Agosto 23rd, 2014 Riccardo Fucile
LA CENTRALE DELLA CONTRAFFAZIONE E’ TRA QUATTRO COMUNI NAPOLETANI… DOVE SI PRODUCONO COPIE DI OGNI MARCHIO, SOTTO IL CONTROLLO DELLA CAMORRA
Una volta dentro la pancia del magazzino, l’impressione è di trovarsi in un laboratorio di alta pelletteria. Una succursale di Fendi e Gucci.
Peccato che tutto ciò che produce è falso. A terra c’è ancora qualche avanzo di cuoio marrone con il logo Louis Vuitton. In fondo, incolonnati, ci sono i fusti rossi del colore utilizzato nella lavorazione.
La fabbrica in cui è entrato “l’Espresso” è spaziosa e ha larghe finestre dalle quali filtra abbondante luce.
Per raggiungerla bisogna lasciarsi alle spalle il golfo di Napoli e avvicinarsi al profilo del Vesuvio.
Arrivati a Somma, e risalito un groviglio di vie alle pendici del vulcano, si entra nel polmone della maison della contraffazione, dove le differenze tra autentico e imitazione sono minime, se non nulle.
La sorgente delle borse che gli immigrati offrono sulle spiagge, provocando l’indignazione ferragostana del ministro Angelino Alfano, è in questo fazzoletto di territorio attraversato da un fiume di denaro nero.
Per la camorra è il “quadrilatero d’oro”, e qui sorveglia ogni passaggio dell’affare.
Per indicare questo El Dorado, gli investigatori della Finanza, tracciano sulla cartina quattro linee che uniscono i comuni di San Sebastiano, Terzigno, San Giuseppe e Somma Vesuviana.
Tra vitigni e alberi di mele annurche è cresciuto un Far West di piccole e medie aziende invisibili al fisco. Allestite in garage costruiti nei cortili di grandi case private abitate da coppie di anziani.
Che li affittano agli imprenditori per pochi spiccioli ricavando un gruzzoletto da un immobile che altrimenti rimarrebbe vuoto.
Il clan detta legge e decide il prezzo insieme agli stilisti improvvisati.
In media cinquecento euro per 800 metri quadrati, ma se ne trovano anche per molto meno. Un business che in Italia è stato stimato dal ministero dello Sviluppo economico tra i tre e i sette miliardi di euro, secondo solo al traffico di droga.
E di cui i “vu cumprà ” — come li ha definiti Alfano — raccolgono solo le briciole.
«Le nostre indagini hanno mostrato che il ritorno economico per un’organizzazione può arrivare fino al 400-500 per cento dell’investimento iniziale», spiega il colonnello Nicola Altiero che per tre anni ha guidato il Nucleo di polizia tributaria di Napoli.
Il network è fatto di imprese che seminano quattrini per triplicare i profitti: per la filiale abusiva di Fendi e Gucci il titolare ha investito un milione di euro solo in macchinari.
Li ha ripagati in soli 120 giorni, guadagnando 240 mila euro al mese.
Dall’importazione al commercio, passando dalla produzione allo smaltimento dei rifiuti, non esistono fatture o scontrini. La filiera è controllata da cartelli criminali a partecipazione mista. Ognuno con un ruolo ben definito.
ACCORDI GLOBALI
Wang Guan Bin. Nome in codice Marco. È un punto di riferimento per i padrini che si arricchiscono con la moda.
L’ingrosso di abiti made in Cina che gestisce a Casagiove, nel casertano, è solo una copertura. Di mestiere fa il broker, esperto di merce taroccata, per i camorristi.
Con una telefonata è in grado di muovere migliaia di simil Hogan, Nike, Adidas, e piumini Moncler in lungo e in largo per il mondo. È la pedina che serve alle cosche. Queste gli chiedono i modelli, lui ordina ai produttori cinesi e smista i nuovi arrivi.
Gli accordi prevedono una spedizione a settimana.
C’è una telefonata intercettata nell’indagine “Via della seta” condotta dalle Fiamme Gialle, che descrive la dimensione globale del fenomeno: un procacciatore d’affari cinese, Chen, propone a Marco Guan, rappresentante, secondo gli investigatori, del gruppo camorrista Mazzarella, l’invio settimanale di migliaia di scarpe.
Costo 200 mila euro.
Dietro l’operazione intercontinentale c’è la mano dei fratelli Mario e Roberto Murolo: «Imprenditori alle dirette dipendenze del boss Luciano Mazzarella». I due maneggiano una montagna di denaro che reinvestono nel settore. Al resto ci pensa Marco: l’intermediario che suggerisce ai referenti cinesi cosa produrre in base alle mode del momento.
I mercanti delle organizzazioni investono anche in Turchia, da dove arrivano i jeans (Roy Rogers e Jeckerson) e capi d’abbigliamento estivi, e in Bangladesh, specializzati in t-shirt.
Qui molte multinazionali delocalizzano per tagliare i costi. Per questo il sospetto degli inquirenti è che parte del sovrappiù originale possa essere spacciato nei circuiti paralleli: sono falsi sfornati negli stessi stabilimenti che confezionano i marchi autentici.
LE ROTTE
In Cina c’è parte della produzione, lì si stabiliscono le rotte delle navi cargo che dovranno raggiungere i porti italiani ed europei.
Seguono due direzioni: dal Sudamerica fino in Spagna o Olanda; oppure dalla porta turca verso Grecia, Polonia e Bulgaria.
Destinazione finale è l’Italia.
Fino all’anno scorso i carichi arrivavano negli scali di Napoli, Genova e Gioia Tauro. Ma gli eccessivi controlli li hanno dirottati verso Rotterdam, il Pireo e gli hub spagnoli. Dove la vigilanza è minore.
Superati i confini italiani, la mercanzia viene messa in ordine sugli scaffali di grandi depositi. In Campania, ma non solo.
