Novembre 6th, 2012 Riccardo Fucile
CENTINAIA DI FUTURI MEDICI NEGLI ATENEI DI TIMISOARA PER EVITARE LE DIFFICOLTA’ E LE SPESE DEI NOSTRI TEST D’INGRESSO… MA IL RICONOSCIMENTO DEL TITOLO DI STUDIO RESTA UN’INCOGNITA
Ma guarda dove sono finiti, i nostri futuri dentisti, per imparare il mestiere: in Transilvania, vicini di casa dell’uomo dai canini più famosi del mondo, il conte Dracula.
Più di 600 studenti italiani alla privata Vasile Goldis di Arad, una cinquantina alla statale di Timisoara; un altro migliaio sparpagliati nel resto della Romania, tra Iasi e Bucarest, tra Cluj e Costanza.
Metà studiano per diventare odontoiatri, l’altra metà sarà medico.
Ma stanno arrivando anche dozzine di infermieri e veterinari.
C’era una volta la fuga dei cervelli italiani, oggi anticipiamo i tempi: esportiamo direttamente il semilavorato.
Secondo gli ultimi dati disponibili (rapporto Migrantes 2011) 42mila ragazzi hanno varcato i confini e studiano all’estero. Migliaia di candidati medici sono rimbalzati contro “quei test assurdi” per due, tre, quattro anni consecutivi prima di decidersi a coltivare i sogni in un terreno meno ostile.
Virtù dell’Europa unita: ti laurei dove riesci, eserciti dove vuoi.
Molti hanno scelto la Spagna, ma costa una fortuna tra tasse e carovita.
Così a ogni iscrizione sciamano a centinaia in Romania, ogni anno più numerosi: in una mano la valigia dell’emigrante, nell’altra quella di mamma o papà che paga e conforta.
Quando partono per la Transilvania sembrano Claudio Bisio e Angela Finocchiaro in Benvenuti al Sud.
Benvenuti in Romania, invece: “Mia figlia – racconta la psichiatra Nicla Picciariello – era la migliore della classe, al liceo, ma ha provato quattro volte il test a Medicina e non è passata: lo sanno tutti che i posti erano già assegnati. Sconfortante, me lo lasci dire. Così si è iscritta alla statale di Timisoara. Per noi è stata una ferita: non dovremmo avere pregiudizi”.
“Ma è un Paese arretrato, tanti criminali… Siamo partite insieme, le ho detto di togliersi i brillanti, via le borse di Chanel, solo vestiti dimessi. Quando sono arrivata qui mi sono vergognata. È un sogno, altro che inferno! Le auto si fermano due metri prima delle strisce, le facoltà hanno ottimi laboratori e mi sento molto più sicura a girare sola e ingioiellata qui che in Italia”.
Vale il reciproco: “Un giorno – racconta Alessandro Nicolò, II anno di odontoiatria ad Arad – ho detto a una professoressa che arrivavo da Reggio Calabria ed è sbiancata: “Oddio ma lì sparano per strada, è pericoloso, c’è la ‘ndrangheta!” Le ho risposto: accidenti, guardi che da noi dicono lo stesso della Romania”.
A Timisoara e Arad, l’eldorado degli aspiranti camici italiani, quasi tutti vengono dal Mezzogiorno.
“Certo, spero di tornare al più presto nel mio Paese – racconta Marzia Russo, ventenne di Foggia, II anno di Medicina in inglese ad Arad – ma sarò per sempre grata alla Romania: in Italia mi sarei dovuta laureare in una disciplina che non mi interessa. Qui ho già iniziato il tirocinio, entro in sala operatoria, cambio medicazioni e assistito a operazioni delicate. In Italia? Farei solo teoria”.
In realtà , le nostre università non permettono facilmente il reintegro, una volta aggirato il test.
“Ma quest’anno 29 ragazzi sono riusciti a tornare all’Università di Bari”, sorride Nino Del Pozzo di Tutor University, che offre assistenza logistica alla Vasile Goldis di Arad. Ogni anno quasi 90mila italiani affrontano il test delle facoltà mediche, e l’80 per cento vengono dal Centro-Sud.
Ne passa uno su otto.
“In Italia per iscriverti ai test – spiega Maria Vincenza M., uno dei 170 ammessi quest’anno ad Arad su 300 candidati italiani – spendi da 50 a 100 euro ogni tentativo. Poi ci sono i corsi: io ho speso 4mila euro ma il listino aveva soluzioni da 9, 10 e anche 12mila euro tra teoria, esercizi, simulazioni e glossario. In più ho speso 500 euro di libri”. “Fate la somma, moltiplicate per 90mila studenti e capirete perchè in Italia questa follia dei test non la cancelleranno mai”, dice un papà , Raffaele, in cerca di casa per la figlia.
“In questi dieci anni – dice Giuseppe Lavra, vicepresidente dell’Ordine dei medici di Roma – ci troveremo con 40mila medici in meno. Il guaio è che non mancano ancora, così non facciamo nulla per risolvere il problema “.
Un paradosso che costa milioni: in Romania ogni studente spende in media 4mila euro di tasse ogni anno, che “diventano 10 o 12mila con affitto, mantenimento e trasferimenti”.
Per duemila italiani fanno una ventina di milioni di euro ogni anno che le famiglie avrebbero speso volentieri in Italia, invece che in Romania.
E anche l’esodo in conto studi diventa business. “Per venire qui a Arad – dice Del Pozzo – da noi spendono 3mila euro per l’iscrizione e l’assistenza ai test di lingua, e fino a 10mila con il tutor. Ogni tanto ci arrivano telefonate strane, gente che pensa che studiare qui sia una finzione. Beh, ragazzi, non avete capito niente: 15 giorni di vacanze a Pasqua, una ventina a Natale e poi luglio e agosto, il resto dell’anno non ti muovi. C’è obbligo di frequenza e vi conoscono uno a uno, non ci si passano i badge come in Italia”.
