Maggio 6th, 2024 Riccardo Fucile
IL VUOTO DELLA POLITICA E LA DERIVA PERSONALISTICA CHE NASCONDE L’ASSENZA DI VERI PROGETTI POLITICI
Questa ossessione personalistica che ha pervaso – e non da
ora – la politica non è spiegabile soltanto con un’ubriacatura da deriva populista che ha contagiato anche chi si ritiene astemio, né è soltanto un espediente mediatico, la cui efficacia è tutta da misurare. È invece la risultante per sottrazione dello smarrimento del senso di concretezza. Il vuoto di classe dirigente, di analisi e capacità propositiva, riduce tutto a una contesa emotiva in cui non contano i fatti, che anzi finiscono relegati su un fondale nebbioso quasi disegnato dalla matita confusa di un autore smemorato.
Conta il nome e non la cosa. E così il voto è un atto, quasi di fede, un esercizio dogmatico di remissione e non un patto, per quella che Ezio Mauro ha definito «una comunione pagana». Leader che misurano il carisma con il metro del plauso servile cavalcano l’onda. Sicuri che più si insiste sul nome, meno ci si deve impegnare sul senso delle cose. E la propaganda fa il resto, amplificando una distorsione in cui sedicenti leader sgomitano nell’agone proiettandosi come protagonisti, catapultati al centro della scena per una battuta a effetto, uno stratagemma da capocomico, una trovata triviale da avanspettacolo.
Si diceva del contagio. E non si spiegherebbe altrimenti la scelta, comune a maggioranza e opposizione, di far trainare le liste dai capi del partito che dichiarano già in premessa la rinuncia al seggio a Strasburgo. In tempo di capocrazia, per dirla con Michele Ainis, la premier guida FdI e per di più con il solo nome proprio a garanzia. Ma Elly Schlein fa altrettanto con il Pd, Antonio Tajani in FI e Carlo Calenda per Azione.
Si vanifica così lo spirito di un sistema elettorale in cui l’indicazione della preferenza affida all’elettore la scelta del proprio rappresentante. Un’elusione della norma che la dice lunga anche sul senso per le istituzioni. Ancora più grave se ci si propone di riformare la Costituzione nel mercanteggiamento, tutto interno al centrodestra, tra premierato e autonomia differenziata. E non a caso, proprio a proposito di riforme per la scelta del presidente del Consiglio, la questione di come arrivarci, ossia del sistema elettorale, non è minimamente sfiorata: non è conveniente, anzi eversiva.
La Lega che ha eletto il nome del capo a simbolo, anticipando il premierato plebiscitario rimasto l’abbaglio di una stagione di consensi depauperati in fretta, ha compiuto un’operazione che è nello stesso solco ma con una variante. Matteo Salvini si astiene dalla corsa, anche per non contarsi in prima persona, conoscendo già l’esito ma designa un alter ego. Una sorta di gemello convesso. Compare così il generale da best seller che spara in aria corbellerie alla velocità di un M16 e poi corre a scusarsi per averla detta e fatta grossa. Nella reciprocità di (im)perdibili produzioni letterarie, il Capitano e il Generale, se ne vanno in giro appaiati in una campagna elettorale che è a metà tra il tour di cantanti dal successo effimero e il circuito di wrestler bolliti.
Di qui al 9 giugno saremo sommersi di annunci. Sul lavoro e le strabilianti sorti riservateci dai fondi europei in arrivo, per esempio. La realtà che ostinatamente si fa largo ci ricorda che cresce un’occupazione ma senza qualità, i bonus sono poco più che una promessa e i diritti delle categorie precarie e deboli ulteriormente minacciati. Quanto al salvifico apporto dei soldi da Bruxelles siamo al disastro. L’apparato burocratico è inceppato, si traccheggia spostando poste di qua e di là, le truffe si moltiplicano. Ma, poi, basta un nome. Come musica (e il resto scompare).
(da lespresso.it)
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Maggio 6th, 2024 Riccardo Fucile
LA CONDUTTRICE PARLA NELLA SEDE DELL’ASSOCIAZIONE STAMPA ESTERA
«Quello che è successo a Che Sarà non lo ho mai visto in tutta la mia vita lavorativa. Sono due settimane che dovrebbero fare una ricostruzione pubblica e prendere provvedimenti. Vorrei che questa vicenda si chiudesse con parole ferme». Lo afferma Serena Bortone parlando del caso Scurati alla conferenza stampa della Stampa Estera.
«Il contratto – ha spiegato la conduttrice ai giornalisti riuniti – è stato chiuso il lunedì prima della trasmissione per 1500 euro lordi, poi Scurati ci ha dato il testo del suo intervento e io lo ho girato al mio superiore, come normalmente avviene. Alle 16.30 del pomeriggio di venerdì l’ufficio scritture ci ha detto che il contratto era stato annullato. Non era mai successo che un contratto fosse annullato dall’alto. Vengono date motivazioni farlocche, come una presunta promozione su Netflix. Mi attacco al telefono, scrivo mail, mando messaggi fino a tarda notte a più dirigenti, chiedendo cosa dovevo dire a un Premio Strega come Scurati. Nessuno mi ha risposto. La mattina dopo sono stata costretta a chiamare Scurati, che mi ha detto, dicendosi indignato, che avrei potuto leggere il suo testo».
Ranucci: «La situazione in azienda è peggiorata nell’ultimo anno»
«Dall’approvazione della legge Renzi in poi la situazione in Rai è peggiorata. È peggiorata soprattutto nell’ultimo anno: non ricordo un premier che abbia definito un linciaggio un’inchiesta del proprio servizio pubblico, come quella sull’accordo per l’immigrazione con l’Albania. Il paradosso è che mentre la premier la definiva un linciaggio, due sondaggi in Albania ritenevano che l’inchiesta fosse veritiera», ha dichiarato il conduttore di Report, Sigfrido Ranucci.
(da agenzie)
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Maggio 6th, 2024 Riccardo Fucile
COME LA MELONI SPACCIA PER “NUOVO” INTERVENTO UN FONDO DI 890 MILIONI AL POSTO DI QUELLO PRESISTENTE DI 4,6 MILIARDI
Ammettere di avere ridotto i soldi per questa o quella misura è
un esercizio difficile per qualsiasi governo. Negli anni abbiamo visto esecutivi di diverso colore ricorrere a espedienti comunicativi di ogni tipo, per cercare di nascondere la verità. Il 1 maggio scorso, però, Giorgia Meloni ha fatto un passo oltre, capovolgendo la realtà e presentando come nuovo grande investimento nelle infrastrutture per il Sud Italia, quello che di fatto è invece un taglio di risorse. Vediamo perché.
