Novembre 3rd, 2012 Riccardo Fucile
“LAVORIAMO SOTTO RICATTO: FIRMA O SEI FUORI DA FIAT”
È la prima volta che degli operai del nuovo stabilimento Fiat di Pomigliano, tra i 2091 fortunati che sono stati riassorbiti dalla Fiat, accettano di parlare con la stampa.
Si schiariscono la voce, seccata da troppi anni di silenzio, e parlano con nettezza, “per non perdere la dignità ”, come dice uno di loro.
Ma di nascosto, chiedendo di non essere ripresi in volto ed esigendo di essere citati con nomi di fantasia.
Giacomo, Filippo, Sergio e Andrea hanno tra i 30 e i 37 anni, uno di loro è entrato in Fiat nel 2006, gli altri nel 2001, giovanissimi.
Sono iscritti o ex iscritti ai sindacati che hanno firmato gli accordi di Marchionne: Uilm, Fim e Fismic.
Li incontriamo in una mattina resa tranquilla dal ponte dei morti.
Pomigliano è in fibrillazione intorno al cimitero, c’è traffico, anche in città , ma meno del solito. L’auto della polizia locale incrociata in centro è lo specchio delle contraddizioni italiane: una bella Audi A3, 2000 Tdi, niente a che vedere con la produzione Fiat.
Poco più avanti, nel deposito del Comune si infila anche una Smart, con tanto di insegna sulla fiancata. La Fiat non abita qui.
Gli operai si siedono e cominciano a parlare.
Parlano di getto: “Io dovrei essere l’operaio modello di Marchionne — spiega Filippo — nessun iscrizione al sindacato, ho sempre lavorato tranquillamente, ma con quello che succede ora non si può scherzare”.
Quello “che succede” è la petizione circolata in fabbrica la scorsa settimana e con la quale gli operai si dicevano preoccupati per il fatto che le 145 assunzioni ordinate dal Tribunale per sanare la discriminazione contro la Fiom potessero minacciare chi il posto ce l’ha. Un’iniziativa vissuta come una nuova guerra tra poveri.
“Il team leader, il capo squadra mi ha detto ‘Firma, fai presto che ho da fare’, senza nemmeno farmi leggere. Ho firmato. Ma quando ho chiesto spiegazioni mi ha detto che mi avrebbe potuto cancellare e mettermi nella lista di quelli là ”.
Quelli là sono gli altri, quelli che non sono solidali con l’azienda, gli amici della Fiom.
Sergio è più esplicito: “Il motivo per cui siamo qua è che abbiamo visto uno schifo”.
La petizione è stata “fatta dall’azienda ma presentata come ispirata dagli operai”.
Sergio racconta: “Un sindacalista mi ha spiegato tutto. All’inizio della settimana il direttore ha convocato i sindacati dicendo che occorreva fare qualcosa sulla vicenda delle riassunzioni”.
A quel punto, spiega, si sono attivati “i capi, i team leader e i sindacati, in particolare la Fim Cisl: giovedì e venerdì scorsi alle 6 di mattina c’erano già dei sindacalisti in fabbrica, di solito arrivano alle otto, e facevano girare la petizione”.
“A me — continua Sergio — è stato detto chiaramente: ti consiglio di firmarla perchè se non la firmi ti mettono in mobilità forzata. Ma io la penna non l’ho presa in mano”.
E non ha paura? “Certo che ho paura di finire tra i 19 da sacrificare. Ma io faccio il mio lavoro e voglio essere giudicato solo per quello. Pensavo saremmo stati in pochi a firmare, e invece siamo arrivati a 600”.
L’azienda, sentita dal Fatto , afferma di “non voler rispondere a dichiarazioni anonime”.
Su richiesta di un commento, però, è secca: niente a che vedere con la petizione.
La Fim è più sfumata, invita a non strumentalizzare la vicenda, parla di 1900 firme arrivate presso la sede nazionale e invita a riflettere su iniziative del genere.
Nel racconto c’è anche il clima dentro la fabbrica dove la vita non è facile, soprattutto dopo i ritmi imposti dal piano Fabbrica Italia.