“Una volta superato il test iniziale di romeno, che per fortunaè semplice da imparare – dice Antonino Nicolò, 25 anni, futuro dentista figlio d’arte e rappresentante di tutti gli studenti – si studia mattina e pomeriggio, teoria e pratica in laboratorio, test ogni sei mesi e se non passi ripeti l’anno come al liceo. I professori sono eccellenti, abbiamo strumenti e tecnologie per laboratorio e ricerca e il mestiere lo impari davvero: al quarto anno ho iniziato a fare devitalizzazioni, una pratica difficile perchè tocchi il nervo. Abbiamo tre studi a Reggio, ma se avessi studiato in Italia sarei arrivato da mio padre come gli altri, senza saper fare nulla”.
Antonino parla il romeno meglio dei romeni. Lo conoscono tutti: “Se ti si rompe un tubo in casa, se cerchi un avvocato o un marito basta chiamare lui… Antoninoooo”, scherza Anamaria Nyeki al compleanno di Sebastian Popescu, un amico comune.
Gli hanno già offerto, dice, di restare come assistente, a fine corso. “Mi sento a casa, ma lo stipendio è bassissimo. Vedremo”.
Ad Arad – 180mila abitanti e un’architettura asburgica deliziosa, ma diroccata – le famiglie appena arrivate dall’Italia le incontri a colazione nella hall del migliore albergo.
Quasi sempre almeno uno dei genitori è medico, a volte primario: “Insegno radiologia alla Sapienza – dice Francesco Briganti – e sono qui per mia figlia. La mia presenza dimostra che il test è una cosa seria, e che in Italia molte cose non funzionano”.
Da qualche anno, in Romania le lauree false sono nel mirino.
Alla Grigore T. Popa di Iasi hanno stracciato 62 titoli conquistati da italiani senza imparare una parola di romeno.
E nel 2010 il rettore della Spiru Haret di Bucarest è stato sospeso: “Nel 2009 avevano rilasciato 50mila diplomi – ha raccontato in tv l’ex ministro dell’Istruzione Ecaterina Andronescu – e lo stesso l’anno precedente “.
Lauree facili, facilissime.
Per discernere il loglio dal grano, Andronescu ha proposto di far ripetere gli esami in università irreprensibili, “pubbliche o private”.
E tra queste “la Vasile Goldis di Arad”, la più amata dai ragazzi italiani. Il guaio è il riconoscimento incerto della laurea.
Nella Ue sarebbe automatico, ma gli scandali inducono prudenza. “Monitoriamo da tempo – spiega il ministero della Salute italiano – un preoccupante fenomeno di titoli rilasciati a seguito di corsi ad hoc, formalmente validi ma nella sostanza privi di valore.
Le richieste di riconoscimento sono in netta espansione. In Romania, solo in una decina di casi è stata accertata la regolarità del corso”.
Loro, gli studenti, sono disposti a scommetterci sei anni di vita.
Affittano camera a 200 euro, montano Sky in italiano “anche se non si potrebbe” e vivono il loro sogno tra caffè “ristretto” e covrigi caldi, le cialde ammazzafame. Vita universitaria, amori e amicizie senza frontiere.
Se metti piede fuori dalla cittadella, ad Arad, sprofondi nella povertà e nel latifondo. Ma il centro è dei grandi edifici pubblici e del teatro austro-ungarico, con bar e ristoranti affollati da ragazzi romeni e italiani, da studenti israeliani e tunisini.
“Mai una violenza, un furto o un’aggressione “, assicura Antonino al ristorante.
Un gigante romeno si avvicina per salutarlo.
È il capo della polizia anticrimine. “Chiede di spiegare ai nuovi arrivati di non fare sciocchezze: non è come in Italia, un solo spinello e ti arrestano per spaccio internazionale. Lo stesso per l’alcol: se guidi, tolleranza zero”.
Paolo Brera
(da “La Repubblica“)
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Novembre 6th, 2012 Riccardo Fucile
LO SCRITTORE PROPONE COME SINDACO DI CASTELVOLTURNO IL RAGAZZO DEL CAMERUN CHE GUIDO’ LA PROTESTA DEGLI IMMIGRATI: UNO SCIOPERO NEI CAMPI DA CUI E’ NATO IL REATO DI CAPORALATO
L’Italia è il primo produttore al mondo di pomodori. E l’intera filiera è in mano alla criminalità organizzata.
Parte da qui, Roberto Saviano, in “Che tempo che fa del lunedì”.
Dal business dell’agricoltura che frutta alle mafie 50 miliardi ogni anno.
Ma alla denuncia si accompagna la storia: il racconto di una vita e di “un’avventura italiana”.
E’ quella di Ivan Sagnet, bracciante e ingegnere.
Un ragazzo venuto dal Camerun, innamorato dell’Italia dai mondiali del ’90. Arriva grazie a una borsa di studio e al sacrificio dei suoi, Ivan. Per studiare al Politecnico di Torino.
Ma la sua avventura italiana si complica con la crisi. Perde il lavoro di commesso nel weekend, con cui riusciva a mantenersi agli studi.
E finisce, nell’estate 2011, a lavorare in un campo di pomodori a Nardò, in provincia di Lecce. Agli ordini di un caporale ghanese.
Per ogni cassone riempito, il bracciante riceve 3 euro e mezzo. Il primo giorno Ivan riesce a prepararne solo quattro: 14 euro per 12 ore di lavoro.
Poi diventa un po’ più veloce.
Ma i soldi vengono “tassati” dai caporali. E si deve pagare per mangiare, per bere, per uno spazio su un materasso, perfino per farsi portare in ospedale quando ci si sente male. E si viene stipati in 25 su furgoni da 10 persone. Con cinque docce per 500 lavoratori.
La rivolta esplode quando il padrone – l’imprenditore agricolo – chiede che venga modificata la tecnica nei campi: i pomodori devono essere staccati uno a uno.
Il lavoro sarà rallentato, ma la paga – per ogni cassone riempito – resterà la stessa. Parte la contestazione. E Ivan diventa un leader.