Nel video social con cui ha presentato le norme contenute nel cosiddetto decreto Coesione, Meloni ha rivendicato “una misura fondamentale per il Mezzogiorno, ovvero l’istituzione del fondo perequativo infrastrutturale “. All’articolo 11 del decreto, in versione ancora non definitiva, si legge in effetti che “al fine di assicurare il recupero del divario infrastrutturale tra le regioni del Mezzogiorno d’Italia e le altre aree geografiche del territorio nazionale” viene costituito “il Fondo perequativo infrastrutturale per il Mezzogiorno”. L’obiettivo è realizzare nelle Regioni del Sud Italia, infrastrutture considerate prioritarie in una serie di settori, dalle strade alle ferrovie, dagli ospedali alle scuole etc…
Oltre 3 miliardi in meno per il Mezzogiorno
Nel suo intervento però la premier si è ‘dimenticata’ di citare un altro intervento, messo nero su bianco poche righe dopo, nello stesso articolo del decreto Coesione. È quello con cui viene abolito il “Fondo perequativo infrastrutturale”, previsto per la prima volta dalla legge sul federalismo fiscale del 2009. Si trattava di uno stanziamento dagli scopi praticamente sovrapponibili a quello introdotto ora dal governo Meloni, ovvero tentare di ricucire i divari infrastrutturali, tra i diversi territori del Paese, in primo luogo ovviamente quello tra Nord e Sud Italia. Se vecchio e nuovo fondo hanno obiettivi praticamente fotocopia, però, il discorso cambia quando si contano i soldi messi sul piatto.
Nel 2020, la legge di bilancio del governo giallorosso aveva previsto un finanziamento del Fondo perequativo infrastrutturale per 4,6 miliardi in 12 anni, così ripartiti: 100 milioni di euro per l’anno 2022, 300 milioni di euro annui per ciascuno degli anni dal 2023 al 2027, 500 milioni di euro annui per ciascuno degli anni dal 2028 al 2033. La dotazione del Fondo per il Mezzogiorno dell’esecutivo Meloni è invece di 50 milioni di euro per l’anno 2024, di 140 milioni per l’anno 2025 e di euro 100 milioni annui per ciascuno degli anni dal 2027 al 2033.
Facciamo due conti, raffrontando gli anni dal 2024 al 2033: nella versione precedente lo stanziamento era di 4miliardi e 200milioni, in quella attuale è di 890 milioni di euro. Tradotto, quello che Meloni spaccia per un nuovo investimento nelle infrastrutture del Sud Italia è in realtà un taglio da almeno 3,3 miliardi di euro. Senza considerare eventuali risorse non ancora erogate, negli anni precedenti al 2024, anch’esse cancellate con l’azzeramento del vecchio fondo.
Il decreto Coesione concretizza così quanto già emerso dalle tabelle dell’ultima legge di bilancio, dove per la prima volta era venuto fuori il ridimensionamento delle cifre destinate alle opere del Mezzogiorno. Il 6 febbraio 2024, alla Camera, il Pd aveva chiesto un’impegno al ministro delle Infrastrutture Salvini, per ripristinare il finanziamento originario. Nella sua replica, Salvini aveva parlato di “una riduzione in termini contabili e non sostanziali”, sostenendo che “le risorse del Fondo sono salvaguardate dall’insieme dei provvedimenti normativi che il governo sta portando avanti per superare il divario tra le diverse aree geografiche del territorio nazionale”.
Non si capisce bene tuttavia in che modo i soldi sottratti al Fondo perequativo dovrebbero essere recuperati altrove. Nel decreto Coesione in effetti si trova una norma che impone di destinare agli interventi infrastrutturali prioritari nel Mezzogiorno, almeno il 40 percento delle risorse di una serie di programmi di spesa pluriennali del ministero dell’Economia, non ancora vincolati ad altri interventi. Va sottolineato però che in questo caso non si parla di soldi freschi, ma di stanziamenti già previsti e che al massimo sarebbero dirottati da una parte all’altra. Non è chiaro inoltre se questa operazione possa essere sufficiente a coprire il buco creato dal taglio di 3,3 miliardi del Fondo di perequazione.
Meno soldi per ecobonus auto e transizione green
Nelle pieghe del decreto Coesione c’è poi un’altra significativa sforbiciata di risorse, quelle destinate alla transizione energetica nel settore automotive e agli incentivi per l’acquisto di veicoli non inquinanti. L’operazione rientra nell’ambito della revisione del Pnrr, che ha spostato diversi progetti fuori dal piano, prevedendone la realizzazione mediante altre fonti di finanziamento. Ecco, tra queste fonti vengono ora indicati anche 15o milioni recuperati dal taglio dei fondi dell’ecobonus 2024 per l’acquisto di auto e veicoli commerciali elettrici, ibridi o a basse emissioni, oltre che dall’abbassamento dei contributi per l’acquisto di infrastrutture di ricarica ad uso domestico.
Per il 2025, invece, si prevede una riduzione di 250milioni del fondo per la riconversione, ricerca e sviluppo del settore automotive. Soldi che dovevano essere destinati a “favorire la transizione verde, la ricerca, gli investimenti nella filiera del settore automotive finalizzati all’insediamento, alla riconversione e riqualificazione verso forme produttive innovative e sostenibili”, nonché a riconoscere “incentivi all’acquisto di veicoli non inquinanti e per favorire il recupero e il riciclaggio dei materiali”. Almeno, in questo caso, Meloni si è limitata a tacere il taglio del fondo e non lo ha ‘venduto’ come un successo.
(da Fanpage
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Maggio 6th, 2024 Riccardo Fucile
INTERVISTA ALL’EX AMBASCIATRICE DI TBILISI A BRUXELLES: “SITUAZIONE PRE-RIVOLUZIONARIA, IN GIOCO LA LIBERTA’ E IL SOGNO DI ENTRARE NELL’UE”
Da oltre due settimane decine di migliaia di manifestanti
sfidano lacrimogeni e cannoni ad acqua nelle strade di Tbilisi. Ultimamente hanno dovuto sfidare anche uomini schierati con i poliziotti ma senza divisa e molto maneschi. Somigliano parecchio ai titushki che menavano chi protestava durante la rivolta di Euromaidan, nel 2014 in Ucraina. “Le affinità tra quel che sta succedendo oggi in Georgia e quel che successe allora a Kyiv sono molte”, dice a Fanpage.it Natalie Sabanadze. Secondo cui “il clima è pre-rivoluzionario e ad essere in gioco è la libertà della Georgia”.
Come nel 2014 a Kyiv, in questi giorni a Tbilisi il Parlamento viene spinto ad approvare leggi considerate “dittatoriali” da chi le contesta in piazza, con le bandiere dell’Europa e al suono dell’Inno alla gioia. La legge impedirebbe alle Ong e ai media di avere finanziamenti di qualsiasi tipo dall’estero. È una fotocopia della legge russa sugli “agenti stranieri”, servita al regime di Vladimir Putin per stroncare l’opposizione dopo la paura di una “rivoluzione colorata” a Mosca nel 2012.
