Novembre 11th, 2013 Riccardo Fucile
IL COLONNELLO EMILIANO ESCLUSO PER IRREGOLARTA’ PROCEDURALI, ANNUNCIA BATTAGLIA…AVREBBE SPACCATO IL FRONTE UNICO DEL SEGRETARIO INDEBOLENDO SALVINI…E RIPARTE IL TUTTI CONTRO TUTTI. SALVINI NON LO VUOLE NESSUNO
Roberto Maroni sacrifica Gianluca Pini, uno dei colonnelli, per garantire la poltrona al suo figlioccio: Matteo Salvini.
La sintesi della giornata leghista è tutta qui. E qui c’è il suicidio definitivo del Carroccio.
Perchè Salvini alla guida del partito non lo voleva e non lo vuole nessuno.
Per questo negli ultimi giorni si erano candidati buona parte dei Barbari Sognanti della prima ora: il sindaco di Verona Flavio Tosi, l’assessore della giunta Maroni ed ex parlamentare Gianni Fava, il presidente del Copasir e macchina da guerra elettorale Giacomo Stucchi e Gianluca Pini.
Tosi, Fava, Stucchi e Pini, membri della segreteria politica di via Bellerio, uomini fedeli a Maroni negli anni in cui nella Lega essere contro Bossi voleva dire ritrovarsi ai margini.
Colonnelli che hanno fatto la battaglia al posto di Maroni per sostituire lui al Capo. E ci sono riusciti.
Ma i barbari sognanti, così erano chiamati i sostenitori di Bobo, nel tempo ne hanno criticato l’operato contestando la mancanza di dialettica e l’impossibilità di confronto. È bastato un anno.
Hanno tentato in ogni modo di farlo desistere dall’indicare Salvini alla successione. Inutilmente.
Come ultima mossa hanno presentato la loro candidatura per convincere Maroni a scegliere un altro nome, sperando fino all’ultimo di vedere arrivare la candidatura di Giancarlo Giorgetti, il Letta della Lega, tessitore leale di equilibri improbabili all’interno del Carroccio.
Uno che, per dire, riusciva a far dialogare tra loro Bossi, Calderoli e Tremonti. E si capivano pure.
Ma Giorgetti, cugino del banchiere Massimo Ponzellini e laureato in economia alla Bocconi, oggi capogruppo della Lega alla Camera, non ne ha voluto sapere.
Lui è l’uomo del dialogo, delle liste e, per quanto non condivida il passaggio a Salvini (col quale non ha mai avuto ottimi rapporti) preferisce rimanere distante dalla prima linea del fortino di via Bellerio.
L’unico che poteva davvero impensierire Salvini era Pini.
Ma per un presunto errore nella presentazione della candidatura, Pini è stato fatto fuori. Sacrificato per salvare Salvini.
“Pensa se fosse stato il figlio”, si confida un altro colonnello decisamente critico con Maroni ricordando le tanto criticate gesta di Umberto Bossi con il figlio Renzo il Trota.
“Prima di Pini abbiamo spinto per Manes Bernardini, su cui ora torneremo compatti, ma il segnale è deleterio: aver escluso Gianluca conferma l’inconsistenza del progetto maroniano”.
Parole pesanti. Indicibili. E ancora più gravi se l’estensore concedesse di rilevare il suo ruolo nel partito.
“Aspettiamo”, garantisce. Perchè ancora non è detto: Pini infatti presenterà ricorso allegando la documentazione necessaria a smentire la decisione di via Bellerio.
Al segretario romagnolo hanno contestato il non aver presentato la candidatura alla segreteria organizzativa presieduta da Roberto Calderoli.
In realtà non solo ha consegnato la richiesta nelle mani di Calderoli ma è stato proprio il padre putativo del Porcellum a suggerirgli di affidarlo nelle sue mani.
Insomma non è ancora detto.
Al momento le candidature sono cinque. Salvini, Umberto Bossi, l’emiliano Manes Bernardini, Stucchi (che però si sfilerà considerato il suo ruolo al Copasir) e Roberto Bossi Stefanazzi, ammesso pur essendo privo dei 10 anni di militanza stabiliti nelle regole del congresso.
La tanto decantata unità è oltre il crepuscolo.
La Lega appare più che mai spaccato e sfilacciata in fazioni contrapposte. E dal conflitto tra ortodossi bossiani e barbari maroniani il Carroccio è passato al tutti contro tutti.
Calderoli ancora sogna la candidatura unitaria. “Non è detto che da cinque nomi alla fine ci siano cinque candidati”, ha detto. E per quanto abbia assecondato la scelta di Maroni gli ha mandato un messaggio a mezzo stampa: “Io sono perchè nessuno sponsorizzi nessuno, perchè poi il risultato spesso non è quello che si vorrebbe”.
Dal canto suo Salvini sembra piuttosto rassicurato dai nomi degli avversari.