Chiede, guidando i suoi compagni, che la paga salga a 6 euro (il caporale – hanno scoperto – ne guadagna 15).
Ed è sciopero, una protesta che blocca la produzione.
La prima risposta è un no. Netto. Poi parte la trattativa: 4,5 euro, è la controproposta dei caporali.
Ma è una questione di diritti, non di denaro. E Ivan dice non ci sta. Braccia incrociate. Arriva l’attenzione della politica, dei sindacati. Ma i guadagni si bloccano, per tutto il comparto. E cominciano i mugugni.
La protesta si affievolisce, il ragazzo camerunense viene contestato dai suoi compagni. Minacciato.
E torna a Torino. Ma è un isolamento che dura poco. Gli altri immigrati gli chiedono di tornare. E di riprendere la lotta.
Da quell’estate di proteste, nelle campagne di Nardò, nasce il reato di caporalato nella nostra legislazione. “Gli immigrati non vengono qui solo a fare lavori che gli italiani rifiutano – dice Saviano – ma anche a battersi per diritti che noi non difendiamo più”. E ancora: “Il consiglio comunale di Castelvolturno è sciolto da mesi per camorra. Territorio difficile, con una presenza enorme di mafia nigeriana. Ma è anche una terra laboratorio. E Ivan sarebbe un ottimo candidato sindaco”.
Ivan parla, chiede più controlli, più legalità , più collaborazione con gli ispettori.
Ma chiede, innanzitutto, che chi nasce nel nostro Paese – figlio di immigrati – possa essere e sentirsi italiano.
(da “La Repubblica”)
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Novembre 6th, 2012 Riccardo Fucile
IORIO, DA DECENNI AL POTERE, NELLA REGIONE PICCOLA E COSTOSA
Il Vicerè del Molise ha deciso: non abdica affatto.
Vorrà dire che, grazie al centrosinistra spaccato e suicida, dovrà vincere di nuovo le elezioni. Alfano, tutto teso a spazzar via i vecchiumi, plaude: Michele Iorio «ha diritto a candidarsi» per l’ennesima volta «proseguendo così il percorso di rinnovamento».
Che avviò come sindaco nel 1980.
Quando Angelino aveva i boccoli e le braghette corte.
D’altra parte, il segretario del Pdl è rimasto scottato a casa sua, presentando candidati più o meno «alternativi» che facevano l’occhiolino ai contestatori della vecchia politica, già tre volte: ad Agrigento, a Palermo, alle Regionali siciliane.
Basta coi rottamatori, ha pensato. Prima che rottamino lui, meglio l’«usato sicuro».
E va detto che dopo l’estinzione degli antichi pachidermi democristiani, non c’è usato sicuro che sia più usato e più sicuro di Michele Iorio.
Sindaco di Isernia per un decennio dal 1980 (l’anno del «Il tempo delle mele», di Bettega capocannoniere, di Toto Cutugno vincitore a Sanremo), assessore e vicepresidente regionale dal 1990 quando a Palazzo Chigi c’era Andreotti e agli Interni Gava, presidente regionale nel 1998 grazie a un ribaltone destrorso contro l’Ulivo nelle cui file era stato eletto consigliere.
Di nuovo governatore nel 2001 dopo l’annullamento (vizi di forma nella presentazione delle liste) delle elezioni del 2000 vinte dal centrosinistra, e poi ancora nel 2006 e poi ancora nel 2011.
Per non dire delle elezioni prima alla Camera e poi al Senato dove è rimasto per mesi a dispetto di ogni incompatibilità . Insomma, per dirla con Alfano, trentatrè anni di poltrone «rinnovate» con incessante e ininterrotto trasporto.
Cosa sia oggi il piccolo reame del Molise lo lasciamo dire ai numeri.
Per cominciare, c’è un dipendente pubblico ogni 16 abitanti (uno ogni cinque occupati) e in Regione sono così tanti che secondo Confartigianato per allinearsi ai modelli virtuosi delle piccole Regioni ordinarie si dovrebbero lasciar a casa tre su quattro delle persone in organico. Le spese per servizi generali, per la Cgia di Mestre, toccano i 3.253 euro pro capite: il doppio dei 1.566 del Veneto. La sanità (accusata di essere la più alta pro capite d’Italia) è sprofondata in un buco enorme di oltre 42 milioni.
Quanto al «palazzo», spiega un dossier del «Sole» che la spesa per gli organi istituzionali è di 44,1 euro pro capite (il triplo della media italiana, la più alta in assoluto tra le Regioni ordinarie), che i consiglieri (30, divisi in 17 gruppi: un delirio) sono in rapporto agli abitanti il quadruplo che in Liguria, il quintuplo che nella media nazionale, il decuplo che in Campania per non dire della Lombardia.
E se l’Italia intera si scandalizzò per l’incredibile abbondanza dei rimborsi ai «gruppi» nel Lazio, figuratevi che il Molise, proporzionalmente, finanzia i partiti più di tutti gli altri: 6,25 euro pro capite: il quadruplo della media italiana, il quintuplo della Lombardia, il decuplo del vicino Abruzzo.
E in cima a tutto c’è lui, il vicerè Michele.
Che amministrando una terra 31 volte più piccola, 60 volte meno abitata, 172 più povera nel Pil dello Stato di New York, guadagna assai più del governatore newyorkese Andrew Cuomo.
Con l’aria che tira nel Paese, le batoste e i sondaggi da incubo per la destra, la minaccia che i «cosacchi» grillini arrivino ad abbeverarsi anche alla meravigliosa fontana Fraterna di Isernia, Michele Iorio fa però spallucce.
Certo, deve risolvere con qualche ritocco alla legge elettorale il problema del voto disgiunto che l’anno scorso lo fece vincere solo per un pelo.
Ma nonostante la sconfitta subita mesi fa a Isernia, dove aveva candidato a sindaco la sorella Rosetta (sconfitta vendicata con le istantanee dimissioni di tutti i consiglieri della destra per tornare alle urne) è sicurissimo d’avere ottime probabilità per essere rieletto un’altra volta.
