Febbraio 10th, 2023 Riccardo Fucile
L’INCONTRO TRA MELONI E ZELENSKY SBANDIERATO DA PALAZZO CHIGI È STATO UNA CHIACCHIERA A MARGINE DI UN INCONTRO DI GRUPPO, IN PIEDI E A FAVOR DI TELECAMERA
Cappotto rosso asimmetrico, sguardo infuriato. Ecco Giorgia Meloni: “Se la missione di Francia e Germania a Washington è stata inopportuna? Francamente mi è sembrato più inopportuno l’invito a Zelensky di ieri”
Mesdames et messieurs, la crisi con Parigi è servita. O forse è solo l’ennesima puntata. Prima immagine: il presidente ucraino si fa la foto con i ventisette, la leader non incrocia mai lo sguardo con Emmanuel Macron. Il quale, come si sa, il giorno prima ha invitato a cena all’Eliseo Zelensky e Olaf Scholz lasciando l’Italia a bocca asciutta. Il presidente francese non commenta la stoccata, forte e dritta, di Meloni, ma fa sapere che l’asse franco-tedesco vanta da sempre rapporti privilegiati.
Come dire: il viaggio in treno a tre con Mario Draghi fu un inciampo della storia, ora la musica è cambiata. Sta di fatto che per la legge di Murphy la giornata non prende una piega eccellente per il governo italiano. Durante la plenaria Meloni non interviene al cospetto del presidente ucraino. E poi soprattutto salta il bilaterale con Zelensky, annunciato il giorno prima da Palazzo Chigi con una certa enfasi.
Era la medaglia da attaccarsi al petto, come compensazione morale al mancato invito a Parigi della sera prima. Ma manco questo è accaduto. “Motivi organizzativi”, è la risposta fornita per il faccia a faccia saltato. La capa della destra italiana viene inserita con un gruppo di altri paesi per un vertice.
Ci sono Spagna, Polonia, Romania, Olanda e Svezia. Meloni entra per ultima nella stanza a incontro iniziato. Waterloo dista da Bruxelles meno di venti chilometri e l’idea di una disfatta della diplomazia italiana si gonfia e prende piede per un po’ di tempo. Fino a quando dal governo informano che alla fine il colloquio con Zelensky c’è stato. E’ durato quindici minuti, spiegano dallo staff meloniano. C’è chi dice la metà. Alle televisioni viene data una clip dei due che parlano in piedi.
La premier gesticola, a volte muove le mani e sembra sempre netta nelle espressioni. Si parla di una visita a Kiev imminente. Ma soprattutto anche in questo caso la richiesta non cambia: cara Giorgia servono caccia da guerra, jet per la controffensiva. Su questo aspetto, la linea non è ancora chiara: non ci sono decisioni già prese. Il faccia a faccia finisce con un arrivederci a presto. C’è un problema grosso resta con la Francia.
Matteo Salvini da Roma riprende un vecchio cavallo di battaglia e lancia una minaccia non troppo velata a Parigi: “La risposta a Macron arriverà nelle prossime settimane”. E subito scatta la corsa a capire quali dossier l’Italia potrebbe bloccare alla Francia come ritorsione. La premier in privato si sfoga e giustifica le parole contro Macron con due chiavi d’interpretazione. La prima è che “non parlavo solo a nome dell’Italia, ma anche di tutti gli altri paesi che si sentono tagliati fuori dall’asse Roma-Parigi”. E tra questi ci sarebbe anche la Spagna, certo. E poi l’Austria e forse l’Olanda. La seconda lettura è che non finisce qui e che l’Italia potrebbe reagire sui dossier che contano.
(da il Foglio)
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Febbraio 10th, 2023 Riccardo Fucile
IL TIMORE CHE I FUTURI INTERVENTI DEL PRESIDENTE SERVANO INGABBIARE L’AZIONE POLITICA DI MELONI & FRIENDS, DALLA RIFORMA DELLA COSTITUZIONE IN SENSO PRESIDENZIALE ALLE MANOVRE SUL MEF FINO AL PIANO PER “NAZIONALIZZARE IL DEBITO”
I vertici di FdI, uomini vicinissimi a Giorgia Meloni, ritengono che “la partecipazione del presidente della Repubblica al Festival di Sanremo sia una sgrammaticatura”.
