO LO STAFF, URLANDO: “VI CACCIO TUTTI, TRADITORI!”

Quanto può essere pericolosa la smania di un ministro? Cosa è pronto a fare per brillare agli occhi del suo capo? L’episodio simbolo dei cento giorni del governo Meloni ha come protagonista Adolfo Urso, ministro del Mimit, imprese e Made in Italy. Dietro le dimissioni del suo capo di segreteria particolare (le ha rassegnate ieri) si nasconde infatti una tecnica di potere, la fragilità della dirigenza di FdI, la paura e l’ansia di un governo.
La notizia che Valentina Colucci, capo della segreteria particolare del ministro Urso, stia per lasciare il ministero, dimettersi, si diffonde lunedì mattina. Non è un’uscita concordata ma causata da un litigio violentissimo tra Urso e il suo staff. Si consuma tra il 23 e il 24 gennaio, giorni in cui esplode lo sciopero benzina,
Urso vuole consegnare alla premier un “trofeo”. E’ convinto di poter scongiurare la protesta e di aver chiuso un accordo con i benzinai. E’ cosi sicuro da chiamare la premier, in visita ad Algeri, e comunicarle che “è fatta”.
Vengono allertate le tv per dare la notizia al Tg delle 20. L’intesa in realtà è solo con una sigla. Le altre si oppongono. Urso si sfoga con i suoi collaboratori, minaccia “provvedimenti disciplinari”. Li accusa di slealtà.
Quando Urso si insedia teme che il suo volto sia poco conosciuto rispetto a quello di Lollobrigida, Crosetto, Fitto, i più noti del partito.
Comincia a rilasciare interviste (il ritmo è altissimo) e cerca di avvalersi di un portavoce. Forma presto la sua squadra. Sceglie come capo di gabinetto Federico Eichberg e Colucci, capo della sua segreteria particolare. Chiede a Gerardo Pelosi, già firma economica del Sole 24 Ore, e oggi in pensione, di aiutarlo sulla comunicazione. Urso completa il suo staff con Mario Ciampi, capo della segreteria tecnica.
Urso soffre, comincia a mettere sotto pressione lo staff. Chi lavora al ministero parla di “un clima di terrore e angoscia”. La protesta dei benzinai, il malessere di Meloni fanno il resto.
Urso coltiva una simpatia con la Faib, la sigla dei benzinai più dialogante ed è convinto che questo basti a scongiurare lo sciopero. Restano da convincere le altre, Figisc e Fegica. E’ il 24 gennaio pomeriggio.
Il ministro convoca le sigle. Le fa chiamare alle 14,40 per un tavolo che si tiene alle 15. Telefona a Meloni per “vendere” questo successo: “E’ fatta”. Il capo di gabinetto si mobilita, il portavoce fa altrettanto: “Forza, chiama i giornalisti” dice uno. L’altro avvisa i colleghi: “Ci potrebbe essere una notizia, preparatevi”.
Tra quelle persone c’è Colucci, una professionista che ha lavorato con ben otto ministri, l’ultimo è stato Federico D’Incà. La notizia dell’accordo “fatto” arriva alle sigle più combattive.
Comprendono che Urso aveva dato per chiuso qualcosa che non era stato ancora negoziato con loro. L’accordo non c’è. Meloni si infuria, Urso scarica la rabbia. Crede che i suoi collaboratori lo abbiano tradito anticipando la notizia. Pronuncia parole irriferibili contro di loro.
I collaboratori, tra questi Colucci e Pelosi, chiedono al ministro di riflettere. Senza fiducia non proseguono. La lite al ministero diventa di dominio e viene confermata. Urso viene scavalcato dagli eventi. Cerca una via d’uscita. A Pelosi viene proposto di occuparsi del ministero e di affiancare il sottosegretario Valentino Valentini. Colucci non accetta nessun’altra proposta e decide di formalizzare le dimissioni.
La morale? Non c’era stata nessuna fuga di notizie ma solo fretta di vendere la pelle dell’orso prima di averlo ucciso. Quanto raccontato diventa l’apologo di questo tempo e del governo Meloni. Il titolo è “La pelle dell’Urso”.
(da Il Foglio)