Molti dei tir che partono da Rotterdam scaricano in Lombardia. Altri nel Lazio: Roma è diventata un crocevia del sistema. Un anno fa, nella periferia della capitale, al di là del raccordo anulare, è stato sequestrato un intero stabile: due commercianti cinesi avevano stoccato 10 mila paia di simil Adidas, Nike e Hogan.
Il via vai di camion e furgoni non aveva insospettito i proprietari delle ville accanto. I grossisti sono finiti nell’inchiesta Alì Babà della procura antimafia di Napoli.
Lavoravano su commissione di gruppi italiani e avevano contatti diretti con i rappresentanti delle fabbriche orientali. I detective hanno inoltre scoperto che spesso gli affiliati campani inviano propri emissari tra Shanghai e Pechino per il controllo qualità . Il viaggio di un container, per aggirare i controlli, non è mai diretto.
Il meccanismo è spiegato da due personaggi, coinvolti nell’operazione “Compagnia delle Indie”, che aspettano ansiosi 6 mila scarpe: spedite dalla Cina in Brasile, poi da lì inviate nel porto franco di Ceuta, in Marocco, dove grazie all’appoggio di un agente delle Dogane, sono state trasferite in Spagna, ad Algeciras.
Da qui, dopo essere state sdoganate, sono partite, passando da Barcellona, alla volta di Genova. Una volta entrate in Italia finivano in capannoni anonimi della Lombardia. Anche il pellame, le tomaie, le suole, i tessuti, seguono gli stessi tragitti. Spesso sono modelli identici a quelli delle grandi maison, ma senza etichetta. In questi casi, gli operai dei laboratori clandestini, disseminati nelle province di Napoli e Caserta, si limitano a cucire le targhette.
PRODUZIONE
L’esperienza dei mastri pellettieri campani è diventata il valore aggiunto della camorra: prima hanno affiancato il falso alle loro creazioni, e dopo qualche tempo hanno scelto di dedicarsi solo al mercato nero.
La crisi e la concorrenza spietata li ha fatti finire sul lastrico. In loro soccorso è andato il clan, che si è messo a disposizione offrendogli la possibilità di entrare nel giro. «È in un simile contesto che matura l’ingresso di piccole imprese artigianali nella filiera del falso», spiega il colonnello Altiero, «una dinamica favorita anche dalla stretta creditizia che queste hanno subito negli ultimi anni, in un territorio in cui i clan hanno invece forti disponibilità finanziarie».
Nel quartiere di Secondigliano “l’Espresso” è entrato in un laboratorio a gestione familiare.
Qui da quindici anni quattro maestri creano splendide borse in pelle. Dietro la porta in ferro battuto le regole si interpretano, si muovono sul filo della legge. «Realizziamo modelli che possono sembrare Chanel o Hermès, ma come può vedere sono senza targhette», spiega uno di loro, che ammette: «Se i nostri committenti, una volta fuori di qui, cuciono etichette di alta moda non è nostra responsabilità , ma loro».
Vendono senza marca e rischiano zero.
A differenza di quanto avveniva a Casoria, zona nord di Napoli, dove in una cantina lugubre, sudicia, con i vetri delle finestre oscurati, lavoravano una decina di persone, tutte italiane.
I rotoli di pelle, ammassati nei cartoni, e le stampe Louis Vuitton sui tavoli lasciano poco spazio alle interpretazioni: è il paradiso del fake.
Migliaia di famiglie vivono grazie all’industria della contraffazione, che fa da welfare per imprese in crisi e disoccupati. Lo stipendio medio si aggira tra i 600 e i 700 euro, ovviamente senza contratto.
«A fronte di una disoccupazione che in via teorica risulta essere elevatissima, nelle aree interessate da questi fenomeni, l’occupazione è fiorente così come il giro d’affari dell’economia sommersa. Pagamento in contanti, low profile e falsa identità , sono le parole d’ordine di chi opera in questo campo», osserva Altiero.
I contanti non mancavano al proprietario dello stabilimento sequestrato a Somma Vesuviana: i cloni perfetti gli facevano incassare 60 mila euro a settimana.
Li otteneva grazie a rulli che riproducevano sul tessuto i disegni di Gucci e Fendi. Marchingegni costruiti da specialisti del settore. Dare un nome a questi insospettabili fornitori è in cima alle priorità di chi indaga. Ma, vista l’assenza di contratti e fatture, è molto difficile risalire la catena fino a loro.
SOLO PER INTENDITORI
A Londra, ai confini della City, su un viale che taglia in due l’Est End, tra musei e teatri liberty, è aperto dal 2006 uno showroom della camorra.
Scarpe e borse italiane a prezzi d’occasione. Nel negozio arrivava parte dei falsi, venduti però come originali.
Stesso trucco utilizzato da negozianti italiani che vendono “roba mista” a Napoli e nel basso Lazio, in Lombardia e in Piemonte, in Liguria, in Calabria e in Toscana.
Sono prestanome dei camorristi o commercianti che arrotondano spacciando per vere Hogan e Nike fasulle.
Su di loro le indagini proseguono. Anche se non sarà semplice individuarli viste le ottime imitazioni che mettono in vetrina.
Intanto i controlli hanno dato i primi frutti: lo scorso novembre la finanza ha sequestrato 16 mila pezzi in un outlet della provincia di Caserta. Calzature, maglie e giubbotti di altissima qualità , con doppie cuciture e tessuti costosi, destinati a una clientela selezionata.
E i blitz si sono ripetuti anche pochi giorni fa, perchè in agosto si preparano le collezioni invernali, copiando quelle disegnate dagli atelier più fashion.
A un target elevato punta anche un altro clan napoletano, quello dei Contini. Noto alle cronache per la recente inchiesta sul riciclaggio nella catena di ristoranti “Pizza Ciro”, frequentati da vip e politici.
Meno noti gli interessi nello spaccio di false Hogan assieme a un imprenditore affiliato ai Mazzarella.
Un aspetto ancora inedito trascritto nei faldoni sulle pizzerie romane che svela una joint venture fatta di negozi compiacenti e incassi giornalieri fino a 3 mila euro.