Una sfida diplomatica con gli Usa e un discorso del vero padrone della politica georgiana, il miliardario Bidzina Ivanishvili, hanno decretato l’accelerazione improvvisa di “una svolta drastica in senso anti-occidentale e filo-russo”. A questo punto “anche il processo di adesione all’Ue potrebbe essere in dubbio”, spiega Sabanadze. Il sogno europeo che la Georgia ha da quando si rese indipendente dall’impero zarista un secolo fa — prima di cadere sotto l’Urss — sembrava vicino a realizzarsi: Bruxelles ha accettato la candidatura ufficiale, dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Ma il sogno rischia di svanire “a causa dell’involuzione autoritaria del partito di governo”. Che, paradossalmente, si chiama Sogno Georgiano.
Natalie Sabanadze è stata per otto anni ambasciatore della Georgia a Bruxelles e capo della missione georgiana presso l’Ue. Si è dimessa dalla carriera diplomatica in disaccordo con il cambiamento della politica del suo governo. Attualmente svolge attività accademica a Londra, dove è ricercatrice presso il Royal Institute of International Affairs, comunemente noto come Chatam House.
Ambasciatore Sabanadze, far parte dell’Europa è forse l’unico vero “sogno georgiano”. Ora la porta è aperta. Il vostro governo potrebbe richiuderla, come fece il governo Yanukovich alla fine del 2013 in Ucraina?
“La volontà di entrare nell’Ue è un obbligo costituzionale. È la priorità in ogni singolo documento della nostra politica estera. L’80 per cento della popolazione è favorevole. Perciò, nessun partito dichiarerà mai un’inversione di rotta. Sarebbe un suicidio politico. Il governo mantiene una facciata di europeismo. Ma in realtà c’è un drastico cambiamento in senso anti-occidentale e quindi anti-europeo. Qualcosa di completamente nuovo, per il nostro Paese. E sì, temo che la porta per l’Europa possa alla fine restare invalicabile”.
Lei sa quanto è stato difficile aprirla, quella porta…
“Come ambasciatore della Georgia a Bruxelles, per otto anni ho bussato incessantemente. Non si è mai aperto nemmeno uno spiraglio. Per l’Ue eravamo periferia. E c’erano di mezzo i rapporti con la Russia. Con i recenti sconvolgimenti nella politica internazionale, finalmente è stata ufficializzata la nostra candidatura. Dobbiamo ringraziare il sacrificio degli ucraini. Adesso, però, quegli stessi sconvolgimenti influiscono in modo negativo. Il governo, anziché spingere per la legislazione per negoziare l’adesione all’Ue, vuole leggi direttamente ispirate dalla Russia di Putin. Il sistema sta diventando autoritario. Siamo ormai un “regime ibrido”. Sempre meno compatibile con gli standard europei. Bruxelles potrebbe lasciare la candidatura in sospeso all’infinito”.
Perché il governo ripropone adesso la legge sugli “agenti stranieri”? L’anno scorso fu costretto a ritirarla. Non si aspettava forse una reazione popolare ancor più forte?
“Il momento è perfetto: in ottobre ci saranno le elezioni. Il partito al potere teme di non essere in grado di vincerle senza brogli. Ma sa bene che a fronte di brogli la società civile reagirebbe. Quindi, una legge che colpisca le organizzazioni che monitorano i diritti civili, è un toccasana, per chi comanda. Meglio creare la crisi politica adesso, sei mesi prima del voto. E avere il tempo per far tabula rasa della resistenza”.
C’è un collegamento tra questa legge stile-Putin e gli sviluppi favorevoli alla Russia della guerra in Ucraina? C’entra qualcosa l’offensiva globale contro l’Occidente?
“È il momento più favorevole per una stretta autoritaria e una scelta anti-occidentale. Vent’anni fa sarebbe stato impensabile, perché l’Occidente era forte. Invece ora la percezione di debolezza è dilagante. Si ritiene possibile un’alternativa. Si guarda alla Cina come partner economico e alleato politico (la Georgia ha firmato una partnership strategica con la Cina, ndr). Si vede la Russia sfidare la Nato e guadagnar terreno in Ucraina. L’alternativa illiberale appare realistica”.
La Georgia sta diventando parte dell’alleanza anti-Occidentale?
“Ci stiamo avvicinando alla Russia. I recenti sviluppi sullo scacchiere internazionale sono stati un vettore per cambiamenti rapidi e profondi della politica estera georgiana. Che era ostinatamente filo-occidentale. Ci abbiamo rimesso il 20 per cento del nostro territorio, ad essere filo-occidentali (nel 2008, la Russia ha occupato le regioni secessioniste dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud: i missili di Mosca sono oggi a 40 km da Tbilisi, ndr).
Il vostro primo ministro ha accusato gli Usa di aver tentato di organizzare colpi di stato a Tbilisi. Solo retorica? O la Georgia è disposta a rompere le relazioni diplomatiche con Washington?
“È stata la risposta alla richiesta Usa di ritirare la legge sugli “agenti stranieri”. Ed è un copia e incolla della narrativa di Mosca sulle proteste di Tbilisi nel 2022, nel 2023 e oggi. Non è solo retorica: gli Usa hanno invitato per due volte a consultazioni al massimo livello il primo ministro georgiano, e per due volte l’invito è stato respinto”.
Le accuse a Washington ricalcano quelle di Mosca per Euromaidan. Vede altre affinità, tra la situazione attuale da voi e quella del 2013-2014 in Ucraina?
“Le somiglianze sono molte. Si tratta in entrambi i casi di una forte mobilitazione partita dal basso. Sono soprattutto giovani. Che rifiutano ogni gioco politico. Nessun partito è riuscito a cavalcare la protesta per i suoi fini. È una rivoluzione della Generazione Z. Ragazzi che non hanno mai conosciuto l’Urss e il comunismo. Cresciuti in una Georgia libera. Per i quali quel che sta accadendo è inconcepibile. Un secondo punto che richiama a Euromaidan è il fatto che entri in gioco l’integrazione con l’Europa. E c’è una terza affinità: il tentativo di imporre leggi che arrivano da Mosca (nel gennaio del 2014 il “proconsole” di Putin per l’Ucraina Vladislav Surkov portò a Kyiv leggi repressive fotocopia di quelle già introdotte in Russia. Tra queste, proprio la legge sugli “agenti stranieri”, ndr).
Chi critica i manifestanti georgiani ricorda che gli Usa, per esempio, hanno una legge sugli agenti stranieri fin dal 1938.
“Il Foreign Agent Registration Act statunitense riguarda il lobbying politico aperto in un Paese in cui vigono divisione e bilanciamento dei poteri, oltre a un controllo costituzionale diffuso. La legge Usa si rivolge ai Paesi ostili. In Russia, la normativa è stata invece utilizzata per reprimere il dissenso. La legge che il governo georgiano vuole far approvare ha le stesse motivazioni”.