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LA GIORNALISTA CHE RACCONTA IL SUO TUMORE AL COLON: “CON LA SANITA’ PUBBLICA SAREI GIA’ MORTA”

Febbraio 1st, 2023 Riccardo Fucile

FLAVIA AMABILE DE “LA STAMPA” RACCONTA LA SUA OPERAZIONE… GLI ESAMI MEDICI DA PRENOTARE NEL PUBBLICO SAREBBERO ARRIVATI TROPPO TARDI

Flavia Amabile è una giornalista de La Stampa. In un intervento sul quotidiano oggi racconta la scoperta di un tumore al colon.
Amabile è stata operata venerdì 27 gennaio dopo una diagnosi arrivata poche ore prima. «Ancora un po’ e questa storia non l’avrebbe raccontata», le ha detto un medico guardano i risultati della colonscopia e della Tac.
Il tumore al colon è il terzo per incidenza e mortalità in Occidente. Ogni anno in Italia ne vengono diagnosticati circa cinquantamila. È la malattia che ha ucciso Pelé e che ha portato Matteo Messina Denaro alla chemioterapia a La Maddalena di Palermo.
Ma, spiega Amabile, durante il primo anno dell’emergenza Coronavirus si è verificata una riduzione del 45% degli screening e dell’11,9% delle diagnosi. Gli esami preventivi sono l’unico modo per scoprirli.
Le liste d’attesa infinite per gli esami
Ma, spiega la giornalista, proprio le liste d’attesa infinite per gli esami avrebbero potuto ucciderla. «Se ho sbagliato a non sottopormi a un controllo preventivo, ho fatto molto bene – da quello che mi hanno detto i medici – a correre quando ho avuto il primo segnale d’allarme. Era due settimane fa. A quel punto avevo due possibilità. Rivolgermi alla sanità pubblica o a quella privata. Se avessi provato a prenotare una visita gastroenterologica nel pubblico, in alcune Asl di Roma avrei dovuto aspettare più di un mese».
A questi tempi avrebbe dovuto sommare quelli di attesa per i risultati della colonscopia. «Non mi sono rivolta al sistema sanitario pubblico. Sarei arrivata tardi. In questi casi il tempo è tutto. Aspettare vuol dire consentire al tumore di farsi strada, di avanzare. Ho prenotato una visita nel privato».
L’assicurazione sanitaria
Lo ha fatto grazie alla copertura assicurativa della Casagit, la cassa di assistenza sanitaria integrativa dei giornalisti. «Un’assistenza che in tanti hanno capito di dover pagare per aver accesso alle cure in Italia. La spesa sanitaria privata nel 2020 ha raggiunto i 38 miliardi di euro. Nel 2021 i cittadini con una copertura integrativa sono tra i 17 e i 20 milioni. I fondi e le casse di assistenza oggi assicurano il 25% degli italiani. Uno studio dell’Ania dice che il 90% della spesa sanitaria la pagano i singoli cittadini. Che attingono al proprio patrimonio personale in caso di urgenze. L’incidenza del risparmio privato nella spesa sanitaria in Italia è pari al 74%. Perché il settore pubblico non è abbastanza efficiente e tempestivo.
(da agenzie)

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“UNA VOLTA A CARNEVALE MI SONO TRAVESTITO DA MINNIE, SONO FORSE MINNIE?”

Febbraio 1st, 2023 Riccardo Fucile

LA RESISTIBILE ASCESA DI GIOVANNI DONZELLI, “IL PIPISTRELLO” CHE SUSSURRA ALLA MELONI FINITO NELL’OCCHIO DEL CICLONE PER IL CASO COSPITO