Ieri ha comunicato la sua candidatura via Facebook e ha esternato su tutto.
Dal Milan (“Allegri va cacciato subito insieme a Balotelli”) alla magistratura (“se Lancini è innocente pm a spaccare pietre in Siberia”) al ministro Kyenge definita “più razzista della Lega”.
Salvini è lanciatissimo e guarda al 7 dicembre, giorno in cui i militanti sceglieranno il successore a via Bellerio e vede già l’incoronazione al congresso del 15 dicembre al Lingotto di Torino.
Tra tv, radio e social network il segretario della Lega Lombardia è impegnatissimo. “Del resto lui è riposato, a guardarle dalle file dietro le guerre non sono impegnative”, sputa veleno il colonnello di prima riferendosi allo scontro tra Bossi e Maroni in cui Salvini assunse posizioni decisamente defilate.
Ora tutto dipende da Calderoli: se accetterà a o meno il ricorso che Pini presenterà a giorni, presumibilmente già domani mattina.
L’unica certezza è che Maroni ha sacrificato un suo colonnello, per mettere il suo delfino.
Davide Vecchi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 11th, 2013 Riccardo Fucile
I CONSIGLI DI AMMINISTRAZIONE DI SOCIETA’ PUBBLICHE COSTANO 2,6 MILIARDI, CON LE CONSULENZE ARRIVANO 4 MILIARDI
Oltre ventimila persone possono rappresentare un piccolo esercito.
Una schiera di personale amministrativo, spesso politico, non sempre competente in grado di frequentare con abilità e perizia i consigli di amministrazione di società , consorzi, aziende speciali, associazioni collocate all’interno della pubblica amministrazione.
Per pubblica si intende lo Stato ma anche le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane e tutte le varie aziende collegate a questi enti.
I dati sono forniti dal prospetto Consoc redatto da PerlaPa, il sistema integrato della Funzione pubblica che raccoglie tutti i dati inerenti le Pubbliche amministrazioni per metterli a disposizione del pubblico.
Il numero completo dei componenti Consigli di amministrazione è di 20.133 a cui occorre aggiungere i componenti dei Collegi dei Revisori.
Quelli che percepiscono un qualsiasi compenso sono circa la metà e ancora di meno, 4.788, sono quelli che ricevono un’indennità superiore ai 5.000 euro annui.
Il costo complessivo dei Cda pubblici è stato stimato da un ricerca del sindacato Uil di cui ci siamo già occupati, in 2,654 miliardi annui.
In questa cifra, spiega il sindacato, sono compresi “i compensi per gli amministratori, i gettoni di presenza, le spese per il funzionamento degli organi, spese di missione e di rappresentanza, etc.”.
Se si aggiungono i compensi per le collaborazioni e le consulente esterne (vedi box sopra) 1,292 miliardi, si sfiora la cifra di 4 miliardi.
È solo un tassello del costo complessivo della “cosa pubblica” e, in particolare, non tiene conto della spesa del personale .
Ma, da tempo, il pubblico impiego è diventato l’obiettivo privilegiato di qualsiasi manovra economica.
Interventi che nel tempo hanno ridotto non solo il costo complessivo di quella voce nel bilancio pubblico ma, contestualmente, anche il numero dei lavoratori stessi.
Molto più lentamente, invece, si riduce il numero degli amministratori delle controllate pubbliche.
A questa voce, sempre secondo i dati del ministero, sono registrate 7.771 strutture di cui 2.436 sono i Consorzi — aggregazione di strutture già esistenti, spesso gli stessi enti locali — e 5.335 le società .
Tra queste ci sono le grandi partecipate di Stato che occupano la parte alta della classifica sia in termini di compenso dei consiglieri che in termini di fatturato.
La testa di lista della graduatoria è composta, così, da nomi ormai entrati nell’informazione quotidiana: Eni, Enel, Finmeccanica, Poste Italiane, Cassa Depositi e Prestiti.
Dietro di loro, dal punto di vista dei compensi, ma sempre in zona più interessante, strutture come le Ferrovie di Stato, Invitalia, la Zecca dello Stato, l’Anas.
E poi le grandi multiutilities, le aziende dei servizi pubblici come Hera, Iren, Acea, A2A o l’Atac di Roma.
Strutture di grande impatto nel potere locale dimostrato dalle vicende economiche che le riguardano e dai compensi dei loro vertici.
Il presidente della bolognese Iren beneficia di 495 mila euro annui, l’ad di Hera 489.149, l’ad di Acea 420 mila euro.
Nessun paragone con i 6,3 milioni dell’ad di Eni, con i 4 milioni dell’ad di Enel o con l’1,8 milioni alle Poste.
Ma in compenso le aziende periferiche hanno consigli di amministrazione e di controllo pletorici in virtù della varietà di soggetti che li formano.
