Agosto 1st, 2014 Riccardo Fucile
“VIA VENDOLA E DENTRO ALFANO, VERDINI E CICCHITTO? NO GRAZIE”
«Sono andato al Senato per vedere quale clima ci fosse, dal momento che siamo un po’ fuori dalle
orbite…».
A Pippo Civati, leader della minoranza dem, non piace l’«enfasi » che il governo mette nella riforma costituzionale.
Ma ancora meno gli piace la rottura tra il Pd e Vendola: «Mi auguro sia una boutade estiva, se no nel Pd ci starei davvero male»
Civati, il muro contro muro non ha tregua
«Stiamo parlando della riforma della Costituzione. Capisco che il governo l’abbia voluta iscrivere nella propria azione, ma è materia parlamentare. Il Parlamento può anche essere una cosa farraginosa, ma è la democrazia»
A rendere incandescente il clima non è l’ostruzionismo delle opposizioni?
«Se semini vento, raccogli tempesta. Se attacchi selvaggiamente i gufi, i professoroni, i parlamentari… I dissidenti del Pd hanno presentato 60 emendamenti, che servono a discutere. Ma per Renzi le critiche sono solo pregiudiziali».
E i senatori tengono alla poltrona.
«Tengono alla poltrona quelli che sono sempre d’accordo, perchè chi dissente e si oppone la rischia».
D’accordo sulle modifiche annunciate da Renzi all’Italicum?
«La soglia del 4% e del 40% per il premio di maggioranza è un mio cavallo di battaglia. Alle preferenze preferisco i collegi ma rispetto alle liste bloccate è un modo per aprire. Diciamo che Renzi si “gufizza” perchè dice le cose che dicevamo noi».
Nel muro contro muro rischia di naufragare per sempre il centrosinistra, di finire l’alleanza con Vendola?
«Questo è il tema politico vero. Se è una boutade estiva, se gli avvertimenti di Renzi sono una tattica determinata dal momento, è una cosa. Ma se il Pd pensasse a una scelta strategica in cui via Vendola e dentro Alfano, Verdini, Cicchitto, beh io vado in difficoltà ».
Lei uscirebbe dal partito?
«Sarei davvero in molta difficoltà , ma come tutti gli elettori del centrosinistra. Vendola sta facendo la sua parte. Cambiare la Costituzione ad agosto con scadenze che ogni giorno cambiano, l’8, il 10, il 12, sembra dare i numeri del lotto. Dobbiamo rimanere mille giorni? In mille giorni il Senato lo facciamo meglio che in una settimana».
di G. C.
(da “La Repubblica”)
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Agosto 1st, 2014 Riccardo Fucile
RICOMINCIATI I LAVORI DEL SENATO NORDKOREANO… LE OPPOSIZIONI ABBANDONANO L’AULA, PIER CHUNG STILA SUBITO LA LISTA DI PROSCRIZIONE
Sono ripresi i lavori dell’Assemblea del Senato sul ddl riforme.
Il presidente Pietro Grasso, introducendo la seduta, ha rivolto il suo saluto alla senatrice Laura Bianconi, rimasta lievemente ferita ieri sera durante i tumulti verificatisi in Aula. “Volevo salutare la senatrice Bianconi, siamo felici che il suo infortunio sia meno grave del previsto”.
Grasso ha poi definito non le sue, ma quelle degli oppositori alla legge truffa. “condotte del tutto inaccettabili” che vanno “contro il decoro, minano la dignità ” e sono “lesive” del Senato koreano.
Il consiglio di presidenza ha “stigmatizzato e censurato” il comportamento di diversi senatori della
Lega, a partire dal capogruppo, Gian Marco Centinaio. “Simili comportamenti – ha aggiunto Grasso – non saranno più consentiti”.
E annuncia un’istruttoria sui fatti di ieri.