Le pause, soprattutto, sono una bestia nera, tre da 10 minuti in otto ore di lavoro: “Non c’è il tempo di parlare con il collega vicino, di bere da una bottiglietta dietro alla postazione, se siamo raffreddati non c’è tempo di prendere un fazzoletto dalla tasca. Abbiamo un minuto per fare una macchina: un minuto per fare l’operazione e subito dietro spunta l’altra macchina”. L’azienda si è mangiata il tempo: “Prima avevamo 30-40 secondi per tirare il fiato tra una macchina e l’altra”. Ora non ci sono più.
“Quando ho firmato il contratto, spiega Sergio, il direttore mi ha detto che sono state tolte le sedie e i tavolini perchè, tanto, con il nuovo sistema di lavoro non c’è bisogno di sedervi”.
“Mi ha colpito la scena — aggiunge Filippo — di vedere alcune donne andare in bagno con in mano cracker, panini e frutta, per non perdere tempo”.
Accanto agli operai della Fip ci sono anche quelli in cassa integrazione, ancora dipendenti di Fiat Group Automobiles (Fga).
Sono 2276 e aspettano. Con poca fiducia.
“Io vivo con 760-780 euro di assegno di cassa integrazione — spiega Andrea — e meno male che mia moglie lavora”.
Però ora deve sospendere il mutuo da 700 euro e le bollette si accumulano sul tavolo.
Lui ha sempre votato Ds e poi Pd, “ma ora non voterò, la politica deve schierarsi”.
Ma Marchionne dice che ha evitato il massacro sociale, che rispondete?
“Che quando arriviamo a luglio 2013 e finisce la Cassa integrazione — dice Giacomo, assunto dal 2001 ma fuori dalla fabbrica — noi andremo tutti in mezzo a una strada, in mobilità . A Marchionne domando: può confermare che nel 2013 noi saremo felici e contenti andando a lavorare e non ci troviamo invece a casa?”.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 3rd, 2012 Riccardo Fucile
“QUEI SOSPETTI SULLE COMMESSE MILIONARIE”… IL RUOLO DI TRE PREFETTI
Se dovesse essere vera anche solo la metà delle circostanze che il «corvo» racconta, ciò che attende il Viminale è uno tsunami.
Rivelata da “Repubblica”, la vicenda – conferma ora la Procura di Roma – è oggetto ormai da qualche mese di un’indagine del pool di pm competente per i reati della pubblica amministrazione (ora coordinato dal procuratore aggiunto Francesco Caporale).
Non fosse altro perchè le dieci pagine dattiloscritte che il corvo firma e che, prima dell’estate scorsa vengono recapitate al ministro dell’interno Cancellieri (è lei a incaricare il capo della polizia Manganelli di trasmetterle alla magistratura), svelerebbero con dovizia di dettagli una storia di macroscopica corruzione.
Il lavoro infedele di «una cricca» – si legge nell’anonimo – agli ordini di «un puparo»: l’attuale vicecapo vicario della Polizia Nicola Izzo, «il proprietario di tutti i fondi della Polizia di Stato, sia nazionali, sia provenienti dall’Unione Europea che, spietatamente, controlla tutti gli uffici delegati alla gestione economica e amministrativa dell’Amministrazione».
LA GALLINA DALLE UOVA D’ORO
«Gallina dalle uova d’oro». Così il corvo battezza la Direzione Centrale per i servizi tecnico-logistici e la gestione patrimoniale.
Un formidabile centro di spesa che, tra il 2006 e il 2011, vede avvicendarsi al suo vertice tre prefetti. Nicola Izzo (futuro vicecapo), quindi Giovanna Iurato e infine Giuseppe Maddalena.
I primi due, per altro, già macchiati dal sospetto e indagati da oltre due anni a Napoli proprio perchè accusati di aver pilotato gli appalti per la realizzazione del Centro Elaborazione dati Nazionale del Viminale.
Ebbene, in quella direzione centrale del Ministero – scrive il corvo – «la casa della legge diventa luogo prediletto per l’affermazione di interessi personali».