I colleghi di Roma, ora che è diventato potente, gli hanno affibbiato un soprannome poco lusinghiero, come quasi tutti i soprannomi romani. “Il Pipistrello”, lo chiamano così, Giovanni Donzelli.
Forse perché è riuscito a volare lì dove altri compagni di scranno non sono riusciti: giusto un gradino sotto Giorgia Meloni, a tenere le redini del primo partito d’Italia, 30% e passa nei sondaggi.
Per tutti gli altri è semplicemente “Donze”, o, nomignolo bonario, “il monaco”, perché lasciata via della Scrofa rincasa presto, nel bilocale a Monti che divide col sottosegretario Delmastro. Senza farsi risucchiare dai salotti. “Per rimanere lucido”, dice lui. Dieta, dolcevita e scarpe a punta, lucide.
Come in tutte le scalate, adesso il Donze dà fastidio. A 47 anni ha rinunciato a un posto da ministro (nel toto-governo era dato quantomeno ai Rapporti col Parlamento, dov’è finito Luca Ciriani), ma nel frattempo ha infilato 5 incarichi, tra partito e Parlamento. Un record: deputato, segretario dell’Aula di Montecitorio, vicepresidente del Copasir. E poi responsabile dell’organizzazione di FdI, quasi un vice-Meloni appunto, e adesso anche commissario del partito a Roma, chiamato a domare la fronda dei rampelliani, missione da Mr Wolf di via della Scrofa.
Sta più lì, nella sede storica dei missini, ora quartier generale dei meloniani, che alla Camera. Ha una stanza dove passò Giorgio Almirante. Scrivania in radica che fu di Gianfranco Fini, di cui era “innamoratissimo”, prima di restarne deluso. A Montecitorio si vede di rado, quando c’è da pigiare il bottone per un provvedimento chiave o per qualche intervento a gamba tesa, come ieri.
L’arte della politica l’ha imparata da Maurizio Gasparri, è cresciuto sotto la sua ala ai tempi di An. E forse da lì deriva anche la passione per certe uscite beffarde, le battute ciniche, aggressive ma a effetto.
La sbornia elettorale del 25 settembre non l’ha cambiato, nel senso della prudenza, dei toni sottili. “Spiace per i rosiconi”, dichiarava un mesetto fa. C’è sempre il rischio che poi ti parta la frizione però, come quando per difendere il collega di partito Galeazzo Bignami, noto al grande pubblico per la foto in mise da nazista a un addio al celibato, azzardò: “Una volta a carnevale mi sono travestito da Minnie, sono forse Minnie?”. Minnie, altro soprannome, il più recente.
“È stato un ottimo allievo – dice di lui Gasparri – militante vero, lavora h24, si sposta. Certo dovrebbe imparare a dosare un po’ le espressioni, ma capita anche a me, dopo tanti anni….”.
(da La Repubblica)

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COS’E’ E COSA PREVEDE IL 41 BIS: ECCO QUANTI SONO I DETENUTI AL CARCERE DURO

Febbraio 1st, 2023 Riccardo Fucile

SONO 728 I CARCERATI A CUI E’ APPLICATO IL CARCERE DURO… QUASI TUTTI PER REATI LEGATI ALLA CRIMINALITA’ ORGANIZZATA, SOLO QUATTRO PER TERRORISMO