A Napoli il mercato della Maddalena, in piazza Mancini, è zona franca. Qui le regole le stabiliscono il clan Mazzarella e gli alleati Caldarelli. Il fortino è delimitato da bancarelle che espongono Moncler, Hogan, Nike, Polo, Burberry, K-Way, Ray Ban.
Gli ambulanti sono napoletani e stranieri. Blitz e verbali sono all’ordine del giorno. Eppure la scena si ripete ogni mattina: sistemano il banco e si preparano ad accogliere il fiume di clienti. La settimana si conclude con il versamento della tassa alle cosche.
Ogni postazione paga 150 euro al capo Luciano Mazzarella che, secondo alcuni pentiti, incassa e divide con i Caldarelli dai 7 ai 10 mila euro ogni settimana. Il ricavo per la gestione della piazza è di quasi due milioni di euro l’anno.
TERRA DEI FUOCHI
Gli scarti del “Quadrilatero d’oro” finiscono spesso bruciati nei roghi che hanno avvelenato la Campania.
Il disastro ambientale parte proprio dalla produzione in nero nei settori più diversi. «Lo smaltimento tramite incenerimento è la fase terminale di una catena produttiva di una miriade di aziende del napoletano che, producendo in nero, hanno la necessità di smaltire attraverso un circuito illegale», si legge nell’ultima relazione della commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti. Ipotesi condivisa da chi indaga sul Far West del “Quadrilatero d’oro”: «Conferire i rifiuti, soprattutto quelli speciali, nelle discariche ufficiali equivarrebbe per tali organizzazioni a una vera e propria “auto-denuncia”: meglio sversare in modo occulto o appiccare dei roghi», conclude Altiero.
La scena si ripete alla fine di ogni giornata di lavoro: al tramonto partono le spedizioni di furgoni e camion che abbandonano il mucchio in zone isolate del distretto vesuviano oppure nella zona del casertano.
Il profitto dei clan ha un prezzo: ambiente avvelenato e tumori. Effetti collaterali di un business che attira milioni di clienti nei suk della camorra.
Giovanni Tizian
(da “L’Espresso”)
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Agosto 23rd, 2014 Riccardo Fucile
L’INFANZIA POVERA, IL CALCIO, LA GALERA AMERICANA, LA SPIETATA CONQUISTA DEL POTERE
“Ci vediamo a New York, ragazzi», disse Abu Bakr al-Baghdadi uscendo dal campo di prigionia di Camp Bucca.
A raccontarlo è stato il colonnello americano Kenneth King, allora comandante di quel carcere nel sud dell’Iraq e oggi forse l’unico occidentale che può dire di aver conosciuto il leader del gruppo jihadista Stato Islamico (Is), diventato in pochi mesi l’uomo più pericoloso del mondo.
Ma chi è il nuovo Bin Laden, l’uomo che, dopo aver rottamato i vecchi vertici di al Qaeda, vuole creare uno Stato islamico dalla Siria all’Iraq e da lì lanciare la sfida del jihad globale?
«Baghdadi è molto peggio di Bin Laden, è più malvagio e sanguinario», dice da Washington il professor Paul Sullivan, esperto di Medio Oriente della Georgetown University: «Quanto a ricchezza e profondità strategica, l’Is supera al Qaeda, che non ha mai controllato pozzi di petrolio e gas, dighe, centrali elettriche, fabbriche o banche».
Di Abu Bakr al-Baghdadi sanno poco anche la Cia e le autorità irachene, perchè in questi ultimi anni è stato bravo a mantenere il mistero su di sè.
Il suo vero nome è Ibrahim Awad Ibrahim al-Badri.
Nasce 43 anni fa da una famiglia povera in un villaggio vicino Samarra, a nord di Baghdad. A inizio anni Novanta arriva nella capitale e per dieci anni vive in una stanza adiacente ad una piccola moschea nel quartiere periferico di Tobchi.
Qui il futuro tagliagole rimane nella memoria per una caratteristica.
«Era il nostro Messi, era il migliore», ha raccontato al “Telegraph” un uomo del quartiere, che a quel tempo giocava insieme a lui nella squadra della moschea, con cui andavano anche a nuotare e a fare dei picnic.
Sfidando il clichè, lo ricorda come un uomo gentile e timido, e contraddice la storia secondo cui Baghdadi fosse un imam: in realtà , sostiene, era uno dei ragazzi che dava una mano in moschea quando l’imam era via, guidava la preghiera con la sua bella voce, ma non faceva sermoni.
Era già un conservatore, ma il massimo per cui si fece notare fu, un giorno, protestare alla vista di una festa di matrimonio in cui uomini e donne ballavano insieme.
All’inizio del millennio, preso il dottorato in studi islamici all’università della capitale, Baghdadi si sposa, e ha un bambino.
Nel 2003 inizia l’invasione americana, ma lui continua a vivere come un “family man”.
Che cosa succede a questo punto? Nel caos della guerra, Baghdadi crea l’Esercito dei Sunniti, lo Jjasj, al cui interno si ritaglia il ruolo di capo del comitato per la sharia. Qui si scontrano due ricostruzioni diverse.
Secondo alcuni stringe amicizia con Abu Musab al-Zarqawi, leader di al Qaeda in Iraq, al punto che per Bruce Riedel, ex Cia, Baghdadi lo seguirebbe anche in Afghanistan.
Secondo altri analisti, invece, i due non sarebbero stati molto vicini, e Baghdadi non avrebbe mai messo piede in territorio talebano.
Nel febbraio del 2004, comunque, durante un raid in una casa vicino Falluja, viene arrestato dalle forze americane.
Non sanno chi sia, ma lo rinchiudono nel loro centro di detenzione di Camp Bucca. Ancora due versioni contrastanti.
Alcuni sostengono infatti che venne rilasciato dopo pochi mesi e con lo pseudonimo di Abu Duaa tornò al suo ruolo nello Jjasj, che nel 2006 insieme ad al Qaeda in Iraq si fuse nel più ampio Mujahideen Shura Council.