I senatori questori individueranno le responsabilità dei singoli e irrogheranno “le più gravi sanzioni” previste dall’articolo 67 del regolamento (la fucilazione?)
Grasso annuncia la linea dura del regime di Kim Matteo-Un contro chi contesterà il suo operato: “Ho tollerato fin troppo. Non accetto più allusioni alla conduzione della presidenza, da parte di chiunque”.
E ha aggiunto: “Al primo accenno, farò un richiamo all’ordine, cui ne seguiranno altri, dopo di che ci sarà l’espulsione dall’aula”.
Non ha precisato se si procederà in seguito all’eliminazione fisica del disturbatore.
Arriva subito la protesta dei “terroristi” del M5s : “Di fronte a questa conduzione dei lavori non parteciperemo più a nessuna votazione e ai lavori dell’Aula” ha annunciato il capogruppo 5 Stelle, Vito Petrocelli, indossando subito dopo sulla bocca un bavaglio tricolore. 
I senatori pentastellati stanno protestando silenziosamente in Aula estraendo la scheda al momento del voto “per rimarcare la mancata corretta applicazione del regolamento da parte del Presidente Grasso sull’emendamento per la riduzione dei parlamentari”.
I “banditi” di Lega e Sel hanno deciso di abbandonare i lavori.
“Il presidente del Senato Grasso mi ha tolto la parola come relatrice di minoranza sulla riforma. E’ un fatto gravissimo e inaccettabile”, ha denunciato la capogruppo di Sel, Loredana De Petris, annunciando che “se Grasso non ripristina un clima di confronto democratico, Sel lascerà subito i lavori dell’Aula”.
Anche Forza Italia ha espresso dubbi sull’opportunità di proseguire i lavori senza queste tre forze.
Il noto eversore Augusto Minzolini, senatore FI, sottolinea: “quanto sta avvenendo è una parodia”.
Manca la colonna sonora di una marcia militare e il quadro sarebbe completo.
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Agosto 1st, 2014 Riccardo Fucile
RENZI COME NEGLI ANNI BUI DEL POLITBURO MOSCOVITA: MA I GERARCHI FECERO UNA BRUTTA FINE
I problemi si moltiplicano. In America direbbero che Matteo Renzi ha perso il suo “momentum”, cioè
quella breve fase in cui tutto sembra andare bene.
In autunno ci sarà da scrivere una difficile legge di Stabilità .
“La situazione dell’economia è meno favorevole, serve uno sforzo per sostenere la crescita in un contesto di consolidamento delle finanze”, dice il ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan.
Ma quel “consolidamento dei conti”, cioè tenere sotto controllo deficit e debito, dipende molto da dove si faranno i tagli.
Peccato che Renzi non abbia mai riconosciuto il ruolo del commissario per la revisione della spesa, Carlo Cottarelli, sempre più frustrato dalla mancanza di copertura politica.
Dal suo blog Cottarelli ha avvertito governo e Parlamento: vi siete già spesi 1,6 miliardi di tagli ancora da approvare.
E ieri Renzi gli ha chiarito chi comanda: “La spending review la facciamo anche se va via, dicendo con chiarezza che i numeri sono quelli”.
Mentre la gestione di palazzo Chigi è sempre più faticosa — mancano ancora le nomine dello staff, i rapporti con il sottosegretario Graziano Delrio sono meno fluidi di un tempo — Renzi cerca di imporre Federica Mogherini come ministro degli Esteri dell’Unione europea.
Le resistenze sono forti, il rischio figuraccia altissimo.
In volata, Diego Della Valle batte il gruppo di imprenditori (non gregari) che lo sostiene in questa collisione con il governo di Matteo Renzi. Perchè più fumantino e più loquace.
Ma il gruppo che pedala dietro, senza rischiare esposizioni, è sempre più variegato e sempre più compatto.
