Novembre 7th, 2012 Riccardo Fucile
MAGLIE TROPPO LARGHE: TRA UN CENTINAIO DI PARLAMENTARI INDAGATI, CONDANNATI O PRESCRITTI, IL DECRETO ALLA FINE COLPIREBBE SOLO TRE SENATORI: CIARRAPICO, SCIASCIA E TOMMASSINI, TUTTI DEL PDL… NESSUN PROBLEMA DI INCANDIDIBILITA’ PER BERLUSCONI, COSENTINO, TEDESCO, BRANCHER E DELL’UTRI
C’è chi, come il Partito democratico, ha uno statuto che prevede l’incandidabilità per rinviati a giudizio e beneficiari di patteggiamento.
Poi c’è chi, come Sel, si rifà al “codice Vendola”: qualsiasi condannato, anche in primo grado, anche a un solo giorno, non può diventare parlamentare.
Infine c’è il governo, che cerca di scrivere un decreto delegato per prevedere l’ineleggibilità dei condannati ma non riesce ad andare oltre l’esclusione di quelli giudicati in via definitiva.
E nemmeno di tutti: fuori dalle liste solo chi deve scontare pene superiori a due anni per reati contro la Pubblica amministrazione, tre per gli altri.
Entro la settimana il ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri, vuole “chiudere il cerchio” sulla delega ricevuta dalla legge anticorruzione per incassare il decreto prima delle regionali di gennaio.
Per farlo ha bisogno anche dell’aiuto dei suoi colleghi Filippo Patroni Griffi (Funzione pubblica) e Paola Severino (Giustizia).
Poi la bozza dovrà passare al vaglio del Parlamento che, entro 60 giorni, darà un parere obbligatorio ma non vincolante.
Di certo la valutazione non può essere negativa se le maglie restano così larghe e non viene escluso quasi nessuno.
Ma restano ancora alcune incognite.
La prima è sulla temporaneità dell’incandidabilità . Potrebbe infatti non essere per sempre ma commisurata alla lunghezza della pena.
Allo studio del Viminale c’è l’ipotesi di una riabilitazione politica. In Germania, per esempio, un anno di reclusione equivale a cinque anni di ineleggibilità .
In Francia è sempre un lustro il periodo di interdizione per i condannati per corruzione.
La seconda è sul patteggiamento. In Italia l’87% dei processi per corruzione finiscono con un accordo per una pena inferiore a due anni.
Cioè risulterebbero tutti eleggibili.
Per questo motivo la Cancellieri vorrebbe equiparare il patteggiamento alla pena definitiva. Ma giuridicamente è un salto mortale, difficilmente realizzabile. Infine c’è il problema dei reati.
La lista parla di quelli gravi e “di grave allarme sociale”. Ma non dei reati fiscali, per esempio, nè di quello di prostituzione minorile contestato a Silvio Berlusconi nel processo Ruby.
In un Paese in cui il Parlamento supera il centinaio di indagati, condannati o prescritti, si fa un decreto che ne colpisce solo tre, lasciando di fatto la situazione invariata.
“Quando si fa dipendere l’incandidabilità dalla sentenza passata in giudicato non si fa una buona cosa, dal punto di vista politico e da quello dell’anticorruzione, perchè una sentenza di primo grado vale molto — spiega il senatore del Pd Gerardo D’Ambrosio, ex procuratore capo di Milano — noi sappiamo che moltissime sentenze per reati di corruzione in Appello o in Cassazione vanno in prescrizione perchè nel 2005 c’è stata l’ex Cirielli che ha abbreviato notevolmente i tempi”.
Per il senatore D’Ambrosio, quindi, “dovrebbe essere sufficiente la sentenza di primo grado per determinare l’incandidabilità anche a causa delle condizioni della giustizia italiana.
Se c’è stata una sentenza in primo grado facciamo cadere questa presunzione di non colpevolezza almeno dal punto di vista politico.
Capisco che è contenuta nella nostra Costituzione però la Convenzione europea dei diritti dell’uomo fa cadere questa presunzione con la sentenza del primo giudice”.
à‰ dello stesso parere il governatore della Toscana, Enrico Rossi.
Nella sua Regione si vota con un sistema a liste bloccate simile al Porcellum, ma per scegliere i candidati si fanno le primarie: “La legge per l’incandidabilità dei corrotti deve parlare chiaro — dice Rossi — anche chi ha subito solo il primo grado di condanna per reati gravi deve star fuori dal Parlamento. Altrimenti non serve a nulla. Ve lo immaginate ritrovarci ancora con un candidato come Marcello Dell’Utri condannato per concorso esterno in associazione mafiosa?”. La realtà , si sa, può andare oltre l’immaginazione: Dell’Utri, con questa legge, potrà ricandidarsi.