Altri, invece, ritengono che sarebbe entrato a Camp Bucca nel 2005 e ne sarebbe uscito solo nel 2009.
Comunque sia andata, di certo gli americani non si accorgono che il carcere lo ha reso ancora più radicale.
«Era un criminale di strada», ha spiegato un funzionario del Pentagono al “New York Times”, «serviva la sfera di cristallo per capire che sarebbe diventato il capo dell’Isis».
«Era un brutto tipo, ma non era il peggio del peggio», ha raccontato il colonnello King, ricordando che Baghdadi non era stato nemmeno assegnato al Compound 14, quello riservato ai più estremisti.
È a questo punto che Baghdadi, mentre sta per salire su un cargo C-17 diretto a un carcere più vicino alla capitale, dice: «Ci vediamo a New York, ragazzi».
King lo considerò poco più di uno scherzo, giocato sulla provenienza delle guardie di Camp Bucca. Ma oggi quella frase suona assai macabra.
Tornato in libertà , Baghdadi rientra nei ranghi jihadisti. Al-Zarqawi, il leader di al Qaeda in Iraq, è stato ucciso da un attacco aereo americano nel 2006. Nel 2010 il suo successore, a capo di quello che ora si chiama Isi, Stato islamico dell’Iraq, fa la stessa fine.
È a questo punto che arriva il momento di Baghdadi.
Il 16 maggio 2010 viene eletto a capo dell’Isi.
«È ancora un mistero perchè abbiano scelto proprio lui, ce ne erano molti altri che erano nell’organizzazione da più tempo», ha raccontato Hisham al Hashimi, un esperto di sicurezza iracheno: «Venne eletto in Iraq, nella provincia di Ninive, da un consiglio religioso. Nove su undici votarono per lui».
Il leader tribale iracheno Ahmed al-Dabash, che nel 2003 combattè contro gli Stati Uniti e ora è alleato dell’Is, ricorda: «Conoscevo di persona tutti i leader della rivolta anti-americana. Zarqawi era per me più di un fratello. Ma non avevo mai sentito parlare di Baghdadi. Era un personaggio insignificante allora. Guidava la preghiera in una moschea, e nessuno se ne curava».
Nell’ottobre del 2011, gli attacchi terroristici da lui organizzati in Iraq gli valgono una taglia di 10 milioni di dollari da parte degli Usa, seconda solo a quella del leader di al Qaeda Ayman al-Zawahiri.
Nel 2012 profetizza la nascita dello Stato Islamico nel suo primo audiomessaggio, e soprattutto ha una grande intuizione.
Si introduce come una lama nel caos siriano, nel conflitto che oppone l’esercito del dittatore Bashar al-Assad e un’opposizione troppo variegata, in cui convivono i qaedisti di Jabhat al-Nusra e formazioni moderate che però non ricevono abbastanza sostegno dall’Occidente.
Nel 2013 l’Isi occupa la città settentrionale di Raqqa, che diventa la sua “capitale”, e da lì scende verso Deir el-Zor, dove si impadronisce dei campi di petrolio.
È un’avanzata trionfale, che nel 2013 lo porta a cambiare il nome del gruppo in Isis (o Isil, dove l’ultima lettera sta per Siria o Levante), a segnalare un’ambizione nuova, fare piazza pulita degli Stati creati dagli occidentali con gli accordi di Sykes-Picot nel 1916 e dare origine a uno Stato islamico che vada dalla Siria all’Iraq, riportando in mani sunnite e fondamentaliste due Paesi governati da due sciiti: il dittatore alawita Assad e il premier Nouri al-Maliki.
L’idea di espandersi in Siria, pestando i piedi ai qaedisti locali, non va per niente giù a Zawahiri, che infatti condanna la fusione tra Isis e la siriana al Nusra, voluta da Baghdadi nel 2013 e poi tornata in discussione.
Lo scontro con Zawahiri è da antologia, con l’anziano ex braccio destro di Bin Laden che lo accusa di non portare rispetto e lo invita all’obbedienza, e il rampante iracheno che gli ribatte che è lui che deve portargli rispetto.
«Devo scegliere tra la legge di Dio e quella di Zawahiri, e scelgo la legge di Dio», archivia la pratica Baghdadi.
Forte dei successi e dei proventi del petrolio siriano torna in Iraq, dove, dopo il ritiro americano del 2011, le violenze tra sunniti e sciiti sono ricominciate.
Conquista il confine con la Siria, e poi Falluja e Ramadi. Nel giugno scorso è il turno di Mosul, la seconda città del Paese, e di Tikrit, dove è nato Saddam.
Sembrerebbe puntare alla capitale, e invece il suo esercito vira verso il Kurdistan, l’unica area dove in questi anni si sia creata in Iraq una società dignitosa.
Al Baghdadi vuole Kirkuk e i suoi ricchi campi: “follow the Oil”, segui il petrolio.
Il 29 giugno l’Isis cambia nome in Is, Stato Islamico.
Baghdadi annuncia la nascita del Califfato, che sarà lui stesso a comandare, con il nome di Califfo Ibrahim. È una mossa spericolata, con cui, incurante del parere dei giuristi ma forte della sua auto-proclamata discendenza dalla tribù Quraysh, quella del Profeta Maometto, si pone come guida dei musulmani tutti.
«È un insulto all’Islam, come se la ‘ndrangheta si facesse chiamare “Stato cattolico”», ci spiega Sullivan: «L’Is è una mafia. Sono dei killer, contrabbandano droga, persone, armi, carburante. Ma almeno le mafie hanno il buon senso di non considerarsi organizzazioni religiose».
Il 5 luglio Baghdadi decide che è tempo di uscire allo scoperto, perchè d’altronde l’ultima sua immagine nota risaliva a quattro anni prima.
Fa registrare un suo sermone nella Grande Moschea di al-Nuri a Mosul. Il video viene subito caricato su YouTube, e così il suo volto fa il giro del mondo.