Il socio (e amico) Luca Cordero di Montezemolo è d’accordo con la strategia di mister Tod’s, che vuole smuovere l’ex pupillo di Firenze, giudicato trasformato dall’incarico di palazzo Chigi e, soprattutto, passato da rottamatore a riesumatore di Silvio Berlusconi e di una antica maniera di fare politica industriale che ha deluso la coppia Lcdm&Ddv.
Accanto ai fondatori della compagnia ferroviaria Ntv, quella dei treni Italo, si muove l’usurata comitiva di Alitalia, i patrioti che hanno riaffossato l’ex compagnia di bandiera: la famiglia Benetton, Roberto Colaninno, le banche Unicredit e Intesa San Paolo.
Il timore è che il renzismo possa macchiarsi di una mutilazione nel settore trasporti: Italo ha oltre 6 milioni di passeggeri ma sconta 77 milioni di perdite nell’ultimo esercizio e così tanti debiti che ora è costretto a rinegoziarli con le banche; Alitalia non è ancora riuscita a ratificare l’accordo con gli arabi di Etihad, sempre più sofferto. Quando l’allora sindaco di Firenze ancora non aveva formato il governo, Montezemolo gli organizzò un incontro romano con lo sceicco Khaldoon al Mubarak che gestisce un fondo gonfio di petrodollari degli Emirati e accelerò la trattativa per Alitalia-Etihad.
Ancora tre mesi fa, il presidente della Ferrari rinnovò quell’intesa, che include anche investimenti per l’aeroporto di Fiumicino (gestito da Atlantia, dunque dai Benetton). La via araba fu intrapresa da Enrico Letta, poi Renzi non l’ha smantellata, però, fanno notare gli imprenditori italiani, il governo non è mai riuscito a far sedere di fronte i vecchi e i (promessi) nuovi azionisti di Alitalia, tutti insieme per un negoziato aperto. Così si innescano gli ultimatum epistolari a ripetizione di questi giorni, dovuti soprattutto all’incertezza sulle condizioni della vecchia Alitalia.
Ma di una certa mancanza di regia complessiva si lamentano gli azionisti più interessati, come i Benetton, Colaninno, Intesa San Paolo e Unicredit.
Il mondo montezemoliano vede un nesso tra la vicenda Alitalia e i destini incerti di Ntv.
Rotaie e rotte aeree sono legate: il fallimento del piano Fenice e dell’Alitalia di marca berlusconiana è dovuto all’avanzata del Freccia Rossa che ha azzerato il valore del monopolio concesso al vettore aereo sulla tratta Roma-Milano.
Ma il governo Renzi sembra poco interessato ai binari: il premier ha spostato Mauro Moretti a Finmeccanica e ha poi avallato la totale continuità nelle Ferrovie, con la promozione del delfino Michele Elia.
Nessun equilibrio cambia, anche gli sprechi, a cominciare dalla bizzarra scelta di trasferire la sede da Roma a Torino (contento è solo il sindaco renziano Piero Fassino): tre componenti, incluso il presidente, quattro consulenti, un contributo di quattro milioni di euro pubblici.
Questo gruppo capitanato da Della Valle, che rimanda a settembre gli estremi giudizi su Renzi, impantanato in riforme costituzionali che non interessano, a suo dire, agli italiani, forma un circolo parallelo a una Confindustria tramortita dall’assenza di dialogo con la politica ridotta all’irrilevanza.
Il Sole 24 Ore, quotidiano di Confindustria, a volte punzecchia palazzo Chigi, manifesta scetticismo. Ma il presidente Giorgio Squinzi è diventato silenzioso.
La sua vocale opposizione al renzismo si è evoluta in muto distacco.
Ma la sua opinione del premier non è certo migliorata, e i giudizi critici sono condivisi dal concorrente Carlo Sangalli, gran capo di Confcommercio (che non ha gradito la crociata renziana contro le Camere di Commercio, in gran parte presiedute proprio da commercianti).