Il Sole 24 Ore ha calcolato che in Hera ci sono 56 consiglieri, alla Metropolitana acque Torino 43 e all’Iren 42.
Le nomine riguardano spesso persone competenti oppure obbligate — rappresentanti di enti locali o degli stessi ministeri — ma nell’esercito dei 20 mila si annida la pratica dello scambio di poltrona ottenuta per meriti politici o per relazioni solide. Si pensi alla Iren che oggi è presieduta da Francesco Profumo.
Storico rettore del Politecnico di Torino è diventato noto dopo aver assunto l’incarico di ministro dell’Istruzione nel governo Monti.
Dopo le elezioni è stato ricollocato dalle giunte di centrosinistra — in particolare Torino — che controllano l’Iren alla presidenza della multiutility.
Alla presidenza della Cassa Depositi e Prestiti siede l’inossidabile Franco Bassanini, già socialista, parlamentare, multi-ministro (con Prodi, Amato, D’Alema), fondatore della fondazione Astrid in cui siedono un po’ tutti.
Alla presidenza di Invitalia siede ancora quel Giancarlo Innocenzi che quando era all’Agcom veniva insultato al telefono da Silvio Berlusconi per la sua presunta inefficienza nella difesa di Mediaset.
La Sogin, che è incaricata della bonifica dei siti nucleari, è da poco presieduta da Giuseppe Zollino, curriculum in ingegneria nucleare ma anche membro di “Italia decide” associazione politico-culturale di stampo bipartisan fondata da Carlo Azeglio Ciampi e Gianni Letta, da Luciano Violante e Giulio Tremonti.
Gran parte di queste società sono necessarie e spesso utili.
La loro amministrazione costituisce un lavoro rispettabile.
L’Acquedotto pugliese, società con azionista unico la Regione Puglia, ha però istituito un amministratore unico retribuito con 120 mila euro lordi l’anno.
Di amministratore unico si parla da tempo anche a proposito della Rai per sottrarla al predominio dei partiti. Ma se ne parla soltanto, la modifica della governance di viale Mazzini resta un miraggio lontano.
Eppure le soluzioni, non necessariamente “urlate o palingenetiche”populiste”, ci sono. Basterebbe applicarsi con diligenza.
Salvatore Cannavò
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 11th, 2013 Riccardo Fucile
BERLUSCONI NON VUOLE TRATTARE … IN CORSO LA SOLITA GUERRA DEI NUMERI
La grande frenata di Alfano arriva quando Gaetano Quagliariello, a nome del grosso delle colombe, suggerisce che a questo punto c’è solo da prendere atto della realtà : di fronte all’avvertimento di Berlusconi la risposta è la “diserzione” del Consiglio nazionale.
La scissione.
È già nei fatti dopo che il Cavaliere ha spiegato che con il suo “assassinio” politico il ministri dovrebbero dimettersi.
E che chi dissente farà la fine di Fini. Ma Angelino frena.
I muscoli del Capo hanno incrinato le granitiche certezze del giorno prima.
È per questo che l’ex delfino tenta l’ultima mediazione sia pur in un clima di scetticismo e sospetto.
L’incontro con Berlusconi è fissato a palazzo Grazioli, martedì, al rientro dell’ex premier da Milano.
Per il Cavaliere è il “faccia a faccia” della possibile separazione: “Io — ha ripetuto ai suoi — non tratto più. Non resto con chi vuole farmi fuori. E non consento di giocare con la mia pelle”.
La testa di Berlusconi è già sul grande ritorno all’opposizione.
Il rullo dei tamburi dei suoi è assordante.
Brunetta dà a Letta del “masochista” che con le sue parole mette fine alle larghe intese.
I fedelissimi come Stefania Prestigiacomo bollano le colombe come “attaccate al potere”.
Come un lupo che sente l’odore del sangue il Cavaliere ha capito che Angelino ha accusato il colpo e ha spaventato parecchi dubbiosi.
Ora, ripete, “indietro non si torna”.
Proprio gli scricchiolii tra le sue truppe hanno suggerito ad Alfano di tentare un ultima mozione degli affetti a palazzo Grazioli martedì. Solo dopo, nel tardo pomeriggio, l’esito sarà analizzato con tutta la sua corrente al gran completo: ministri e parlamentari. È lì che si discuterà “come” affrontare la conta.
E adesso tra le colombe è l’ora dei distinguo, della grande paura della rottura.
Quagliariello, Cicchitto, ma anche Sacconi sono i fautori della scissione subito.
Prima del consiglio nazionale. Perchè ormai ogni mediazione col Cavaliere è impossibile sia sul partito che sul governo.
Per altri, come Formigoni, è invece opportuno andare al consiglio nazionale con l’obiettivo di rovinare la festa a Berlusconi e uscire il minuto dopo.
Tra le ipotesi sul tavolo c’è anche quella di andare, ma non partecipare.
