Novembre 11th, 2012 Riccardo Fucile
L’INTERVISTA ESCLUSIVA DEL PREMIER AL “CORRIERE DELLA SERA”
Non è che lei si sente un po’ solo in queste bellissime stanze di Palazzo Chigi?
«Solo? Non mi sento solo, e non unicamente perchè ho ministri molto leali e bravissimi, così come i collaboratori. Che intende dire? Che le sembro preoccupato?».
Solo da un punto di vista istituzionale. I partiti che dovrebbero sostenerla lo fanno con ambiguità . Scalpitano, recalcitrano.
«Un altro modo di vederla è che non è chiaro perchè dovrebbero sostenerci. Ma perchè mai dovrebbero sostenere questo governo? Il nostro lavoro produce per loro costi politici rilevanti di breve periodo. Che alla fine la responsabilità di certe decisioni sia nostra, mi pare ovvio.
Ma in passato chi sedeva in queste stanze a Palazzo Chigi aveva dietro di sè una forza politica, grande o piccola che fosse, alleata o meno con altre. Coloro che sono stati presidenti del Consiglio prima di me non dovevano guadagnarsi tutti i giorni il consenso. Io invece non ho un retroterra politico mio, eppure devo prendere decisioni che hanno una probabilità di trovare consenso più bassa rispetto a tante decisioni che prendevano coloro che pure erano più corazzati di me in termini di retroterra politico. Però perchè le sembro solo?».
Questa assenza di una sua forza politica propria alle spalle non le pare una ragione sufficiente?
«No. Non credo possa considerarsi solo uno che – per quello che possono valere i sondaggi – sembra avere un consenso superiore a quello di cui godono i partiti che lo sostengono in Parlamento. E quando incontro persone per la strada, mi sento dire quasi sempre: “Vada avanti!”. Qualcuno, ma è raro, è più esplicito sui sacrifici: “Vada avanti, ma ci tassate troppo!”. Altri hanno un tocco di comprensione sulla difficoltà del compito. Ricordo un tale che una volta, a Milano, mi ha apostrofato: “Eh! Aveva proprio ragione la sua mamma…”. Qualche mese prima, in televisione avevo detto che mia mamma usava dire spesso, quando ero ragazzo: “Alla larga dalla politica!”. Quel signore, che non avevo mai visto, se n’era ricordato, all’uscita da una messa affollata, nella totale incomprensione degli astanti. Io gli ho risposto: “Sì, sì. Aveva proprio ragione la mia mamma”. E lui: “Sempre dare ascolto alle mamme!”. (Ride) (…)
Un operaio che ha già subìto gli effetti del crollo dei subprime, di Lehman, poi la sfiducia degli investitori sul debito italiano capisce bene gli eccessi del mercato. Come fa a convincerlo che la via d’uscita dalla crisi sia ancora più mercato?
«È una critica comprensibile, anche perchè fatta sotto l’impatto di un grosso disagio personale. Ma la mia lettura è in parte diversa. La crisi non è dovuta agli eccessi del mercato, ma a un mercato dove la presenza della regolazione e della vigilanza è stata insufficiente.
Per questo credo in un’economia di mercato con pubblici poteri forti (…). Ciò permette di avere un’economia sociale di mercato, che riesca a contemperare la competitività e appunto la dimensione sociale.
È un tema su cui ho lavorato a lungo come commissario europeo a Bruxelles. (…) Quella per un’economia sociale di mercato è una lotta difficile per l’Europa nel mondo e ancor più lo è per un singolo Paese. Ma secondo me è la formula giusta alla quale mira l’Europa, spesso senza riuscire a realizzarla. Il Trattato di Lisbona parla di “un’economia sociale di mercato altamente competitiva”: nessuna di queste parole può venir meno.
Però sappiamo anche da Luigi Einaudi che se il sociale e il mercato sono mischiati malamente, si fa quello che lui chiamava il pasticcio di lepre.
In Italia lo si è fatto per decenni, con i prezzi politici e tante altre distorsioni. La mia linea di riformatore, prima come politico tra quattro virgolette a Bruxelles, ora tra due virgolette a Roma, è sempre stata la stessa: agire con gli strumenti istituzionali e legali a disposizione, e con la persuasione.
Non possiamo darci come solo obiettivo quello di realizzare gli otto passi avanti che si vorrebbero, ma che non sarebbero fattibili o preluderebbero a dei crolli. Meglio allora assicurare due o tre passi avanti che consentano dei miglioramenti». (…)
La accusano anche di essere troppo pedagogico, come se lei ritenesse che si tratti di istruire gli italiani e non di governare.
«La pedagogia è naturale in un professore, è l’unica arma che ho. E ho un obbligo di spiegare maggiore di altri.
In questo contano le ragioni soggettive: nessuno mi ha scelto, ma devo dire agli italiani che se sono qui è per far fare loro cose che non volevano fare e che tutti quelli che sono venuti prima hanno sostenuto si potessero evitare. In più sono questioni complicate, quindi cerco di spiegarle.
Fa parte della mia natura, malgrado qualche recente erosione, di parlare in modo calmo di cose brutte e magari anche drammatiche.
Uno degli aspetti che mi sono imposto di cambiare – in parte riuscendoci – è che io ero abituato a parlare davanti a un pubblico più limitato e spesso anglosassone, dove la battuta e l’ironia sono elementi essenziali.