Il resto sono immagini di questi giorni. Epiche traversate del deserto di profughi per sfuggire alla furia jihadista. Stupri. Uomini sepolti vivi. Soldati sciiti di Tikrit ammucchiati per terra in una cunetta e fucilati, uno dopo l’altro, faccia a terra. Cristiani cacciati da Mosul. Minoranza yazida intrappolata sulle montagne del nord dell’Iraq. Combattenti curdi che, aiutati dagli americani, guidano la controffensiva e riconquistano la strategica diga di Mosul.
Che cos’altro si può dire del Califfo? È un pazzo? No. Anzitutto ha un piano.
Di solito i qaedisti non sanno governare a lungo un territorio vasto, perchè l’imposizione della sharia e di costumi severi sono impopolari.
È vero, a Raqqa la “giustizia” di Baghdadi prevede il bando totale di alcol e sigarette, la sottomissione della donna, punizioni corporali e capitali, crocifissioni e preghiere obbligatorie.
Tuttavia Baghdadi non sta sottovalutando lo “state-building”, o almeno il tentativo di creare una nuova società : a Mosul ha organizzato delle feste per i bambini, ha distribuito cibo e regali, ha aperto scuole e inaugurato servizi di bus, a Raqqa ha creato una burocrazia e concesso sconti per cibo e carburante.
Il bastone e la carota, insomma, almeno per i musulmani sunniti fedeli.
Si è poi impadronito di risorse energetiche cruciali, la cui gestione gli permette di tenere sotto controllo anche quella parte di popolazione che non lo sopporta. Soprattutto, a differenza del giordano Zarqawi, non si è circondato solo di stranieri. Per conquistare l’Iraq si è affidato a una cricca di ex militari ed ex funzionari del partito Baath, insomma di nostalgici di Saddam Hussein, gente che conosce il Paese da un punto di vista sociale e militare.
Baghdadi ha saputo cavalcare il profondo risentimento dei sunniti, emarginati prima dal governo provvisorio installato dagli americani e poi dallo sciita al-Maliki.
Rispetto a Bin Laden, con cui ha in comune la passione per il calcio (Osama era un tifoso dell’Arsenal), ha tenuto finora un profilo più basso.
Si è fatto vedere poco e non ha concesso interviste. «Le differenze? Prima di tutto rispondono a due mitologie diverse, perchè se Osama era il ricco che si è spogliato di tutto, Baghdadi è l’uomo venuto dal nulla. Poi Osama è stato il primo leader del jihad globale, e il suo carisma è inarrivabile», ci spiega da Pechino l’inglese Raffaello Pantucci, esperto di sicurezza globale del Royal United Services Institute di Londra.
Sì, Baghdadi non avrà il carisma di Osama, ma non è un laico come lui e Zawahiri, rispettivamente un ingegnere e un medico: è uno studioso dell’Islam e un religioso, e questo può affascinare molti fanatici jihadisti.
E a differenza del vecchio Zawahiri, che se ne sta in una grotta e non ha mai conquistato da solo un territorio, è pure un uomo d’azione.
Ora sogna di prendere Iraq e Siria e da lì, anche grazie alla sua straordinaria macchina comunicativa, lanciare il jihad globale.
In un audiomessaggio registrato alla fine di giugno ha citato tutti i luoghi del mondo in cui i musulmani devono ricorrere al terrore, dalla Cina all’India, dalla Somalia al Caucaso fino alle Filippine.
«Sollevate le vostre ambizioni!», ha esclamato, stabilendo i confini del suo Stato Islamico ideale: fino alla Spagna e a Roma.
Le sue parole hanno rovinato le vacanze a molti governanti, visto che sul web, dal Bangladesh a Washington, si moltiplicano le professioni di fede nell’Is, e perfino il regime cinese, preoccupato da possibili infiltrazioni nello Xinjiang, comincia a temerli, tanto più che Pechino è il primo cliente del petrolio iracheno.
Il suo esercito si è gonfiato vittoria dopo vittoria, come una valanga. Ma quelle tribù sunnite che finora lo hanno sostenuto si stancheranno di lui? Ahmed al-Dabash, il leader tribale, ha fatto capire di sì, se la musica cambierà a Baghdad, dove intanto il disastroso premier al-Maliki si è finalmente dimesso, dopo otto anni al comando.
Il nuovo Califfo globale ha già dato appuntamento a Roma e a New York.
Prima però deve fare la marcia su Baghdad. E non sarà una passeggiata.
«L’Is non riuscirà a conquistarla. Non è una città sunnita come Mosul, è una metropoli etnicamente divisa, dove gli sciiti venderebbero cara la pelle», dice Pantucci. Conclude Sullivan: «Uomini di diverse religioni e di diversi Paesi devono mettersi insieme per fermarlo. È una battaglia che riguarda tutti, siamo tutti in prima linea».
Daniele Castellani Perelli
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Agosto 23rd, 2014 Riccardo Fucile
IL CASO DANIZA HA UN RETROTERRA E MANDANTI BEN PRECISI
Se non fosse una cosa seria, questa sarebbe una notizia a ridere. Dopo gli immigrati, i neri e i rom, la Lega nord (in questo caso con l’aiuto della Sà¼dtiroler volkspartei) punta il dito contro gli orsi, in particolare contro quelli clandestini, of course.
Sembra un paradosso, ma la vicenda riguarda il foglio di via (leggi l’abbattimento) degli orsi bruni che a partire dal 1994 sono arrivati a popolare il parco naturale Adamello Brenta. Il “trasferimento” fu reso possibile grazie ai finanziamenti (qualcosa come seicentomila euro) dell’allora Comunità europea.
Animali con tanto di collare e regolare permesso di soggiorno.
Peccato che gli esemplari abbiano sconfinato e dal Trentino siano arrivati nei boschi dell’Alto Adige e su, fino all’Austria e alla Baviera.