E riunirsi in una stanza accanto, modello “Pallacorda”.
È di fronte al big bang dei rivoltosi che Alfano ha provato a frenare.
Nel tentativo di riaprire l’ultima trattativa col Cavaliere. La scissione fa paura. Perchè le colombe si sentono forti nel palazzo, a livello di parlamentari e senatori. Ma nel paese si rischia il bagno di sangue.
Tanto che, tra le ipotesi degli scissionisti, c’è quella di evitare di presentarsi alle europee col nuovo partito, dove c’è lo sbarramento al 4 per cento.
Una prospettiva che è un incubo per Alfano. Abituato ai ruoli di peso con i voti di Berlusconi, l’ex delfino sa che non è così campata in aria la profezia del Cavaliere sulla fine di Fini.
Ecco perchè la sua best option è una separazione consensuale.
È con l’idea di tenere aperta la trattativa che Alfano entrerà a palazzo Grazioli.
Mostrando il volto duro, ma non per rompere, piuttosto per rimanere dentro e condizionare. È con questo spirito che sono state raccolte le firme della metà dei membri della direzione nazionale (non del consiglio), una cinquantina, sotto l’ennesimo documento delle colombe a sostegno del governo.
Verdini ha consegnato i suoi di numeri in vista del consiglio di sabato: 650 sicuri, una 50 di assenti, 150 con Alfano.
E l’ordine del giorno di sabato non prevede il dibattitto.
Prima c’è la relazione di Berlusconi. Poi si vota.
E poi Menomale che Silvio c’è.
È l’ora del “dentro o fuori”.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 11th, 2013 Riccardo Fucile
NUOVE RIVELAZIONI DELL’EX DIRETTORE DELL’AVANTI SULLA SOMMA INCASSATA PER SABOTARE IL GOVERNO DI CENTROSINISTRA
Sarebbero complessivamente otto i milioni di euro che Sergio De Gregorio ed altri parlamentari avrebbero ricevuto da Silvio Berlusconi per far cadere il governo Prodi: la “rivelazione”, fatta da Valter Lavitola al giornalista spagnolo Joan Boladeres, è approfondita nella trasmissione “Piazzapulita” di La7.
Di recente Valter Lavitola è tornato in carcere: per la Procura di Napoli, infatti, ha violato gli arresti domiciliari.
Boladeres, secondo gli inquirenti – si legge in un comunicato – ha incontrato e raccolto le parole di Lavitola durante la sua permanenza in casa.
Il colloquio è stato poi riferito dettagliatamente dal cronista ai pubblici ministeri Vincenzo Piscitelli ed Henry John Woodcock.
Secondo il memoriale che Boladeres ha consegnato agli inquirenti, Lavitola ha continuato a gestire i propri affari malgrado gli arresti domiciliari.
E al cronista spagnolo avrebbe fornito quella cifra – 8 milioni – riferita non solo a De Gregorio (che ha ammesso di averne percepito 3, ed ha appena patteggiato la pena su questa ricostruzione), ma anche ad altri parlamentari da lui contattati nell’ambito della cosiddetta “Operazione Libertà ” voluta da Berluscon
In particolare, alla domande del cronista sui 3 milioni pagati da Berlusconi all’ex senatore Sergio De Gregorio, Walter avrebbe detto che da parte dell’ex premier fu dedicata alla missione una cifra superiore: “Non sono 3 milioni”, dice Lavitola a Boladeres.
“Pagammo 8 milioni per buttare fuori Mortadella”.
Per i pm, la somma complessiva si riferisce ai vari contatti con i parlamentari seguiti passo passo da Lavitola.
Per l’accusa di corruzione, oltre a De Gregorio che ha patteggiato, sono stati rinviati a giudizio sia Lavitola, sia il presidente Berlusconi.
Il processo inizierà a febbraio.
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Novembre 11th, 2013 Riccardo Fucile
LA NUOVA PAGINA PUBBLICA FACEBOOK DELL’ONOREVOLE DLE PDL COME LE FIGURINE PANINI… E DOPO DUE SETTIMANE, DI FRONTE ALLE CRITICHE, SPUNTA QUALCHE ARTICOLO
L’esponente del centrodestra lo scorso 23 ottobre ha deciso di aprire uno spazio sul social network per comunicare con i suoi elettori: quella a cui mi riferisco è quindi una pagina pubblica, una fanpage, non il profilo personale della Santelli, ma un link raggiungibile da chiunque e pubblicizzato persino sul sito ufficiale del politico in questione.
Foto, foto, foto. I testi a che servono?
Dalla data di apertura della pagina a oggi, nella sua bacheca il sottosegretario non ha condiviso alcun pensiero, idea politica, dichiarazione, link, riflessione, costrutto verbale di alcun genere.
Si è limitata a mettere le proprie foto.