Ma è molto rischioso: perchè è vero che il posto fisso è monotono, però sicuramente dirlo in quel modo è stato per me un bell’infortunio. Quindi adesso cerco di non fare più battute, che pure all’inizio mi avevano aiutato a comunicare». (…)
Nell’articolo «Una guerra di liberazione» del 2 gennaio 1999, scritto all’avvio dell’euro, lei disse che noi italiani correvamo il rischio di diventare il Mezzogiorno d’Europa. Lei definì quella sfida la prossima guerra di liberazione: l’abbiamo persa?
«In parte sì, abbiamo perso quella guerra di liberazione. Quando, con le decisioni europee del maggio 1997, fu conseguito l’obiettivo dell’entrata nell’euro, è venuta meno la tensione unificante e la maggioranza di Prodi si è dissolta.
Là dove c’era un obiettivo visibile, un criterio numerico, una sanzione, ci sono state focalizzazione e unità d’intenti. Ma conseguito quell’obiettivo, ci siamo scordati dell’esigenza di essere competitivi in una moneta unica.
Anche perchè poi l’impulso europeo che è venuto è stato quello della strategia di Lisbona del 2000, molto più debole di Maastricht. (…) Visto che l’Europa non ci dava un vincolo cogente come per la finanza pubblica, dovevamo farci noi un piano delle riforme strutturali. Che poi è quello che dieci anni dopo l’Europa ha impostato con i piani nazionali delle riforme».
Vuole dire che abbiamo perso la guerra con noi stessi?
«Esatto, abbiamo perso la guerra con noi stessi. Abbiamo avuto un’erosione di competitività non tanto e non solo per la dinamica del costo del lavoro, ma per l’andamento insufficiente della produttività totale dei fattori, legata alla qualità delle infrastrutture, alla funzionalità del mercato dei prodotti e dei servizi, a un’adeguata dimensione media d’impresa e molto altro.
Non c’era più la valvola delle svalutazioni competitive ed è mancata la politica economica reale.
C’è stato un vuoto sotto questo aspetto. Io speravo (…) che il governo Berlusconi, uscito dalle elezioni del 2008 con una maggioranza così forte, con un orizzonte di cinque anni e quel successo d’immagine al G8 dell’Aquila, avrebbe veramente potuto fare un piano delle riforme strutturali, invece di negare che l’Italia avesse un problema di crescita». (…)
Lei ha trovato molto gratificante il mestiere di commissario europeo. Per questo attuale mestiere è lo stesso? O teme che a volte la facciano sentire un po’ un corpo estraneo o un ospite appena sopportato in questa macchina amministrativa che, dice il suo ministro Fabrizio Barca, è da registrare?
«A Bruxelles per un periodo iniziale abbastanza lungo mi sentivo frustrato, anche perchè avevo la responsabilità per uno degli aspetti più difficili a causa dell’esiguità e della lentezza dei poteri della Commissione sul mercato interno. Ma soprattutto non ero rodato io per un’esperienza del genere, anche se avevo molta conoscenza teorica sull’Europa.
Dopo no, dopo non ho più trovato frustrante quell’esperienza, anzi. Ora qui sarei un corpo estraneo? È strano, perchè sono un corpo estraneo; però questa situazione sta dando a questo corpo estraneo una qualche centralità ».
Dunque trova questo mestiere piuttosto gratificante che frustrante, grazie alla capacità di influire e di agire?
«Quella non si può negare che ci sia, poi si può agire bene o male, con più o meno risultati. Ma non è che gli strumenti non ci siano. Dunque no, non trovo questo mestiere frustrante.
Ovviamente c’è un’oscillazione, soprattutto nei primi tempi era così; poi uno impara a diventare più insensibile e soprattutto a mostrare meno se è sensibile. Comunque gli alti e bassi sono orari, quotidiani. Ci sono cose che danno grande soddisfazione, altre che danno grande frustrazione e bisogna imparare a incassare e ripartire. Ma frustrante nel senso dell’impotenza, no. Alcuni risultati sono molto più lenti a manifestarsi di quanto pensassi, questo è certo.
Però se ne è fatta tutti insieme un’analisi, si è cercato di farla validare in Europa e di apprestare gli strumenti conseguenti. E vorrei aggiungere una cosa che non significa niente per il mio futuro, ma è oggettivamente vera: se i problemi che l’Italia manifestava in modo acuto nel novembre 2011 sono il risultato non tanto di particolari governi recenti, quanto del non aver affrontato certi nodi strutturali per anni o decenni, questa non può che essere un’operazione lunga anni o decenni.
Ma non ho la frustrazione che deriva dal sapere che non sarò io a vederne il compimento. Sarò già molto contento se saranno stati messi alcuni semi; speriamo diano delle pianticelle presto e che persuadano ad andare avanti con tutte le correzioni caso».
Federico Fubini
(da “Il Corriere della Sera”)
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Novembre 11th, 2012 Riccardo Fucile
SCOPPIA A VERONA LO SCANDALO AGEC, LA PARTECIPATA CHE GESTISCE IL PATRIMONIO COMUNALE, CIMITERI, FARMACIE, MENSE, MOSTRE…”MI HANNO CACCIATO PERCHE’ VOLEVO FARE PULIZIA” ACCUSA L’EX PRESIDENTE CROCE E CONSEGNA I DOCUMENTI ALLA G.D.F.
Appalti alle aziende di parenti e amici, assunzioni poco trasparenti, gestione opaca del patrimonio immobiliare e peculato.