L’elenco dei nemici di Renzi si allunga, nessuno di questi da solo è in grado di preoccuparlo, ma come fronte compatto possono creargli parecchi problemi. L’amministratore delegato di Grandi Stazioni (in via di privatizzazione) rispecchia i rapporti di forza dell’era Moretti: è Paolo Gallo, già ad della romana Acea, che gode della stima di Franco Caltagirone, azionista di Grandi Stazioni.
Le speranze di un nuovo corso renziano per i soci di Ntv sono poi state distrutte da un provvedimento del ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi: una riduzione dei sussidi all’energia al settore ferroviario che doveva colpire le Fs, ma che per le contorsioni della burocrazia è una mazzata da 20 milioni di euro per i privati, cioè Ntv.
L’Autorità dei Trasporti, concepita da Letta, anche nell’era del renzismo è rimasta molto prudente: giusto qualche richiamo alle Ferrovie di Stato e poco altro.
Della Valle e compagni la vedono soltanto come una fonte una azienda decotta, ma gli arabi vogliono essere sicuri che i loro compagni nella nuova Alitalia non falliscano da un giorno all’altro.
Renzi si è limitato a fare da sponda a Francesco Caio, l’amministratore delegato delle Poste, che si rifiuta di buttare soldi pubblici nella bad company, dopo che sono svaniti.
Stefano Feltri e Carlo Tecce
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Agosto 1st, 2014 Riccardo Fucile
LE CAMERE SONO DA TEMPO SOLO IL LUOGO DI RATIFICA DELLE SCELTE DEL GOVERNO, CHE PRODUCE L’80% DELLE LEGGI… IN QUESTA LEGISLATURA 44 DECRETI E 24 FIDUCIE… MA IL COLLE ORA STA ZITTO
Matteo Renzi dice che il declassamento del Senato va approvato subito, di corsa, perchè la modifica del bicameralismo consente al governo di poter seguire con maggiore agilità la mutevole realtà del mondo e aggredire le roccaforti della conservazione.
Opinione legittima, diciamo, ma falsa: lo dicono i numeri.
Il governo, il potere esecutivo, ha già da anni sottomesso quello legislativo (il Parlamento) ai suoi voleri.
Tradotto: fa come gli pare.
I motivi sono molti: le leggi di spesa proposte dalle Camere vengono sempre bocciate dalla tenaglia Tesoro-Ragioneria generale; il Porcellum ha sottomesso gli eletti ai vertici dei partiti, che spesso stanno a palazzo Chigi; la crisi come metodo di governo ha comportato un aumento spropositato del ricorso ai decreti (che vanno approvati entro 60 giorni) e alle questioni di fiducia.
Una novità , però, c’è: da Monti in poi i vertici delle istituzioni, Quirinale in testa, si segnalano per il loro silenzio.
I moniti di Giorgio Napolitano contro la decretazione d’urgenza e l’umiliazione del Parlamento furono continui nei primi anni della sua presidenza, ora il capo dello Stato fischietta e guarda dall’altra parte.
“Troppi decreti e poche leggi”, scandì contro Romano Prodi nel 2007: “Va garantita la funzionalità del Parlamento” (Tommaso Padoa Schioppa si lamentò dell’atteggiamento, per così dire, ostruzionistico di Napolitano nei suoi diari).
Nel 2009 convocò addirittura i presidenti di Camera e Senato — Fini e Schifani — per risolvere il problema: “Bisogna assolutamente fare qualcosa per riequilibrare il rapporto tra legislazione ordinaria e decretazione”.
Non solo: “Basta coi decreti omnibus”, mise a verbale in un’altra occasione.
Ora i decreti sono di più e hanno raggiunto dimensioni da cargo, ma pare non sia un problema.
Anzi, nel 2011 Napolitano è passato a lamentarsi del Parlamento: “Troppi emendamenti eterogenei nei decreti”.
D’altronde, è fatto noto, nella vita si cambia continuamente.
