Novembre 22nd, 2012 Riccardo Fucile
PRESTITI CON IL CONTAGOCCE… IL RIMBORSO DEI CREDITI DALLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE NON FUNZIONA
Nel mondo della piccola impresa c’è molta preoccupazione per i mesi a venire, quelli che ci porteranno alle elezioni politiche.
I pessimisti sostengono addirittura che tante aziende abbasseranno le saracinesche per le feste di Natale e non le solleveranno più passato il Capodanno
I motivi sono lampanti e il presidente della Cna, Ivan Malavasi, li ha elencati impietosamente nei giorni scorsi all’assemblea della sua organizzazione.
Il mercato interno è stagnante, il credito arriva con il contagocce (7 punti in meno in un anno) e costa il 2% in più dei Paesi Ue, la procedura messa a punto per i pagamenti pregressi è quanto meno farraginosa, la tassazione è a livelli record (secondo Malavasi al 68,5%).
C’è da aggiungere che nel frattempo la forza di pressione delle associazioni di rappresentanza si è stemperata.
La Confindustria, che comunque resta la casa della grande impresa, stenta a ritrovare il passo, Rete imprese Italia è stata colpita da una preoccupante amnesia e le assemblee che si tengono di questi tempi appaiono dei puri riti organizzativi
Va detto che non tutti i settori stanno subendo la recessione con la stessa intensità , l’edilizia e l’arredamento sembrano i più colpiti, l’indotto di auto/siderurgia/elettrodomestici risente della crisi in cui si dibattono le grandi aziende, l’alimentare invece dà tutto sommato segni di maggiore vivacità . Il tutto è in linea con l’evoluzione dei consumi, l’acquisto di beni durevoli viene rinviato sine die e invece i tagli alla tavola sono tutto sommato contenuti.
Per evitare la decimazione delle piccole aziende ci vorrebbe un cambio di passo.
Partiamo dal credito.
«Il rubinetto bancario tutt’al più sgocciola – racconta “Mister Pmi” Giuseppe Tripoli, il garante della piccola e media impresa –. La domanda di finanziamento resta elevata ma per le esigenze a breve, per avere il circolante in azienda. Non si è ripristinato un flusso continuo di denaro dalle banche alle Pmi».
È vero che qua e là ci sono campagne pubblicitarie degli istituti di credito in cui viene sbandierata la vicinanza ai Piccoli, nei fatti e nei territori però queste buone intenzioni non arrivano.
«La stessa evoluzione della cultura bancaria sul merito di credito procede troppo lentamente, le suggestioni sulla premialità di rating sono rimaste sulla carta e le potenzialità di una nuova relazione banca-impresa che sappia creare valore aggiunto sono anch’esse rimandate a tempi migliori» aggiunge Tripoli.
Eppure non c’è alternativa.
Il guaio è che non si capisce chi dovrebbe prendere l’iniziativa.
Il governo non sembra avere il monitoraggio del credito alle imprese come missione, le banche hanno altre priorità , le associazioni di rappresentanza non paiono attrezzate.
E così anche la novità di poter emettere mini-bond da collocare presso i risparmiatori rischia di passare in cavalleria e non incontrare l’attenzione necessaria.
Intanto il sistema dei Confidi, i consorzi di garanzia auto-organizzati, è precipitato in una situazione di estrema difficoltà .
Si avverte il bisogno di avviare un percorso di aggregazione e di rivedere le norme che ne regolano la patrimonializzazione magari coinvolgendo le Fondazioni bancarie, ma tutto ciò può avvenire solo con un salto di qualità nei controlli e sottoponendo i Confidi alla vigilanza della Banca d’Italia.
Veniamo ai pagamenti.
Ed è sempre Tripoli che fa il punto: «Il meccanismo messo in piedi per rimborsare i debiti pregressi delle pubbliche amministrazioni nei confronti delle Pmi va a rilento. Manca sempre qualcosa».
È stato predisposto il formulario per la certificazione dei crediti ma una volta non c’è la piattaforma online e un’altra l’autorizzazione all’intervento del Fondo di garanzia e così le banche hanno buon gioco a mostrare il braccino corto quando si tratta di scontare quei crediti e anticipare contante agli imprenditori.