«Ci si può muovere per realizzare interessi personali», grazie a «forme di assegnazione diretta» di commesse milionarie, coperte da «un ricorso improprio a forme di segretazione».
E non da ieri.
«Da anni». «Nel settore delle telecomunicazioni, delle sale operative, del centro elaborazione interforze, del sistema automatico per la gestione delle impronte digitali».
LE AZIENDE
Un circuito chiuso e impermeabile a occhi indiscreti, magistratura amministrativa in primis.
Di cui – a dire del corvo – beneficia sempre una stesso drappello di imprese: Sintel, Divitech, Telecom Italia, Beyond Security.
Qualche esempio? «Alla Sintel, il Viminale paga con fondi comunitari e senza gara, apparati per la polizia stradale (5,4 milioni di euro), Polizia Penitenziaria (7,1 milioni), Vigili del Fuoco (5,6 milioni)».
«Alla Telecom va il rifacimento di tutte le sale operative della polizia, con la strategia dello spezzettamento delle commesse».
E ancora: «A Varese, senza gara, per compiacere l’allora ministro Maroni, viene sperimentato un nuovo sistema di gestione per il 112 europeo » che si aggiunge in parallelo ad un progetto identico nello scopo, ma diverso nelle tecnologie, «con il risultato di raddoppiare i finanziamenti. (…) Ma l’importante è soddisfare il ministro e portare avanti i propri malaffari con soddisfazione degli amici».
Quali?
GLI UOMINI
Di Izzo, si è detto. Ma con lui, appunto, il «corvo» ne indica altri.
Enzo Roveda, amministratore della Divitech, Alessandro Spasiano, «consulente tecnologico riservato della Polizia», Gianfranco Polizzi, proprietario della Sintel, Massimo Sordilli, funzionario commerciale di Telecom, il prefetto Giuseppe Maddalena.
Quest’ultimo ha lasciato la direzione centrale del Logistico per «raggiunti limiti di età nell’agosto scorso».
In singolare coincidenza con l’arrivo dell’anonimo sulla scrivania del ministro Cancellieri.
E con altrettanto singolare coincidenza del rientro a Roma della Iurato (dal 2009 prefetto dell’Aquila), richiamata in sede per essere assegnata ai servizi ispettivi.
Ebbene, Maddalena è accusato dei suoi rapporti con Emilio Meccheri «coproprietario della Beyond security e già suo testimone di nozze e sodale nei periodi di ferie».
«IGNOMINIA»
Izzo si dice diffamato e nel parlare di «ignominia» sostiene di «non occuparsi di appalti» nella sua veste di vicecapo.
A ben vedere, lo ha fatto in passato come direttore centrale del Logistico e come vicecapo è oggi a lui che risponde il direttore centrale di quella struttura.
Il che, evidentemente, non prova nulla, ma spiega che aria tiri al Viminale in queste ore.
Carlo Bonini
(da “La Repubblica”)
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Novembre 3rd, 2012 Riccardo Fucile
IL MESSAGGIO DI OBAMA AGLI AMERICANI: A FIANCO DEI PIU’ DEBOLI
Nei giorni scorsi l’attenzione di tutti noi, com’è giusto, si è concentrata su uno dei peggiori uragani della nostra storia. Perchè è nei momenti difficili che l’America dà il meglio di sè.
Le divergenze che ci tormentano in tempi normali svaniscono rapidamente. Non ci sono democratici o repubblicani durante un uragano, solo americani.
È così che abbiamo superato le prove più dure: insieme.
Quattro anni fa eravamo invischiati in due guerre e nella peggiore crisi economica dai tempi della Grande Depressione.
Insieme abbiamo reagito: la guerra in Iraq è finita, Osama bin Laden è morto e i nostri eroi stanno tornando a casa.
Le nostre imprese hanno creato oltre cinque milioni di nuovi posti di lavoro negli ultimi due anni e mezzo. Il valore delle case e dei fondi pensione è in aumento, la nostra dipendenza dal petrolio estero è la più bassa da vent’anni a questa parte.
E l’industria dell’auto americana ha rialzato la testa.
Non abbiamo ancora raggiunto il traguardo, ma abbiamo fatto passi avanti concreti.