Caterina Perniconi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 7th, 2012 Riccardo Fucile
ENTRO IL 19 NOVEMBRE VANNO RACCOLTE 10.000 FIRME A SOSTEGNO DELLA CANDIDATURA, NON SUPERARE IL TETTO DI 200.000 EURO DI SPESE E IMPEGNARSI A SOSTENERE CHI VINCERA’ LA CONSULTAZIONE
Si avvicinano le primarie per scegliere il candidato premier del Pdl.
Per la prima volta il partito fondato da Silvio Berlusconi chiede ai suoi elettori di scegliere il proprio leader.
Da quando l’ex presidente del consiglio ha annunciato che non correrà alle politiche, nel Popolo delle libertà scalpitano per dimostrare quanto il partito sia diventato democratico al suo interno.
Ma la paura che serpeggia tra i big è quella di un flop.
C’è il rischio cioè che le urne rimangano semivuote confermando la sensazione che il Popolo delle Libertà senza il suo fondatore non ha ragione d’essere.
Da qui, la decisione di stilare delle norme che regolino la votazione per evitare che le primarie diventino un’opportunità di visibilità per chi non ne avrebbe nel corso della campagna elettorale vera e propria, come sostenuto da Ignazio La Russa.
Nella bozza del regolamento delle primarie Pdl si legge: “Per essere ammessi i candidati devono depositare 10mila firme entro le 24 del 19 novembre. In ciascuna regione non possono essere raccolte più di duemila firme“.
Inoltre dal 1° dicembre sarà proibito qualsiasi tipo di campagna elettorale a pagamento e per la quale ogni candidato non potrà spendere più di 200mila euro: “a decorrere dal primo dicembre 2012, la campagna elettorale non potrà svolgersi attraverso attività propagandistiche a pagamento, ovvero, attraverso l’utilizzo di spazi pubblicitari su strada o veicoli, su giornali, canali radio-televisivi, siti internet o altre forme di pubblicità a pagamento”.
La consultazione popolare si terrà il 16 dicembre e si potrà votare dalle 8 alle 22.
I seggi, si legge nel testo, possono essere istituiti presso le sedi municipali, le sedi del Pdl, le istituzioni dei vari livelli territoriali, associazioni culturali e ricreative, postazioni provvisorie, studi, uffici o esercizi commerciali.
Il documento, di 9 pagine, è aperto a modifiche e dovrà essere ratificato l’8 novembre.
Sia gli elettori che i candidati alle primarie dovranno sottoscrivere la Carta dei valori del Popolo delle libertà e dovranno garantire il loro impegno di fedeltà al vincitore. Tutti i candidati quindi dovranno sottoscrivere la seguente dichiarazione: “Mi impegno, qualunque sia l’esito della consultazione, a garantire il mio sostegno politico ed elettorale al Pdl e al centrodestra”. Non solo. I candidati devono anche garantire il loro impegno “a supportare alle elezioni politiche il candidato che risulterà vincitore alle primarie“.
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Novembre 7th, 2012 Riccardo Fucile
INCHIESTA PER TRUFFA SULLA SEGRETARIA DEL LEADER: PERQUISITI GLI UFFICI DELLO STAFF
Si sono presentati di buon mattino, tra le mani un mandato di perquisizione. Indirizzo, via Sant’Andrea delle Fratte, Roma, sede del Pd, ufficio della segreteria di Pier Luigi Bersani.
Una visita per niente annunciata.
Obiettivo: raccogliere informazioni nei computer in cui la Guardia di Finanza spera di trovare risposte per l’indagine che coinvolge la segretaria storica di Bersani, Zoia Veronesi, indagata per truffa aggravata, assunta dalla Regione Emilia Romagna e utilizzata dal segretario del Pd per tenere e aggiornare la sua agenda politica.
Un danno alle casse pubbliche — secondo l’accusa — che supera i 140 mila euro. “Sentivamo rumori, porte che sbattevano, c’erano estranei che entravano e uscivano”, hanno raccontato ieri i dipendenti del Partito democratico. “Nell’affacciarmi ho visto delle persone che scaricavano file dai computer, cercavano documenti nei cassetti, ma allontanavano tutti”, ha riferito uno dei testimoni della scena.