Il governo attuale è perfettamente in linea con questa sottomissione del Parlamento, anzi ne è la punta avanzata.
Silvio Berlusconi, per dire, tra l’aprile 2008 e il novembre 2011 produsse 80 decreti, vale a dire 2 al mese; Mario Monti coi suoi 41 incrementò la media a 2,4; Enrico Letta in dieci mesi ne ha prodotti la bellezza di 25 (2,5 al mese); Matteo Renzi, infine, con 16 decreti da fine febbraio vince la gara: oltre 3 al mese.
Pure sulle questioni di fiducia — che strozzano il dibattito costringendo il Parlamento a votare i provvedimenti in blocco — non c’è gara: in questa legislatura, cioè dal marzo del 2013, i tre governi che si sono succeduti (Monti in proroga, Letta e l’attuale) hanno prodotto 44 decreti, quasi 2,7 al mese, e chiesto e ottenuto 24 fiducie su altrettante norme di legge.
Ebbene 14 di queste — compresa l’ultima, votata ieri notte dalla Camera — sono state concesse all’esecutivo attuale.
È il governo ormai la camera di compensazione dei desiderata dei partiti, è sempre il governo che dopo aver prodotto decreti li modifica durante la discussione in commissione, lo spazio di intervento degli eletti del popolo è strettissimo se non nullo.
Il decreto Competitività – su cui a breve sarà posta la fiducia, come già s’era fatto in Senato — sta per essere modificato dall’esecutivo in una ventina articoli: di fronte a un governo forte, il potere di controllo del Parlamento è già una barzelletta e con le riforme di Renzi la situazione, se possibile, peggiorerà .
È questo il senso del ddl Boschi: i ritardi delle Camere sono solo una scusa.
Basta, per convincersene, analizzare l’ultimo resoconto del Comitato per la legislazione della Camera aggiornato al 31 maggio: su 55 leggi approvate definitivamente in questa legislatura — al ritmo di quasi 4 al mese — 45 sono di iniziativa legislativa, vale a dire oltre l’80%.
Se guardiamo invece all’intera produzione di fonti primarie il conto peggiora ulteriormente a favore del governo: 150 atti normativi (10,34 al mese) che tra decreti legge, decreti legislativi e “regolamenti di delegificazione” sono quasi tutti usciti da palazzo Chigi.
Il Senato non elettivo, alla fine, è solo il cadavere di un delitto già perpetrato.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Agosto 1st, 2014 Riccardo Fucile
C’È IL VETO SUL PROF AL COLLE…. MA RENZI DICE: “È UN ATTO PARLAMENTARE, PIACCIA O NO”
Il Senato che muore già è infestato dai fantasmi. 
Due spettri in carne e ossa, tetro ossimoro del renzusconismo segreto, che c’è ma non si vede, che si aggirano a Palazzo Madama quando il voto segreto affossa solo per un istante il fatidico patto Bierre del Nazareno.
Da un lato ritornano dall’oltretomba bersaniano (in senso politico, ovviamente) i Centouno che tradirono Romano Prodi per la successione di Giorgio Napolitano.
Dall’altro c’è lo stesso Renzi che più va giù e più sventola e agita il patto, come ha fatto ieri nella direzione del Pdr, il Partito democratico renziano, sfidando il ridicolo e l’evidenza: “Quando leggo: che cosa c’è scritto nel patto del Nazareno? È un atto parlamentare, può piacere o no ma è un atto parlamentare.Quando vedo anche alcuni nostri dirigenti che dicono: chissà cosa c’è sotto? Questo è il governo che ha declassificato il segreto di Stato, figuriamoci… Quello che mi preoccupa è la forma mentis, questa idea che i politici mascherino sempre le cose. Evitiamo di giocare alla meno”.
Chiosa un notissimo esponente berlusconiano: “Più Renzi perde pezzi e più il patto con Berlusconi si rinforza”.