Temono che i futuri interventi del presidente, e non si escludono, abbiano come fine quello di “riportare FdI all’obbedienza, metterci in riga”. Il progetto politico-finanziario della premier è molto simile a quello perseguito dal Giappone: rendersi autosufficienti, ricomprarsi il debito pubblico, immunizzarsi dalle pressioni esterne, “emanciparsi dall’Europa”.
Si può discutere sull’idea ma è una loro idea, un’idea destinata a misurarsi con Mattarella. E’ il garante che FdI comincia a temere così come un tempo Berlusconi temeva Giorgio Napolitano. Per il partito di Meloni il ruolo del presidente sta evolvendo e la sua celebrità è da “popstar”.
Dopo le incursioni su Rete 4 si è scelto un palcoscenico autorevole, consono, per mandare dei segnali ai mercati. Dietro la scomposta narrazione degli “underdog” c’è un’idea di mondo per alcuni controversa, per altri ancora “clamorosa”, per altri legittima se solo si sapesse argomentare con calma e autorevolezza. In un passaggio dell’intervista a Meloni, la premier dichiara infatti di voler “mettere al sicuro il nostro debito da nuovi choc finanziari, lavorando con il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, all’aumento del numero di italiani e residenti in Italia che detengono quote di debito”.
Tradotto significa spingere gli italiani, che possiedono un notevole risparmio privato, ad acquistare titoli di stato per ridurre in questo modo la quota di debito detenuta da soggetti stranieri. Equivale nel progetto meloniano a ritornare “padroni del proprio paese”, rompere “il ricatto” Cosa c’entra Mattarella in tutto questo? Secondo FdI ci sarebbe da parte del Quirinale un protagonismo nuovo e può frenare questo progetto.
Al protagonismo di Mattarella se ne contrappone un altro. E’ quello di Ignazio La Russa, presidente del Senato. Fa il “controcanto” (e si può dire) a Mattarella. Non c’è mai stato finora un’ostilità Il superpotere di Mattarella è oggi “l’inconscio” di FdI, il timore di essere bocciati, stigmatizzati.
E’ quanto sta accadendo con la riforma del Mef, definito “splittamento”, la creazione di un nuovo dipartimento ad hoc per le società partecipate. All’interno del governo ci sono due scuole di pensiero. La prima, quella di Giorgetti, sintetizzabile in “ci vuole il tempo che ci vuole, ciò che conta è iniziare e arrivare all’obiettivo”. Significa farla per bene, attendere. Un’altra, ed è quella di FdI, è per la “forzatura”.
Chi è per forzare suggerisce di servirsi di un dpcm, inserirlo nella prima finestra utile correndo il rischio di essere “cassati” dal Quirinale. In questo “gioco” due figure del Mef si stanno attirando le ostilità di FdI. Sono il capo di gabinetto di Giorgetti, Stefano Varone, e il capo del legislativo, Daria Perrotta. L’idea che corre in FdI è che entrambi non vogliano “forzare”, che stiano rallentando. Sono per Meloni giorni difficili, ma il più difficile, e non è mai stato raccontato, si è consumato la sera dell’informativa di Carlo Nordio su Cospito.
Chi era presente a Palazzo Chigi parla di momenti d’angoscia. In Forza Italia e Lega si attende il risultato delle elezioni lombarde. Meloni sopra il trenta per cento, ed è la convinzione di FI, potrebbe minacciare gli alleati e dire: “Rompo tutto”. Si torna dunque indietro. FdI guarda oggi al Quirinale come si guardava un tempo alla sede del re. La Russa non si separa dal busto del duce, chi si oppone a Meloni tiene sul comodino quello di Mattarella
(da il Foglio)
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Febbraio 10th, 2023 Riccardo Fucile
QUEL CHE È CERTO È CHE L’ITALIA È ISOLATA PIÙ CHE MAI
Ha le braccia conserte, gli occhi fissi altrove per evitare di incrociare quelli di lui, le dita che porta nervosamente alla bocca e poca voglia di sorridere. Il broncio di Giorgia Meloni appare ai fotografi dietro il sorriso di Emmanuel Macron nella sala dove i leader attendono l’arrivo di Volodymyr Zelensky. È l’immagine che consegna l’umore di una giornata complicata e a tratti confusa.