Un numero di foto, in gran parte autoscatti, che non colpirebbe l’attenzione di nessuno se parlassimo del profilo privato di una quindicenne a cui hanno appena regalato una fotocamera.
Ma visto che siamo di fronte al profilo pubblico di un esponente del governo e del parlamento, come minimo ci scappa un sorriso.
Volendo affondare il coltello nella piaga, l’incredibile mole di autoscatti “da bimbominkia” (senza offesa sottosegretario, è gergo di noi gente del web) colpisce per l’aspetto dilettantesco dell’intera produzione.
Mentre a destra e a sinistra tutti i politici assumono addetti stampa e agenzie apposta per curare la comunicazione online, mentre Matteo Renzi manda in rete un sito per permettere agli utenti di personalizzare il suo manifesto, mentre un intero partito e terza forza del Parlamento ruota intorno al blog del suo capo, Santelli si scatta le foto da sola e, non contenta, si dimentica persino di cancellare dalla pagina Facebook quelle venute male.
Chi avesse tempo da perdere si divertirà a notare come le foto siano spesso state scattate a gruppi di 4 e 5, con pose quasi sempre identiche (Jole Santelli preferisce il suo profilo destro) e con appena qualche dettaglio che cambia: il quadro sullo sfondo, il muro troppo bianco, i capelli dietro il collo o appoggiati sulle spalle.
Un vero e proprio campionario del luogo comune dell’autoscatto.
Un esempio da citare tutte quelle volte in cui un politico parla di internet, connessioni e digitalizzazione del Paese.
Poche ore dopo la pubblicazione di questo post, l’onorevole Santelli ha iniziato a popolare la propria pagina di articoli e testi.
Mauro Munafò
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Novembre 11th, 2013 Riccardo Fucile
IL PARTITO VERSO LO “SCISMA SILENZIOSO”
Nel 2005, era il leader dell’Ulivo, Romano Prodi annunciò in tv che non avrebbe obbedito alle indicazioni elettorali della Cei sulla fecondazione assistita e che, al contrario del cardinale Ruini, sui referendum non si sarebbe astenuto, sarebbe andato a votare, «da cattolico adulto», ovvero uno che ascolta gli insegnamenti della Chiesa ma prima di tutto la sua coscienza.
Ora il Professore annuncia che alle primarie dell’8 dicembre per scegliere il segretario del Pd non andrà a votare: «non per polemica, ma ho deciso di ritirarmi dalla vita politica. Ho fatto un passo indietro, è bene che mi mantenga nella mia coerente posizione».
Due strade opposte, ma tra il voto e il non-voto non c’è distanza.
Più che un atto di distacco, infatti, l’annuncio di Prodi assomiglia a un atto di denuncia verso chi non ha uguale coerenza.
Nelle stesse ore, infatti, i sostenitori di Gianni Cuperlo facevano rimbalzare su twitter la conclusione del discorso del candidato a Milano: «La notte sta per finire e noi siamo l’alba».
E l’ex segretario Pier Luigi Bersani si è presentato in tv da Lucia Annunziata per ribadire che si sente di non aver sbagliato nulla o quasi.
Segno che nel Pd continuano a rimuovere le domande che dovrebbero essere alla base del dibattito congressuale.
Perchè si sono perse le elezioni (altro che “non vinte”)?
Perchè si è permesso a 101 parlamentari, uno su quattro, di eliminare il padre fondatore del partito e di gran lunga il migliore candidato al Quirinale (ormai l’ha riconosciuto perfino la Santanchè…), senza fare il minimo sforzo di individuarli, non con un’azione poliziesca ma con un tentativo di minima chiarezza politica?
E che giudizio si può dare e cosa si deve fare con il governo delle larghe intese che è nato da quell’operazione a volto coperto?
Bersani non ne parla. Ribadisce che i 101 sono frutto di una «immaturità della nostra combriccola»: senza dire, però, che quel Pd lì, quel gruppo parlamentare, era interamente bersanizzato, formato a sua immagine e somiglianza.
Anche il tesseramento gonfiato di questi giorni ha molti colpevoli, i signori delle tessere che agiscono dal nord al sud del Paese, da Torino a Enna, ma un unico responsabile, il capo dell’organizzazione del Pd: in questi anni si sono chiamati Maurizio Migliavacca, Nico Stumpo, Davide Zoggia.
Bersani parla poco di Prodi, preferisce rimpiangere la mancata elezione di Franco Marini al Quirinale (con il voto del Pdl), «sarebbe stato il Pertini cattolico».
Paragone privo di significato: in comune tra i due personaggi c’è la pipa, per il resto Pertini è sempre stato un uomo di minoranza, senza correnti e senza truppe, mai esistiti i pertiniani, e per questo capace di dare dal Quirinale grandi dispiaceri alle segreterie di partito (compresa la sua, il Psi di Craxi), Marini al contrario è sempre stato il capo dell’apparato, sempre in maggioranza, come Bersani e Cuperlo nel Pci-Pds-Ds-Pd, affidabile (dal punto di vista di Bersani) proprio per la sua fedeltà alla logica di auto-conservazione dei partiti.