Che tradotto vuol dire: resteranno loro due contro tutti. Nuovo vertice Renzusconi Nella tela segreta del Nazareno, il premier sta ricamando la nuova versione della legge elettorale come via d’uscita, spera lui, dall’infernale pantano del Senato.
L’accordo prevede il Toscanum, non più l’Italicum, l’introduzione delle preferenze e la nuova intesa dovrebbe essere siglata la prossima settimana, forse martedì, tra i due contraenti.
A quattr’occhi, però, “Matteo” e “Silvio” rinnoveranno pure un’altra clausola del loro patto segreto, che comprende, sulla carta, riforme, legge elettorale e giustizia.
È il comma anti-Prodi, come viene chiamato nella ristretta cerchia che custodisce il sacro testo (oltre B. e Renzi: Verdini, Gianni Letta e il sottosegretario Luca Lotti).
Il protocollo del Presidente
Il patto del Nazareno contiene infatti anche un protocollo tra il premier e il Condannato sulla “condivisione” del nome del prossimo presidente della Repubblica.
Fantasma dei Centouno a parte, il tema della successione a Napolitano sta tornando sempre più attuale e tutto fa pensare che il 2015, al massimo a luglio, sarà l’anno che chiuderà il regno novennale del primo ex comunista salito al Quirinale.
Così chi conosce tutti i dettagli e le clausole del patto segreto rivela che l’ex Cavaliere ha chiesto e ottenuto una precisa garanzia da Renzi: “In nessun caso, durante le trattative, dovrà essere fatto il nome di Romano Prodi”.
Il Fatto ha interpellato alcuni parlamentari forzisti per chiedere una conferma ufficiale della pregiudiziale anti-Prodi ma tutti, pur confermando, non hanno voluto rilasciare dichiarazioni in questa fase.
Dicono a taccuino chiuso: “È certo che i due si sono accordati per un nome condiviso e questo nome non potrà mai essere Prodi”.
L’antiprodismo di B. è storico: il Professore è il suo vero incubo, come dimostra la storia dell’aprile del 2013: “Meglio D’Alema di lui”, disse.
Senza dimenticare che un’opzione renziana per Prodi significherebbe un’apertura ai grillini. Tutti i punti del “papello”
Senato non elettivo, abolizione del bicameralismo, riforma della giustizia, accordo sul Quirinale in funzione anti-prodiana, salvaguardia del colossale conflitto d’interessi di Berlusconi.
Il patto del Nazareno è questo e il dibattito di questi convulsi giorni a Palazzo Madama ha una fine nota e segnata, a favore dell’accordo tra B. e Renzi.
Come ha detto il leghista Centinaio, accusando Grasso: “Abbiamo eletto lei presidente del Senato e non Zanda o Verdini e dovrebbe condurre i lavori indipendentemente da quello che le dicono i partiti del patto del Nazareno”.
Fabrizio d’Esposito
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Agosto 1st, 2014 Riccardo Fucile
E’ NORMALE CHE UN QUARANTENNE CHE NON HA MAI TORTO UN CAPELLO A NESSUNO MARCISCA IN PRIGIONE PER SCONTARE 13 ANNI E 8 MESI COL DIVIETO DI CURARSI E RIEDUCARSI?
Ora che le telefonate di un premier alla Questura di Milano per far rilasciare una minorenne fermata per furto non sono più reato, una domanda sorge spontanea: che ci fa Fabrizio Corona nel carcere milanese di massima sicurezza di Opera per scontarvi un cumulo di condanne a 13 anni e 8 mesi, poi ridotte con la continuazione a 9 anni? È normale che un quarantenne che non ha mai torto un capello a nessuno marcisca in prigione accanto ai boss mafiosi al 41bis, per giunta col divieto di curarsi e rieducarsi, fino al 50° compleanno?