Il pensiero è corso al caso Lusi.
Ma stavolta non si tratta dell’ex eredità della Margherita.
La Finanza era nella sede del Pd per indagare sul caso di Veronesi, appunto.
È stato anche sentito un impiegato del Pd presente nella sede, con l’obiettivo di chiarire meglio se quanto raccontato da Zoia Veronesi in queste settimane risponda a verità .
Cioè che lei lavorasse per Bersani solo nelle ore extra rispetto al lavoro.
La conferma della visita in casa Pd delle Fiamme gialle è arrivata in serata da fonti vicine agli inquirenti.
I finanzieri hanno perquisito nei giorni scorsi la sede distaccata della Regione a Roma e ieri, dopo aver ascoltato una serie di persone informate sui fatti, hanno deciso di andare a cercare negli uffici del partito.
Non è escluso neppure che il lavoro sia terminato: i finanzieri per ora hanno copiato i dati su dischetti, ma potrebbero non bastare.
Gli inquirenti sono convinti che Veronesi lavorasse solo ed esclusivamente per il segretario e che il suo incarico a Roma da parte della Regione in realtà non sia mai stato svolto.
La donna, che è stata dipendente del palazzo di viale Aldo Moro a Bologna fino al 28 gennaio 2010, era stata distaccata con un provvedimento della stessa Regione a Roma, dove doveva intrattenere rapporti con le “istituzioni centrali e con il Parlamento”.
Ma la GdF ha appurato che non esiste traccia della sua prestazione lavorativa a favore della Regione in quel periodo, tra il 2008 e il 2009.
Nei giorni scorsi, a casa sua, le è stato recapitato un invito a rendere interrogatorio con l’accusa truffa aggravata contestato a lei e abuso d’ufficio a Bruno Solaroli, ex capo di gabinetto della Regione Emilia Romagna, uomo vicino a Errani e a Bersani, che le avrebbe confezionato l’incarico su misura.
La donna si è presentata molto tranquillamente dal pm e ha risposto a tutte le domande.
Nella sostanza il legale di Veronesi, l’avvocato Paolo Trombetti, ha spiegato: “Noi”, ha detto, “abbiamo interesse a chiarire che non c’è stata alcuna irregolarità da parte di chicchessia, tanto più dalla signora Veronesi. Respingiamo l’accusa di truffa, non c’è alcuna ombra. Abbiamo chiarito tutto. È una vicenda in cui nulla le può essere rimproverato”.
Il verbale d’interrogatorio, al quale hanno assistito il pm Giuseppe Di Giorgio e il procuratore aggiunto, Valter Giovannini, è stato comunque secretato.
Non per la delicatezza dell’indagine, ma per il particolare ruolo che Veronesi ricopriva e il contesto di oggi in cui il suo diretto superiore, il segretario del Pd, corre per le primarie con possibilità di diventare inquilino a Palazzo Chigi.
Una cautela, quella di mantenere il silenzio sull’inchiesta, che ha anche funzionato: nessuno tra i nemici (e non sono pochi) del segretario del Pd Bersani ha usato come arma l’inchiesta della magistratura.
Situazione simile a quella che si presenterà questa mattina, quando — per un’altra indagine — comparirà davanti al giudice per l’udienza preliminare, Vasco Errani, presidente della Regione Emilia Romagna, coordinatore della conferenza dei presidenti delle Regioni, commissario straordinario per l’emergenza terremoto e, soprattutto, uomo macchina nella corsa alle primarie di Bersani.
Se i giudici dovessero decidere il rinvio a giudizio non si metterebbe bene nè per Errani, costretto a fare i conti con i suoi incarichi, nè per Bersani che, negli ultimi mesi, a lui si è appoggiato per creare il partito del 2013, quello che deve affrontare le elezioni politiche e ambisce a governare.
Caterina Perniconi e Emiliano Liuzzi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 7th, 2012 Riccardo Fucile
VITTORIO FELTRI RIVELA ALLA “ZANZARA” LA SUA INTENZIONE DI VOTO… “VADO SPESSO A CENA CON DI PIETRO, L’HANNO VOLUTO FREGARE”
E alla fine, dai microfoni della Zanzara, arrivò il grande colpo di scena, il primo atto del «grilloberlusconismo».
Ovvero l’endorcement di Vittorio Feltri: «Provo un certo godimento, orgasmi, a veder Grillo sfasciare tutto. Il nostro sistema politico è talmente marcio che spero che dal grande caos rinasca tutto. Oggi voterei per lui».