Perchè ha distribuito negli anni soldi a pioggia tipo 100 mila euro per la patata turchesca di Pesche, 250 mila euro per la «sperimentazione del ripopolamento della seppia», 90 mila per il monitoraggio dell’«apis mellifera ligustica», 800 mila per i «sentieri di ippovia e ippoterapia»… Perchè da commissario per il post-terremoto ha seguito il «modello Irpinia» allargando il «cratere» dei Comuni aventi diritto ai risarcimenti da 14 a 83, compreso Guardiaregia il cui sindaco non aveva denunciato manco una crepa…
Perchè è sempre stato generoso nello smistare incarichi, al punto che c’è chi ipotizza che nel caso di una rivolta nuovista pidiellina potrebbe perfino tentare di vincere da solo traslocando nell’Udc dell’amico Teresio Di Pietro, segretario regionale del partito di Casini, da lui nominato prima Commissario Iacp e ora a FinMolise, la finanziaria regionale, l’unica in zona «che caccia i soldi»…
Più ancora, però, il governatore che somiglia ai vecchi Dc alla Mariano Rumor «dall’anima di ferro dentro la scorza di marzapane», conta sulle fratture nei due schieramenti.
Ai suoi, scrive Antonio Sorbo su altromolise.it, Iorio avrebbe detto che primarie o non primarie lui si candida e se non lo vogliono si candida lo stesso per suo conto presentando (a dispetto delle ironie sul suo mestiere di politico) due liste civiche, «Progetto Molise» e «Molise Civile» in grado di prendere un terzo dei voti, quindi di vincere «alla siciliana» o almeno di causare alla destra «ingrata» una legnata: «Vi conviene correre questo rischio?».
E la sinistra? Col molisano Antonio Di Pietro ammaccato dalle accuse di «Report», il Partito democratico turbato da qualche mal di pancia ma orientato a ricandidare Paolo Di Laura Frattura i cui amici possono oggi sventolare la bandiera del ricorso «vincente», i vendoliani perplessi, i rifondaroli e i comunisti italiani in fase di sbandamento, i grillini decisi a rifiutare ogni collaborazione, compresa quella col «cane sciolto» Massimo Romano che aveva teso loro la mano avendo deciso di chiamarsi fuori da una nuova ammucchiata sinistrorsa, la situazione è aperta a tutto.
Compresa l’ipotesi che, dopo tutta questa accanita battaglia di carte bollate, gli avversari di Michele Iorio si presentino in ordine sparso con quattro o cinque candidature.
Riconsegnando al Vicerè quello scettro che da anni sembrano far di tutto per non strappargli di mano…
Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera“)
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Novembre 6th, 2012 Riccardo Fucile
SPUNTA LA LISTA DEI SINDACI…NEUTRALE LA FIOM… PER MOLTI IL CANDIDATO DI QUESTA GALASSIA POTREBBE ESSERE IL PM INGROIA
Pezzi di sinistra che vogliono incrociare pezzi di elettorato «in liquefazione». L’astensionismo siciliano (53 per cento) e i sondaggi che danno il non voto a livello nazionale vicino al 40 stanno “accendendo” una serie di movimenti alla sinistra del Pd e anche di Sel.
L’ultimo in ordine di tempo è il Manifesto di Marco Revelli, Paul Ginsborg, Luciano Gallino e Livio Pepino.
“Cambiare si può” dicono nel titolo e puntano a «creare le condizioni per una presenza elettorale alternativa alle elezioni politiche del 2013».
Alternativa a che cosa? A Bersani, a Grillo, a Vendola che «firmando la carta d’intenti del Pd si è vincolato in sostanza all’agenda Monti», spiega il professor Revelli.
Si sono dati tempo fino a un’assemblea fissata per il primo dicembre.
Se una parte dell’elettorato darà la risposta attesa, se le mille schegge di quel campo riusciranno a trovare un’intesa, la lista elettorale sarà nella scheda.
È una galassia mista e ancora piuttosto confusa. Il che non è certo un vantaggio a pochi mesi dal voto politico.
C’è il Movimento dei sindaci, ossia la lista Arancione guidata da Luigi De Magistris, guardata con simpatia da Leoluca Orlando, a caccia di altri sostegni a cominciare da Marco Doria per finire a Giuliano Pisapia (molto complicato).
Un tentativo solo abbozzato di creare le condizioni per un “partito” che non avrà i primi cittadini candidati ma la loro benedizione e il loro sostegno.
C’è il corteggiamento nei confronti della Fiom, il sindacato dei metalmeccanici in guerra con Marchionne e al quale l’amministratore delegato della Fiat fa una bella pubblicità con le sue “iniziative” quotidiane.
Maurizio Landini, il segretario delle tute blu, ha dichiarato con nettezza che il sindacato non scenderà in campo, non cederà alle lusinghe di nessuno, nemmeno a quelle di Tonino Di Pietro che con Maurizio Zipponi cerca in tutti i modi di agganciare le sue alle lotte degli operai.
Ma quel bacino di voti fa gola a molti.
«Noi – dice Revelli – ci muoviamo su una proposta molto vicina a quella della Fiom».
L’obiettivo sono i consensi degli astenuti e quelli di Grillo che vengono da sinistra. «Oggi l’unica offerta contro questo governo è il comico – dice Revelli -. Noi ci proponiamo di costruire un altro contenitore per quel tipo di protesta».
Fra i firmatari del Manifesto Sabina Guzzanti, Massimo Carlotto, don Gallo, Haidi Giuliani, l’operaio Fiom di Pomigliano Antonio Di Luca, don Marcello Cozzi di Libera.
Se il tentativo non potrà ambire a traguardi superiori «alla mini-testimonianza di bandiera» verrà archiviato.
Si parla di un target oltre la soglia del 5 per cento.
Il termometro saranno le adesioni sul sito www.cambiaresipuo.net. La legge elettorale invece è una variabile minore.
«Per l’ampiezza dell’elettorato in libertà il sistema di voto ci interessa poco», dice Revelli. E con il Porcellum Antonio Ingroia sembra il candidato premier più adatto.