L’eminenza grigia di questo vostro “regime ibrido”, come lei l’ha definito, è un oligarca russo. O meglio, è un georgiano che ha fatto miliardi nella Russia banditesca degli anni ’90: Boris “Bidzina” Ivanishvili, ex presidente di Sogno Georgiano. Come giudica il suo recente discorso contro il “partito globale della guerra”? L’ “Occidente collettivo” che — dice lui — fomenta le rivoluzioni colorate e vuol “togliere la sovranità” alla Georgia?§”Scioccante. Erano anni che Ivanishvili non parlava. E ha fatto un discorso che poteva esser stato scritto dal filosofo ultranazionalista russo Dugin. Idee folli. Perlomeno è stato onesto: lui che normalmente preferisce stare nell’ombra ha fatto capire chi è davvero”.
Quanto conta Ivanishvili nella politica ucraina?
“Prende ogni decisione. È certamente l’uomo principale della svolta anti-occidentale in atto. È all’origine di ogni scelta politica”.
È un uomo di Mosca? Chi conosce le dinamiche del Cremlino dubita che l’abbiano fatto rientrare in Georgia con tutti quei soldi senza una “missione”. Magari sotto il ricatto di qualche documento compromettente. Lei come la vede?
“Con sospetto. Sicuramente deve molto alla Russia di Putin. Ma è tornato da anni. Forse adesso ha fretta di agire perché ha bisogno di assicurare risultati? Forse si sente minacciato? Solo lui lo sa”.
La Georgia oggi è un Paese indipendente?
“La svolta anti-occidentale è molto sospetta. Anche perché è rischiosa per lo stesso partito governativo: si è creata una situazione pre-rivoluzionaria. Potevano benissimo comportarsi “alla Orban” e rincorrere l’autoritarismo senza sbilanciarsi troppo. Sulla possibilità che la scelta sia stata eterodiretta però si può solo speculare”.
La Georgia è ancora una democrazia?
“Sta diventando un regime. Non è mai stata una democrazia compiuta. Ma un Paese libero sì. Con media indipendenti e una società civile vivace. Una specie di “democrazia rivoluzionaria”. Ma la legge sugli “agenti stranieri” con ciò che comporta può essere la fine della Georgia libera”.
Che dovrebbe fare l’Europa?
“Pressioni diplomatiche, restrizioni anche finanziarie, dichiarazioni politiche chiare. I manifestanti non capiscono perché non li difenda prendendo una posizione più dura. Perché chi scende in piazza a Tbilisi l’Europa la ama veramente. Il contrario di quanto avviene dove i partiti anti-Ue spopolano. Quello di diventare euroscettici è un lusso riservato a chi nell’zUe ha potuto entrarci”.
(da Fanpage)
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Maggio 6th, 2024 Riccardo Fucile
“B. UN VITA TROPPO”, L’OPERA DEFINITIVA SUL CAV, BY FILIPPO CECCARELLI, RIPERCORRE VITA, MORTE E MIRACOLI DI BERLUSCONI, UN UOMO MALATO DI NARCISISMO, INFANTILE, MEGALOMANE, BUGIARDO, SPREGIUDICATO, MA ANCHE GENEROSO E MUNIFICO
Inizia con un funerale B. Una vita troppo di Filippo Ceccarelli:
le onoranze funebri di Silvio Berlusconi. E in questo è simile alle prime pagine annalistiche di Tacito, il quale esordisce con l’estremo congedo di Augusto.
Ma questo diario, quasi un giorno per giorno, ricorda anche l’opera d’un altro annalista dell’antichità, Procopio di Cesarea, cronista di Giustiniano, autore della Storia segreta , dove narrò le iniquità dell’imperatore stesso e dell’imperatrice Teodora, ex prostituta, di Belisario, suo generale, e di Antonina, la moglie: sesso, eccesso e corruzione del potere.
Anche in questo caso il paragone non è incongruo dal momento che Silvio Berlusconi è stato a suo modo un “monarca” segnato da quel “troppo” che lo avvicina ad altri “re” più o meno noti del passato, per quanto sia vissuto in una epoca priva di vera regalità.
B. non è un romanzo, sebbene si alimenti proprio di particolari; e non è una sintesi storica, poiché Ceccarelli come molti non crede alla Storia; non è neppure un’analisi psicologica o antropologica del suo “personaggio”.
Tuttavia è anche una narrazione, e in qualche modo ricorda la descrizione d’un quadro, meglio d’una serie di quadri con un unico protagonista: B. Come ha scritto un filosofo contemporaneo, Rocco Ronchi, il dettaglio è il risultato d’una divisione imperfetta, dal momento che evidenzia ciò che esorbita dal totale e dal generale, come se volesse comunicare che qualcosa di quel tutto non torna.
Detto altrimenti, visto attraverso la serie delle vicende imprenditoriali, dei processi, degli scandali sessuali, degli eventi opachi del suo arricchimento e della costruzione dell’impero mediatico, fino alla sua “discesa in campo”, compresa l’inesistenza dell’azione dei suoi governi – salvo la difesa costante delle proprie imprese – B. resta un personaggio che non si riesce a richiudere in una unica definizione. Basterà scorrere l’interminabile bibliografia finale per trovare almeno cinquanta definizioni di Silvio Berlusconi espresse dai titoli dei volumi a lui dedicati. E allora?
Il fatto è che esiste un’omologia tra lo sbriciolarsi dell’abbacinante racconto cronachistico di Ceccarelli e il polverizzarsi della vita pubblica del Paese stesso, a partire prima di tutto dalla politica, per cui la dismisura, evocata nelle prime righe del libro, finisce per riassumere il senso stesso dell’intera vicenda di B. La sovrabbondanza, la smoderatezza, l’esagerazione, l’eccesso di B., non sono solo una causa ma al tempo stesso anche un effetto.
È come se il destino avesse voluto assegnare ad un individuo solo qualcosa che appartiene a tutti, e fare di lui il segno evidente della realtà effettuale. Ma non è forse così che accade in modo imprevedibile nella intera storia umana? Non ci sono forse personaggi che nel bene e nel male sembrano riassumere in sé il senso stesso d’una epoca?
Il libro di Filippo Ceccarelli appare simile alla registrazione d’una interminabile seduta psicanalitica, in cui un paziente – l’autore stesso – racconta quello che gli è accaduto nel corso degli ultimi trent’anni.
Berlusconi è senza dubbio misteriosamente inscindibile dal berlusconismo e dall’antiberlusconismo, e per quanto le cronache minuziose – i 334 faldoni di ritagli realizzati da Ceccarelli in tanti anni, da cui ha tratto la vita veridica di B. – ci restituiscano un uomo malato di narcisismo, infantile, megalomane, bugiardo, spregiudicato, ma anche generoso, munifico, inventivo, alla fine non ci forniscono una spiegazione univoca di questa storia cui tutti noi abbiamo partecipato perlopiù da spettatori.
Certo ci sono chiavi eccellenti, almeno nell’ambito della rappresentazione letteraria e visiva, per descrivere quanto è accaduto – la commedia e il melodramma, ad esempio, oppure il cinema di Fellini– tuttavia B. resta inspiegabile se non facendo ricorso a lui stesso.