Dopo aver attaccato Macron, Meloni ritrova gli alleati di sempre, il premier polacco Mateusz Morawiecki e il ceco Petr Fiala. È l’altra fotografia della giornata. Lei seduta accanto ai vecchi amici, dopo essere stata esclusa dalla cena di Parigi organizzata dal presidente francese per Zelensky e allargata solo al cancelliere tedesco Olaf Scholz.
Meloni è la leader dei conservatori europei, e ha un peso politico crescente che Morawiecki e Fiala vogliono e possono sfruttare in Consiglio.
L’orizzonte sono le Europee del 2024, quando – sono convinti – gli equilibri in Europa potrebbero cambiare, a favore della destra. Si accordano di «allineare le posizioni», soprattutto sul tema dei migranti, tema che lacera l’Unione.
Ed è la risposta che prepara Meloni, contro Macron. Ma le serve anche a fermare l’eco che arriva dall’Italia, che racconta di un governo isolato, messo ai margini, compromesso dallo strappo con la Francia e dalle poche simpatie con i tedeschi. La giornata della premier è una rincorsa continua a smentire questa percezione.
Sono ore non facili per i diplomatici, per chi deve negoziare e ricucire. L’episodio del bilaterale sfumato con Zelensky è un altro possibile cratere dove la premier vede precipitare tutta l’impalcatura della sua credibilità internazionale. Un bilaterale declassato a «lunga conversazione». Da cronometro, è durato qualche minuto.
Messi in fila, uno dopo l’altro i dispiaceri europei per il governo italiano non sono pochi. Prima ancora che partano i negoziati in Consiglio, dalla Commissione europea arriva lo stop alla proroga di un anno delle concessioni balneari, decisa l’altro ieri dalla maggioranza di destra in Italia. E ancora: con numeri schiaccianti la commissione per l’Industria del Parlamento europeo dà il via libera alla direttiva Ue sulle “case green” che Meloni e l’intera coalizione avevano minacciato di voler sabotare.
(da La Stampa)
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Febbraio 10th, 2023 Riccardo Fucile
L’ADEGUAMENTO E’ IN RELAZIONE AL COSTO DELLA VITA, GIA’ PERCEPISCONO 11.000 EURO AL MESE… CONTRARI IL M5S E ALL’ULTIMO MOMENTO ANCHE FDI (PER IMPUT DELLA MELONI CHE TEMEVA DI PERDERE LA FACCIA)
E’ arrivata nella notte la conferma della norma sugli adeguamenti Istat delle indennità per i 70 parlamentari siciliani: gli onorevoli percepiranno quest’anno 890 euro lordi al mese in più in busta paga. Dopo che, almeno informalmente, anche la presidente del Consiglio Giorgia Meloni aveva espresso il suo disappunto, ci si attendeva che dall’Assemblea Regionale Siciliana (Ars) arrivasse un passo indietro. Invece, l’Ars ha respinto con voto segreto un emendamento che prevedeva l’abrogazione della legge che nel 2014 aveva introdotto l’automatismo della rivalutazione delle indennità al costo della vita. I quasi 900 euro in più si aggiungeranno alla paga attuale di 11.100 euro – tra indennità e diaria – di ogni deputato dell’isola.
Era stato Cateno De Luca, del gruppo Sud chiama Nord, a presentare l’emendamento correttivo, bocciato con 29 voti contrari e 24 favorevoli dopo due ore di dibattito acceso. Il deputato del Pd Antonello Cracolici ha difeso la norma, ricordando che l’adeguamento dei trattamenti economici per i consiglieri regionali c’è anche in altre Regioni e ha citato il Lazio, il Trentino Alto Adige, l’Umbria e la Sardegna. “Da 48 ore questo Parlamento subisce attacchi ingiustificati per un automatismo previsto da una legge di nove anni fa – ha detto Cracolici – Sono un uomo libero e non mi vergogno di dire che sono contro l’abolizione della norma e difendo l’autonomia di questa Assemblea”.
A chiedere il voto segreto sull’emendamento è stato Gianfranco Miccichè, di Forza Italia: “Non è la prima volta che Roma interferisce, in questo caso chiedendo la cancellazione di questa norma: basta. Siamo considerati lo schifo del Paese, qualsiasi cosa facciamo. Basta. Con l’indennità da parlamentare arrivo a fine mese e chiedo scusa a chi purtroppo non ci arriva. Ma non ho ville, non ho yacht e non rubo, si è montato un polverone su un automatismo. Avrei evitato di chiedere il voto segreto, purtroppo però in quest’aula ci sono colleghi che hanno paura della demagogia“.