Certo, quando c’è di mezzo la coppia affilata dei due conduttori di Radio 24 tutto diventa possibile, ma c’è una ratio nel ragionamento della prima firma de Il Giornale, che ricollega questo pronunciamento alle scelte politiche di tutta la sua vita: prima il periodo pro-Lega, poi quello pro-Berlusconi: «Meno male che c’è Grillo — dice Feltri alla Zanzara — ma vi rendete conto di cosa ha fatto in Sicilia? Andare lì a nuoto, un’impresa meravigliosa!».
Tra il serio e il faceto spiega: «Dopo la nuotata la mia stima per lui è aumentata tantissimo. Mi affascina chi fa casino, è bello stare a vedere quanto riuscirà a sfasciare, una meraviglia».
E le donne del movimento che lo criticano per la frase sul punto G? Che cosa pensa Feltri di loro, chiedono i conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo: «Che cosa credevano- se la ride Feltri — di essersi iscritte al Rotary?».
Poi l’uomo simbolo del Giornale parla di Antonio Di Pietro, e anche qui non manca l’effetto sorpresa.
Dopo le cause, le querele, le tante polemiche degli anni passati, le prime dimissioni da via Negri, causate proprio da quella mole di querele che secondo la leggenda riempivano sette armadi Feltri spiazza tutti con un ramoscello d’ulivo: «Sarei contentissimo se Di Pietro andasse al Quirinale, non è che finora abbiamo avuto campioni. Io stimo moltissimo Di Pietro, personalmente non mi ha mai querelato, in tribunale portava Il Giornale».
Vi pare uno scherzo? Ecco un’altra rivelazione: «Spesso ci vediamo a cena e abbiamo un ottimo rapporto» .
Infine l’ultimo strappo, con chi va più volentieri a cena, Berlusconi o Di Pietro?
«Di Pietro — risponde Feltri — a meno che Berlusconi non mi inviti al bunga bunga. Almeno Di Pietro non dice barzellette e usiamo entrambi un linguaggio contadino. Sono più a mio agio e non fa la primadonna come Silvio. Ora è un po’ in difficoltà per la storia della Gabanelli — dice ancora Feltri a Radio 24 — ma sono cose montate bene in tv e tirate fuori dagli archivi. Cose già chiarite, l’hanno voluto fregare, come fanno con Berlusconi».
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Novembre 7th, 2012 Riccardo Fucile
PREMIO A CHI SUPERA IL 42,5%. I DEMOCRATICI: “NON CI STIAMO”
L’attacco è arrivato da lontano, dall’estremo Oriente.
Ha aspettato di atterrare dall’altra parte del mondo, Mario Monti, per richiamare all’ordine i senatori sulla legge elettorale, dopo aver a lungo conversato con il Quirinale, fin qui inascoltato dal Parlamento.
E come ogni buon maestro che si rispetti, ha dato un aut aut ai suoi allievi: o la legge la cambiate voi, o la cambio io, con un decreto.
“Tecnicamente — ha detto Monti — il governo potrebbe intervenire, ma è auspicabile che siano i partiti a cambiare l’attuale sistema di voto”.
à‰ bastata mezza giornata perchè, fiutata l’aria, i partiti si riorganizzassero. In commissione Affari costituzionali a Palazzo Madama, dove la bozza di riforma si era arenata, Pdl, Lega e Udc hanno approvato con un blitz un emendamento proposto da Francesco Rutelli: soglia del 42,5% perchè la coalizione vincente possa incassare il premio di maggioranza del 12,5%.
Il Pd è stato preso alla sprovvista ed è l’unico che ha qualcosa da perderci. Un’alleanza tra i democratici e Sel è stimata al 35-37%.
Nella migliore delle ipotesi può raggiungere il 40%, mentre la soglia più alta è un’utopia per chiunque.
Ma se nessuno raggiunge il premio, nessuno può governare il Paese.
Tranne uno, ovviamente: Mario Monti.
Lo stesso che ieri mattina ha chiesto una modifica urgente della legge, salvo farla lui stesso.
“Sia chiaro — ha risposto il segretario Pier Luigi Bersani — che se ci si ferma a oggi noi non ci stiamo. Non per noi ma per l’Italia. Questo impianto va profondamente aggiustato”.
Nessuno pensi, è l’avvertimento del Pd, di introdurre arbitrariamente un metodo che porti al pareggio come viatico al Monti bis.
Il premier in carica è l’unico che potrebbe provare a guidare un paese senza maggioranza. Ed è l’unico vero sfidante di Bersani, senza bisogno di fare primarie o presentarsi alle elezioni.