Il “troppo” di cui Ceccarelli patisce la presenza nel momento in cui comincia a narrare è indefinibile e incomprensibile con il ricorso alle categorie storiche usuali. Se esiste un motivo o un tema ricorrente nell’agire di Berlusconi, è il suo continuo tentativo di “ingannare la morte”, come scrive giustamente Ceccarelli.
Paradossalmente proprio il confronto continuo con la propria mortalità rende ragione degli eccessi di B.: eccesso di ricchezza, eccesso di potere, eccesso di sesso, eccesso di tutto, a partire dall’eccesso di sé stesso. Ceccarelli che è un moralista ben temperato, e insieme un sincero credente, si pone davanti a Silvio Berlusconi con l’atteggiamento di chi ne vede l’intrinseca debolezza, che si accompagna all’inutilità stessa di tutta la sua energia di dominio.
Arriva perfino a dolersi del suo declino – la parte invernale del regno di B. possiede alcuni punti in cui la spietatezza del racconto si sposa a una sorta di misericordia verso il peccatore – e anche a sentirne la mancanza.
La hybris, la tracotanza, nella tragedia classica veniva colpita immancabilmente dagli dei. In un mondo desacralizzato come il nostro, dove sopravvivono forme di superstizione, piuttosto che fedi religiose di massa, non accade nulla contro la dismisura. Silvio è morto in un letto d’ospedale, come avviene oggi a tanti, chiedendo – è il dettaglio su cui chiude il libro – di mangiare un gelato e di avere una manciata di ciliegie.
Forse, come ha sostenuto qualcuno, la tragedia non appartiene alla cultura del nostro Paese, cristiano oltre che pagano nelle sue radici. Per cui l’unica tragedia vissuta da un altro potente nel corso degli ultimi ottanta anni – fatto salvo l’“uomo solo” Aldo Moro – è stata l’esito d’un conflitto mondiale, ovvero d’una catastrofe collettiva di enormi proporzioni. I nostri contemporanei, compreso il temibile e discutibile B., sono personaggi d’una commedia. E così alla fine si spera che continui, nonostante la calamità che l’annalista Filippo Ceccarelli racconta in B. con mano leggera e sicura.
(da La Repubblica)
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Maggio 6th, 2024 Riccardo Fucile
PAOLO CIRINO POMICINO: “CON LUI SALVINI TENTA DI PESCARE VOTI, MA NON SERVIRÀ PIÙ DI TANTO”… GIORGIA MELONI? HA PROVATO A PROPORSI CON UN PROFILO RESPONSABILE MA POI CON IL PREMIERATO HA GETTATO LA MASCHERA, PUNTA A TOGLIERE LIBERTÀ AL PARLAMENTO”
Guai a dare del leghista a Paolo Cirino Pomicino. «Non scherziamo, io voto solo i democristiani». Nello specifico, «il mio fraterno amico e grande elettore Aldo Patriciello», quinto nella lista della Lega al Sud. «Lo hanno fatto fuori da Forza Italia, ma lui rappresenta un’eccellenza nella sanità, […] quindi lo sostengo, visto che nel Mezzogiorno ho ancora qualche amico da mobilitare».
Resta il fatto che mai avremmo immaginato di vederla portare voti alla Lega…
«Purtroppo, noi vecchi Dc non abbiamo casa da anni, ma siamo ovunque, in tutti i partiti. I partiti non hanno identità culturale e si sono trasformati in comitati elettorali. Alle Europee di cinque anni fa avevo votato Pd».
Chi?
«Gualtieri, Sassoli e Bonafè. Del resto, anche nel Pd ci sono vecchi democristiani come Franceschini e Guerini. Ma a Roma, mi vergogno a dirlo, ho votato anche per la Raggi e il Movimento 5 stelle. Peraltro, votando a Roma, ora non posso nemmeno dare la preferenza a Patriciello».
Però a Roma può votare Vannacci, no?
«Per carità, politicamente è uno sciocco, l’uomo qualunque vestito con la divisa delle forze armate. Con lui Salvini tenta di pescare voti, ma non servirà più di tanto. Per fortuna la Lega sui territori è molto diversa, ha bravi amministratori, molti sono democristiani. Vannacci è l’ennesimo frutto di questi 30 anni di follia, in cui si è pensato di sostituire la cultura politica con il personalismo esasperato».
Quindi, non vota?
«Non lo so, io ho sempre votato cercando di trovare la soluzione più digeribile. O elaborando una speranza politica, ad esempio quella di veder diventare la Lega un partito civile, di stampo popolare, attraverso il lavoro del gruppo dei democristiani».
A proposito di personalismi, cosa pensa dei leader candidati, che non andranno a Bruxelles?
«Ci può stare, anche Andreotti aveva fatto il capolista nel Nord-Est alle Europee del 1989, ma quelli erano altri leader ed erano le realtà locali a chiedere di dare una mano. Oggi le condizioni sono diverse, ci sono proprietari di partiti e gruppi familiari che occupano il Parlamento e le istituzioni. E ora con il pericoloso progetto del premierato si punta a togliere libertà al Parlamento».
Meloni non la convince come leader?
«Ha provato a proporsi in un certo modo, con un profilo responsabile in politica estera, ma poi con il premierato ha gettato la maschera. È solo l’ultima dimostrazione della fine delle culture politiche e della volatilità dell’elettorato: prima c’è stato il boom dei 5 stelle, un incidente della storia, poi quello di Salvini e ora è toccato a lei».
(da la Stampa”)
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Maggio 6th, 2024 Riccardo Fucile
GLI EFFETTI DEI NOMI-CIVETTA
Alle elezioni europee dell’8 e 9 giugno ogni partito ammesso
presenta la propria lista, l’elettore ne può votare una sola e scegliere al suo interno fino a 3 candidati. Attenzione: se si dà più di una preferenza, bisogna però indicare almeno un uomo e una donna (qui, art. 14), altrimenti la scheda è considerata nulla. Al Parlamento europeo poi verrà eletto chi ottiene più preferenze, primi tra tutti i leader di partito che a Bruxelles non ci andranno e lo sanno già.
I leader capolista
La premier Giorgia Meloni è capolista in tutta Italia per FdI; il ministro degli Esteri Antonio Tajani è capolista nelle circoscrizioni Nord Ovest, Nord Est, Centro, Meridione; la segretaria del Pd Elly Schlein al Centro e nelle Isole; e il fondatore di Azione Carlo Calenda in tutte le circoscrizioni tranne nel Nord Ovest dove c’è Elena Bonetti. Fa eccezione l’ex premier Matteo Renzi, fondatore di Italia Viva e candidato da ultimo in lista per Stati Uniti d’Europa che, a suo dire, se lo votano andrà a Strasburgo. Gli altri sono lì per acchiappare voti, con la scusa di metterci la faccia e provare a portare il partito più in alto possibile.