Ma i movimenti hanno certamente bisogno di un coordinamento perchè nello stesso spazio si muove da tempo la Federazione della sinistra, ancora quotata nei sondaggi intorno al 2 per cento.
La frammentazione non li aiuterà a raccogliere i voti in uscita e ad arginare il boom dei 5 stelle.
Il primo dicembre, giorno dell’assemblea, è subito dopo le primarie del Partito democratico.
Che diranno qualcosa su dove andrà il centrosinistra.
Goffredo De Marchis
(da “la Repubblica”)
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Novembre 6th, 2012 Riccardo Fucile
I PARLAMENTARI FRANCESI CHIEDONO DI RATIFICARE L’ACCORDO CON L’ITALIA E DI LANCIARE I CANTIERI, MA AVANZANO LE PERPLESSITA’
Un appello dalle sale del Palazzo del Lussemburgo, sede del Senato (e del resto, corsi e ricorsi storici, costruito per un’italiana, Maria de’ Medici) perchè il 3 dicembre, al vertice italo-francese di Lione, Franà§ois Hollande e Mario Monti si impegnino «solennemente» a realizzare la Lione-Torino.
Lo lanceranno domani i parlamentari delle zone interessate dalla Tav. In maniera perfettamente bipartisan: ci saranno Gèrard Collomb, senatore-sindaco socialista di Lione e Jean-Pierre Vial, senatore Ump (centro-destra) della Savoia; Didier Guillaume, vicepresidente socialista del Senato e Gèrard Longuet, senatore della Mosa ed ex ministro sarkozysta della Difesa.
E anche i parlamentari piemontesi Stefano Esposito del Pd e Agostino Ghiglia del Pdl, oltre a Maurizio Virano.
Il testo ancora provvisorio dell’appello, che «La Stampa» ha potuto leggere, definisce «essenziale» l’opera non solo per le due regioni, al di qua e al di là delle Alpi, ma anche «per la crescita e il lavoro nell’Europa del Sud».
Gli eletti di Lione e della regione Rhà’ne-Alpes si vogliono determinati: «I parlamentari – scrivono – domandano solennemente l’impegno ad avviare definitivamente il cantiere dal 2013. Si tratta di fissare l’obiettivo e i mezzi, determinando la rotta indispensabile per arrivare a una messa in servizio effettiva nel 2025».
Le tappe sono quattro: ratificare al più presto l’accordo franco-italiano firmato a Roma il 30 gennaio; lanciare i cantieri preparatori nel 2013; sostenere al prossimo Consiglio europeo il budget europeo 2014-’20 che permetterebbe di ottenere i finanziamenti Ue; sempre l’anno prossimo, firmare l’accordo definitivo con relativo calendario dei lavori.
Resta da capire perchè i politici della regione abbiano deciso di fare questo passo. Finora, Parigi ha sempre detto che l’opera si sarebbe fatta.
L’ultima finanziaria modello lacrime e sangue di Hollande ha cassato i progetti per diverse linee di Tgv (l’alta velocità francese) ma non questa.
In realtà , però, qualche dubbio resta.
Proprio ieri la Corte dei conti, che in Francia ha un peso anche politico notevole, ha reso noto un suo rapporto datato 1° agosto e molto critico verso l’opera.
La Corte constata un «pilotaggio insufficiente», dei costi «in forte aumento», delle previsioni di traffico «riviste al ribasso», una «debole redditività socioeconomica» e infine un finanziamento «non definito».
E invita a non abbandonare «troppo rapidamente l’alternativa che consiste nel migliorare la linea esistente», ricordando che, in tempi di pesanti difficoltà di bilancio, bisogna «riesaminare sistematicamente gli investimenti in vista della loro compatibilità con la reale situazione finanziaria del Paese».
I giudici hanno anche pubblicato il carteggio con il primo ministro, Jean-Marc Ayrault, che definisce «strategico» l’obiettivo dell’opera ma anche «indispensabile» una partecipazione «importante» della Ue.
E annuncia che, ratificato finalmente l’accordo bilaterale, «il lancio dei lavori definitivi necessiterà di un’ultima clausola».
Tradotto: chiarire quanto, nella ripartizione delle spese (in linea di massima il 40% a carico della Ue, il restante 60 dei due Paesi, il 58% dell’Italia e il 42 della Francia) resta ancora da definire.
È chiaro che per i pro-Tav si tratta di un campanello d’allarme.
Per il governo francese, è la stagione degli «arbitraggi», cioè della scelta di quali progetti realizzare compatibilmente con risorse sempre più risicate.
I parlamentari fanno notare che 800 milioni di euro sono già stati spesi, che intanto si può costruire il tunnel e poi l’alta velocità , che l’opera è indispensabile e che, insomma, dopo aver sempre detto che bisogna farla, adesso è il momento di iniziare a farla.
Come si dice, in francese, «mettere le mani avanti»?
Alberto Mattioli
(da “La Stampa”)
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Novembre 6th, 2012 Riccardo Fucile
IL MINISTRO GRILLI CAMBIA IDEA E ASSICURA CHE IL FONDO DI PALAZZO CHIGI DA 900 MILIONI SARà€ USATO ANCHE PER I MALATI: ERA ORA
Diciamo che ci hanno provato, ma alla fine gli è andata male: il governo sarà costretto a destinare fondi sufficienti a favore dell’assistenza dei disabili gravi, malati di sclerosi laterale amiotrofica compresi.
Come si è arrivati a questa decisione — annunciata ieri dal ministro dell’Economia Vittorio Grilli e ribadita dalle riunioni tra esecutivo e maggioranza sulla legge di stabilità — è una storia istruttiva su come funziona un certo tipo di potere italiano. L’antefatto sono le decisioni del governo Berlusconi, che ha svuotato il fondo per la non autosufficienza e rifinanziava la spesa anno per anno.