Ma la scusa addotta dai promotori della modifica è un’altra: abbiamo paura di Beppe Grillo.
Fino a qualche giorno fa nessuno l’avrebbe confessato, nel timore degli attacchi da parte del comico genovese.
Ma se i nemici da battere diventano due, allora meglio attaccare quello sulla carta più debole (Grillo) per uccidere anche l’altro (Bersani).
“Una soglia significativa è la condizione base per evitare avventure — ha dichiarato Rutelli — in Sicilia il primo partito è stato quello di Grillo e la prima coalizione quella di centrosinistra. Occorre una soglia alta per avere un premio di maggioranza per governare, altrimenti il rischio è che il primo partito che ottiene il premio è Grillo. Ed è un rischio molto alto”.
Insomma, guai far governare chi vince le elezioni.
Meglio approvare un proporzionale corretto (con premio alla coalizione del 12,5% vincolato al raggiungimento del 42,5%, preferenze e soglia di sbarramento al 5%) per frammentare a dovere l’offerta politica e restituire ai centristi il loro ruolo di ago della bilancia, scippato dal sistema bipolare.
L’Idv si è allineata al no del Pd, quasi a voler tendere la mano nella speranza che si riapra la possibilità di un’alleanza.
Per Pier Ferdinando Casini “il testo è migliorabile. Bisognava trovare un punto, altrimenti non se ne usciva”.
E a proposito della contrarietà del Pd osserva: “Ci sono reazioni di facciata e altre di sostanza. A me interessano le seconde”.
Poi aggiunge che la decisione non ha nulla a che vedere con il Monti-Bis: “Cosa c’entra questo?” chiede.
A rispondergli ci pensa Arturo Parisi: “Se di fronte alla reazione del Pd, Casini, che di Bersani e D’Alema è da sempre il principale alleato, dice che ‘ci sono reazioni di facciata e reazioni di sostanza’ è perchè ha le sue ragioni. Ho tuttavia paura che la vicenda della legge elettorale che Casini descrive come una commedia vada volgendo pian piano verso la tragedia. Quello che ancora non è chiaro è se ci si è alleati con l’Udc per tornare al passato, o se si torna al passato per allearsi con l’Udc”.
L’unico punto di contatto tra Pd e Pdl è l’ipotesi che il relatore Lucio Malan presenti a suo nome una modifica come quella proposta da Roberto D’Alimonte, ovvero l’aggiunta alla soglia già votata del 42,5% un “premietto” di aggregazione al primo partito.
Ma manca ancora l’accordo sulla percentuale.
E le possibilità di dialogo si assottigliano sempre di più allungando la vita al Porcellum.
Caterina Perniconi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 7th, 2012 Riccardo Fucile
IL 42,5% DI SOGLIA PER OTTENERE IL PREMIO DI COALIZIONE RISPONDE SOLO ALLE INTENZIONI DI CHI VUOLE UN MONTI-BIS
Che lo si chiami Montellum, in onore dell’uomo che verrebbe ricatapultato a Palazzo Chigi, o Cicciobellum, in omaggio al senatore Rutelli che l’ha presentato, l’emendamento che ridisegna la legge elettorale fissando al 42,5 % la soglia per avere il premio di maggioranza è una truffa.
Nel senso che, come tutte le truffe, si pone un obiettivo chiaro. Fregare qualcuno.
E questo qualcuno, evidentemente, è il favorito delle primarie della coalizione favorita, il centrosinistra targato Pd-Sel.
E cioè Pier Luigi Bersani.
Sia chiaro: mettere una soglia oltre la quale scatterebbe il premio di maggioranza è sacrosanto.
Tra l’altro, c’è scritto nero su bianco in una sentenza della Corte Costituzionale.
Ma basta leggere quello che scrive Roberto D’Alimonte, che è uno dei massimi esperti di sistemi elettorali e non certo quello che si direbbe un pericoloso sovversivo, per comprendere che quello sbarramento è «troppo alto».
E che nessuna coalizione lo raggiungerà . A tutto vantaggio di un esito di governo, leggasi «Monti bis», che non sarebbe quello scelto dagli elettori.
Non stupisce quindi se lo stesso Rutelli, nel difendere l’emendamento truffaldino, abbia citato l’esigenza di «evitare il premio a Grillo».
Un commento, questo, che collocheremmo senza problemi tra il pericoloso e l’insensato.