E martedì l’America potrà scegliere fra due visioni radicalmente differenti di che cos’è che rappresenta la forza del nostro Paese.
Io sono convinto che la prosperità dell’America poggi sulla forza della nostra classe media.
Non progrediamo quando una manciata di persone al vertice della scala sociale se la passa bene, mentre tutti gli altri faticano a sbarcare il lunario: progrediamo quando tutti hanno un’opportunità reale, quando tutti hanno la parte che gli spetta e quanto tutti giocano secondo le stesse regole.
La strada che propone il governatore Romney è quella che abbiamo sperimentato per otto anni dopo la fine della presidenza Clinton, una filosofia che dice che i ricchissimi possono giocare con regole completamente diverse da quelle di tutti gli altri.
Nelle ultime settimane di questa campagna, il governatore Romney ha cominciato a definirsi agente del cambiamento.
E una cosa gliela devo riconoscere: proporre altri 5mila miliardi di dollari di tagli delle tasse a favore soprattutto dei ricchi, 2mila miliardi di dollari di fondi per la difesa che le nostre forze armate non hanno chiesto e più potere a banche e compagnie di assicurazione è un cambiamento.
Ma non è il cambiamento di cui abbiamo bisogno.
Noi sappiamo che cos’è il vero cambiamento. E non possiamo mollare ora.
Il cambiamento è un’America in cui persone di ogni età abbiano le competenze e l’istruzione necessarie per ottenere un buon posto di lavoro. Abbiamo preso di petto le banche che per decenni hanno chiesto interessi esagerati sui prestiti per l’Università e abbiamo reso l’istruzione universitaria più accessibile per milioni di persone.
Il cambiamento è un’America che sia la patria della prossima generazione della produzione industriale e dell’innovazione.
Io non sono il candidato che ha detto che avremmo dovuto «lasciar fallire Detroit», io sono il presidente che ha scommesso sui lavoratori americani e sull’ingegno degli americani.
Ora voglio un sistema fiscale che non favorisca più le aziende che trasferiscono i loro posti di lavoro all’estero ma ricompensi le aziende che creano occupazione qui in America; un sistema fiscale che smetta di sovvenzionare i profitti delle compagnie petrolifere e cominci a sostenere la creazione di occupazione nel campo dell’energia pulita e delle tecnologie che ci consentiranno di dimezzare le importazioni di petrolio.
Il cambiamento è un’America che volta la pagina su un decennio di guerra per costruire la nazione qui in patria.
Finchè sarò comandante in capo daremo la caccia ai nostri nemici.
Ma è tempo di usare i soldi risparmiati con la fine della guerra in Iraq e in Afghanistan per ripagare il nostro debito e ricostruire l’America: le nostre strade, i nostri ponti, le nostre scuole.
Il cambiamento è un’America in cui ridurremo il deficit tagliando le spese dove possiamo e chiedendo agli americani più ricchi di tornare a pagare le aliquote che pagavano quando Bill Clinton era presidente.
Ho lavorato insieme ai repubblicani per tagliare mille dollari di spesa, e taglierò ancora di più. Lavorerò insieme a chiunque, di qualsiasi partito, per far progredire questo Paese.
Ma non accetterò di eliminare le tutele sanitarie per milioni di poveri, di anziani e di disabili.
Non sono i super-ricchi ad aver bisogno di qualcuno che li difenda a Washington.
Quelli che ne hanno bisogno sono gli americani di cui la sera leggo le lettere, gli uomini e le donne che incontro lungo la strada ogni giorno. I cuochi e gli inservienti che fanno gli straordinari in un albergo di Las Vegas.
L’operaio di un mobilificio che cerca di riconvertirsi al settore biotech a 55 anni.
L’insegnante costretta a dedicare meno tempo agli studenti perchè le classi sono sovraffollate.
Ogni piccolo imprenditore che cerca di espandere la sua azienda.
Sono questi gli americani che hanno bisogno di qualcuno che li difenda a Washington.
Se questi americani prosperano, l’America prospera.
Questo è il cambiamento di cui abbiamo bisogno adesso.