La nostra vicenda, invece, parte ad agosto: nel decreto sulla spending review Mario Monti e Grilli mettono da parte 658 milioni per il 2013 finalizzati soprattutto “al finanziamento dell’assistenza domiciliare prioritariamente nei confronti delle persone gravemente non autosufficienti”.
Anche quest’anno sembrava fatta, insomma, ma poi, un mese e mezzo dopo, il duo scrive la legge di stabilità e c’è una sorpresa: quel fondo viene svuotato in due righe e i soldi riportati nel cosiddetto Fondo Letta (che così, per l’anno prossimo, assomma a 900 milioni), utilizzabile a discrezione di palazzo Chigi a colpi di semplici Dpcm (decreti della presidenza del Consiglio, che non richiedono passaggi dal Parlamento). La destinazione è vaghissima: “università ”, “fami — glie”, “giovani”, “sociale”, “ricostruzione dei territori colpiti dal sisma dell’Aquila” e addirittura “sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace”.
à‰ a questo che scoppia la rivolta dei malati di Sla e delle loro famiglie, che si sono visti scippare i fondi dal governo.
Uno dei personaggi di punta di questa sollevazione è Salvatore Usala, sardo, malato dal 2004, che la scorsa settimana ha ricevuto a casa sua i ministri Fornero e Balduzzi: “Pare che il presidente Monti e il ministro Grilli abbiano ritenuto il finanziamento non prioritario rispetto alle problematiche contingenti”, ha spiegato ieri all’Ansa prima di ricordare che dal 12 novembre, senza risposte, “ci organizzeremo per lanciare una protesta senza precedenti”.
La minaccia evidentemente ha funzionato e ieri è arrivata la dichiarazione di Grilli: “Nel ddl è previsto un fondo da 900 milioni da destinare a diverse priorità , la prima delle quali sono le politiche sociali e al loro interno c’è la questione della non autosufficienza”.
Intanto, come abbiamo visto, a leggere la legge questo non è affatto chiaro e comunque non si vede — se questa era l’idea dell’esecutivo — perchè svuotare il fondo istituito con la spending review.
La risposta arriva da una fonte governativa: è stata una manovra “alla Letta” del suo successore, Antonio Catricalà , che quei 900 milioni utilizzabili a discrezione di palazzo Chigi li aveva promessi a tutti, dai rettori all’Abruzzo ai disabili, e voleva usarli con comodo nei prossimi mesi (quelli della campagna elettorale).
Monti e Grilli hanno solo lasciato fare.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 6th, 2012 Riccardo Fucile
FUORI LA LISTA DEI “DURI E PURI” CHE HANNO ADERITO ALLA SVOLTA DI FIUGGI E HANNO AVUTO CARICHE E ONORI IN AN E AL GOVERNO… FUORI I NOMI DEI PARTITINI DI DESTRA CHE SI SONO ALLEATI CON IL PDL NEL CORSO DEGLI ANNI… FUORI IL CONTEGGIO DEI FINANZIAMENTI PUBBLICI DI CUI HANNO USUFRUITO I “RIVOLUZIONARI” ALLA PUTTANESCA
Parto da un principio personale: in politica ci vuole coerenza, solo così puoi permetterti di giudicare gli altri.
Coerenza non vuol dire “non poter cambiare idea”, il che è legittimo, ma comportamenti motivati non da interessi personali e stile di vita adeguato, nelle scelte quotidiane, ai principi che si professano.
Chi accusa Fini dopo 20 anni dalla svolta di Fiuggi di essere un “traditore” finge di dimenticare che il percorso del presidente della Camera era stato tracciato in maniera chiara da Giorgio Almirante.
Già nella scelta del segretario del Fronte della Gioventù quando, di fronte a tre “rautiani” ai primi tre posti nella scelta dell’assemblea giovanile, Almirante scelse il quarto, ovvero il suo delfino Gianfranco Fini.
Già nella decisione di nominarlo suo successore poi alla guida del Msi, affinchè lo traghettasse verso altri lidi.
Miopia o lungimiranza non ha rilevanza, resta il fatto che chiunque avesse un briciolo di cervello sapeva dove si sarebbe andati a parare, ovvero verso una “destra nazionale” divenuta poi “alleanza nazionale”.
Non a caso chi ha combattutto questo percorso, una volta usciti di scena Rauti, Niccolai e pochi altri, hanno consegnato le chiavi e lasciato libero l’apppartamento.
Peccato che molti degli apologeti o dei giustificazionisti della contestazione a Fini di ieri abbiano sempre, ripeto sempre, avallato “il tradimento delle origini”, il che è percorso legittimo, salvo riscoprirsi “duri e puri” ieri, il che decoroso non è.
Perchè costoro sono semmai correi del reato di presunto “tradimento” anche più di Fini, visto che sono stati loro, non certo io che non l’ho mai votato, che lo hanno portato alla carica di segretario nazionale a suo tempo.
Sempre “ben coperti e allineati” dietro il carisma di Almirante prima, mai una parola di dissenso: è così che molti sono diventati deputati, senatori, consiglieri regionali e via discendendo, mantenuti dalla politica e da quel Sistema di cui fingevano di ergersi ad alternativa.
Beneficiati da Fini poi, quando con An hanno raggiunto pure i posti di governo e di potere, incancreniti nel “non cambiare per non rischiare”.
Hanno giustificato tutto, hanno assolto i Cosentino, si sono venduti il voto per salvare Silvio nel dicembre di due anni fa, hanno apprezzato le “cene eleganti”, i massaggi a Bertolaso, le mignotte a corte, i condannati in Parlamento, hanno giurato che Ruby fosse la nipote di Mubarak.
Questi sono “gli eroi” di chi ha contestato Fini e che si è dimenticato di loro, i veri protagonisti che avrebbero potuto “correggere” qualche errore di Fini e non l’hanno mai fatto per vigliaccheria e per interesse personale.
Il massimo del loro coraggio è stato parlarne male al bar, tra un cappuccino e un cornetto.
Loro sì che avevano titolo per presenziare alle esequie di Pino senza essere sputacchiati: coloro che non hanno mai alzato un dito contro il potere, italioti condannati alla cronaca mondana, non certo alla Storia di questo nostro tormentato Paese.