Pericoloso perchè, come ha recentemente sostenuto il costituzionalista Michiele Ainis in un’intervista a “Pubblico ”, a fare leggi contro qualcuno finisce sempre che questo qualcuno venga avvantaggiato.
Insensato perchè pensavamo che la democrazia fosse quella cosa che consente alla maggioranza di scegliere quali partiti «premiare», com’è stato recentemente col Cinquestelle, e quali relegare lo zero virgola, com’è capitato — detto con rispetto — proprio all’Api di Rutelli.
Ma evidentemente una truffa, con la democrazia, ha poco a che fare.
Come il fronte Pdl-Udc-Lega che ha fatto approvare il Montellum alias Cicciobellum, che tra l’altro è lo stesso a cui dobbiamo il vecchio Porcellum, in realtà sa benissimo. Anche se, ovviamente, non lo dice.
Tommaso Labate
(da “Pubblico”)
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Novembre 7th, 2012 Riccardo Fucile
I CONFLITTI INTERNI ALLA DESTRA: DA GASPARRI FINITO IN UNA FONTANA ALLA RISSA DEL CONGRESSO DI PESCARA DEL 1965, DALLA LITE TRA STORACE E ACCAME AL TENTATIVO DI FINI DI COMMISSARIARE NEL 1977 LA FEDERAZIONE DI FOGGIA
Fratelli coltelli, i militanti della destra in Italia. E non è solo una frase fatta.
Nella lunga e travagliata storia del Movimento sociale italiano, infatti, non ci sono stati soltanto scontri con i “rossi” o con le forze dell’ordine.
Se le davano di santa ragione anche tra loro, divisi come erano (e come sono) tra mille correnti.
Di scontri duri, a volte anche fisici, ce ne furono davvero tanti.
All’inizio del 1965, ad esempio, Giorgio Almirante aveva bisogno di una mano per contrastare la gestione “molle” del segretario Arturo Michelini.
Soccorso “nero” che trovò in Avanguardia Nazionale, i cui militanti trasformarono in una gigantesca rissa il congresso di Pescara.
Ma mentre la base se le dava di santa ragione, i due leader si accordavano in segreto: a Michelini restava la segreteria, a Almirante andava il ruolo di capogruppo alla Camera.
Pochi anni dopo, invece, il casus belli fu l’atteggiamento da tenere nei confronti del Sessantotto.
Il primo marzo di quell’anno, dopo la battaglia di Valle Giulia, i neofascisti di Delle Chiaie e gli universitari missini del Fuan occuparono la facoltà di Giurisprudenza.
Il 17 marzo, alla Sapienza arrivarono i Volontari Nazionali guidati da Almirante che pretendevano la fine dell’occupazione dell’ateneo romano.
Quando tentarono di liberare la rossa facoltà di Lettere, però, Delle Chiaie e i militanti del Fuan uscirono da Giurisprudenza e si schierarono sui gradini del rettorato, per protesta contro l’iniziativa dei loro compagni di partito.
E nemmeno Fini è nuovo a contestazioni e scontri interni.
Nel 1977, giovane delfino di Almirante e segretario nazionale del Fronte della Gioventù, aveva deciso di commissariare la federazione provinciale di Foggia.
Ma durante un incontro alla sede di via Garibaldi, nella città pugliese, i “camerati” fecero intendere al leader che non era il caso.
Prima con le buone e poi, visto che Fini resisteva, con le cattive: “Se rimuovi il segretario non esci dalla federazione!”.
E uno dei militanti gli mise addirittura le mani addosso.
Risultato: niente commissariamento.
Un altro big della politica di oggi ha avuto brutte esperienze con i suoi stessi camerati. È Maurizio Gasparri, che una volta, durante un virile confronto ideologico, venne lanciato in una fontana dalla base più oltranzista, che mal tollerava i giovani dirigenti in doppiopetto.
Altro scontro che ha fatto epoca è quello tra Francesco Storace e Giano Accame, nella redazione del Secolo d’Italia.
Storace, all’epoca fedelissimo finiano, non apprezzava particolarmente la linea del direttore rautiano.
Chi c’era parla di tensione alle stelle e di scontro quasi fisico.
Un momento cruciale della storia recente dell’Msi è datato 1990.
Rimini, congresso del partito.
Pino Rauti si è alleato con Domenico Mennitti, riuscendo a disarcionare Fini e a prendere le redini dell’Msi.
Il clima era così surriscaldato che tra le due fazioni si arrivò alle mani.