Queste e altre ancora le pesanti accuse contenute nella documentazione consegnata lo scorso 25 ottobre al nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Verona dall’avvocato Michele Croce, presidente di Agec (l’Azienda gestione edifici comunali) fino al 6 novembre scorso, quando è stato revocato dal sindaco Flavio Tosi.
La revoca è arrivata a seguito di un presunto scandalo relativo al costoso maquillage dell’ufficio di presidenza voluto da Croce.
Le ragioni della defenestrazione, secondo l’avvocato, sarebbero invece da cercare nella volontà di fare luce sulle attività dell’Agec.
Una “pulizia” iniziata in agosto e di cui sarebbe sempre stato tenuto al corrente anche Tosi che, per pronta risposta, ha smentito di aver mai saputo “di situazioni irregolari nella gestione dell’Agec”, accusando l’ex presidente di essersi accorto delle “presunte irregolarità solo dopo che sono diventati di pubblico dominio gli ingenti costi dei lavori nel suo ufficio”.
Uno scambio di accuse destinato a vivere un nuovo capitolo fin da domani, quando Croce ha annunciato una conferenza stampa per dimostrare la veridicità delle proprie affermazioni.
Chi è Croce
Michele Croce, classe 73, si è avvicinato alla politica tramite il centro cultuale di destra “L’officina” al fianco del quattro volte senatore Paolo Danieli (ex Msi, ex An).
Nel 2012 ha ceduto alle lusinghe di chi lo voleva con sè ed è stato eletto nella lista “Civica per Verona, Tosi sindaco”.
Come premio per l’ottimo risultato elettorale Tosi ha proposto all’avvocato Croce la presidenza di una delle società della galassia comunale.
La scelta è caduta proprio sull’Agec che, con decine di dipendenti, gestisce un vastissimo spettro di servizi e attività .
Non solo si occupa degli edifici comunali, ma anche di servizi cimiteriali, farmacie, refezione scolastica, mense, servizi tecnici d’ingegneria, eventi e mostre. Il complesso delle attività porta ad un bilancio ragguardevole, che si aggira attorno ai 70 milioni di euro l’anno.
Croce respinge le accuse
L’ex presidente di Agec si dimostra sicuro di sè, respingendo “con profondo sdegno” la notizia della sua iscrizione nel registro degli indagati, diffusa giovedì dalle pagine veronesi del Corriere della Sera: “Stavolta — ha commentato — l’architetto di questa vicenda ha commesso un errore progettuale che finirà per fargli franare il castello addosso”.
Croce nei prossimi giorni verrà invece sentito come persona informata sui fatti in relazione alle accuse che ha circostanziato nell’esposto alle fiamme gialle. Quasi 300 pagine tra documenti, tabelle, dati, numeri e memorie che l’avvocato ha raccolto e organizzato nei suoi quattro mesi scarsi di presidenza.
Le anomalie nel sistema degli appalti
Secondo le accuse contenute nelle carte consegnate ai finanzieri ci sarebbero una serie di anomalie nel sistema degli appalti ad affidamento diretto.
I nomi di alcune aziende ricorrono per decine di volte, fino a sommare importi considerevoli.
Così in cinque anni la Termosanitaria Pasinato ha eseguito lavori per 734.370 euro, nello stesso periodo la Bernabè e Ballarin impresa edile ha eseguito invece lavori per 1.525.781 euro, la Tomellini per 1.040.424 euro, la Quaglia per 1.098.627 euro, la Delta Color per 253.936 euro, la Mc Pavimenti per 486.765 euro.
Il ruolo di queste imprese andrebbe oltre quello di appaltatori abituali della Agec, ma avrebbero lavorato anche nella ristrutturazione degli immobili di proprietà di dirigenti e dipendenti dell’azienda speciale.
Nelle carte prodotte dall’ex presidente si parla anche di altre aziende, a proposito della Electric Group (18.096 euro in 5 anni) si dice che: “Il socio accomandatario della stessa, Massimo Dal Santo, è sposato con l’ingegner Giorgia Cona, responsabile dell’ufficio controllo di gestione e qualità in Agec”. E, ancora, sulla ditta Intercomp Spa (261.790 euro in cinque anni): “preciso che presso la stessa ditta appaltatrice risultava lavorare il perito industriale Giovanni Bianchi, oggi a capo della sezione informatica in Agec”.
L’avvocato Michele Croce ha anche presentato una relazione sulla redditività dei circa 150 immobili di pregio gestiti da Agec.
Appartamenti in centro città che vengono affittati a libero mercato, assegnati mediante una “gara informale” spesso a canoni inferiori del 30% rispetto al reale valore di mercato.
Con casi limite come quello dell’appartamento da 155 metri quadri in corso Porta Nuova (a due passi dall’Arena) a 675 euro mensili o quello da 75 metri quadrati nella centralissima piazza delle Erbe a 521 euro mensili. Canoni che cozzano con l’obiettivo della massima redditività fissato dal regolamento aziendale.
L’ombra del peculato
Infine, come si legge nell’esposto alla Guardia di Finanza, c’è anche l’ombra del peculato sull’utilizzo improprio dei beni aziendali.
Un immobile commerciale dell’Agec in via Trezza 28 risulta essere locato all’Immobiliare Pegaso Srl, con relativo divieto di sublocazione.
In questa palazzina sono presenti tuttavia diversi professionisti, tra i quali, come si legge nell’esposto: “risulta prestare la propria attività professionale il vice presidente di Agec, Roberto Colognato”, oltre ad avervi sede “la Coop. Edile L’Ombrellone, della quale è presidente il consigliere comunale di Verona Andrea Sardelli”.