Anche due assessori del governo di Renato Schifani, Mimmo Turano della Lega e Roberto Di Mauro del Movimento per l’Autonomia, si sono schierati contro l’abrogazione, posizione assunta in aula anche dal capogruppo della Dc, Carmelo Pace. Si era invece espresso a favore della cancellazione dell’automatismo, dopo aver ascoltato le perplessità della leader Meloni, il capogruppo di FdI, Giorgio Assenza. Favorevoli anche i deputati del Movimento 5 Stelle.
(da il Fatto Quotidiano)
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Febbraio 10th, 2023 Riccardo Fucile
LA PROCURA DI ROMA HA OTTENUTO L’ARCHIVIAZIONE DELL’INCHIESTA APERTA NEI CONFRONTI DI DUE UOMINI PER I LORO POST PUBBLICATI NEL 2021 CONTRO ELISABETTA ALBERTI CASELLATI… TRA I MESSAGGI C’ERANO: “AMMAZZIAMOLA”, “VOGLIO UCCIDERE LA CASELLATI” – PER IL GIP NON SI TRATTA DI MINACCE REALI, MA DELL’ESPRESSIONE COLORITA DI UNA RABBIA POLITICA NEI CONFRONTI DELLE ISTITUZIONI
Su Facebook e su Twitter, nel 2021, l’allora presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, attuale ministro per le riforme istituzionali nel Governo Meloni, era stata travolta da una campagna di odio violenta.
Un’escalation che l’aveva convinta a sporgere denuncia, quando il tenore dei messaggi era diventato allarmante: «Ammazziamo la Casellati», «voglio uccidere la Casellati», si leggeva in alcuni post. Per la Procura di Roma, e anche per un giudice, però, non si tratta di un reato: il pubblico ministero ha chiesto e ottenuto l’archiviazione dell’inchiesta aperta con l’ipotesi di minaccia aggravata.
Il motivo? Non si tratterebbe di minacce reali, ma, piuttosto, dell’espressione colorita di una rabbia politica, nei confronti delle istituzioni. Una rabbia, peraltro, poco concreta, espressa tramite i social network e, quindi, a distanza.
Da qui la decisione di procedere con l’archiviazione nei confronti dei due indagati, uno di 64 e uno di 44 anni.
La richiesta, avanzata dal pm Erminio Amelio, è stata accolta dal gip Paolo Scotto Di Luzio, che ha ritenuto «la motivazione pienamente condivisibile». Ma ecco tweet e post incriminati. Il 5 maggio, per esempio, uno dei due alle 18,40 scriveva su Facebook: «Voglio uccidere la Casellati, presidente». Poi frasi sconnesse: «Spacca tutta polvere, schianta rullio arma, uccidere, più pericoloso, potente… attacca il presidente Casellati».
L’altro indagato (difeso dall’avvocato Giovanni Ferrari) aveva invece scritto su Twitter: «Ammazziamo la Casellati». Alla presidente, in quel periodo, erano anche state inviate alcune lettere anonime.§
Non è tutto: secondo i magistrati, l’allora Presidente del Senato «verosimilmente, senza la collaborazione del suo staff intento a monitorare i social network, avrebbe anche potuto definitivamente ignorare simili espressioni ad essa dirette».
La conclusione dell’accusa, ancora una volta, è che si tratta di post ed esternazioni «di dubbia idoneità nell’ingenerare nell’alto rappresentante della Repubblica un serio turbamento dell’animo nel timore che i propositi omicidiari paventati nel web possano essere attuati».
(da Il Messaggero)
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Febbraio 10th, 2023 Riccardo Fucile
PESERANNO LE REGIONALI: SE FINIRANNO CON SCONFITTE PESANTI, POTREBBE ESSERCI UNA REAZIONE DI RIGETTO TALE DA FAR MONTARE LA VOGLIA DI CAMBIARE TUTTO VOTANDO PER UNA OUTSIDER COME SCHLEIN
La cosa che ieri ha fatto più piacere al candidato segretario del Pd Stefano Bonaccini è un dato di nicchia. Circolo portuali di Ravenna: a lui 21 voti, a Schlein 2. Non è tanto il 50,7 per cento rispetto al 36 di Schlein che i 30 mila iscritti (su 150 mila) gli tributano in questa fase a confortarlo. I suoi sono strasicuri che ce la farà perché chi arriva primo tra gli iscritti, vince il congresso per la leadership.