È vero che da gennaio scatterà la direttiva che obbliga a pagare dentro i tempi europei (60 giorni) ma la battaglia per recuperare il pregresso è quasi un corpo a corpo.
E anche in questo caso si sconta una lentezza delle associazioni che dovrebbero assistere sul territorio il processo di rimborso e invece non riescono a farlo.
Sul tema delle aggregazioni il ritardo è altrettanto grave.
Sono all’incirca 2.500 le aziende che sono entrate a far parte delle reti di impresa ma il numero è esiguo ed è dovuto per lo più all’iniziativa della task force della Confindustria.
Gli artigiani dovrebbero partire anche loro ora che è stata riconosciuta alle reti la soggettività giuridica.
Nel frattempo qua e là nei territori si cominciano a registrare acquisizioni e di recente un big dell’alimentare, Alberto Bauli, è intervenuto per chiedere al governo di rivedere il regime fiscale che regola le fusioni. La verità è che un’impostazione che lascia le aggregazioni solo all’iniziativa dal basso si è rivelata riduttiva e sfasata in termini temporali.
Le novità che lasciano più il segno sono le riorganizzazioni delle filiere da parte delle grandi aziende.
Nell’abbigliamento e in genere nel lusso questi processi sono andati avanti e in molti casi, tra cui Prada, hanno sicuramente rafforzato le Pmi.
Dall’indotto vecchia maniera si è passati a una partnership duratura e regolata dalle leggi di mercato.
In qualche caso i rapporti commerciali sono stati innervati con nuovi investimenti, progetti di e-commerce e politiche di formazione.
Senza diminuire la pressione sul fronte delle reti forse bisogna ripartire da qui e settore per settore rafforzare le filiere.
Un ruolo può svolgerlo anche una grande distribuzione che non fosse interessata solo a comprimere i prezzi.
Come si è visto, l’azione soggettiva delle forze di rappresentanza potrebbe far molto per invertire l’inerzia ma il «cambio di passo» stenta a farsi largo prima di tutto nelle teste dei gruppi dirigenti. Il rischio di stare con le mani in mano ad aspettare le elezioni è concreto, condito magari dall’illusione di strappare un sottosegretariato.
Racconta Tripoli: «Le associazioni sono attratte in questo momento più dalla riorganizzazione del potere verticale che dalla cura orizzontale delle imprese, dovrebbero aiutarle a mettersi in rete, a trovare i manager giusti, ad affrontare i problemi finanziari e bancari. In qualche caso o in qualche provincia, dove ci sono le persone giuste, avviene».
Ma più spesso si finisce per dar vita a una convegnistica minore in cui la gerarchia delle priorità sfugge.
Dario Di Vico
(da “il Corriere della Sera“)
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Novembre 22nd, 2012 Riccardo Fucile
IN GERMANIA FINISCE SOTTOTERRA SOLO IL 3% DEI RIFIUTI, IN ITALIA IL 50%
Ultimi per crescita economica, occupazione e produttività , ci presentiamo in Europa con un
avvilente primato: quello dell’export dei rifiuti.
Da anni Napoli e la Campania spediscono la spazzatura ai termovalorizzatori sparsi per il continente.
La più recente destinazione conosciuta è l’Olanda, che si offre di bruciarla al modico prezzo di 150 euro la tonnellata.
E adesso tocca persino all’immondizia di Roma finire sul mercato.
L’azienda municipalizzata del Comune ha indetto una gara europea per lo smaltimento di 1.200 tonnellate al giorno: andranno a chi pretenderà la cifra più bassa per trasformarle in energia elettrica.
Da tre anni non si riesce a individuare il sito, dicono provvisorio, per i rifiuti che l’ormai satura discarica di Malagrotta, la più grande d’Europa, non può più accogliere.
Così il Campidoglio si è arreso: la raccolta differenziata è stimata al 25 per cento, 40 punti in meno rispetto al valore da raggiungere in base alle norme europee entro dicembre, e mancano gli inceneritori
A Parma, invece, l’impianto verrà completato ma non brucerà i rifiuti della città . A
l massimo quelli degli altri Comuni del circondario.