Lo stesso legale dell’immobiliare Pegaso Srl, l’avvocato Giuseppe Antonucci, ha una targa con il proprio nome affissa all’ingresso dell’immobile.
Ed è stato proprio lui a chiarire la posizione di Colognato in una lettera inviata a Croce nella quale spiegava che la Pegaso Srl: “ha ospitato sino al mese di giugno c.a. il geom. Colognato presso la sua sede, in maniera assolutamente gratuita ed amichevole, anche perchè lo stesso ha provveduto ad applicare solamente due targhe senza mai occupare alcun locale dell’immobile”.
Di tutto questo e di molto altro ancora il sindaco della città di Verona, Tosi, dice di non esserne mai stato informato. È possibile.
Ma è certo che questa vicenda incrina rischia di incrinare pericolosamente l’immagine del modello Tosi, che il segretario leghista Roberto Maroni vorrebbe imporre anche fuori dalla città scaligera, magari nella vicina Lombardia.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 11th, 2012 Riccardo Fucile
DI PIETRO FECE FIRMARE NEL 2010 A TUTTI I CANDIDATI AI CONSIGLI REGIONALI UN CONTRATTO CHE PREVEDE FORTI PENALI PER CHI ABBANDONA IL PARTITO
Prima di seguire Massimo Donadi e Nello Formisano nell’avventura dei “Moderati e riformisti per il centrosinistra”, i consiglieri regionali di Italia dei Valori ci penseranno non una o due volte, ma centomila volte.
Perchè il rischio è per l’appunto quello di pagare 100mila euro.
Di penale. Una cifra consistente, conseguenza della ‘polizza antivoltagabbana’ che Antonio Di Pietro elaborò nel 2010 per difendersi dal pericolo di imbarcare nuovi Sergio De Gregorio nel suo partito e tamponare il fenomeno dei cambi di casacca.
Un documento riservato e sconosciuto al pubblico.
L’ex pm di Mani Pulite lo fece firmare a tutti i candidati ai consigli regionali dello stivale.
Tre pagine dal titolo inequivocabile: “Promessa di pagamento”.
Da firmare obbligatoriamente per ottenere il posto in lista Idv e riassumibile così: una volta eletto e superstipendiato, il consigliere regionale dipietrista deve corrispondere al partito 1500 euro al mese, che salgono a 3500 se non rinnovi la tessera Idv, lasci il gruppo consiliare e aderisci al gruppo di un altro partito.
Il contrattino indica l’Iban da utilizzare per bonificare gli importi entro i primi cinque giorni del mese: corrisponde a un conto corrente presso la sede di Bergamo del Credito Bergamasco spa.
E’ il conto della tesoreria nazionale di Idv.
L’articolo 5 indica la mazzata alla quale si va incontro se non si mantengono i patti: “In caso di inadempimento… il promittente (l’eletto, ndr) è tenuto a pagare a titolo di penale la somma di euro 100.000 (centomila) ai sensi dell’articolo 1382 del codice civile“.
Servirà a ridurre al minimo per Idv l’emorragia della scissione in atto?
Chissà .
Comunque adesso i consiglieri regionali interessati al progetto Donadi-Formisano hanno un po’ paura. D
i dover pagare caro l’eventuale addio al partito. Assai caro.
Un fattore da tenere presente nel dibattito interno. A cominciare dalla Campania, dove Formisano ha ricoperto per più di un lustro il ruolo di coordinatore regionale di Idv e dove sarebbe in qualche modo normale attendersi un esodo consistente di dipietristi verso la nuova formazione politica.
Nelle scorse ore l’agenzia Il Velino, con ottime entrature nel Palazzo del Centro Direzionale di Napoli, ha dato per molto probabile l’addio ad Idv del consigliere regionale Nicola Marrazzo, componente dell’ufficio di presidenza del consiglio.
E ieri mattina i quotidiani casertani hanno pubblicato che anche il capogruppo di Idv, Edoardo Giordano, stava meditando lo stesso passo.
In Regione Campania Idv ha eletto quattro consiglieri.
Il terzo, Anita Sala, è una fedelissima di Formisano e proviene dalla sua stessa città , Torre del Greco.
Il quarto, Dario Barbirotti, salernitano, ha lasciato Idv qualche giorno fa protestando per la scarsa solidarietà ricevuta dopo essere stato raggiunto da un avviso concluse indagini per peculato nell’ambito di una inchiesta sulla malagestione del Consorzio Rifiuti di Salerno, del quale fu presidente negli anni scorsi in quota Ds.
In pratica, Idv rischia di scomparire dall’assemblea legislativa campana.
Però la sede centrale del partito potrebbe incassare un sacco di soldi.
Il contratto anti-trasformismo è stato già applicato una volta.
Nel gennaio 2011 Idv ha fatto partire un’azione risarcitoria ai danni di Giacomo Olivieri, consigliere regionale della Puglia, accusato di aver lasciato Idv dopo le elezioni.
Nei confronti del politico pugliese il Tribunale di Roma — indicato dalle parti come competente di eventuali controversie — emise un decreto ingiuntivo di 24.500 euro, al quale Olivieri si oppose.
Chissà se il precedente, che non ebbe molta eco, funzionerà come deterrente verso quei consiglieri regionali che già pensavano di sposare la causa politica di Donadi e Formisano. Peccato per Di Pietro non averci pensato prima, quando nel 2008 compose le liste bloccate per il Parlamento.