La vicenda di Alfredo Cospito ha acceso i riflettori sul regime del 41 bis, il cosiddetto carcere duro, introdotto come risposta alle stragi mafiose che hanno causato la morte dei giudici Falcone e Borsellino e degli agenti delle loro scorte. Il regime non nasce per isolare i detenuti e aggravarne la pena ma per evitare che i capimafia continuino a impartire direttive dal carcere. Al 41 bis ci vanno capiclan, da Leoluca Bagarella, cognato di Salvatore Riina, ai fratelli Graviano ai Casalesi, ma non solo. Da oltre trent’anni è uno degli strumenti più utilizzati per contrastare la criminalità organizzata.
Secondo alcune interpretazioni è una deroga al principio della funzione di riabilitazione della pena, in nome della prevenzione. È applicato con decreto motivato del ministro della Giustizia per “gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica” su richiesta del ministero dell’Interno, sentito il parere del pubblico ministero ed acquisite ulteriori notizie presso la Direzione nazionale antimafia e gli organi di polizia. Può riguardare sia i detenuti già condannati che quelli in attesa di giudizio.
Introdotto 37 anni fa, nel 1986, con la “Legge Gozzini”, in via temporanea. Inizialmente riportava soltanto il primo comma, il ministro della Giustizia poteva sospendere le “normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati”, “in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza”. Il fine era quello di evitare e prevenire, quindi, le rivolte in carcere.
La svolta dopo la strage di Capaci
Nel 1992, dopo la strage di Capaci e la morte del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, con il “Decreto antimafia Martelli – Scotti”, il 41 bis viene modificato e ampliato ai detenuti reclusi per mafia. È quella l’occasione in cui viene aggiunto un secondo comma il cui testo viene modificato più volte. Nel 2002, la norma del “carcere duro” diventa definitiva e viene estesa anche ai condannati per terrorismo e altri reati.
Il 41 bis ha lo scopo di interrompere i legami dei detenuti con il mondo esterno e interno al carcere, quindi con l’associazione “criminale, terroristica o eversiva”. Il procuratore di Perugia Raffaele Cantone ha ricordato che l’applicazione del 41bis nei confronti di Cospito è stata valutata dopo un’indagine effettuata con il trojan e decisa poiché “noi contestavamo specificatamente l’ipotesi di istigazione a delinquere fatta mentre era in carcere”.
Le regole per un detenuto al carcere duro
I detenuti vivono in cella singola, di norma hanno due ore al giorno di socialità, in piccoli gruppi, composti al massimo da quattro persone, e un’ora di colloquio al mese con i familiari, con vetro divisorio e videocontrollato. Possono partecipare alle udienze in tribunale solo in videcollegamento. Il Gom, un reparto specializzato della polizia penitenziaria, provvede ad osservarli.
La misura ha una durata di quattro anni, ma può essere prorogata per altri periodi, nei casi in cui i collegamenti con le associazioni criminali o terroristiche dovessero continuare.
Chi è detenuto al 41bis in cella è solo. I colloqui, che possono esserci una volta al mese, si tengono attraverso un divisorio di vetro, a eccezione di quelli con i minori di 12 anni. Massimo un’ora e sotto il controllo di un agente di polizia penitenziaria. Gli incontri sono video-registrati. La socialità in carcere, in quelle due ore d’aria al giorno, è limitata a un gruppo di massimo quattro persone.
I detenuti al carcere duro sono 728, tra cui 12 donne. Il dato è riferito dal ministero nella Relazione sull’amministrazione della giustizia per l’anno 2022 da poco pubblicata ed è aggiornato a fine ottobre scorso. Quindi non tiene conto del superlatitante Matteo Messina Denaro, per il quale è stato disposto il 41bis nel carcere dell’Aquila all’indomani dell’arresto. Nel 2022 sono state 16 le nuove applicazioni, per 84 il regime speciale è stato prorogato. Il numero totale è in calo, al 31 ottobre 2021 erano 750. L’età media è di 58 anni, i detenuti di età pari o superiore a 60 anni sono 340. Cinque sono morti lo scorso anno mentre erano al 41bis.
Se gran parte dei condannati al “carcere duro” ha commesso un reato di tipo mafioso, quattro detenuti su oltre settecento totali sono al 41bis per terrorismo interno e internazionale. E tra questi c’è Alfredo Cospito oltre ai Br condannati per gli omicidi di Massimo D’Antona e Marco Biagi: Nadia Desdemona Lioce, Marco Mezzasalma e Roberto Morandi. Sono al 41 bis 242 appartenenti alla Camorra, 232 a Cosa nostra, 195 alla ‘ndrangheta, 20 alla Sacra corona unita, 3 alla Stidda, 32 sono i detenuti appartenenti alle altre mafie.
Quali sono i penitenziari del 41 bis
Sono reclusi in 12 diversi istituti penitenziari. Quello dell’Aquila è il carcere d’Italia con il più alto numero di detenuti al 41 bis e l’unico con la sezione femminile. Infatti qui è detenuta la brigatista Nadia Lioce, ed è stata trasferita la boss Maria Licciardi, ‘lady Camorra’. Sezioni di 41bis sono a Milano Opera, Parma, Cuneo, Sassari, Spoleto, Novara, Nuoro, Roma Rebibbia, Viterbo, Terni, Tolmezzo.
(da la Repubblica)

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LE DUE INTERCETTAZIONI RIVELATE DA DONZELLI ERANO SEGRETE: RISCHIO DIMISSIONI PER LUI E DELMASTRO