Gli effetti dei nomi-civetta
Le chiamiamo candidature-civetta, ma di fatto sono un imbroglio che gli italiani accettano, o subiscono, da 30 anni. Al loro posto all’Europarlamento, infatti, non andrà il più apprezzato dai rispettivi elettori, ma il primo dei non eletti della lista, a volte sconosciuto ai più. Vediamo gli effetti delle candidature-civetta nelle ultime elezioni europee. Nel 2019 Matteo Salvini, ministro dell’Interno, fa da capolista per la Lega in tutte le circoscrizioni. Solo nel Nord Ovest raccoglie 696.027 voti, ma al suo posto a Strasburgo ci va Marco Campomenosi con 17.788 preferenze. Fa da civetta, come presidente di FdI, anche Giorgia Meloni che solo nel Nord Ovest raccoglie 92.850 voti, ma poi cede il posto a Pietro Fiocchi, che di preferenze ne ha solo 9.300. Nel grafico in pagina pubblichiamo, con l’aiuto del Centro Italiano Studi Elettorali (Cise) guidato da Lorenzo De Sio, tutti i voti presi e poi traditi anche nelle altre circoscrizioni, dove sono volati in Europa candidati con voti infinitamente più bassi dei due leader capolista.
Tutti i precedenti
Il male è purtroppo antico: dal 1994 i candidati civetta sono 24. Svetta Silvio Berlusconi: da presidente del Consiglio in carica si candida nelle elezioni europee del 1994, 2004 e 2009. Nel 2004 si presenta anche il suo vicepresidente Gianfranco Fini e i ministri Gianni Alemanno, Maurizio Gasparri, Altero Matteoli, oltre a Totò Cuffaro da presidente della Regione Sicilia. Sempre da ministri in carica, nel 2009 fanno la stessa cosa Umberto Bossi e Ignazio La Russa; nel 2014 Maurizio Lupi. Da leader di partito si presentano nel 2004 Oliviero Diliberto, Marco Follini, Clemente Mastella, Alfonso Pecoraro Scanio, e Achille Occhetto; nel 2009 Antonio Di Pietro. Milioni di preferenze in fumo.
Il confronto con gli altri Paesi
Un’abitudine all’inganno solo italiana. Per le prossime elezioni europee non risultano candidati-civetta negli altri Paesi membri, ad eccezione dell’olandese Geert Wilders, leader di estrema destra fondatore del Partito per la Libertà (Pvv), in corsa come candidato di bandiera. Un recidivo, visto che già nel 2014 e nel 2019 è stato eletto al Parlamento europeo ma poi non c’è andato. E anche setacciando il passato la storia ha un altro passo. Dentro le liste (per lo più bloccate) i partiti indicano candidati con le competenze specifiche per ogni settore di cui dovranno occuparsi, proprio perché è a Bruxelles che si prendono le decisioni che contano. Nel 2019 la ministra della giustizia tedesca Katarina Barley si candida, viene eletta al Parlamento Ue, e lascia il governo Merkel. Lo stesso fa Nathalie Loiseau, ministro degli Affari europei francesi, che lascia Macron una volta eletta. Solo Josep Borrell, ministro degli Esteri spagnolo, rinuncia al seggio, ma perché stava per essere designato Alto Rappresentante della politica estera Ue. E infatti pochi mesi dopo si dimette dal governo Sanchez.
La fiducia tradita
Non è l’unico modo in cui in Italia viene ingannata la fiducia degli elettori. Con i dati messi a disposizione da Matteo Boldrini (Luiss Guido Carli) e Selena Grimaldi (Università di Macerata), andiamo a vedere in quanti, una volta eletti, sono andati al Parlamento europeo, ma poi si sono dimessi per occupare un posto che ritenevano migliore.
Durata media della loro permanenza: mille giorni, cioè meno di 3 anni (contro i 5 previsti dalla legislatura). Nel 1994, fra gli eletti si sono dimessi in 5. Nel 1999 in 10. Da lì in avanti oltre che per membri del governo, governatori e assessori regionali, scatta l’incompatibilità del doppio incarico anche per sindaci, presidenti di Provincia, consiglieri regionali, deputati e senatori (legge 90 del 2004 art. 1 comma 1 qui e legge 78 del 2004 art. 3 comma 2 e art. 4 comma 1 qui). Così gli eletti nel 2004 che si sono dimessi salgono a 29. Nel 2009 scendono a 7, nel 2014 sono in 6, e nel 2019 ben 13.
I motivi delle dimissioni
Dei 13 eletti nel 2019 che poi si sono dimessi in 9 hanno lasciato la Ue per diventare deputati o senatori dopo le elezioni politiche del settembre 2022: Silvio Berlusconi (FI), Antonio Tajani (FI), Andrea Caroppo (Lega), Mara Bizzotto (Lega), Marco Dreosto (Lega), Raffaele Fitto (FdI), Carlo Calenda (eletto con il Pd, poi Azione), Simona Bonafè (Pd), Eleonora Evi (M5S). Invece Luisa Reggimenti (Lega) e Simona Baldassarre (Lega) sono uscite per andare a ricoprire il ruolo di assessore regionale. Pierfrancesco Majorino (Pd) ha preferito andare in consiglio regionale. Infine Roberto Gualtieri (Pd) per diventare ministro dell’Economia. Complessivamente dal 1994 il 60% di chi ha lasciato prima del tempo l’Europarlamento è perché è stato eletto alla Camera, al Senato o ha avuto incarichi di governo; il 21% è andato in Regione; il 9% a ricoprire cariche locali come quella di sindaco; un altro 10% sono giornalisti e attori che sono tornati al proprio lavoro o politici che si sono ritirati.
I casi eccellenti
C’è anche chi il Parlamento Europeo lo ha lasciato anzitempo non una, ma due volte. Sono tutti di centrodestra: Silvio Berlusconi, Umberto Bossi, Matteo Salvini e Raffaele Fitto, che la prima volta rimane a Bruxelles meno di un anno per correre (e vincere) le Regionali in Puglia del 2000. Tra quelli che non hanno superato i 12 mesi ci sono 5 politici di centrosinistra: nel 2000 si dimette Massimo Cacciari (candidato governatore poi sconfitto del Veneto), nel 2005 Ottaviano del Turco e Mercedes Bresso (per diventare governatori), nel 2015 Alessandra Moretti (candidata governatore poi sconfitta in Veneto), infine nel 2019 Roberto Gualtieri.