E qualcuno, racconta chi c’era, aveva deciso di usare le robuste sedie per “colpire” l’attenzione degli avversari interni.
Ogni voto a Rauti era sottolineato da urla di giubilo. Ogni voto a Fini, invece, da composti e istituzionali applausi.
Di notte, poi, si andava a dormire con la consegna di essere sempre pronti alla chiamata “alle armi”.
Dopo la svolta di Fiuggi e la vittoria finale di Fini su Rauti, erano spariti i modi “burberi”, ma non certo le divisioni interne.
E basta pensare agli scontri durissimi, ormai diventati solo verbali, tra finiani e colonnelli dopo la scissione di Futuro e Libertà per comprendere che in sessant’anni non è cambiato nulla.
Con la differenza che un tempo, forse anche per difendersi dall’accerchiamento dei partiti “costituzionali”, i panni sporchi si lavavano in casa.
Oggi, a quanto pare, anche sul sagrato di una chiesa.
Domenico Naso
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 7th, 2012 Riccardo Fucile
DECISIVE LE AFFERMAZIONI NEGLI STATI DELL’OHIO E DELLA FLORIDA… CONQUISTATI 303 GRANDI ELETTORI CONTRO I 206 DELLO SFIDANTE
Barack Obama è stato rieletto Presidente degli Stati Uniti.
E ha spazzato via i timori della vigilia, dove i sondaggi davano per certo un testa a testa tra i due candidati, con un risultato dai contorni netti.
Il presidente ha infatti conquistato 303 Grande elettori contro i 206 di Romney, stando alle ultime proiezioni della Cnn.
A rivelarsi decisivo — come ci si attendeva alla vigilia — è stato l’Ohio.
Vinto questo Stato è bastato aspettare i risultati degli Stati della West Coast, dalla California a quello di Washington
Obama ha vinto in Ohio con il 50,1% dei voti contro il 48,2% di Romney.
In Florida, quando è stato scrutinato il 99% delle schede, Obama è in vantaggio con il 50% contro il 49,2% del candidato repubblicano.
Obama si è poi rivolto ai suoi sostenitori: “Questa sera voi, gli americani, ci avete ricordato che la nostra strada è stata difficile il nostro viaggio lungo. Eppure ci siamo ricordati della strada comune e per gli Stati Uniti deve ancora venire il meglio”. Obama parla dal McCormick Center e ringrazia ogni americano che ha votato, anche per l’avversario, perchè “comunque vi siete fatti sentire e avete fatto sentire la differenza”.
Poi spiega di avere chiamato Romney. “Vogliamo un buon futuro per questa nazione, e la famiglia Romney ha deciso di dedicarsi al servizio del bene pubblico. Vedremo come collaborare insieme”.
Ha ringraziato “il ‘guerriero’ americano, il più grande vice presidente che si possa desiderare, Joe Biden” e poi la moglie Michelle. “Non sarei l’uomo che sono oggi senza la donna che vent’anni fa ha deciso di sposarmi. Michelle non ti ho mai amata così tanto e sono fiero che il resto dell’America sia innamorato di te. Sasha e Malia — ha detto rivolgendosi alle figlie — state crescendo e state diventando due meravigliose giovani donne. Sono fiero di voi”.
Ha parlato anche del futuro e delle prospettive del Paese: “Il progresso non è mai una linea retta e bisogna arrivare al consenso e ai compromessi. La nostra economia è in ripresa è finito il decennio di guerra, la campagna di violenza è finita”.
I prossimi obiettivi sono “ridurre il deficit, riformare le tasse e risolvere il problema dell’immigrazione” oltre alla creazione di posti di lavoro e sicurezza per la classe media .
Obama richiama nel suo discorso il mito del sogno americano perchè, continua, “se sei nero, portatore di handicap o ispanico, in America ce la puoi fare”.
E conclude: “Siamo più grandi della somma delle nostre singole ambizioni, siamo e saremo sempre gli Stati Uniti insieme al vostro aiuto e alla grazia di Dio che viviamo nella più grande nazione del mondo. Dio ci benedica”.
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Novembre 7th, 2012 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE HA RITROVATO IL CONSENSO DELLE CATEGORIE CHE L’AVEVANO PORTATO ALLA CASA BIANCA NEL 2008… STRATI SOCIALI CHE ROMNEY HA TRASCURATO, CONTANDO SULL’APPOGGIO DELLA CLASSE ECONOMICAMENTE DOMINANTE
Sembra davvero la storia degli ultimi che diventano ancora una volta i primi, è la rivincita del 47 contro l’1 per cento, di quell’America che Mitt Romney aveva svillaneggiato: il 47 per cento appunto così povero da non potersi neppure permettere di pagare le tasse, non ti curar di loro ma guarda e passa, mentre quello che doveva contare era soltanto l’1 per cento di super ricchi che già posseggono tutto e a cui naturalmente bisognava tagliare ancora le tasse.