Febbraio 1st, 2023 Riccardo Fucile

I DUE COLLEGHI DI FDI SONO COINQUILINI, AVREBBERO PREPARATO A CASA L’INTERVENTO

Chi ha passato le carte su Alfredo Cospito al deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli? Dopo la polemica sull’anarchico definito «influencer del 41 bis» e le accuse alla sinistra che «sta con i terroristi» è lo stesso vicepresidente del Copasir ad ammetterlo.
«Quelle che ho riferito non erano intercettazioni, ma una conversazione captata in carcere e inserita in una relazione del ministero della Giustizia. In quanto parlamentare potevo conoscerla», dice oggi al Corriere della Sera. «A darmi le notizie dettagliate è stato il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro», aggiunge.
Lui, che è il coinquilino di Donzelli, conferma. E adesso rischia il posto. Perché il ministro Carlo Nordio ha chiesto una relazione al suo capo di gabinetto Alberto Rizzo sulla vicenda. Per ottenere quei documenti riservati servono precise richieste. Non è vero che sono nella disponibilità dei parlamentari.
I documenti riservati
Per questo adesso il punto è politico. E investe l’intero governo Meloni. A rischio c’è anche il posto di Donzelli al Copasir. Nordio riferirà oggi sui fatti. Anche perché Donzelli ha citato anche stralci degli articoli che raccontavano lo sciopero della fame di Cospito a base di integratori.
E soprattutto, anche se lui nega, due intercettazioni. Una, racconta oggi Repubblica, risale al 28 dicembre 2022. A parlare con l’anarchico del Fai è Francesco Prezza, killer della ‘ndrangheta. «Mantieni l’andamento, vai avanti», gli dice Prezza. Un’altra è del 12 gennaio 2023: «Pezzetto dopo pezzetto si arriverà al risultato» sul carcere duro, dice Francesco Di Maio del clan dei casalesi. E poi l’accusa ai parlamentari Pd Serracchiani, Verini e Orlando. Secondo il quotidiano per avere queste informazioni serve addirittura un accesso agli atti. Intanto la polemica ha rinfocolato la faida in Fratelli d’Italia. Fabio Rampelli, da poco esautorato dal suo incarico a Roma, parla di «analfabetismo istituzionale», a proposito di Donzelli. Che ha preso il suo posto nella Capitale.
Un retroscena de La Stampa racconta che l’offensiva di Fdi è stata pianificata il giorno prima. «Abbiamo inaugurato un nuovo filone. Dopo le intercettazioni sui giornali, le intercettazioni negli atti parlamentari», ironizzano i colleghi di Forza Italia.
Donzelli e Delmastro avrebbero preparato l’intervento proprio a casa loro.
(da agenzie)

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FRATELLI DELLA VERGOGNA: LA PROCURA INDAGA SULLE FRASI DI DONZELLI DOPO LA DENUNCIA PER RIVELAZIONE DI SEGRETO D’UFFICIO

Febbraio 1st, 2023 Riccardo Fucile

TUTTE LE OPPOSIZIONI CHIEDONO LE DIMISSIONI DI DELMASTRO E DONZELLI… CALENDA: “DELMASTRO NON PUO’ RIMANERE AL DAP, DIFFONDERE INFORMAZIONI RISERVATE E’ INDEGNO E ILLEGALE”