«Pure Zingaretti e Renzi nei congressi dei circoli presero il 47 e il 45 per cento e poi vinsero con oltre il 65 per cento nei gazebo», ricordano i suoi uomini.
Invece, la certezza che nelle primarie aperte a tutti sarà premiata la voglia di cambiamento e la distanza di soli 15 punti rispetto al favorito fa sperare la sua avversaria in un exploit nei gazebo: quando i candidati scenderanno da quattro a due.
Una partita combattuta fa muovere più elettori e «se va a votare un milione di persone si allarga il voto di opinione e più si amplia la base elettorale e più è in vantaggio lei», spiegano i suoi analisti. «
Tutti i sondaggi della vigilia ci davano al 20 per cento, e che la partita fosse così aperta, loro non se l’aspettavano, noi sì. E alle primarie la ribaltiamo». Il come, lo spiega il coordinatore della campagna di Schlein, Marco Furfaro: «Siamo a pochi punti di distanza, con Cuperlo in campo, figuriamoci ai gazebo quando non ci sarà il voto orientato».
Ora, Cuperlo espressione della sinistra dem, finora ha preso l’8,3%; Schlein sta puntando su una campagna molto identitaria, «stressando» i temi di sinistra: «Io credo che bisogna mettere un limite chiaro ai contratti a termine per combattere la precarietà, e non, come dice Bonaccini, pagare meno il lavoro precario», dice marcando per la prima volta le «distanze politiche» dal suo avversario.
Normale dunque che lei, più che confidare in un endorsement di Cuperlo per il 26 febbraio, confidi nei suoi elettori. E la speranza di un exploit a sorpresa nei gazebo cresce pure in virtù dell’esito positivo delle grandi città: dove il voto di opinione conta più di quello delle cosiddette «truppe cammellate». «Noi nutriamo grande fiducia, dopo questi risultati – dice Francesco Boccia – che vanno oltre le attese. E dove c’è voto di opinione, Elly è in vantaggio».
«Ma cosa dicono?» rispondono quelli di Bonaccini. «Tutti i sondaggi che abbiamo noi ci dicono che fra gli elettori semplici Stefano ha molto più consenso che tra gli iscritti, dove lei al contrario è forte perché è appoggiata da Franceschini, Zingaretti, Orlando e Boccia».
Insomma, la tesi è che per Bonaccini fosse più difficile conquistare gli iscritti e che «questo 50 per cento fa pensare che poi il dato dei gazebo sarà più alto: chi arriva primo tra gli iscritti ha sempre vinto i congressi». Lui, il candidato governatore, tira dritto e attacca la Meloni «ignorata in Europa» e non la sua avversaria, come metodo di lavoro.
Ma la sfida si scalda e l’attesa per il risultato delle Regionali pure. Perché se finiranno con sconfitte pesanti, potrebbe esserci una reazione dei militanti di rigetto tale da far montare la voglia di cambiare tutto votando per una outsider come Schlein
(da La Stampa)
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Febbraio 10th, 2023 Riccardo Fucile
E CITA VASCO ROSSI: “OGNUNO CON IL SUO VIAGGIO, OGNUNO DIVERSO”
“Questa sera non sono qui a dare lezioni di vita, cerco di ricavare da ogni giorno un insegnamento e così è stato anche nelle ultime settimane”. Inizia così il monologo di Paola Egonu. È emozionata, e fa emozionare. “Spesso in passato sono stata definita ermetica così ho provato a raccontarmi di più. Questo non ha evitato che alcune frasi venissero estrapolate dal contesto con titoli usati per far rumore. Ogni pensiero quando si trasforma in parola non è più sotto il controllo di chi l’ha pronunciata”. La pallavolista continua: “Io sono la prima di 3 fratelli e devo tutto ai miei genitori, mi hanno fatto vivere un’infanzia felice e mi hanno insegnato che se vuoi qualcosa devi guadagnartela. Mi hanno aiutata a trovare il mio percorso. Le vostre carezze mi sono mancate ma so che questa è la mia strada”. In una recente intervista rilasciata Vanity Fair, Enogu ha parlato dei timori di diventare, in futuro, madre e di far vivere a suo figlio lo stesso “schifo” del razzismo che ha vissuto lei. Lo ha ripetuto anche in conferenza stampa, questa mattina, quando ha detto: “Sì, l’Italia è un paese razzista, il che non vuol dire che lo siano tutti, che siano ignoranti. Sta migliorando, sicuramente. Non voglio fare la vittima ma solo dire come stanno le cose”.