È ora di finire quello che abbiamo cominciato, istruire i nostri ragazzi, formare i nostri lavoratori, creare nuovi posti di lavoro, fare in modo che chiunque siate, da dovunque veniate e in qualunque modo abbiate cominciato, questo sia il Paese dove se ci provi ce la puoi fare.
L’America in cui crediamo è alla nostra portata.
Ecco perchè chiedo il vostro voto il prossimo martedì.
Barack Obama
( ©Cnn. Traduzione di Fabio Galimberti)
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Novembre 3rd, 2012 Riccardo Fucile
LE RADICI EUROPEE E L’ANTICAPITALISMO: “C’E’ PIU’ STORIA NELLA PICCOLA PIENZA CHE IN TUTTA LOS ANGELES”… L’ADDIO DI FIUGGI: “TRASFORMERETE QUESTO PARTITO IN UNA VECCHIA BALDRACCA”
Tra pochi giorni Pino Rauti avrebbe compiuto 86 anni.
Con la sua morte un altro pezzo importante, indimenticabile, del mondo della destra italiana viene consegnato alla storia.
Rauti ha attraversato il Novecento facendosi contaminare dalle contraddittorie passioni e dalle incendiarie speranze di un secolo che sfidava gli animi più inquieti e avventurosi, gli intelletti più acuti, i giovani più disposti a mettersi in gioco.
Rauti fu uno di quei giovani: a 16 anni si arruola nella Rsi e alla fine del 1946 partecipa alla fondazione del Movimento sociale.
Negli anni Cinquanta fu vicino al pensiero radicale di Julius Evola, fonda il Centro Studi Ordine Nuovo ritenendo di dare continuità a un fascismo di tipo spirituale, quello legato al mito dell’«uomo nuovo».
Rientra nel Msi nel 1969 (da dove era uscito con l’avvento alla segreteria di Arturo Michelini) con l’arrivo di Giorgio Almirante al timone del partito.
È alla metà degli anni Settanta però che Rauti diventa punto di riferimento di un’ampia area giovanile, affascinata dall’idea di nuove parole d’ordine che giungono a contestare la stessa identità di destra del Msi, indicando la strada del dialogo con i nemici dell’altro fronte, da considerare ormai come avversari con cui cercare il confronto e non più lo scontro.
Intuizioni che consentirono di strappare molti giovani alla deriva terroristica e offrirono a molti altri un modello alternativo all’attivismo classico.
Prospettive che troveranno forma nella mozione congressuale Linea Futura (al congresso del Msi del 1977), che rappresentò un esperimento di rottura nella dialettica interna al partito. In questi termini ne parla Marco Tarchi nel suo libro “Dal Msi ad An”: «Il progetto di innovazione politico-organizzativa più radicale è quello di Linea Futura, che denuncia l’insufficienza della strategia di Destra nazionale e si propone di organizzare la protesta meridionale e spingere il partito a contestare il modello di sviluppo neocapitalistico, promuovere iniziative anticonsumistiche, prestare attenzione ai temi ecologici e urbanistici. Le nuove strutture auspicate dai rautiani — continua Tarchi — mirano ad un “partito di quadri, di organizzaizone moderna, di militanza politica e sociale, proiettato verso l’esterno”, che deve distinguere tra aderenti e militanti, creare cooperative e comitati di mobilitazione, uscire alla routine con interventi in ambito sociale e puntare su un’offerta politica diretta in primo luogo a giovani e donne, che delinei una controffensiva politica razionale e accantoni nostalgie e ribellismo».
Un modello movimentista difficilmente conciliabile con il partito-apparato da cui scaturirà la stagione creativa dei Campi Hobbit, uno dei fenomeni più studiati (e più imitati negli anni successivi) che caratterizzarono il mondo giovanile a destra.
Quell’esperienza aprì orizzonti inediti per i ventenni di allora, non più costretti nel clichè del militante anticomunista “duro e puro”.
La lezione di quei raduni (malvisti dal vertice del Msi) è molto semplice: si poteva incidere nel proprio tempo anche facendo musica, scrivendo poesie, tentando di dar vita a un modello comunitario che potesse rappresentare la naturale evoluzione del “cameratismo” reducistico.