Il sindaco Federico Pizzarotti, del Movimento 5 Stelle, non può bloccare l’inceneritore, visto che la competenza è della Provincia, ma intende tener fede alla promessa elettorale. Sarà dunque per paradosso esportata anche la spazzatura dei parmigiani, magari insieme a quella della Valle D’Aosta che con un referendum votato dal 94 per cento dei cittadini domenica ha detto no al «pirogassificatore»?
Nessun altro Paese d’Europa ha una situazione come la nostra.
In Germania finisce sotto terra meno del 3 per cento dei rifiuti urbani.
In Italia oltre il 50 per cento, e poco importa che entro il 2020 le discariche (come pure gli inceneritori) dovranno essere bandite.
Il territorio nazionale ne è disseminato, con devastazioni ambientali inimmaginabili e rischi gravissimi per la salute.
Secondo i magistrati siciliani la discarica di Bellolampo, in cui per anni è stata sversata la spazzatura di Palermo, avrebbe inquinato le falde acquifere nei pressi della quinta città italiana nella più completa indifferenza degli amministratori.
Storie purtroppo tragicamente normali per questa Italia, incapace di affrontare e gestire anche problemi apparentemente semplici per qualunque Paese civile.
Un’Italia dove i livelli decisionali sono troppi, confusi e perennemente in lotta tra di loro. Dove tutto diventa sempre emergenza, generando spinte emotive che la politica, prigioniera di veti incrociati che paralizzano ogni scelta, non è in grado di governare.
E dove quindi cose altrove normalmente realizzabili si rivelano missioni impossibili.
La mediocrità della classe dirigente è insieme causa e conseguenza di questo stato di cose. Il ministro Corrado Passera ha parlato di una situazione causata a Roma da «anni e anni di non azione», durante i quali era molto più facile, e sul momento anche meno costoso, gettare i sacchetti dell’immondizia in discarica anzichè affrontare seriamente il problema. Di volta in volta passando il cerino acceso ai successori.
Bel modo di amministrare.
Come è davvero una bella figura quella che ora facciamo davanti a tutto il continente chiedendo se qualcuno ci può aiutare a smaltire l’immondizia della capitale.
Pensate un po’, proprio nel bel mezzo della «Settimana europea della riduzione dei rifiuti», una campagna sostenuta da Bruxelles per sensibilizzare al problema i cittadini dei 27 Paesi dell’Unione.
Che tempismo…
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera”)
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Novembre 22nd, 2012 Riccardo Fucile
BELTRAMETTI E LA GESTIONE DI UN PATRIMONIO DI OLTRE 50 MILIONI DI EURO
«Ho seminato delle piantine che stanno crescendo bene: una di thè verde e una di thè nero», dice al telefono Massimo Ponzellini, dall’altro capo del filo risponde Giovanni Tremonti: «Che bisogna tener d’occhio».
Cosa avranno voluto dirsi lo sapranno loro.
Noi però ci siamo incuriositi, e cercando di capire quali potessero essere i legami fra Ponzellini e il giovane Tremonti salta fuori che il figlio dell’ex ministro, 26 anni, di professione studente, possiede un patrimonio immobiliare di circa 10 milioni di euro.
Giovanni condivide parte del patrimonio con la sorella Luisa; ad amministrare i loro beni è lo zio materno, l’ingegner Felice Beltrametti, attraverso la società Nitrum.
Ma Beltrametti è soprattutto l’amministratore della Generale Gestioni, che ha in pancia 133 unità immobiliari (che includono 83 appartamenti, locali commerciali, capannoni), oltre a 62 ettari di terreno.
Un patrimonio stimato dall’Agenzia del Territorio di oltre 50 milioni di euro, terreni esclusi.
Il cognato dell’ex ministro è anche proprietario del 10% di questo grande patrimonio, il restante 90% è in mano alla Assiral Finance, un’anonima svizzera domiciliata nella periferia di Friburgo.
L’Assiral non ha uffici, nè impiegati, ma solo un indirizzo presso la Fidutrust, anche questa anonima.