Peraltro nel 2010, quando l’ex pm maturò l’idea della ‘promessa di pagamento’ per i suoi candidati, Razzi e Scilipoti erano due deputati considerati tra i più fedeli alla linea.
Sappiamo come è andata a finire.
Vincenzo Iurillo
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 11th, 2012 Riccardo Fucile
NEL PARLAMENTINO DI PALAZZO GRAZIOLI BERLUSCONI È IN MINORANZA. E SE NE VA IN KENYA
Novembre è il mese tragico della parabola di Silvio Berlusconi. Un anno fa, era il dodici, il Cavaliere si dimise e una folla festante si radunò sotto al Quirinale.
L’altro giorno, giovedì otto, è invece andato in scena l’ultimo atto: il gran consiglio del berlusconismo. Sandro Bondi, poetico e delicato berlusconiano, ha parlato di “brutalità ”.
Angelino “Bruto” Alfano ha accoltellato il Cesare declinante senza pietà , salvo poi fare una sceneggiata finale congiunta per salvare una finta unità .
Nel parlamentino di Palazzo Grazioli si è svolta una “riunione maschia, senza precedenti” per usare le parole di un altro berlusconiano rimasto fedele sino alla fine, l’ex governatore del Veneto Giancarlo Galan.
Palazzo Grazioli è la residenza di B. nella capitale, di fronte a Palazzo Venezia.
Al piano terra, sulla sinistra, il parlamentino del Pdl è il luogo dove si è riunito l’ufficio di presidenza.
Dentro si sono seduti anche esponenti di partito imbucati, come rivela l’amazzone Michaela Biancofiore.
Al tavolo di fronte al piccolo emiciclo i due contendenti: Alfano e Berlusconi. Poi, davanti, tutti gli altri.
A sinistra, centro e destra. Una riunione tesa e drammatica che passerà alla storia come la rivolta del partito contro il suo fondatore carismatico. In realtà , una mossa disperata per sopravvivere.
Tra i presenti, tranne una minoranza di quattro (Santanchè, Bondi, Galan, Verdini), nessuno crede più alla spinta propulsiva del berlusconismo.
L’arma del delitto sono le finte primarie che Berlusconi non vuole.
A conferma dello strappo consumatosi, ieri è arrivata la clamorosa mano tesa di Gianfranco Fini, lo scissionista del 14 dicembre 2010: “Se Alfano fa sul serio e rimane ancorato a Monti è un bene”.
Il paradosso è che, nei nuovi equilibri di partito, il segretario è sostenuto dagli ex An rigorosamente anti-montiani.
Per tutta risposta, Berlusconi è ripartito per il Kenya. Malindi, ancora una volta. Ospite del resort di Flavio Briatore, diventato amico inseparabile del Cavaliere.
Il mal d’Africa come consolazione.
Fabrizio d’Esposito
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 11th, 2012 Riccardo Fucile
POSSEDEVANO BARCHE E GIOCAVANO IN BORSA, MA PAGAVANO AFFITTI IRRISORI…DANNO PER OLTRE 6 MILIONI DI EURO
Erano titolari di negozi, acquistavano barche e giocavano in borsa.
Eppure vivevano nelle case popolari dell’Ater a Roma perchè dichiaravano redditi falsi per pagare affitti bassissimi.
E’ il caso di 12.565 soggetti che hanno arrecato all’Ater, l’ex Istituto case popolari, un danno stimato, nel solo 2009, in più di sei milioni di euro. A scoprire la truffa l’azienda stessa e la Guardia di Finanza, che hanno confrontato i redditi forniti dalle famiglie con quelli dichiarati all’Agenzia delle Entrate.
Le Fiamme gialle si sono soffermate sui 24 casi che registravano una differenza reddituale tra i 40mila e i 100mila euro, scoprendo famiglie che pagavano in media 79 euro al mese d’affitto, con minimi che toccavano i 7,75 euro. I redditi reali, dichiarati all’Agenzia dell’Entrate, oscillavano invece dai 40mila agli 80mila euro con punte che superavano anche i 100mila euro
Esemplare il caso di un imprenditore edile, proprietario di una barca a motore, che versava all’Ater un affitto di soli 281 euro al mese.
Alcuni, invece, con reddito dichiarato all’Ater pari a zero erano titolari di negozi, avevano più partite iva e compravano immobili o accendevano mutui per la prima casa.
“Provvederemo alla denuncia per truffa e truffa aggravata — ha spiegato il presidente dell’Ater Bruno Prestagiovanni — Il messaggio che vogliamo lanciare è che non si può più giocare. Ora ci sono controlli, partono denunce e si perde il diritto all’abitazione”.
In questo caso l’Ater è vittima, ma di recente è stata protagonista di alcune vicende poco chiare come quella di Fiorella Muscatello, la dirigente che avrebbe venduto casa a se stessa o quella della figlia di Lina Ferri, un’altra dirigente, che avrebbe riscattato un immobile nel prestigioso quartiere di Prati.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 11th, 2012 Riccardo Fucile
FORNERO: “FAREMO UN ACCORDO CON LA GERMANIA”…LA PARTENZA LENTA DEL COLLEGAMENTO TRA FORMAZIONE E OCCUPAZIONE
Ha raccontato che l’idea le è venuta di notte e il ministro Elsa Fornero ha subito scritto una lunga mail al suo direttore della comunicazione.
Leit motiv del messaggio: l’apprendistato deve diventare anche in Italia «la via tipica» per l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro ma ci sono problemi di comprensione e dialogo.