Bersani ha ripetuto che se ci fosse stato lui a Palazzo Chigi ci sarebbe stato un governo di cambiamento, ma purtroppo in campagna elettorale nel Paese nessuno se n’è accorto, no, Bersani non è Bob Kennedy e neppure Salvador Allende, non c’è un colpo di Stato che ha interrotto il suo disegno, ma soltanto i suoi errori.
In Francia il socialista Lionel Jospin consegnò l’elettorato della gauche a un orrendo ballotaggio tra Chirac e Le Pen, si dimise ed è sparito dalla circolazione, Bersani ha lasciato il Pd stritolato tra l’esigenza di allearsi o con Berlusconi o con Grillo.
Qui l’unico a sparire dalla scena è Prodi che con la sconfitta non c’entra nulla, pazienza.
Non di giorni, ma di anni di menzogne e di tradimenti è fatta la storia del centrosinistra.
L’ultimo no di Prodi, la decisione di non votare alle primarie, che tutti si sono affrettati a «guardare con rispetto», chiude definitivamente questa sfortunata storia del Pd.
E anticipa quella che potrebbe essere la scelta di tanti: uno scisma silenzioso, lo scisma sommerso, come si intitolava un libro del filosofo Pietro Prini, quello tra il popolo e il vertice, il riflusso nel non voto dei tanti delusi da questa classe dirigente.
Sbaglia Matteo Renzi se sottovaluta questo stato d’animo: il suo problema non è convincere Prodi a superare l’amarezza, ma i tanti altri che non si ritrovano in questa campagna congressuale, compresa la sua.
C’è un salto enorme tra il Renzi dirompente e all’attacco visto l’altra sera da Santoro e alcuni renzini locali, in difficoltà quando devono spiegare chi sono e cosa vogliono, quando c’è da fare politica e non auto-intrattenimento.
Eppure il rischio è mortale, perchè senza il coinvolgimento di quella massa critica, il popolo delle primarie, finiranno per vincere i protagonisti del disastroso ventennio appena passato, gli stessi che hanno condotto il centrosinistra nella notte più buia, nascosti alle spalle dei loro ex colonnelli o eredi.
Una vittoria sulle macerie: scarsa partecipazione alle primarie, un nuovo segretario già logorato in partenza, un partito diviso tra i micronotabili locali di cui parla Mauro Calise in “Fuorigioco”. Vedi la sezione di Pietraperzia in provincia di Enna, dove domina l’ex ds Mirellino Crisafulli: 151 votanti, 149 voti per Cuperlo.
Chi invece ha interesse a chiudere quella pagina, si chiami Renzi o Civati, ha il dovere di combattere nelle prossime settimane.
E forse allora si capirà il significato del gesto di Prodi.
Marco Damilano
(da “l’Espresso“)
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Novembre 11th, 2013 Riccardo Fucile
INTERVISTA AD ANDREA ZAPPACOSTA …. PREVISTI 150 I FALCHETTI CON LA PITONESSA
Quando Berlusconi arrivò a palazzo Chigi lei aveva 4 anni.
Perchè oggi scegliere un leader 77enne e non Grillo o Renzi?
«Perchè Berlusconi ha sempre mantenuto tutte le sue promesse, i suoi governi hanno ottenuto record senza precedenti».
Tra i giovani il Cavaliere è più famoso per il bunga-bunga che per la rivoluzione liberale: i suoi amici non la prendono in giro?
«So di essere controcorrente. Passo la vita a difendere Berlusconi, litigo tutti i giorni a causa sua. Ho rotto anche con alcuni miei amici. I miei coetanei oggi per lo più sono per Grillo o si permettono di giudicare tramite slogan».
E quando si voterà la decadenza voi che farete?
«Il Pdl non può certo rimanere in maggioranza. Spero davvero che il partito si spacchi sulla decadenza. Molto meglio un partito di gente che mostra fedeltà al proprio leader che questo Pdl diventato un covo di traditori».
Alfano non la pensa così. Dice che bisogna separare il piano del governo dai guai giudiziari del Cavaliere…
«Il tradimento commesso da Alfano il 2 ottobre è stato molto peggio di quello di Fini. Almeno Fini attaccò Berlusconi all’apice del potere, quando aveva una larga maggioranza e sedeva a palazzo Chigi, mentre Alfano è più subdolo e infingardo. Solo un Giuda può tradire quando il nostro leader è più in difficoltà , ora che ha perso 6 milioni di voti e tutti i processi stanno arrivando a conclusione».
Berlusconi l’ha mai conosciuto?
«Purtroppo non ho ancora avuto l’onore, spero che venga domani al nostro evento per dirgli di persona che lo sto difendendo con le unghie. Il mio sogno è stringergli la mano: vorrei farlo prima che sia fatto fuori».