L’opposizione non si è limitata a chiedere le dimissioni di Giovanni Donzelli e Andrea Delmastro. Il deputato Angelo Bonelli si è presentato in Procura per presentare un esposto contro le frasi pronunciate in Aula dal coordinatore di Fratelli d’Italia. L’ipotesi avanzata è quella di rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio.
La Procura di Roma ha dato seguito all’esposto, aprendo un fascicolo di indagine. Donzelli e Delmastro sono coinquilini e compagni nel partito di Giorgia Meloni.
Il primo ricopre il ruolo di vicepresidente del Copasir, il secondo è sottosegretario alla Giustizia con delega al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
Per loro stessa ammissione, Delmastro ha passato a Donzelli delle informazioni di cui era a conoscenza per l’incarico in via Arenula: l’onorevole Donzelli le ha usate per attaccare i colleghi del Partito democratico durante la seduta in cui si discuteva dell’istituzione della commissione Antimafia.
Anche il legale di Alfredo Cospito, il cui caso è stato usato per l’invettiva, pretende chiarezza dalla magistratura: «Bisogna accertare se c’è stata una violazione. Mi domando in quale ambito sono state fatte queste intercettazioni? Sono state fatte in tutta la sezione del penitenziario? Siamo in uno Stato di diritto e ci sono autorità deputate a valutare l’eventuale commissione di un reato. Si apra un fascicolo di indagine», afferma l’avvocato Flavio Rossi Albertini.
Il sottosegretario Delmastro ha assicurato di «non aver girato nessun documento, che non è secretato ma gli ho riferito le informazioni come avrei fatto con qualunque parlamentare».La richiesta di dimissioni di Calenda e l’esposto in procura di Bonelli
Carlo Calenda è tra i primi a sollecitare un passo indietro del sottosegretario alla Giustizia: «Delmastro non può rimanere al Dap. La diffusione di intercettazioni riservate per strumentalizzarle politicamente è indegna, illegale e senza precedenti. Piacerebbe sentire una parola chiara di Nordio. Non si può essere garantisti nelle parole e poi girarsi dall’altra parte».
Angelo Bonelli va oltre le richieste politiche e denuncia l’accaduto alle autorità giudiziarie: «Questa mattina ho inviato procuratore della Repubblica di Roma Francesco Lo Voi un esposto con il quale si chiede l’apertura di un’indagine penale per verificare se siano stati commessi reati, a partire dall’articolo 326 del codice penale, relativamente alle dichiarazioni fatte in aula da Donzelli e alla stampa da Delmastro». Il leader dei Verdi parla di «gravità inaudita», rimarcando «l’uso disinvolto che hanno fatto di informazioni riservate», contenute in una relazione del Dap. «Non possono più svolgere le funzioni delicate che gli sono state assegnate. Per questo chiedo le dimissioni dal Copasir di Donzelli e da sottosegretario di Delmastro». E la Procura di Roma ha aperto un fascicolo di indagine per fare chiarezza sulla vicenda
Anche gli amministratori locali intervengono sulla vicenda
Le critiche non arrivano solo da ambienti parlamentari. Il candidato alla segreteria del Pd e presidente dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, dichiara: «L’utilizzo di documenti riservati per attaccare l’opposizione in parlamento è un atto gravissimo. Si va oltre la carente conoscenza delle leggi e dei principi costituzionali, comunque inaccettabile per chi dovrebbe guidare il Paese, e si mette in pericolo lo Stato e la sicurezza nazionale: con i documenti riservati non si scherza, meno che mai si usano per una bieca polemica politica. Il ministro della Giustizia Nordio deve fare chiarezza al più presto».
Bonaccini fa notare «anche l’enorme contraddizione di un governo che mentre escono documenti riservati lavora a una stretta sulla diffusione delle intercettazioni».
Un altro amministratore locale, il sindaco di Pesaro Matteo Ricci, interviene sull’accaduto: «Due coinquilini che si scambiano informazioni su intercettazioni segrete del Dap, per poi usarle in un becero attacco politico. Delmastro e Donzelli scambiano il Parlamento per il bar sotto casa. Si dimettano subito, prima di fare altri danni alla lotta contro la mafia».
«Il governo lavora a una stretta delle intercettazioni e poi le usa per attaccare l’opposizione?»