Poi ci sono i rivoluzionari di una rivoluzione mai fatta, quelli dell’armiamoci è partite, quelli che caracollavano nel portare sempre le borse altrui, quelli che hanno preso per il culo intere generazioni mostrando la mascella volitiva a favore di telecamere per poi accettare vergognosi inciuci dietro le quinte.
Quelli che si erano già venduti il partito a Silvio a Trieste, per capirci, salvo poi dover procrastinare il tempo della raccolta delle prebende.
Quelli che hanno diretto presunti partitini anti-capitalisti e rivoluzionari salvo poi vederli alleati elettorali del Pdl (e di riflesso della Lega) per mantenere o raggiungere una poltrona da 12.000 euro al mese, benefit a parte.
Sarebbe interessante un giorno veder pubblicato un elenco dei “beneficiati” da Fini con tanto di “specifica” delle entrate.
Come sarebbe stato anche divertente censire quanti, tra i contestatori di Fini, abbiano avuto in passato la tessera di An in tasca e quante organizzazioni politiche abbiano o meno usufruito di contributi pubblici e/o favori da parte di quel Sistema che aborrono a parole.
A chi infine ha contestato in buona fede, mi limito a dire, sulla base delle considerazioni su esposte: non avete capito un cazzo.
Continuate così, che le strade per essere presi per il culo sono infinite.
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Novembre 6th, 2012 Riccardo Fucile
SI DISCUTE SULLE REGOLE PER IL VOTO DEL 16 DICEMBRE, MA UN SONDAGGIO RIVELA CHE SOLO L’8% DEI TESSERATI SAREBBE INTERESSATO A ESPRIMERSI
A via dell’Umiltà è partita la corsa contro il tempo.
Servono rapidamente le regole per le primarie del partito che garantiscano la più ampia partecipazione possibile.
L’elettorato, in verità , non scalpita, ma nessuno vuole correre il rischio che la novità delle primarie pidielline si trasformino nell’immagine plastica di una forza politica ormai sfiatata, prossima alla debacle definitiva, che neppure l’elettorato ha intenzione di tenere in vita andando a votare per un candidato premier già sconfitto in partenza. “Dobbiamo reagire — commenta Daniela Santanchè — anche se sono la prima a volere un partito nuovo, cristallino e trasparente, ma le cose fatte troppo in fretta non portano da nessuna parte. Per questo il tavolo delle regole e il successivo ufficio di presidenza saranno fondamentali. Siamo il partito delle libertà , dobbiamo avere poche regole condivise; il primo che deve temere la scarsa partecipazione è proprio Alfano”.
Il rischio di ritrovarsi con le urne delle primarie semi vuote è vissuto nel Pdl come uno spettro di delegittimazione dal quale rifuggire con ogni mezzo.
“Dobbiamo aprire al voto via web — sostiene un componente del tavolo delle regole — perchè il nostro elettorato non è come quello del Pd, è l’esatto opposto; siamo noi che dobbiamo andare verso di loro, non obbligare i nostri elettori a presentarsi. Eppoi, ci vogliono i gazebo in giro per le città e tutti devono sentirsi liberi di esprimere la loro preferenza come credono. Altrimenti il rischio di una diserzione di massa è molto concreto”.
Ma non c’è solo questo.
Oggi ci sarà una lunga riunione a via dell’Umiltà per mettere nero su bianco questo elenco di regole e subito dopo un ufficio di presidenza del partito ratificherà le scelte. E’ prevista anche la partecipazione diretta del Cavaliere, tornato fresco dal resort di Briatore a Malindi, anche se è noto il fatto che l’ex premier sta già lavorando al suo nuovo soggetto politico i cui contorni dovrebbero aver preso forma proprio durante il trascorso fine settimana in terra africana. Il simbolo sarebbe già pronto, così come la lista dei candidati, quasi tutti imprenditori con scarsa (o spesso nessuna) esperienza politica.
Dunque il Cavaliere considera già morta e sepolta l’esperienza pidiellina, tuttavia ha bisogno di tenere in vita quel che resta del partito proprio per evitare che la possibile disaffezione dell’elettorato colpisca anche la sua prossima creatura.
Di qui il suo interessamento diretto alle primarie.
Per evitare il peggio.
Dice, a questo proposito, Guido Crosetto, uno dei candidati al soglio di Alfano. “Sono stato il primo a sollevare il problema della partecipazione, perchè ho un’impressione assolutamente non positiva di quello che potrebbe emergere. Lo dico chiaramente; per me non è tanto una questione di regole, ma di fattibilità stessa di questo voto. Insomma, si fanno le primarie se c’è qualcuno che vuole andare a votare, altrimenti c’è solo qualcuno che si candida…”.
Crosetto non lo dice, ma quella sua “impressione non positiva” si riferisce ad un sondaggio interno, firmato sempre dalla fedelissima Alessandra Ghisleri, che è stato fatto circolare in questi giorni tra i coordinatori del partito proprio sul livello possibile di partecipazione al voto dello zoccolo duro dell’elettorato; il risultato è considerato assolutamente deludente.
A quanto sembra, la voglia di votare il candidato premier del Pdl appartiene ad uno scarso 8% dei “tesserati”.
Il rischio messo in evidenza da Crosetto, ma ripreso anche dalla Santanchè, di avere urne vuote e, dunque, fare una figuraccia rispetto a quella che, invece, si prospetta essere la partecipazione del popolo del Pd è palpabile.
Per non parlare. poi, dell’ipotesi che la delusione primarie possa ripercuotersi anche sull’immagine generale del centrodestra, incidendo in modo estremamente negativo sul prossimo voto politico di aprile.
Insomma, primarie va bene. Ma se devono essere un boomerang, ci si può anche ripensare.
Allora, che fare? L’unica soluzione, allo stato attuale, sembra quella di avere poche regole e garantire la massima apertura al voto, ma la riflessione è appena iniziata.