Francesco Bei
(da “La Repubblica”)
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Novembre 11th, 2013 Riccardo Fucile
LA TENTAZIONE DI BERLUSCONI DI ANDARE ALL’OPPOSIZIONE
Sulle prime non voleva affatto replicare alle affermazioni di Angelino Alfano. Ma alla fine ha ceduto alle insistenze di Denis Verdini e Raffaele Fitto, che gli hanno messo sotto gli occhi un passaggio dell’intervista fatta dal vicepremier a «SkyTg24», nel quale sosteneva che Silvio Berlusconi «avrebbe potuto fare campagna elettorale ma non guidare il governo».
Tutt’al più, faceva notare Alfano, «speriamo possa essere al prossimo giro il nostro candidato».
Parole che hanno scosso il Cavaliere perchè vi ha visto confermato il sospetto che da tempo lo assilla e cioè che, nonostante le professioni di lealtà nei suoi confronti, Angelino e gli altri ministri sono parte di un piano che vuole estrometterlo dalla vita politica.
«Come si fa a dire che potrei candidarmi soltanto al prossimo giro?», è la domanda che si è posto e ha girato agli interlocutori, i quali hanno così avuto buon gioco a suggerirgli di non lasciare passare questa «provocazione», questa assoluta mancanza di rispetto verso una personalità politica alla quale devono tutto.
Del resto, la rottura prima che politica è stata di natura personale, tra il vicepremier e Berlusconi.
Tra i due, nei giorni scorsi, c’è stata una burrascosa telefonata interrottasi poi bruscamente.
Ad Alfano erano giunte voci che un giornalista di «Panorama» stesse lavorando a un lungo servizio su di lui, facendo domande sul suo conto, come se stesse preparando una sorta di dossier.
E di questo il vicepremier ha chiesto conto a Berlusconi.
«Non ne so nulla», è stata la sua risposta. Ma non ha convinto affatto il vicepremier che ha buttato giù la cornetta sibilando: «Sappia che non mi farò accoppare dai suoi killer».
Da quel momento è cominciato a circolare tra i governativi il timore che su loro conto ci si accingesse a usare il «metodo Boffo», ipotesi questa denunciata pubblicamente dallo stesso Alfano in un colloquio con «SkyTg24».
In ogni caso, era da giorni che il gruppo di lealisti che non molla mai il Cavaliere, sia quando risiede a Roma sia quando ritorna ad Arcore, premeva su di lui affinchè dicesse una parola definitiva mettendo con le spalle al muro (come rimarca un falco) il gruppo dei governativi in modo che tutto fosse chiaro, che fossero svelati i giochi prima della riunione del Consiglio nazionale fissato per sabato prossimo.
L’intervista di Berlusconi, alla quale gli alfaniani risponderanno oggi, è un ultimatum alla componente che raggruppa una ventina di deputati e oltre una trentina di senatori (tra i governativi circola la voce che se dovesse nascere un gruppo autonomo, a testimonianza della vicinanza al leader, lo chiamerebbero Berlusconi presidente).
A Palazzo Chigi, però, non sembrano preoccupati per le sorti del governo perchè, trapela, si confida sulla tenuta di Alfano.
La rottura, infatti, è avvenuta sulla scelta di sostenere l’esecutivo nonostante la decadenza del Cavaliere da senatore.
La scelta dell’ex premier, quindi, fa pensare che la nuova Forza Italia con tutta probabilità deciderà di passare all’opposizione.
Alcuni ipotizzano anche che le due formazioni, separate in questa fase, possano tornare a ad allearsi in futuro quando si andrà a votare.
Le ragioni che spingono verso un disimpegno dei lealisti sono molteplici.
Innanzitutto la scelta di un alleato come il Pd di votare per la decadenza di Berlusconi poi le decisioni sulle misure economiche per fronteggiare la crisi e dare un po’ di ossigeno alla propria base elettorale.
L’esecutivo Letta, dicono, benchè fortissimamente voluto dallo stesso Cavaliere, non dà le risposte ai problemi che si attendevano.
Al contrario. La legge di Stabilità , per esempio, rischia di penalizzare pesantemente i gruppi sociali che noi rappresentiamo, esponendo il partito alle critiche di quanti affermano che le tasse cancellate da un lato rientrano da un altro, come dimostrerebbe tutta la vicenda dell’Imu, cancellata, è vero, per il 2013 ma che tornerebbe con un diverso nome (Tasi) dal 2014.
A tutto ciò si aggiunge il fatto che la spallata al governo non è possibile perchè, in particolar modo al Senato, non ci sono i numeri come ha dimostrato il voto di fiducia del 2 ottobre.
Il Cavaliere ne è ben conscio ecco perchè l’ipotesi di andare all’opposizione è quella che in queste ore convulse sta prendendo piede.