Fatto sta che la Commissione preparatoria del Dreierlandtag (Tirolo+Sudtirolo+Trentino) ha approvato una mozione Svp contro gli orsi sloveni reintrodotti nelle terre italiane, sostenuta della Lega nord che è addirittura favorevole al libero abbattimento di questi orsi “immigrati senza permesso di soggiorno e che non rispettano i confini”.
Motivazione ufficiale: “La loro presenza nei boschi sarebbe una minaccia per chi vive e lavora in quelle zone”.
Una provocazione, l’ennesima, fatta durante le sedute dei consigli provinciali a Trento e Bolzano.
Anche perchè gli orsi sono una delle specie animali protette: la Convenzione di Berna, datata 19 settembre 1979, è chiara e, se non bastasse già nel 1939 la specie è inserita nell’elenco di quelle protette della fauna d’Italia a opera dell’allora senatore del Regno Gian Giacomo Gallarati Scotti e dalla legge quadro sulla protezione della fauna selvatica del 1992.
Se i consiglieri della Lega volessero armarsi di fucile sanno che andrebbero incontro a sanzioni previste dal codice penale.
Il Progetto Ursus (Life Ursus) era stato avviato nel 1996, con fondi europei per cercare di risollevare le sorti dell’ultimo nucleo di Orso bruno delle Alpi italiane. Il Parco naturale Adamello Brenta, la Provincia Autonoma di Trento e l’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica ritennero di unire le forze per la salvaguardia dei plantigradi nostrani.
In quelle zone erano presenti solo tre orsi, tutti maschi, quindi la popolazione era biologicamente estinta. Era necessario introdurre nel territorio almeno 9 individui tra i tre ed i sei anni
Prima della reintroduzione, un sondaggio di opinione sugli abitanti dell’area dimostrò che almeno il 70% dei cittadini residenti erano favorevoli alla reintroduzione stessa.
Nel 1999 ci fu la liberazione dei primi due orsi, Masun e Kirka, catturati nella Slovenia meridionale. Tra il 2000 ed il 2002 furono liberati altri otto individui.
Tutti gli orsi furono muniti di radiocollare e marche auricolari trasmittenti. E nel 2004 il progetto si è concluso dopo un secondo finanziamento europeo.
Oggi la popolazione dei plantigradi è stimata in 30 esemplari e si spera in un ricongiungimento, attraverso i corridoi biologici, di tutte le popolazioni alpine. Anche se, dicono gli esperti, il pericolo d’estinzione, però, non era del tutto scongiurato.
“Tra l’altro”, spiega al fattoquotidiano.it il consigliere provinciale dei Verdi in Trentino, Roberto Bombarda, “gli orsi che adesso popolano i boschi sono italianissimi, nati in Italia, sulle nostre montagne. Purtroppo ogni sei mesi viene riproposta questa polemica, in realtà del tutto sterile: a chi dovremmo restituire gli orsi nati in Italia? Alla Slovenia? Con quali motivazioni? In quanto figli e nipoti di sloveni? Una follia, ovvio.”
“Va detto inoltre”, spiega l’agenzia di stampa GeaPress, specializzata in animali e ambiente, “che oltre al tentativo di evitare l’estinzione degli orsi, già biologicamente in atto a quella latitudine, il Progetto Ursus aveva sicuramente garantito per anni occupazione e salario ad alcune decine di persone con diverse competenze e specializzazioni. Gli orsi del Trentino hanno già dovuto subire la cattura, lo sradicamento dai luoghi natii, ed ora, una volta ambientati in un nuovo territorio, dovrebbero essere scacciati e riportati in Slovenia”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Agosto 23rd, 2014 Riccardo Fucile
DUE PESI E DUE MISURE: IERI DENUNCIATI CHI HA OCCUPATO LA PROVINCIA, OGGI LA TEPPAGLIA NON E’ STATA CARICATA
La credibilità in Europa dell’Italia ha oggi perso un altro punto: mentre la stampa europea stigmatizza l’incoerenza di un Paese che prima spende milioni di fondi europei per ripopolare la fauna selvatica in Trentino e poi vorrebbe sparare agli orsi che ha immesso sulla base di una presunta aggressione di un sedicente cercatore di funghi in una zona dove gli episodi di bracconaggio non sono certo rari, a Trento e a Pinzolo le autorità riescono a rimediare l’ennesima brutta figura.
Ieri una ventina di attivisti di associazioni animaliste ha simbolicamente occupato il palazzo della Provincia per protestare contro la delibera che prevede la cattura e l’eventuale soppressione dell’orsa Daniza, colpevole di aver difeso i suoi due cuccioli da un intruso. In un Paese dove vengono occupate case, scuole e capannoni senza che nessuno osi intervenire, dopo sole quattro ore a Trento avviene il miracolo: gli animalisti vengono portati via di forza e otto vengono denunciati.
Bene, è stata applicata la legge: ma stranamente la stessa oggi è stata violata.
Perchè a Pinzolo sono sfilati in una manifestazione autorizzata circa duecento “amici di Daniza” circondati e insultati da una feccia di circa 500 persone a cui era stato vietata dalla Questura una contromanifestazione sullo stesso percorso (come riporta “l’Adige”), con chiaro intento provocatorio.
In questi casi la legge prevede prima di intimare agli abusivi di sciogliersi e, in caso di non ottemperanza, di caricare i provocatori.
Cosa che le autorità si sono ben guardate dal fare, evidentemente perchè partito autonomista e Lega tirano le file degli amici dei potenziali boia degli orsi.
Per chi avesse dei dubbi su chi istiga alla illegalità vi rimandiamo ad altro articolo relativo al 2011 quando autonomisti e Lega auspicavano di uccidere gli orsi “non italiani” e quanto la Lega annunciò un banchetto di carne di orso, poi costretta ad annullare l’evento per evitare una denuncia.
Sarebbe ora che la magistratura cominciasse a indagare su quali interessi stanno dietro
alla mobilitazione di chi incita alla uccisione di un’orsa.
Restiamo in attesa che l’autorità denunci anche chi oggi ha partecipato a una manifestazione non autorizzata, insultando e minacciando altri cittadini. che manifestavano in regola.