«Non è l’ennesima forma di flessibilità poco costosa» sostiene il ministro, per le famiglie e i giovani però apprendista è una parola che sa di vecchio e poco qualificante e del resto basta consultare un dizionario per constatare come sia considerato sinonimo di garzone.
Per rovesciare quest’immagine Fornero – ecco l’idea – vuole spot televisivi di Pubblicità Progresso che spieghino al Paese due concetti: 1) in una stagione di bassa occupazione sarebbe un delitto perdere quest’occasione; 2) l’apprendistato è collegato alla formazione e porta nella maggioranza dei casi alla stabilizzazione del posto di lavoro dopo tre anni.
Può apparire singolare che in epoca di crisi si finisca per discutere di lessico e comunicazione del lavoro ma dopo aver inventato la pessima espressione di esodati (che sta per prepensionati), dopo aver tirato fuori il termine demansionamento (per parlare di flessibilità delle mansioni) ora autorità pubbliche e imprese fanno i conti con il significato giusto da dare all’apprendistato.
Spiega Luigi Torlai, direttore delle risorse umane della Ducati: «Penso che serva una comunicazione incisiva sia nei confronti delle aziende sia dei giovani, credo che questa tipologia contrattuale soffra di un problema di fondo che potremmo definire di marketing.
Pochissimi la conoscono e ai più non fa buona impressione».
Al senatore Tiziano Treu del Pd non dispiacerebbe trovare un altro nome pur di salvarne la formula che giudica di successo, il ministro però crede che sia tutto sommato troppo tardi.
Meglio procedere a tambur battente con una campagna di comunicazione che modernizzi il termine.
Perchè, secondo Fornero, l’apprendistato combatte la precarietà ed è il contrario di «quella flessibilità disinvolta che per molte imprese hanno usato al posto della svalutazione competitiva di una volta».
E a rafforzare quest’idea dell’apprendistato come stabilizzatore di occupazione il ministro Fornero ha concluso un accordo con il suo omologo tedesco, Ursula von der Leyen, che sarà formalmente firmato lunedì 12 a Napoli e che prevede come partenza lo scambio di giovani tra i due Paesi.
«È la prima volta che la Germania ci chiede qualcosa che non sia rigore e ho detto subito di sì». Del resto la Germania è la culla dell’apprendistato che come sottolinea il manager italiano Roberto Zecchino del gruppo Bosch «là esiste dal 1949 e si basa innanzitutto sull’alternanza scuola-lavoro».
Il ministro parlava a Roma a un seminario organizzato sul tema dall’agenzia del lavoro Adecco, seminario al quale hanno partecipato i responsabili delle risorse umane di molte aziende che hanno riportato le loro esperienze o anche solo i loro dubbi e sottoposto al ministro richieste di miglioramento.
Felice Cipollina (Eataly) ha raccontato come la sua giovane azienda cominci a usare l’apprendistato ma se «un nostro ragazzo va in banca a chiedere un mutuo casa la banca gli dice no perchè non è in grado di mostrare un contratto a tempo indeterminato».
Stefano Angilella (Avanade) ha assicurato che la sua azienda fa ricorso all’apprendistato in staff leasing «e si è trattato di un’esperienza eccellente fatta con neo-laureati e neo-diplomati».
Tutt’altro che garzoni, quindi. Gianluca Grondona (Indesit) ha persino proposto di usare l’apprendistato per i lavoratori anziani o messi in mobilità . Carlo Dalla Valle (Prysmian) ha riferito che il suo gruppo non l’ha mai usato «perchè abbiamo sempre riscontrato delle difficoltà con le singole attuazioni a livello regionale».
E le difficoltà trovate con le Regioni sono state un tema ricorrente degli interventi che si sono susseguiti al seminario Adecco assieme a due altre sottolineature (polemiche): spesso ci si deve scontrare «con l’ostracismo dei sindacati» e anche i consulenti del lavoro non sembrano pienamente convinti di questa nuova opportunità . Da fare, dunque, c’è tanto.
Dario Di Vico
(da “il Corriere della Sera“)
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Novembre 11th, 2012 Riccardo Fucile
GUIDIAMO LA CLASSIFICA DI AZIENDE PER ABITANTI (6,6) DAVANTI A FRANCIA (4,1) E REGNO UNITO (2,8)
Metà delle imprese italiane, il 49,5 per cento, chiude entro i 5 anni di vita, sconfitte da un ambiente troppo spesso ostile all’iniziativa economica.
Ma quel 50,5% di aziende che resistono a 5 anni dalla nascita vanno ad irrobustire un tessuto imprenditoriale che, nonostante la crisi, è tra i più vivaci del mondo. Confartigianato ha rilevato che, con 6,6 imprese ogni 100 abitanti, l’Italia è in testa alla classifica dei Paesi ad economia avanzata con il più alto tasso di imprenditorialità . Al secondo posto vi è la Francia con 4,1 imprese ogni 100 abitanti, seguita dal Regno Unito con 2,8 aziende per 100 abitanti.
Se l’Italia è la “capitale” mondiale dell’imprenditoria lo deve all’artigianato che, con 1.448.867 aziende, spicca per la capillare presenza sul territorio italiano.
Secondo la rilevazione di Confartigianato, le “piccole patrie” dell’artigianato sono diffuse ovunque in Italia, ma le imprese trovano un terreno particolarmente fertile a Prato, Fermo, Reggio Emilia, le tre province con il più alto tasso di imprenditorialità artigiana.