Sì, la vittoria di Barack Obama passa davvero per la parte più vera dell’America, proprio per quella parte che il suo sfidante non ha coltivato, forte invece del sostegno dei miliardi dei poteri forti.
Le donne, per esempio. Eppure ai repubblicani le orecchie dovevano suonare da un pezzo. Come si fa ad andare al voto inimicandosi l’elettorato femminile, come si fa a dire no alla contraccezione usata negli Usa dal 90 per cento delle donne?
E come si fa soprattutto a non prendere le distanze da personaggi come Richard Mourdock o Tedd Aiken, capaci di orrori come la giustificazione del figlio dello stupro dono di Dio?
Le donne, lo dicevano tutti i sondaggi, sono state la forza di Obama, spingendo in alto le sue preferenze, spaccando anche famiglie tradizionalmente repubblicane.
Ed è una donna, Meggie Hassan, che ha trascinato alla vittoria Barack in uno Stato che rischiava di perdere, il New Hampshire: la nuova governatrice è adesso l’unica leader di uno Stato Usa pro-choice, cioè a favore dell’aborto, le uniche altre donne al comando sono repubblicane e ovviamente contro l’interruzione di gravidanza.
No, non si governa nel terzo millennio senza governare i temi della sessualità : e qui anche la mobilitazione dei gay è stata determinante, Obama è il presidente che ha cancellato il bando agli omosessuali nell’esercito e che esplicitamente s’è pronunciato a favore del matrimonio tra persone dello stesso sesso.
E non è un caso che anche nel discorso di “reinvestitura” si sia ricordato di loro, di questa costituency importantissima che invece Romney si era inimicato, licenziando il suo portavoce proprio per manifesta omosessualità .
E come si fa negli anni della globalità e del web senza frontiere a vincere senza immigrati e giovani?
Naturalmente ci vogliono i fatti e non solo le parole.
Il primo presidente nero non è riuscito, visto l’ostruzionismo del Congresso, a fare quella grande riforma dell’immigrazione che sognava.
Però ai figli dei clandestini che già studiano e lavorano negli Usa ha tolto l’infamia dei rimpatri coatti, firmando lui stesso un decreto che ha bypassato i poteri – e soprattutto l’inerzia – di Camera e Senato.
Una mossa fondamentale: proprio l’asse neri-latini era stata la leva su cui quello che sarebbe diventato il primo presidente afroamericano aveva costruito quattro anni fa il suo successo.
E i risultati di oggi, dalla Florida al Colorado al Nevada, cioè gli Stati in cui i latini erano determinanti, la dice lunga sul successo dell’operazione.
Ecco, anche qui: la grande forza di Barack quattro anni fa erano stati i giovani.
E tutti gli esperti nei mesi scorsi avvertivano: l’attenzione è calata, non c’è più l’entusiasmo del 2008.
Il vice (relativamente giovane anche lui, 42enne) che Mitt Romney si era scelto aveva pure fatto dell’ironia: non possiamo permettere che i nostri ragazzi invecchino fissando nel chiuso della loro cameretta un poster di Obama.
Come dire: Barack li ha incantati ma non ha saputo fare altro per loro.
Invece i giovani hanno risposto straordinariamente in massa all’appello del loro presidente: per la verità anche grazie alla mobilitazione, straordinaria anche questa, di quello che sempre nel discorso di Chicago il presidente ha chiamato il più organizzato team elettorale della storia.
Donne, gay, immigrati, giovani.
E scusate se in questo Paese che rinasce dalla crisi peggiore dai tempi della grande depressione ci sono ancora gli operai.
Qui il trionfo negli Stati simbolo della struttura industriale statunitense, dal Michigan delle tre Big di Detroit, General Motors Ford e Chrysler, appunto all’ambitissimo Ohio, è la prova che la classe operaia ha davvero la memoria lunga.
Romney era contro il salvataggio dell’auto voluto da Barack: e gli operai se lo sono ricordati.
Sì, sembra davvero la storia degli ultimi che diventano ancora una volta primi: ora tocca a Obama Secondo dimostrare che non sarà solo per una notte.
Angelo Acquaro
(da “La Repubblica”)
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