Il giro di giostra
Anche in questo caso riusciamo a strappare il primato. Prendiamo la Germania, la Francia e la Spagna, dove dopo le Europee del 2019 si è votato come da noi almeno una volta per le elezioni nazionali (in Germania nel 2021; in Francia nel 2022; in Spagna nel novembre 2019 e nel 2023). Se in Italia si sono dimessi in 13 su 73 eletti (18%), in Francia sono 11 su 74 (15%), in Spagna 7 su 54 (13%) e in Germania 9 su 96 (9%). I fatti purtroppo mostrano la scarsa considerazione che i politici italiani hanno per la più alta istituzione europea, usata un po’ come una giostra dove salire e scendere quando conviene. Eppure dovrebbe essere chiaro a tutti che è a Bruxelles che si prendono le decisioni che contano: dalle politiche agricole a quelle per governare l’immigrazione, dalla transizione energetica alle regole sul debito pubblico, alla costruzione sempre più urgente di una difesa comune. E le prossime elezioni sono le più importanti degli ultimi 30 anni, perché dall’esito dipenderà il futuro dell’Europa, e di conseguenza il destino dei singoli Paesi membri.
Milena Gabanelli e Simona Ravizza
(da corriere.it)
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Maggio 6th, 2024 Riccardo Fucile
“LA NUOVA CASTA SI NASCONDE DIETRO L’ALIBI DEL GARANTISMO”
Professor Esposito, tutto d’un tratto la casta è come sparita. La questione morale non sembra più principio costituente della vita politica. L’etica pubblica ridotta a un dettaglio, quasi un tema d’affezione per pochi inguaribili nostalgici.
Può apparire paradossale: da un lato la “casta” – il ceto politico professionista, nato e cresciuto all’interno dei partiti – si è effettivamente assottigliato, spesso sostituito da un personale politico improvvisato e sprovveduto. Ma è rimasto, se non aumentato, il malcostume politico al quale il termine “casta” alludeva.
Si invoca il garantismo, inteso però come perenne lasciapassare. Chi si oppone, come questo giornale, è definito al meglio come giustizialista, o – peggio – come manettaro.
Il garantismo, nel suo significato autentico, è una cosa seria. Ma poi è diventato un alibi per difendere un ceto politico spesso disonesto e corrotto. Oggi la disonestà è considerata un’opportunità, quasi una risorsa, per chi amministra la cosa pubblica. Per questo non è neanche avvertita come reato da chi l’esercita, ma come un dato naturale, connesso alla gestione del potere.
Il ministro per le Politiche agricole aumenta di 83 (ottantatré!) membri il suo staff. Silenzio. La ministra Santanchè è coinvolta in inchieste giudiziarie di primo livello. Illesa. Sgarbi, dimissionato a forza da sottosegretario, viene premiato con la candidatura in Europa nel partito della premier.
Che tutto ciò appaia normale, è un effetto del rovesciamento ottico in base al quale l’esigenza di onestà, per coloro che esercitano il potere, pare meno vincolante, rispetto a coloro che quel potere lo subiscono. Quando dovrebbe essere il contrario. Un illecito da parte del ceto politico è ben più grave perché, oltre gli interessi della collettività, colpisce il patto costitutivo su cui si regge la comunità.
Questa rilassatezza morale è un lascito dell’età berlusconiana o piuttosto la matrice dell’Italietta di sempre?
In una prospettiva di lungo periodo, c’è la storia di un Paese che non ha conosciuto né Riforma né Rivoluzione. Ma l’ultimo trentennio ha segnato un passaggio negativo nella coscienza civile dell’Italia repubblicana. Paradossalmente è accaduto dopo Tangentopoli. Ciò nasce dal fatto che la distruzione dei partiti ha avuto effetti ambivalenti. La mancanza di partiti centralizzati ha prodotto una diffusione di poteri locali incontrollati ancora più spregiudicati.
Fino a quando è stato all’opposizione il partito della premier interpretava il bisogno della pulizia morale. Giunto al governo lascia intendere l’opposto.
Il partito di Almirante appariva intransigente sul piano della pubblica moralità. Del resto la sua lontananza dal governo costituiva una sorta di garanzia rispetto a possibili tentazioni. La stessa premier ha dichiarato che il suo impegno politico è nato dallo sdegno per la morte di Borsellino, egli stesso uomo di destra. Poi, una volta al governo, ha ritenuto che circondarsi di un personale politico fedele fosse più importante che pretendere un adeguato costume morale alla cerchia dei collaboratori e degli alleati più stretti. Un grave errore, che finirà prima o poi per pagare.
Il centrodestra ogni volta che è chiamato a rispondere di questo tema invoca il vizio compensativo. Dice sottovoce o accusa a pieni polmoni: anche la sinistra ruba, è corrotta o semplicemente coinvolta. E così finiscono la discussione e la partita.
Effettivamente anche a sinistra la questione morale è tutt’altro che chiusa. Ma ciò non giustifica l’atteggiamento della destra. Si dovrebbe competere al rialzo.
C’era una volta la società civile. Almeno lei, professore, ha capito dov’è finita?
Non illudiamoci. La società civile non è mai stata tanto diversa da quella politica, che di fatto da essa proviene. E poi un’ampia fetta di ‘società civile’ considera l’attuale crisi etico-politica irreversibile, almeno per ora. Nulla come la riforma morale degli Italiani sarebbe necessaria. Ma non pare sia alle porte.
(da editorialedomani.it)
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Maggio 6th, 2024 Riccardo Fucile
MODELLO ORBAN: IL GOVERNO CONTROLLA LA MAGISTRATURA COSI’ SI REPRIME IL DISSENSO E SI NASCONDONO GLI SCANDALI
È stata annunciata talmente tante volte da lasciare ormai
freddi anche i diretti interessati della maggioranza, invece ora è davvero tutto pronto, con separazione delle carriere, due Csm e forse anche la facoltatività dell’azione penale.
Il ddl costituzionale del ministro della Giustizia Carlo Nordio arriverà a palazzo Chigi per il via libera del Consiglio dei ministri intorno alla metà di maggio. Tutto è stato messo a punto in una riunione a palazzo Chigi, alla presenza della premier Giorgia Meloni, alla quale hanno partecipato il sottosegretario Alfredo Mantovano, il ministro, il vice ministro Paolo Sisto, i sottosegretari Andrea Ostellari e Andrea Delmastro, i presidenti della Commissioni Giustizia di Camera e Senato Ciro Maschio e Giulia Bongiorno e i responsabili Giustizia dei partiti del centrodestra. Un blitz inatteso, che però ha voluto assumere i crismi di un patto ormai stretto. Nordio dunque ha finalmente convinto al grande passo Palazzo Chigi, forte anche della solida sponda di Forza Italia. Tanto che l’arrivo in Cdm del ddl costituzionale entro maggio sembra frutto di una peculiare ma coerente ripartizione: via libera definitivo all’autonomia differenziata per la Lega, il premierato in aula come da desiderio di Fratelli d’Italia, e passaggio in Consiglio dei ministri della separazione delle carriere per accontentare Forza Italia. Così da poterli spendere in campagna elettorale alle europee.