E durante il suo monologo ha raccontato la sua esperienza: “Da bambina ero fissata con i perché. Perché sono alta? Perché mi chiedono se sono italiana? Col tempo ho capito che la mia diversità è la mia unicità, io sono io. Sono quella che quando mi fanno la domanda sul razzismo risponde: ‘Siamo tutti uguali oltre le apparenze‘. Sono quella a cui lo sport ha dato tanto e che non crede che la sconfitta sia solo quando perdi una partita. Sto ancora imparando ad accettare l’errore. Le critiche non sono mai mancate: alcune sono costruttive, altri sono veri macigni. Ho imparato che sta a noi dare il giusto peso. Sono stata accusata di vittimismo e di non avere rispetto per il mio Paese e questo solo per aver mostrato le mie paure. Amo l’Italia, vesto con orgoglio la maglia azzurra che per me è la più bella del mondo. Ho un senso profondo di responsabilità nei confronti di questo Paese. Non è perdente chi a scuola prende il voto più basso o non riesce a realizzare subito il suo sogno. Dalle sconfitte più dure possono nascere i successi più grandi, come ci ha insegnato Vasco Rossi che su questo palco arrivò penultimo”. Sulle note e le parole di Vita Spericolata, “ognuno col suo viaggio, ognuno diverso“, ha concluso, tra gli applausi.
(da agenzie)
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Febbraio 10th, 2023 Riccardo Fucile
I SOVRANISTI SONO ALLERGICI A SANREMO: QUANDO QUALCUNO CONDANNA IL RAZZISMO E’ PIU’ FORTE DI LORO, SCLERANO
Perché la maggioranza di governo si è messa all’opposizione di Sanremo? Perché sussulta ogni volta che sul palco qualcuno elogia la Costituzione o condanna il razzismo, cioè dice cose sacrosante e anche piuttosto ovvie che di sicuro non infastidiscono gli elettori di centrodestra, a meno di non voler supporre che i dieci milioni che guardano il Festival siano tutti orfani del Pd?
Eppure Salvini parla di Sanremo come se si trattasse di una succursale della Festa dell’Unità, La Russa sostiene di non averlo ancora visto e il ministro della Cultura Sangiuliano, quasi volesse compensarne l’eccessivo sbilanciamento a sinistra, invoca per stasera un ricordo delle foibe.
Ora, lasciamo perdere Fedez, che lo ha esplicitato in modo brutale, stracciando la foto del viceministro travestito da Hitler (anche il viceministro, però…). E ammettiamo che gli «ideologi» del Festival abbiano davvero costruito la scaletta col preciso scopo di dimostrare che i diritti civili sono valori a cui la destra è refrattaria.
Ma se era una trappola, perché cascarci dentro così?
I vecchi democristiani non lo avrebbero mai fatto: erano più furbi o, forse, più sicuri di sé. Questi invece hanno la sindrome di Calimero e nutrono il loro vittimismo con un costante complesso di inferiorità, peraltro smentito dai successi elettorali.
Sono al potere, ma per un riflesso condizionato di comodo continuano a comportarsi come se fossero all’opposizione, oltretutto in un Paese governato non da Togliatti, ma da Amadeus.
(da il Corriere della Sera)
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Febbraio 10th, 2023 Riccardo Fucile
E’ IL GIORNO NERO DELLA DIPLOMAZIA ITALIANA… MELONI: “NON SONO UN TECNICO, IO NON SONO DRAGHI”: CE NE SIAMO ACCORTI
Minacciare l’Europa, agitando lo spettro dello stallo su ogni dossier sensibile. Complicare i provvedimenti più cari a Parigi e Berlino, a partire dagli aiuti di Stato. Coagulare sui migranti il blocco di Paesi dell’Est, giocando soprattutto di sponda con Varsavia. In una parola: contrattaccare. Reagire per non soffocare.
Quella vissuta da Giorgia Meloni a Bruxelles non è soltanto una disfatta diplomatica. È la minaccia di cambiare pelle, rinnegando il percorso di “normalizzazione” intrapreso prima di vincere le elezioni.