Prima che la gente civile si incazzi davvero e provveda da sola a ristabilire il rispetto della legge.
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Agosto 23rd, 2014 Riccardo Fucile
OBAMA SCHIVA LA VIP-MANIA MA STACCA UN ASSEGNO…IN ITALIA TANTE SCENEGGIATE MA LE DONAZIONI SONO FERME A 33 MILA EURO, NEGLI USA 42 MILIONI DI DOLLARI
Renzi diventa il primo capo di governo a partecipare all’Ice Bucket Challeng. P
oteva, il presidente del Consiglio, non raccogliere la sfida? Sì che poteva.
Barack Obama, per dire, ha lasciato cadere l’invito rivoltogli da Ethel Kennedy, la vedova di Bob, facendo la sua donazione ma sottraendosi al rituale ghiacciato.
E nè Hollande nè la Merkel nè Cameron (che pure è stato “nominato” da Russell Brand, il Fiorello inglese) vi hanno partecipato.
C’è cascato pure lui. Matteo Renzi ha fatto la doccia gelata.
L’Ice Bucket Challenge è la fiera della vanità e della beneficenza, nata negli Stati Uniti per dilagare nel resto del mondo.
Il pretesto, nobilissimo , è impegnare chi partecipa a donare per la ricerca contro la Sla.
Il risultato è una lunga sfilata di vip che si bagnano i capelli di fronte a una videocamera e condividono l’impresa.
La moda incontenibile non poteva non contagiare anche Renzi, fuoriclasse dei selfie e delle autopromozioni “social”.
A piedi nudi, in una sgargiante mise azzurra (camicia e costume), il premier si è rovesciato addosso il fatidico cesto d’acqua ghiacciata nel giardino dell’albergo di Forte dei Marmi dove è in vacanza da alcuni giorni, per poi pubblicarlo sul suo profilo twitter.
Nel discorso introduttivo ha ringraziato “i simpaticoni ” che lo “hanno tirato in ballo” (Fiorello, poi anche Jovanotti, Francesco Facchinetti e Tiziano Ferro) e ha sfidato a sua volta Roberto Baggio, Paolo Livoli — ex compagno di scuola che fa il medico e si occupa di Sla — e i direttori di riviste, giornali e telegiornali italiani.
Negli Usa il fenomeno Ice Bucket è esploso a ridosso di Ferragosto , grazie a testimonial come Mark Zuckerberg e Bill Gates.
Da quel giorno hanno partecipato praticamente tutti: attori di Hollywood, popstar, sportivi, imprenditori e persino l’ex presidente George W. Bush.
Barack Obama, sfidato da diversi “famosi”, ha schivato la secchiata, lasciando intendere di tenere ancora al decoro istituzionale.
Il presidente degli Stati Uniti, sobriamente, si accontenterà di staccare un assegno per la ricerca contro la malattia.
Intanto il Dipartimento di Stato ha diffuso una nota in cui ricorda ai suoi funzionari che per motivi etici bisogna evitare di partecipare a campagne per raccolte fondi private, “a prescindere da quanto nobili siano la cause”.
Negli Stati Uniti comunque le donazioni raccolte dall’inizio dell’Ice Bucket mania hanno avuto un’impennata: oltre 42 milioni di dollari.
E in Italia? Anche qui la secchiata è lo spo(r)t estivo di un esercito di (più o meno) famosi: Belen, Elisabetta Canalis, Mario Balotelli, Emma Marrone, Marco Mengoni, il presidente della Juventus, Andrea Agnelli (che ha nominato il suo “nemico” in Figc, Carlo Tavecchio) e tantissimi altri.
La politica ha fiutato il fenomeno e comincia a reagire.
Ieri pomeriggio, prima di Renzi, si è prestato anche il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin. Il problema vero è che alla sfilata sui social network non corrisponde la generosità dei portafogli.
Massimo Mauro, ex calciatore, giornalista di Sky e presidente dell’Aisla (Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica) ha reso noto che in questi giorni di grande battage mediatico l’Ice Bucket Challenge de’ noantri ha prodotto donazioni per appena 33mila euro.
Mauro riconosce “la straordinaria importanza del fatto che finalmente si parli di Sla, una malattia che è abituata a rimanere nell’ombra”, ma non nasconde un po’ di delusione per la scarsa generosità dei vip dalla testa ghiacciata.
“L’80 per cento delle donazioni — dichiara — sono arrivate via Pay Pal da persone comuni, con donazioni da 5, 10 e 50 euro. Qualche cantante, si è spinto fino a 500, massimo 700 euro, ma non voglio fare nomi”.
Quello che non si può tollerare è che la malattia sia da sempre ignorata dalle istituzioni: “Per i governi la Sla non esiste. Zero euro all’anno per la ricerca. Altro che secchiate d’acqua. Ora serve un impegno concreto”.
Tommaso Rodano
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Agosto 23rd, 2014 Riccardo Fucile
I FAMILIARI: NON CI RIMBORSANO NIENTE, NEMMENO I MATERASSI ANTI-PIAGHE… NEL 2010 IL GOVERNO BERLUSCONI TAGLIO’ DI 2,5 MILIARDI IL FONDO PER I NON AUTOSUFFICIENTI
“Aspiriamo il muco dalle vie respiratorie di mio figlio trenta volte al giorno. Con una canula ripuliamo la trachea per evitare che soffochi. Altre volte dobbiamo a ricorrere all’aerosol, nei casi estremi alla macchina della tosse”.
Giancarlo Petrangeli, architetto 79enne ed ex docente universitario, da tre anni fa i conti con la malattia che ha colpito suo figlio Stefano, 50enne ex karateka di livello mondiale: la sclerosi laterale amiotrofica, meglio conosciuta con l’acronimo di Sla.
Lo Stato gli riconosce un assegno di 1300 euro al mese. Giancarlo, per curare suo figlio, ne spende 10 mila.
“Ci occupiamo di lui in sette: io, mia moglie, il fratello, un’infermiera, un’ausiliaria e due persone che coprono le notti”.