Era paradossale che a capo di questi fermenti vi fosse un uomo come Pino Rauti, che aveva combattuto, che aveva creduto nella “milizia” senza compromessi di chi «sta in piedi tra le rovine», che non aveva mai rinnegato il fascismo, un intellettuale raffinato, scrittore e giornalista, poco incline a far maturare le sue sintesi dalle complicità con le platee giovanili.
Eppure i giovani trovavano nei suoi discorsi un’ampiezza, una profondità , uno stimolo per uscire dal “ghetto”, per dare prospettive persino vincenti a una condizione di minorità politica e culturale che era dura da sopportare.
Nei suoi discorsi, soprattutto in quelli, Rauti sapeva toccare le corde giuste. La memoria corre a quelle parole (non a caso fu definito, un «incendiario di anime») più che alle schermaglie congressuali, che lo videro avversario prima di Giorgio Almirante e poi di Gianfranco Fini.
Ai giovani Rauti parlava di un fascismo “metafisico”, non quello dei compromessi, dei treni in orario, delle sciagurate leggi razziali, delle leggi liberticide, ma quello che andava incontro al popolo, quello che si chinava sugli ultimi per tentarne il riscatto, quello sociale e socialista.
E con quel “fascismo immenso e rosso”, che poteva piacere a destra come a sinistra, che era al di là della destra e della sinistra, declinava alla sua maniera personalissima il motto “non rinnegare non restaurare”.
Là , diceva, stavano le radici, lì stava il senso, lì stava il retroterra da cui si poteva attingere ancora per non autocondannarsi all’inattualità .
Quelle parole piacevano e commuovevano, come quando raccontava dell’incontro in Francia con i “falchetti rossi” del Fronte Popolare di Leon Blum, ormai anziani, e li paragonava alle schiere di bamibini derelitti che il fascismo italiano aveva portato nelle colonie marine, per ritemprarli nel corpo e nello spirito.
Ma Rauti non sapeva animare solo la memoria. Era uomo capace di sfide intellettuali.
La più ardita: lo sfondamento a sinistra.
Anticipò la fine del comunismo, una fine che sarebbe avvenuta – diceva – non per le armi americane ma per la diffusione del capitalismo.
E chi se non chi proveniva da certe radici, (dalla “nostra storia”, sintetizzava) poteva rialzare il vessillo dell’anticapitalismo, denunciare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, opporsi al materialismo che offusca lo spirito e rende le società incapaci di risollevarsi?
Su questo terreno, predicava Rauti, con la sinistra si potevano trovare punti di contatto, superando al contempo la paludosa politica democristiana e il logoro antifascismo militante.
Un sogno. Una speranza. Un tema che fu tra i più osteggiati e ridicolizzati all’interno del Msi ma che allo stesso tempo, anche attraverso gli articoli del quindicinale “Linea”, aveva modo di ricollegarsi a un filone di autori come Sombart e Max Weber.
Un tema capace di scavare nel solco aureo di pensatori trascurati e marginalizzati dalla cultura progressista.
Perchè bisognava leggere, e tanto, per dialogare con gli avversari, per convincerli, per dimostrare loro che la destra non soffriva di alcun complesso di inferiorità .
Un invito che Rauti rivolgeva soprattutto alla classe dirigente di un partito che a suo avviso si accontentava di vivacchiare sulle parole d’ordine dell’anticomunismo: «Dovete mettervi a studiare», esortava.
Ed era un’esortazione che conteneva anche una pesante critica all’approssimazione di una politica fondata sulla “pesca delle occasioni”. Anche sull’immigrazione, altro tema ruvido per la destra, Rauti seppe indicare la strada difficile ma salutare per uscire dal recinto ottuso della xenofobia e proprio quando conquistò la segreteria del Msi, nel 1990.
L’immigrato non è un nemico, diceva, ma uno “sradicato”.
Un’analisi che diventava aneddotica nei suoi discorsi, come quando raccontava di avere visto a Birmingham un gruppo di bambini di colore che sguazzavano in una pozzanghera: «E io mi chiedevo e mi chiedo: che ci fanno questi bambini sotto il cielo grigio di Birmingham?».