A Prato operano 10.770 artigiani, pari a 4,3 imprese ogni 100 abitanti.
A brevissima distanza segue Fermo, con 7.383 aziende artigiane (4,1 ogni cento abitanti), mentre a Reggio Emilia, che conta 20.812 imprenditori artigiani, il rapporto con la popolazione è di 3,9 imprese ogni 100 abitanti.
Ma la “vocazione” artigiana dell’Italia si fa ancora più forte in alcuni Comuni: in testa alla classifica vi è Piode (in provincia di Vercelli) dove il rapporto artigiani-popolazione è pari a 9,2 imprese ogni 100 abitanti.
Tra i comuni più grandi con almeno 5.000 abitanti è Montemurlo (in provincia di Prato) a detenere la palma del comune più artigiano d’Italia, con le sue 1.223 imprese (6,6 ogni 100 abitanti).
Lo segue Cingoli (in provincia di Macerata) con 6 aziende per 100 abitanti e Monte Urano (Fermo) con 5,8 aziende artigiane ogni 100 abitanti.
All’artigianato e alle piccole imprese si deve la tenuta occupazionale anche nella fase più acuta della crisi: tra il 2007 e il 2010 le micro imprese con meno di 9 addetti hanno fatto registrare un aumento dell’1,2% degli occupati a fronte di un calo dell’1,5% degli addetti del totale delle imprese.
«Siamo un popolo di imprenditori – sottolinea il Presidente di Confartigianato Giorgio Guerrini – e lo dimostriamo a dispetto della crisi e dei tanti ostacoli che spengono le iniziative imprenditoriali. Questa propensione va sostenuta sia nella fase di avvio dell’impresa, sia soprattutto durante la vita dell’azienda. Non basta puntare sulle start up innovative se poi in Italia continuano a non esserci le condizioni favorevoli perchè le imprese possano svilupparsi e generare occupazione. Per offrire un futuro alle giovani generazioni occorre sicuramente facilitare la creazione d’impresa, ma è anche indispensabile dare segnali concreti alle imprese già esistenti e assicurare la continuità e la solidità del nostro tessuto produttivo».
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Novembre 11th, 2012 Riccardo Fucile
I LEGALI DEL LOBBISTA: CARCERE ECCESSIVO, RICORDO A CORTE DIRITTI
Una «allarmante indifferenza al rispetto delle regole». E «ai principi che dovrebbero governare i comportamenti in settori rilevanti quali quelli economici », in particolare «quelli che attengono al corretto esercizio di attività di grande impatto sulla collettività quale la cura e la salute».
I giudici del Tribunale del Riesame sono molto duri, nel descrivere il comportamento del faccendiere Pierangelo Daccò, nelle motivazioni con cui respingono l’ennesima richiesta di scarcerazione presentata dal suo difensore, Gian Piero Biancolella, che proponeva i domiciliari.
Ieri l’avvocato, prima dell’udienza nella quale il suo assistito è stato interrogato per rogatoria a Milano dai magistrati di Lugano, ha denunciato con veemenza il trattamento nei confronti del suo assistito, in carcere a Opera da un anno: «È un caso di interesse per la Corte dei diritti dell’uomo».
E ha rievocato le polemiche sulla carcerazione preventiva ai tempi di Mani Pulite: «Oggi è stato condotto in tribunale con gli schiavettoni ai polsi».
Biancolella denuncia «il silenzio della società civile» e un atteggiamento di «garantismo a singhiozzo: non trovo lo stesso virtuosismo garantista in tutte le vicende, indipendentemente dalla coloritura politica».
Il grande amico e anfitrione dei viaggi all’estero di Roberto Formigoni, è l’«unico detenuto», sottolinea Biancolella, nello scandalo sulla fondazione Maugeri che vede indagato per corruzione, fra gli altri, lo stesso governatore lombardo.
E in questi giorni è al centro di un fuoco incrociato: su di lui indagano, oltre ai pm milanesi Greco, Orsi, Pastore, Pedio e Ruta, anche il procuratore svizzero Raffaella Rigamonti, che sta approfondendo le operazioni di riciclaggio da lui realizzate attraverso le banche elvetiche.
Condannato a dieci anni nel processo abbreviato per il crac San Raffaele, Daccò è però continuamente evocato nel dibattimento sull’ospedale San Raffaele che si sta svolgendo con rito ordinario e nel quale oggi è prevista la deposizione del fiduciario svizzero Giancarlo Grenci.
A delineare quale fosse esattamente il ruolo di Daccò nella sanità lombarda, è stato, nell’udienza del 12 ottobre Mario Valsecchi: «Agevolava – ha spiegato l’ex direttore generale del San Raffaele – l’emanazione di normative o comunque provvedeva a facilitare la Fondazione nell’ottenimento della presentazione di richieste finalizzate all’ottenimento di certi benefici».
Quali, esattamente? Le norme emesse dalla giunta Formigoni che hanno evitato che l’ospedale finisse sul lastrico già nel 2004 («quando i debiti erano già intorno al miliardo di euro»), ma continuasse a vivere nonostante i debiti fossero già stratosferici (il crac da 1 miliardo e mezzo è stato dichiarato un anno fa).
All’«agevolatore» Daccò – secondo la versione di Valsecchi – in cambio dei «benefici» garantiti venivano girati fior di quattrini in nero.
Nel 2008, per fare un esempio, gli furono girati «non so se 200 o 250 mila euro». «E questo quando avvenne?», lo incalza il pm di Milano, Luigi Orsi.