La senatrice Ilaria Cucchi, vicepresidente della commissione Giustizia a Palazzo Madama, osserva: «Mentre in commissione, nel corso dell’indagine conoscitiva sulle intercettazioni, stanno emergendo forti criticità riguardo alle leggi in materia e sull’impossibilità dell’accesso da parte degli avvocati che si devono, di fatto, accontentare del giudizio di rilevanza fatto dalla polizia giudiziaria, essendo impossibile anche per gli stessi pm e Gip ascoltarle tutte. Mentre si discute del tema della loro eventuale pubblicazione sulla stampa, cosa fa la maggioranza? Rende note intercettazioni che dovevano rimanere riservate e le divulga per uso politico contro l’opposizione sulla vicenda Cospito. Una cosa di una gravità inaudita». È una raffica di dichiarazioni contro i due esponenti di Fratelli d’Italia: «La grande riforma penale del governo Meloni consiste nell’uso politico di intercettazioni non divulgabili? Donzelli e Delmastro devono dimettersi immediatamente. Mi auguro che almeno il ministro Nordio esiga il loro passo indietro. Non siamo la repubblica delle banane», twitta Alessia Morani.
«Ha infamato dei colleghi e rivelato, utilizzandole come un manganello contro le opposizioni, informazioni riservate»
«Siamo preoccupati per la saldatura di mafia e terrorismo ma siamo altrettanto preoccupati che la lotta contro questa saldatura possa essere messa a rischio dall’avventatezza, dalla superficialità e dalle manganellate di due esponenti di Fdi che non sanno neppure il ruolo che ricoprono e il peso delle loro parole», dice Simona Malpezzi.
«Ieri alla Camera il comportamento del deputato di Fdi Donzelli, peraltro vicepresidente del Copasir, è stato rozzamente proto-missino oltre che nauseante – afferma Dario Parrini -. Ha infamato dei colleghi e rivelato, utilizzandole come un manganello contro le opposizioni, informazioni riservate passategli dal sottosegretario alla giustizia Delmastro suo compagno di partito e di appartamento. Quanta leggerezza. Quanta inaffidabilità. Donzelli si è dimostrato inadeguato al ruolo che ricopre. Anche solo per decenza dovrebbe dimettersi da tutto. Specialmente dal Copasir, all’interno del quale la sua totale mancanza di senso delle istituzioni può creare grossi guai alla sicurezza del Paese».
«Se la presidente del Consiglio non interviene, allora ci sarà un caso Meloni»
Per Nicola Fratoianni, «Delmastro e Donzelli avrebbero dovuto capire che rivelare documenti riservati utilizzandoli strumentalmente per i loro obiettivi politici non è nelle loro disponibilità. A questo punto ogni giorno di più nei ruoli istituzionali che occupano è uno sfregio alla democrazia».
Debora Serracchiani chiama in causa la presidente del Consiglio: «La presenza di un soggetto che rivela le informazioni più riservate e delicatissime per la lotta alla mafia e al terrorismo non può rimanere un secondo in più a via Arenula. Se però la presidente Meloni non interviene, allora c’è un caso Meloni perché, visti i rapporti che ha con i due, se non li invita alle dimissioni, siamo autorizzati a pensare che abbia approvato o tollerato il piano e la strategia dei due esponenti di Fratelli d’Italia». Anche Marco Grimaldi rilancia: «Troppo delicati e troppo sensibili: i due incarichi di sottosegretario alla giustizia e di vicepresidente del Copasir non possono essere lasciati a due irresponsabili. Delmastro e Donzelli devono dimettersi. E non ci bastera’ ascoltare solamente Nordio oggi in Aula, vogliamo che Giorgia Meloni sfiduci i due esponenti del suo partito. Se non lo farà lei la Camera dei deputati non starà a guardare».
«Non credo che ci siano precedenti. È violare l’essenza stessa della democrazia»
«Donzelli ha scagliato contro i parlamentari del Pd alcune informazioni provenienti dal carcere in cui Cospito parlava contro il 41 bis con un mafioso. Sono note riservatissime, che non possono essere diffuse. Dunque la rivelazione è una violazione di una gravità assoluta», afferma l’ex procuratore e oggi deputato Federico Cafiero De Raho.
«Come giudico le affermazioni di Donzelli? Gravissime: accusare parlamentari dello schieramento avverso di collusioni o contiguità con il terrorismo o la mafia, solo per aver fatto visita a un detenuto, è un fatto gravissimo. Non credo che ci siano precedenti. È violare l’essenza stessa della democrazia, perché è un diritto e un dovere dei parlamentari verificare le condizioni di salute dei detenuti». Insomma, la spiegazione data da Donzelli in un’intervista al Corriere della Sera non convince le opposizioni: «Quelle che ho riferito non erano intercettazioni, ma una conversazione captata in carcere e inserita in una relazione del ministero della Giustizia del cui contenuto, in quanto parlamentare, potevo essere messo a conoscenza – si giustifica il volto noto di via della Scrofa -. Non ho violato segreti».
Nordio si presenta al Parlamento per riferire
Il guardasigilli Nordio, intanto, raccoglie l’invito a interessarsi della vicenda che riguarda i suoi due compagni di partito. Oggi, alle 16, terrà un’informativa urgente in Aula alla Camera. Due ore più tardi, il ministro della Giustizia riferirà nell’Aula di Palazzo Madama. Tutti i gruppi parlamentari avranno dieci minuti per intervenire sulle spiegazioni fornite dal titolare di via Arenula.
(da Open)