Anche loro sfruttati da un Occidente in preda al tramonto spengleriano, ingranaggi di quella logica del profitto che assurgeva, nei suoi discorsi, a vero, reale, «nemico principale».
Eccola la lezione più grande: ci vuole l’analisi, oltre all’elmetto.
E ci vuole l’orgoglio delle radici europee e italiane per non morire schiavi delle mode Usa: «Ricordate: c’è più storia nella piccola Pienza che in tutta Los Angeles».
A Fiuggi Rauti si oppose, solo e negletto, alla trasformazione del Msi in An.
E si condannò lui stesso, politico che aveva sempre saputo guardare più in là di tutti, a rivestire i panni del nostalgico.
Ma memorabile rimase la chiusa dell’intervento con cui diede l’addio agli ex camerati: «Trasformerete questo partito in una vecchia baldracca».
Annalisa Terranova
(da “Il Secolo d’Italia”)
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Novembre 3rd, 2012 Riccardo Fucile
“VOGLIO DIMEZZARE GLI STIPENDI DEI CONSIGLIERI. DIRANNO DI NO? ALLORA CE NE ANDIAMO TUTTI A CASA”
«Se fra tre mesi si continuerà a parlare sempre degli stessi sprechi mi dimetterò».
Rosario Crocetta, a Servizio pubblico su La7, si lancia in una promessa solenne. Di più.
Il neo governatore siciliano aggiunge di voler «dimezzare gli stipendi dei parlamentari. Diranno no? Allora ce ne andiamo tutti a casa».
Il presidente confermato inoltre il suo profilo di nemico della criminalità organizzata: «La mafia ha votato. Vota per tutti, ma non per me».
E racconta che alla fine di una manifestazione a Catania «una signora si è avvicinata e mi ha detto: “È qui che si danno i pacchi di spesa?”».
Il governatore ha anche annunciato una giunta fatta per metà di donne.
E ha già iniziato dalla sua portavoce: si chiama Michela Stancheris, ha 31 anni, vive in un albergo-museo dalle parti di Cefalù, l’Atelier sul mare di Antonio Presti.
E, sorpresa, viene dal più bergamasco dei quartieri di Bergamo, Redona.
La neocomunicatrice ha conosciuto Crocetta a Bruxelles, dove era l’assistente parlamentare della socialista Pia Locatelli. Al termine del mandato, è arrivata la proposta dell’ex sindaco di Gela. Poi, quando Crocetta ha deciso di lanciarsi nella corsa siciliana, lei l’ha seguito.
Entusiasta: «Qui non ci sono le architetture mentali del Nord, dove le differenze diventano un ostacolo – racconta –. Se sei un immigrato generi curiosità e non diffidenza».
E intanto, l’attività politica all’Ars entra nel vivo.
Gianpiero D’Alia, senatore e segretario dell’Udc siciliana, propone per la presidenza dell’assemblea due ex candidati governatori: Nello Musumeci (Pdl) e Giancarlo Cancelleri (M5s).
Ma quest’ultimo non ci sta. S’indigna, quasi: «Le poltrone non ci seducono. Temo che questa proposta sia fatta per bloccare una voce libera. Vogliamo parlare di progetti, quello di presidente è un ruolo ingessato e con pochi margini di manovra».
D’Alia replica secco: «Cancelleri dimostra di essere soltanto un populista: un conto è assumersi le responsabilità istituzionali, un conto è voler restare con la telecamerina in mano».
Reazioni ancora più animose alla proposta che era stata lanciata, prima ancora che da crocetta, da Toti Lombardo, figlio dell’ex governatore: dimezzare, appunto, l’indennità dei consiglieri. Pardon: deputati.
Uno per tutti, Nicola D’Agostino (Pds-Mpa): «Lo stipendio di un deputato è di 5 mila euro. Chi propone di tagliarlo del 50% è ipocrita. Sarebbe poco dignitoso per chi fa politica in maniera seria».
Marco Cremonesi
(da “Il Corriere della Sera“)
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