“Per quanto mi riguarda — commenta Crosetto — dobbiamo capire le conseguenze di una scarsa partecipazione al voto: spero che Alfano lo capisca per primo”.
“Noi dobbiamo essere un movimento del nostro tempo — conclude la Santanchè — ma 45 giorni di tempo per organizzare delle elezioni così delicate mi sembrano veramente troppo pochi; anche su questo val la pena di pensarci. Dobbiamo avere più tempo, anche per portare la gente al voto”.
Insomma, il tavolo delle regole rischia di trasformarsi in un campo di battaglia.
Per la conquista dell’ultimo voto dei militanti, che sembrano davvero tutti in libera uscita.
Sara Nicoli
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 6th, 2012 Riccardo Fucile
OGGI 200 MILIONI DI AMERICANI SCEGLIERANNO IL LORO NUOVO LEADER… DOMANDE E RISPOSTE SU COME AVVIENE L’ELEZIONE
Come si elegge il presidente degli Stati Uniti?
L’elezione del presidente non è diretta. I cittadini scelgono, con metodi stabiliti dai singoli Stati dell’Unione, 538 «grandi elettori» che vanno a far parte del Collegio Elettorale.
Ogni Stato riunisce i membri del Collegio 41 giorni dopo l’«Election Day» e i loro voti vengono trasmessi al Senato.
Il Congresso all’inizio di gennaio si riunisce in seduta comune, conta i voti e proclama il presidente.
Il numero 538 è il risultato delle somma di 435 deputati e 100 senatori più i tre di diritto del District of Columbia, (ovvero la capitale Washington DC).
Per essere presidente bisogna quindi raggiungere quota 270 voti elettorali.
Come sono ripartiti i voti elettorali nei singoli Stati?
Sono ripartiti proporzionalmente in base al numero degli abitanti di ogni singolo Stato. Quindi quelli più popolosi, come la California, il Texas, New York e la Florida, hanno più voti elettorali e un peso maggiore, quelli meno popolosi come New Hampshire o Alaska, hanno rispettivamente solo quattro e tre voti elettorali.
Quali sono gli Stati chiave di queste elezioni?
Sono New Hampshire, Virginia, North Carolina, Florida, Ohio, Pennsylvania, Wisconsin, Iowa, Michigan, Nevada, Colorado.
In totale in palio ci sono 146 voti elettorali.
È possibile che vi sia assoluta parità nel Collegio Elettorale?
Sì, le simulazioni fatte quest’anno analizzando la mappa elettorale e i sondaggi, lasciano aperta l’ipotesi che entrambi i candidati si fermino a 269 voti elettorali.
Cosa succederebbe? Chi decide?
La parola passa alla Camera dei Rappresentanti. Tocca ai deputati scegliere il presidente e visto che la maggioranza è repubblicana in questo caso sono maggiori le chance di Romney.
Il vicepresidente invece verrebbe scelto dal Senato, dove dominano i democratici. Paradossalmente in caso di parità Romney potrebbe essere presidente e Biden restare vicepresidente.
Ma lo scenario è più da fantapolitica che reale.
Cos’è l’Election Day? Perchè cade sempre di martedì?
L’«Election Day» è il giorno delle elezioni. Nel 1792 venne deciso che le elezioni dovevano tenersi a novembre per aver tempo di conteggiare i voti prima che il Congresso si insediasse a gennaio.
Dal 1845 poi venne istituito per legge il voto il martedì dopo il primo lunedì di novembre.
Gli americani quindi vanno alle urne ogni quattro anni in una data compresa fra il 2 e l’8 novembre. Il martedì è stato scelto poichè, essendo la domenica il giorno della Messa e della famiglia, il lunedì poteva essere utilizzato per il trasferimento nei seggi.
Quando s’insedia il presidente?
L’«Inaguration day» cade il 20 gennaio. A fissare la data è il 20° Emendamento della Costituzione ratificato nel 1933.
Fino ad allora dal 1798 i presidenti entravano invece in carica il 4 marzo. Nel giorno dell’insediamento il presidente presta un giuramento nella mani del giudice capo della Corte Suprema (attualmente John Roberts).
Negli anni sono sorte numerose prassi che hanno esteso l’insediamento da spartana cerimonia a vera e propria giornata di sfilate, discorsi e danze. Dalla presidenza di Martin Van Buren a quella di Jimmy Carter, la cerimonia principale dell’Inauguration Day si tenne nel portico est del Campidoglio. Dal 1981, con l’insediamento di Ronald Reagan, si è invece svolta sul lato ovest.
Gli insediamenti di William Howard Taft nel 1909 e dello stesso Reagan nel 1985 si tennero all’interno del Campidoglio a causa del freddo.
Quanto resta in carica il presidente?
Il presidente resta in carica per un mandato di quattro anni, rinnovabile una sola volta. Dapprima quella di non cercare un terzo mandato era una consuetudine cui si adeguarono sin dal principio i primi presidenti.
Dal 1951 invece con la ratifica del 22° Emendamento il limite dei due mandati è diventato parte della Costituzione.
La scelta dei legislatori di fissare un tetto ai «term» (mandati, appunto) fu la conseguenza dei quattro mandati consecutivi di Franklin Delano Roosevelt. Gli ultimi presidenti a non essere rieletti sono stati George W. H. Bush nel 1996 (battuto dal democratico Clinton) e Jimmy Carter nel 1980 (sconfitto da Reagan).
La Casa Bianca è sempre stata la residenza ufficiale del leader Usa?
Fu John Adams nel novembre del 1800 il primo a risiedere nell’edificio che sorge al 1600 di Pennsylvania Avenue.
Quanti sono stati finora i presidenti statunitensi?
Barack Obama è il numero 44. Tuttavia a guidare la nazione sono stati 43, poichè Grover Cleveland, eletto nel 1884, sconfitto nel 1888 e tornato alla Casa Bianca nel 1892, figura aver ricoperto due presidenze (la ventiduesima e la ventiquattresima).
Alberto Simoni
(da “La Stampa“)
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