«Dopo l’emanazione della legge», risponde Valsecchi.
In cambio di leggi poi approvate dalla Regione, e che avrebbero oggettivamente permesso al San Raffaele di continuare a nascondere i propri spaventosi buchi di bilancio, Daccò si presentava all’incasso dei vertici della fondazione.
E, seguendo la versione dell’ex direttore generale, sarebbe successo almeno in due occasioni, con l’approvazione delle «leggi regionali numero 34 e 7».
«Che comunque avevano portato della nuova liquidità e l’avrebbero portata nel futuro». Il salvagente lanciato a don Verzè dalla Regione grazie alla norma 34, ha permesso di erogare «finanziamenti a fondo perduto».
La norma numero 7, invece, «di vedere incrementato su alcune voci il proprio Drg (le prestazioni rimborsabili dal servizio sanitario, ndr), fino a un massimo del 25%». Attraverso questa riforma, secondo questa versione suggerita da Daccò ai piani alti del Pirellone, per i calcoli di Valsecchi al «San Raffaele garantì un incremento lordo di circa 45/46 milioni di euro».
Davide Carlucci e Emilio Randacio
(da “La Repubblica”)
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Novembre 11th, 2012 Riccardo Fucile
E NELLE IMPRESE SCATTANO I TAGLI E I COSTI
Crolla l’export, e il consumo interno non basta proprio per nulla a compensarne la caduta.
Crolla per il sesto mese l’indice di fiducia Ifo degli investitori.
Uno dopo l’altro, i giganti del Made in Germany lanciano profit warning, allungano le ferie, accorciano l’orario di lavoro, o preannunciano brutali piani di tagli ai costi. Autunno triste, e vigilia di Natale cupa, per la prima potenza europea.
«Farà male anche a noi, la locomotiva d’Europa non ce la fa più a trainare il convoglio», sentenziava ieri l’analista Tobias Kaiser sull’insospettabile Die Welt, quotidiano liberalconservatore di qualità vicino al governo.
Addio ai sogni d’essere fortezza invulnerabile grazie all’export di eccellenza: il gelo della crisi, come confermato anche da Mario Draghi, è arrivato in Germania.
Troppo a lungo Berlino ha ignorato il monito che l’Ocse aveva lanciato fin da agosto: «State scivolando nella recessione ».
La recessione ormai bussa alle porte della Bundesrepublik, con cifre che – pur con produttività , competitività e livello di vita da sogno rispetto a Italia o Francia – fanno paura.
La caduta degli ordinativi dell’industria è spaventosa: meno 3,3% a ottobre rispetto a settembre; a settembre meno 3,6% rispetto all’agosto della pausa estiva. Su base trimestrale (terzo trimestre) il crollo è del 2,3%.
«La debolezza delle economie europee, ma anche il rallentamento mondiale, fa sentire le sue conseguenze sulla produzione industriale tedesca, che nei prossimi mesi in tendenza s’indebolirà ancora», ammette il ministero dell’Economia.
La domanda globale del made in Germany è diminuita del 4,5%, e dalla sola eurozona del 9,6%.
La reazione a catena perversa riduce gli affari tra aziende tedesche: meno 1,8%. «Il rischio recessione sta aumentando per la Germania», avverte Carsten Brzeski, capo economista della grande banca ING.
Secondo l’Unione di industrie e camere di commercio tedesca (Dihk), il Prodotto interno lordo quest’anno crescerà al massimo di un 1%, e l’anno prossimo di non oltre lo 0,7%.
Insomma, dolori e drammi francesi o italiani si avvicinano, entrano sempre più nelle case del tedesco medio.
Proprio mentre si avvicina il Natale, e a undici mesi scarsi dalle elezioni politiche federali, difficile prova per Angela Merkel.
A lungo sottovalutato, l’impatto delle brutali manovre di risanamento chieste all’Europa mediterranea, e alla stessa Francia, e l’ostinato no di Berlino a forti misure di stimolo alla crescita, si vendicano sul primo della classe dell’export. Disabituiamoci a grandi aspettative, prepariamo tagli ai costi per uno o due miliardi, ha detto previdente Dieter Zetsche, AD di Daimler.
Orari accorciati in molti gruppi automobilistici, nonostante sia tuttora tedesca un’auto su due circolanti in Europa.
Orario corto anche a Man, uno dei due big mondiali (con Mercedes) degli autotreni. E Siemens, il colosso multicomparto, secondo JP Morgan deve realizzare risparmi dai 4 ai 5 miliardi per salvarsi.
In alcuni casi, come nelle tlc a Nokia-Siemens, la scure colpisce spietata prima delle feste: via 160 dei 1000 dipendenti.
Persino il porto di Amburgo, prediletto dai cinesi di Cosco o dai coreani di Hanjin Shipping per portare le loro merci all’Europa, soffre della crisi: meno ordini, meno navi ad attraccare.
Il peso del rigore a ogni costo, la priorità ai tagli rispetto a politiche per la ripresa, curva anche le forti spalle della Bundesrepublik, il cui debito pure continua a crescere e già vola all’80% del pil, troppo più di Maastricht.
Allarme anche per le banche: l’autorità di controllo BaFin ha chiesto ai maggiori istituti calcoli trasparenti sulla loro situazione, e se necessario rapidi aumenti di capitale. Deutsche Bank si adegua per prima.
«E’ quasi come obbligare le banche a scrivere il testamento», commentano amari a Francoforte
Andrea Tarquini
(da “La Repubblica“)
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