Di tornare all’antico, riscoprendo sintonie antiche tra sovranisti. “Io non sono un tecnico, io non sono Draghi – ripete ai suoi interlocutori, nel giorno più nero della sua diplomazia – Io sono stata votata e faccio quello per cui mi hanno scelto gli italiani”.
Il prezzo potrebbe essere altissimo, visto quanto Roma è esposta sul Pnrr e il debito pubblico. Ma comunque da pagare, perché la presidente inizia a convincersi che senza alzare i toni, senza mostrare il volto feroce della destra, senza una discontinuità con l’epoca dell’ex banchiere centrale, il suo governo potrebbe finire molto presto nel pantano.
Serve una notte per elaborare la consapevolezza che quella organizzata da Macron e Scholz non è soltanto una cena con Zelensky, ma la promessa di un isolamento. Meloni sente Matteo Salvini. Si scambiano sms. La leader libera il suo alleato, lascia che tutti possano osservare i rischi di un ritorno alle origini. Ma non basta. Esclusa da Macron, decide di incontrare a margine del Consiglio il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki e il ceco Petr Fiala. Non è una mossa casuale
Sono i due leader conservatori. E rappresentano il piano B, la soluzione d’emergenza che Palazzo Chigi potrebbe attivare per uscire dall’angolo nel quale l’Eliseo ha cacciato il governo italiano. Incontrandoli, la presidente del Consiglio invia un messaggio chiaro a Bruxelles che suona così: Parigi e Berlino pensano di escluderci, ma noi siamo in grado di frenare ogni possibile intesa. Dilatando i tempi dei dossier più delicati, complicando il percorso dell’Unione.
Non è soltanto la partita sugli aiuti di Stato, destinata a finire sul tavolo del Consiglio di marzo. La ritorsione potrebbe consumarsi anche sul pacchetto dedicato ai migranti. E, soprattutto, sulla riforma del Patto di stabilità, che è in cima alle preoccupazioni di Parigi. E poi, naturalmente, ci sono le sfide industriali che intrecciano gli interessi italiani a queli francesi e tedeschi.
Certo, Roma ha molto da perdere. Assai di più delle capitali con cui duella. Entrare in conflitto con Scholz e Macron significa allontanare la prospettiva di una vera flessibilità sul Pnrr e i fondi di coesione, fondamentale in una fase in cui l’Italia arranca nella messa a terra dei cantieri. Ma Meloni ritiene comunque di non avere altra strada che quella del rilancio.
E d’altra parte, anche Macron e Scholz sembrano voler imporre un cambio di passo. O almeno, così si intuisce mettendo in fila gli eventi degli ultimi giorni: il nulla di fatto sul fondo sovrano che tanto servirebbe alla destra di governo, la missione franco-tedesca a Washington, lo schiaffo della cena all’Eliseo senza Meloni. Segnali che interrogano anche Romano Prodi, quando confida: “Bisogna capire se è un dispettuccio che i due fanno all’Italia, oppure c’è dietro un cambio di strategia”.
Ad ascoltare fonti dell’Eliseo, prevale la seconda tesi. Ufficialmente i francesi attendono ancora una data da Palazzo Chigi per organizzare la visita a Parigi. Ma la realtà è che il Presidente francese non ritiene utile mostrarsi con Meloni. I tempi dell’asse con Mario Draghi – che continua a mantenere un filo diretto con il leader francese, ma senza interferire nelle vicende di cronaca – sono uno sbiadito ricordo. Il Presidente, insomma, è deciso a mantenere una relazione fredda con Meloni. Da sviluppare in territori “neutrali” come i Consigli europei e gli altri vertici internazionali. Altro discorso è ovviamente quello di lasciare che le relazioni bilaterali proseguano a livello ministeriale, come dimostrano anche le recenti visite che si sono alternate tra Roma e Parigi nelle ultime settimane.
Ma c’è di più. C’è la volontà politica di non legare con la presidente del Consiglio e con quello che rappresenta per l’opinione pubblica francese. C’è la voglia di tenerla ai margini, investendo tutto sul rinnovato patto con Berlino. E c’è, dato da non trascurare, il timore che un nuovo asse tra Conservatori e Ppe possa spingere ai margini Macron e i liberali europei. Tutte buone ragioni che consigliano a Macron di non arretrare di un millimetro di fronte al conflitto aperto.
(da La Repubblica)
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