Secondo Claude Brodard, fiduciario della zona, la vera convenienza nell’aver scelto Friburgo come sede, «non è tanto negli aspetti fiscali, quanto nel fatto di non far sapere chi è il reale proprietario degli immobili» e di conseguenza nessuno può andare a chiedere dove e come sono stati presi i soldi per comprarli.
Incrociando i dati negli archivi svizzeri, si scopre che l’amministratore unico dell’Assiral Finance è un manager che lavora a Lugano, si chiama Corrado Coltella.
In passato ha lavorato per una società americana specializzata in sistemi di sicurezza, e oggi, oltre a figurare in diverse strutture anonime, è anche il proprietario di una società che produce sanitari. Il signor Coltella con noi ha preferito non parlare, ma lui sicuramente sa chi è il proprietario del patrimonio immobiliare amministrato dal cognato di Tremonti.
Il fatto curioso è che Beltrametti ci dice di non sapere chi sia questo Coltella, anche se stanno insieme in un’altra società anonima svizzera, la Nextia, che in Italia si occupa di ristrutturazioni e installazioni di pannelli solari.
Beltrametti ignora anche i nomi dei suoi soci svizzeri dell’Assiral, per conto dei quali amministra 50 milioni di euro in immobili. Ma scavando tra le carte del catasto qualche anomalia si trova.
Nell’89, quando Beltrametti era già amministratore della Nitrum, in società con la sorella Fausta, moglie di Tremonti, accade che un’anonima svizzera di nome Gilbris svolge un’operazione di compravendita immobiliare usando lo stesso codice fiscale della Nitrum.
È una semplice coincidenza?
Un errore dell’impiegato del catasto?
Sta di fatto che sette anni dopo a diventare amministratore unico della Gilbris (che nel frattempo ha cambiato nome in Securalarm, anche questa anonima) è lo stesso Corrado Coltella amministratore unico dell’Assiral, l’anonima proprietaria del 90% dell’impero immobiliare gestito proprio da Beltrametti.
L’ingegnere però non ricorda neppure con quanti degli immobili ereditati dai genitori è entrato nella Generali Gestioni, nè chi erano i suoi soci in quel momento.
È anche vero che quando ti occupi di una decina di società italiane, e siedi nei cda di altre svizzere, può essere complicato ricordare il nome dei tuoi soci.
Felice Beltrametti dal 1994 è anche presidente della Veco Business Service, un’altra anonima con sede a Lugano, che ha un oggetto sociale poliedrico: dall’organizzazione conferenze e congressi all’offerta di domicilio e ospitalità alle società anonime.
Nel consiglio di amministrazione della Veco, a fianco di Beltrametti, c’è sempre Corrado Coltella, e fino al 1997 troviamo anche Stefano Camponovo, di professione fiduciario.
Beltrametti però questo nome non lo ricorda. Stefano Camponovo fino al 2009 è stato nel Cda di un’altra fiduciaria, crocevia di varie indagini della Procura di Milano: la Doge Sa.
I magistrati se ne sono occupati per una maxi evasione fiscale emersa nell’ambito dell’inchiesta sul crac Italtease.
La Doge è poi finita nelle carte dell’inchiesta che ha coinvolto l’ex tesoriere della Lega Nord, Francesco Belsito.
Nel 2008 Belsito (all’epoca membro del cda Fincantieri) si rivolge alla Doge per consulenze finalizzate alla creazione di società all’estero dove trasferire denaro dall’Italia.
Dalle indagini sui conti dell’ex tesoriere emerge che Belsito effettuava versamenti di denaro alla Lega giustificandoli come fondi personali destinati ad “alimentare le casse del partito”.
Gli investigatori si erano insospettiti perchè avevano riscontrato che quei versamenti fatti da Belsito erano superiori ai suoi redditi. Le indagini condotte in quegli anni sul tesoriere e sulla Doge, pur suscitando perplessità , non si conclusero con ipotesi di reato.
Quattro anni dopo, i magistrati della Procura di Milano scoprono che Belsito reinvestiva in Tanzania i soldi pubblici che arrivavano alla Lega.
Milena Gabanelli e Sigfrido Ranucci
(da “il Corriere della Sera“)
argomento: Politica | Commenta »