Lorenzo Fuccaro
(da “il “Corriere della Sera“)
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Novembre 11th, 2013 Riccardo Fucile
IL J’ACCUSE DI ANGELINO AL CAVALIERE NELLA TELEFONATA PRIMA DELLA SCISSIONE
La rottura – umana prima ancora che politica – si è consumata venerdì.
Quando Angelino Alfano ha saputo da un amico fidato che un giornalista di una testata berlusconiana era a caccia di indizi sulla sua vita privata.
A quel punto tutto è crollato, anche le residue speranze di un accordo in extremis per evitare una conta lacerante.
E non è un caso allora che il ministro dell’Interno, parlando ieri da Maria Latella su Skytg24, si sia lasciato andare a una profezia raggelante: «Il metodo Boffo è messo in conto, se dissentiremo ne saremo probabilmente vittime, ma non abbiamo paura».
Dopo aver saputo del missile in arrivo, Alfano ha voluto immediatamente chiederne conto a colui che considera il suo padrino politico e che ha cercato finora di tenere distinto dai cosiddetti lealisti.
Fingendo di ignorare chi sia la vera guida dei falchi.
Ma la telefonata, dai toni gelidi, è stata la definitiva presa d’atto della fine di un sodalizio. «Io di questi dossier su di te non so proprio nulla – si è difeso Berlusconi risentito – sei tu piuttosto che devi ancora spiegarmi come farete a restare al governo quando il Pd voterà la mia uscita dal Senato».
Per questo ormai non ha più senso ipotizzare un rinvio del Consiglio nazionale: è lo stesso Berlusconi a volere l’estromissione dei «traditori».
Anche qui la giornata decisiva è stata quella di venerdì quando a palazzo Grazioli, durante un vertice dedicato all’esame della legge di stabilità , Gianni Letta ha avanzato il suo suggerimento «per evitare un bagno di sangue ».
Far saltare l’ordalia del 16 novembre, cercare ancora una soluzione senza spaccare il partito. «Gianni mi dispiace, non se ne fa nulla», ha tagliato corto il Cavaliere, «andiamo avanti come stabilito».
Tanto, a scongiurare una spaccatura in pubblico, sotto i riflettori, c’ha pensato lo stesso Berlusconi.
Memore dell’immagine devastante di Gianfranco Fini alla Direzione nazionale del 2010, quella del «che fai mi cacci?», il Cavaliere ha pensato bene alle contromisure. Dunque sbaglia di grosso chi pensa di trasformare il Cn in una specie di Congresso su documenti contrapposti, con vibranti interventi dei capi corrente.
Il leader, allergico ai dibattiti, ha scelto infatti la formula del monologo.
Lo stesso ordine del giorno, allegato alla lettera di convocazione spedita agli ottocento membri del parlamentino Pdl, non prevede altro che la «relazione del Presidente», il voto per la trasformazione in Forza Italia e le «conclusioni».
Si suppone con standing ovation finale e inno sparato a tutto volume.
«Berlusconi non ha voluto dare la parola a Cicchitto nemmeno all’assemblea dei deputati, figuriamoci se ci lascerà parlare al Consiglio nazionale», riflette sconsolata una colomba. «Ormai — osserva un altro alfaniano — contro di noi è “insultopoli”, che ci andiamo a fare?».
Il Cavaliere, dal palco del palazzo dei Congressi, impavesato con le vecchie bandiere forziste, non lascerà spazio a dubbi, decretando la fine del governo di larghe intese e il passaggio di Forza Italia all’opposizione.
Un attacco giocato in gran parte sulla legge di Stabilità , che i falchi berlusconiani non voteranno.
L’obiettivo è infatti quello di rompere prima del voto sulla decadenza di Berlusconi, fissato alla fine di novembre, e in ogni caso prima che la corte costituzionale metta in mora il Porcellum.
«Non c’è altra strada — osserva il “lealista” Saverio Romano — visto che Berlusconi, se non riprende subito in mano la situazione al Consiglio nazionale, rischia di decadere come leader di partito. E, se vota questa legge di Stabilità , decade anche dal suo elettorato, che la vede come fumo negli occhi».
Quanto alla legge elettorale, per Berlusconi a questo punto diventa vitale mantenere il Porcellum in vita e contrastare il disegno degli alfaniani — Quagliariello in testa — per arrivare a fissare una soglia per il premio di maggioranza.
In questo modo il Porcellum si trasformerebbe in un proporzionale con minime correzioni, favorendo il disegno di una riaggregazione al centro.
Uno scenario che anche Renzi e Grillo, ne è convinto il leader di Forza Italia, non hanno alcun interesse a favorire.
«Berlusconi e Renzi — conferma Romano — divergono su tutto, tranne che su una cosa: la difesa di uno schema bipolare ».
Francesco Bei
(da “La Repubblica“)
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