La data entro cui far arrivare il testo che dividerà i percorsi di magistratura requirente e giudicante è significativa: prima delle europee certo, ma anche a ridosso del congresso dell’Anm di Palermo, a cui il ministro non andrà perché – ufficialmente – impegnato al G7 della Giustizia a Venezia nei giorni precedenti. Entro maggio, poi, la Camera dovrebbe approvare in via definitiva il cosiddetto “pacchetto Nordio”, passato in Cdm nel giugno scorso e che prevede in particolare l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, la modifica del reato di traffico d’influenze e dell’appello del pm; correttivi alle intercettazioni e introduzione di un giudizio collegiale in caso di misure cautelari in carcere. Anche in questo caso, secondo fonti di maggioranza, il passo tutt’altro che svelto sarebbe dovuto alla «legittima cautela», visti i dubbi del Quirinale sul testo e i rischi di contrasto con le norme europee (sempre rigettati dal ministro).
DUE CSM E SORTEGGIO
La riforma che scuoterà davvero la magistratura riguarda la separazione delle carriere e l’ordinamento giudiziario, che è già è stato oggetto di modifica con la riforma Cartabia legata al Pnrr, ma su cui Nordio punta a ritornare in modo significativo. Del resto, quelle per la separazione delle carriere e per la riforma del Csm sono battaglie storiche dell’ex pm ben prima che diventasse ministro, e per cui era considerato eretico anche dai colleghi. Le sue certezze, però, hanno incontrato i molti dubbi della maggioranza, vista l’aperta ostilità dimostrata immediatamente dalla magistratura associata e il rischio di accentuare lo scontro tra poteri.
Nonostante la riunione a palazzo Chigi, il testo definito nelle linee generali è ancora allo studio, per limature e correzioni. Le ipotesi sul tavolo parlano di due concorsi in magistratura separati per giudici e pm, e di conseguenza due Csm separati. Inoltre, si sta valutando anche di modificare di nuovo l’assetto del Csm dopo la riforma Cartabia, aumentando ulteriormente il numero dei membri laici fino a farli diventare la metà (ora sono un terzo) e modificando di nuovo la legge elettorale con l’introduzione del sorteggio temperato per i consiglieri togati. Al vaglio ci sarebbe anche il sorteggio “secco”, ma è considerato tecnicamente rischioso: la Costituzione prevede che i togati siano «eletti», quindi il sorteggio dei 20 consiglieri tra i 10mila magistrati non sarebbe possibile senza una modifica. Il sorteggio temperato – contenuto in una proposta di legge ordinaria di FI nella passata legislatura – invece prevede che si sorteggi una rosa di candidati, tra i quali le toghe potranno votare.
La creazione di due Consigli separati potrebbe aprire infinite possibilità per riformare dalle fondamenta l’organo di rilevanza costituzionale, in particolare rispetto alla presidenza. Oggi il Csm è presieduto dal capo dello Stato, ma secondo indiscrezioni post vertice non si può escludere che questo cambi. Tra le suggestioni, infatti, c’è quello di fare presiedere i due nuovi Consigli rispettivamente al primo presidente della Corte di cassazione per quello dei giudici e al procuratore generale presso la Cassazione per quello dei pm. Con una ulteriore novità: scorporare la funzione disciplinare dai due Csm e assegnarla a un’Alta Corte composta da 9 membri, ovvero un organismo che giudicherà tutti i magistrati, la cui intuizione risale alla bicamerale D’Alema. Infine, come annunciato anche all’apertura dell’anno giudiziario forense del Cnf, Nordio ha auspicato anche l’inserimento in Costituzione «del ruolo fondamentale che hanno gli avvocati».
L’AZIONE PENALE
Al vaglio del governo c’è anche un ulteriore elemento: la possibilità di introdurre la discrezionalità dell’azione penale riformando l’articolo 112 della Costituzione, altro storico cavallo di battaglia di Nordio nell’ottica di rendere il sistema penale italiano pienamente accusatorio. In questo caso, l’ipotesi è quella di prevedere che le priorità per l’azione penale vengano stabilite dalla legge. Una previsione che va in questa direzione – ferma obbligatorietà dell’azione penale- è nella riforma Cartabia, che ha introdotto che il legislatore delegato articoli una disciplina dei criteri di priorità dell’azione penale. Cancellare l’obbligatorietà dell’azione penale e stabilire che sia il parlamento con la sua maggioranza a stabilire le priorità, però, sarebbe un passo molto oltre, nella direzione di assoggettare l’azione penale agli orientamenti della politica. Per ora da palazzo Chigi trapela estrema prudenza su questo punto, con la consapevolezza che anche solo la riforma radicale del Csm non sarà facile da approvare. Inoltre un pacchetto così corposo di riforma costituzionale dovrà necessariamente prevedere un ampio respiro per la sua approvazione.
LO SCONTRO
La direzione, dunque, è quella di un inevitabile scontro, a cui andrà a sommarsi anche il dibattito sui test psicoattitudinali per gli aspiranti magistrati, già approvato in Cdm ma di cui non ci sono ancora indicazioni chiare.
L’Anm, che il prossimo fine settimana si riunirà a congresso in assenza del ministro, si è già espressa in modo chiaro e il clima dei prossimi mesi sarà infuocato. «Da quanto leggo sulla stampa», ha detto a Domani il segretario dell’Anm, Salvatore Casciaro, «quello del ministro Nordio sarà un intervento radicale che stravolgerà l’assetto della giurisdizione, con modifiche che incideranno sull’equilibrio tra i poteri dello Stato». Casciaro è netto nel bocciare la riforma: «Con l’’Alta Corte si esautora il Csm, svilendone il ruolo; con la separazione delle carriere si immiserisce la funzione del pm attraendolo fatalmente nell’orbita di influenza dell’esecutivo». Se passasse l’ipotesi della discrezionalità dell’azione penale, invece, «verrà meno l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: il pm perseguirà in futuro solo i reati che gli indicherà la politica che ne controllerà anche l’operato». La sintesi è tranciante: «Non vedo una riforma liberale, ma il desiderio di ammansire il potere giudiziario».
Del resto, questa è stata da subito la linea dell’Anm, che pure aveva sperato che il ministero cercasse un dialogo prima di arrivare a un testo da presentare in cdm. «Auspichiamo un confronto con il ministro sulla riforma della giustizia, almeno prima che diventi legge», aveva detto il presidente Giuseppe Santalucia durante presentazione del congresso di Palermo. Invece il guardasigilli ha scelto di tirare dritto: prima la sua riforma passerà in cdm, poi eventualmente si confronterà con la magistratura associata.
In questa stagione caldissima è passata in sordina, ma via Arenula ha tentato di tendere la mano alle toghe, annunciando anche un reclutamento straordinario, per cui a gennaio 2026 si arriverà alla saturazione della pianta organica, con 1.500 nuovi magistrati. Servirà la prova dei fatti – toghe e avvocati sono contrari a un reclutamento di giudici onorari da trasformare in togati – ma questa sarebbe la prima vera risposta del ministero a uno dei maggiori allarmi lanciati da tutti gli uffici giudiziari. Impossibile, però, che basti a stemperare il clima.
(da editorialedomani.it)
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