Lo domandiamo al capo dello Stato, così sensibile alle sorti di pregiudicati potenti come il colonnello americano Joseph Romano, condannato a 7 anni per un reato molto più grave di tutti quelli commessi da Corona: il sequestro di Abu Omar, deportato dalla base Nato di Aviano a quella di Ramstein e di lì tradotto al Cairo per essere a lungo torturato.
Latitante negli Usa, senz’aver mai scontato nè rischiato un minuto di galera, Romano fu graziato nel 2013 su richiesta di Obama da Napolitano in barba alle regole dettate dalla Consulta nel 2006.
Queste: la grazia dev’essere un atto “eccezionale” ispirato a una “ratio umanitaria ed equitativa” volta ad “attenuare l’applicazione della legge penale in tutte quelle ipotesi nelle quali essa confligge con il più alto sentimento della giustizia sostanziale”, cioè per “attuare i valori costituzionali… garantendo soprattutto il ‘senso di umanità ‘ cui devono ispirarsi tutte le pene” e “il profilo di ‘rieducazione’ proprio della pena”. Parole che paiono cucite addosso a Corona.
Il suo spropositato cumulo di pene è frutto di una serie di condanne: bancarotta (una fattura falsa, 3 anni 8 mesi), possesso di 1500 euro di banconote false (1 anno 6 mesi), corruzione di un agente penitenziario per farsi qualche selfie in cella (1 anno 2 mesi), tentata estorsione “fotografica” al calciatore interista Adriano (1 anno 5 mesi), estorsione “fotografica” allo juventino Trezeguet (5 anni), e alcune minori.
Nessuno sostiene, per carità , che sia uno stinco di santo.
Ma neppure un demonio che meriti tutti quegli anni di galera: ne ha già scontati quasi due fra custodia cautelare ed espiazione pena.
Ed è bene che resti al fresco un altro po’ a meditare sui suoi errori, come ha iniziato a fare fondando un giornale per i detenuti, Liberamente, e rivedendo criticamente il suo passato nel libro Mea culpa scritto dietro le sbarre.
E a curare la sua evidente patologia di superomismo: ma questo gli è impedito dalla condanna “ostativa” subìta al processo Trezeguet.
I fatti, peraltro piuttosto diffusi nel mondo dei paparazzi, sono questi: un fotografo della sua agenzia immortala il calciatore in compagnia di una ragazza che non è sua moglie; Corona gli propone di ritirare il servizio dal mercato in cambio di denaro; Trezeguet ci pensa su un paio di giorni, poi sgancia 25mila euro.
Tecnicamente è un’estorsione, poichè i giudici — dopo un proscioglimento del gip annullato in Cassazione — ritengono che fotografare un uomo pubblico per strada integri una violazione della privacy (tesi controversa e ribaltata in altri processi a Corona, tipo nel caso Totti).
Reato per giunta aggravato dalla presenza di un terzo: l’autista.
Così, per un delitto scritto pensando al mafioso che chiede il pizzo scortato dal killer, Corona si becca 3 anni 4 mesi in tribunale, poi divenuti 5 in Appello (niente più attenuanti generiche).
E scatta il reato “ostativo”: niente sconti per la liberazione anticipata (75 giorni a semestre per regolare condotta), niente percorso rieducativo e terapeutico, almeno 5 anni in cella di sicurezza.
Un pesce rosso in uno stagno di squali.
Proprio a questo serve, secondo la Consulta, la grazia: non a ribaltare le sentenze, ma ad “attenuare l’applicazione della legge penale” quando “confligge con il più alto sentimento della giustizia sostanziale… garantendo il senso di umanità ” e il fine “di rieducazione della pena”.
Una grazia almeno parziale, che rimuova il macigno dei 5 anni “ostativi”, sarebbe il minimo di “umanità ” per ridare speranza a un ragazzo che ne ha combinate di tutti i colori, ma senza mai far male a nessuno.
Se non a se stesso.
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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