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TRE ANNI DALLA BREXIT CHE QUASI NESSUNO ORA VORREBBE AVER SCELTO

Febbraio 1st, 2023 Riccardo Fucile

BREXIT REGRET, IL RIMPIANTO PER L’ADDIO CHE PESA ECONOMICAMENTE E E SOCIALMENTE

Il 31 gennaio di tre anni fa scattava la Brexit scelta dal Regno Unito con il referendum del 2016. Dal neologismo originale, Brexit, Britain Exit, si passa a Bregret, Brexit Regret, il rimpianto per l’addio. I britannici si sarebbero pentiti dell’uscita dall’Unione Europea, scelta dal 52% dei votanti. Gli scozzesi già non erano convinti, come gran parte degli abitanti di Londra. Era il resto del paese ad aver voltato le spalle a Bruxelles. Adesso invece un sondaggio della rivista inglese UnHerd dice che sulle 650 circoscrizioni elettorali in Gran Bretagna, in 647 ci sono più cittadini che considerano Brexit un errore. Sono convinti che abbia portato più danni che benefici i cittadini di una serie di circoscrizioni che erano invece chiaramente dall’altra parte.
Non che questo possa portare a un nuovo referendum e a un ritorno indietro. L’Independent, il più vicino all’Europa dei quotidiani britannici, ha fatto a sua volta un sondaggio: solo il 43% degli intervistati voterebbe certamente per il ritorno.
Dice che la maggioranza tornerebbe indietro un sondaggio del Guardian. Sono numeri che non danno certezze se non il fatto che non è la Brexit a non piacere, sono le conseguenze viste finora. Né il Partito Conservatore di governo e neanche i Laburisti all’opposizione hanno riaperto il dibattito, nemmeno per parlare anche solo del ritorno nel mercato unico o nell’unione doganale. La questione è però prima di tutto economica.
Pil ed economia
L’economia dei paesi occidentali ha visto problemi comuni, ma quelli del Regno Unito sono più gravi. Sarà il Paese che nel 2023 crescerà meno nel G20, compresa la Russia. Un’analisi governativa dice che la Gran Bretagna perderà il 4% di Pil entro il 2026 a causa della Brexit. Le esportazioni britanniche verso l’Europa sono calate del 16%, le importazioni sono scese del 20%.
Lavoro
Senza la libera circolazione con i paesi Ue sono centinaia di migliaia i posti vacanti. L’immigrazione con il sistema a punti non porta abbastanza candidati scoraggiati anche dai costi. Mancano lavoratori nella logistica e nell’accoglienza. Non è diminuita l’immigrazione irregolare con il controllo diretto delle frontiere.
Servizio Sanitario
Molti di questi posti non occupati, 120mila per essere precisi, sono anche nel Servizio Sanitario nazionale che avrebbe guadagnato secondo i sostenitori della Brexit e invece è in crisi nera. Ci sono lunghissime file di attesa e poco personale: medici, paramedici e soprattutto infermieri.
Tentativi di far funzionare la Brexit
Il premier Rishi Sunak è pronto ad ampliare il numero di porti liberi, una diminuzione dei limiti e delle regole nel sistema assicurativo, nuovi progetti di ricerca e sviluppo. Vorrebbe anche però cambiare una serie di leggi che ancora seguono i parametri europei e che porterebbero a un complicato doppio regime per le aziende che importano o esportano. Quante sono queste leggi? 3700.
(da La Repubblica)

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