Lo Stato non c’è: “Siamo abbandonati da tutti: abbiamo chiesto un materasso anti-piaghe, ci hanno risposto dopo sette mesi. Ci hanno detto di no perchè ‘costa troppo’”.
I malati di Sla in Italia sono 5 mila, pochi possono affrontare le spese dei famigliari di Stefano.
Suo padre fa parte dell’associazione Viva la vita, una di quelle che lotta per chiedere un miglior assegno di cura, cioè il contributo mensile che lo Stato riconosce ai famigliari che scelgono di tenere i malati di Sla a casa.
Curarlo in un ospedale costa dai 70 ai 100 mila euro l’anno, l’assegno per le famiglie che decidono di farsi carico della malattia — e fare risparmiare decine di migliaia di euro allo Stato — sono mediamente sotto i mille euro al mese.
Quella dei malati e dei loro famigliari è una lotta che va avanti da quattro anni quando — era il 2010 — il governo Berlusconi decise di cancellere il fondo per la non autosufficienza e le politiche sociali: 2,5 miliardi di euro tagliati in un colpo solo, una parte dei quali andava alle famiglie dei malati di Sla.
Da allora, le associazioni sono costrette a tornare dal governo con il cappello in mano ogni qualche mese: presidi, sit in, flash mob, scioperi della fame.
Attualmente lo Stato stanzia per le famiglie 350 milioni l’anno, ripartiti attraverso un sistema capzioso che crea enormi sperequazioni regionali: “le famiglie di un malato in Lombardia ricevono assegni doppi rispetto a quelle campane”, spiega Mariangela Lamanna, del comitato 16 novembre.
A settembre si siederà a un tavolo insieme ai rappresentanti dei ministeri delle Finanze, del Welfare e della Sanità : “Chiederemo che il fondo sia innalzato a 600 milioni (ma secondo l’ex sottosegretario al Welfare, Cecilia Guerra, ci vorrebbe un miliardo e mezzo) e che il fondo diventi strutturale: è inaccettabile essere costretti a tornare ad elemosinare dai politici ogni pochi mesi. L’abbiamo fatto 12 volte in quattro anni, siamo stanchi”, attacca.
Anche lei è parente di un malato, ma non ha le disponibilità economiche di Petrangeli. “Mia sorella riceve un assegno di mille euro. Per curarla a casa ne spendiamo 3 mila. Non possiamo permetterci un’infermiera, per questo abbiamo insegnato a una badante a inserire la Peg, il tubo per l’alimentazione, nello stomaco. Ci arrangiamo come possiamo”.
Se ci fossero più risorse, molte famiglie rinuncerebbero a rinchiudere nelle residenze sanitarie i malati, ma forse è questo che la politica non vuole:
“Dietro ogni casa di cura c’è un assessore, perchè mai dovrebbero rinunciare ai soldi che lo Stato stanzia per i malati?”, attacca Petrangeli.
Sulla stessa linea anche Simonetta Tortora dell’associazione Viva la vita: “Il ministro Lorenzin (che ieri ha fatto l’Ice bucket challenge) ci ha promesso che sarebbero stati aggiornati i livelli essenziali di assistenza, ormai fermi da dieci anni, e che avrebbe aggiornato la lista di farmaci e ausili pagati dallo Stato. Ha presente il computer per comunicare che usava Stefano Borgonovo? Costa 20 mila euro, ma lo Stato non lo rimborsa”.
Le colpe vengono da lontano, ma in questi mesi nessuno ha cambiato verso: “L’attuale Governo non è riuscito a introdurre una mentalità nuova per affrontare il problema delle disabilità ”, spiega Mauro Pichezzi, presidente di Viva la Vita.
Ancora più tranchant La-manna: “Se il governo non decide di darsi una mossa, la doccia gelata la riceveranno i malati di Sla”.
Alessio Schiesari
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Agosto 23rd, 2014 Riccardo Fucile
PRECARI, CHI HA PIU’ CONTRATTTI E REDDITI NELLA FASCIA 24-26.000 EURO: SOLO A FINE ANNO SI AVRA’ LA CERTEZZA DI AVERNE DIRITTO
Quando Paola ha letto al rigo “Credito dl 66/2014” del suo cedolino di maggio la cifra di 80 euro ha tremato.
Ha capito subito che si trattava del bonus Renzi, visto il grande rilievo dato alla notizia da stampa, radio, tv e siti.
Ma la momentanea soddisfazione per qualche soldo extra in busta paga si è subito tramutata in nube nera. “E se poi mi chiedono di restituirli?”.
Paola, nome di fantasia, lavora per un’importante società di consulenza e ha un contratto a tempo indeterminato. “Mi sono detta: com’è possibile, guadagno poco più di 24 mila euro lordi annui, sono fuori target. Ci deve essere un errore”, racconta.
“Ma se non dico niente, a dicembre vorranno indietro 640 euro e io non mi posso permettere, con mutui e figli, Tasi e tasse varie, di ridarli tutti insieme”.
Così ha chiamato l’ufficio del personale e ha chiesto spiegazioni. Scoprendo che a maggio il suo “reddito presunto annuo”, l’elemento chiave usato dalle aziende per assegnare o meno il bonus, era ancora nella fascia giusta. Entro i 24 mila euro.
“E comunque sta a lei comunicarci se il bonus le spetta o meno”, è stata la risposta secca.
Vero? Solo in parte.
Paola non è la sola ad aver trovato a sorpresa il bonus non dovuto nello stipendio. Come lei, molti lavoratori precari: cocopro, tempi determinati, part-time.
Ma in questi casi, come chiarisce la circolare dell’Agenzia delle entrate datata 28 aprile 2014, è compito del dipendente indicare l’esistenza o meno di più contratti e quindi di altre fonti di reddito.
Cumulando più entrate da datori diversi, l’asticella può facilmente superare il limite massimo oltre il quale il bonus non spetta.
E comunque dopo qualche mese l’accredito cessa, se non dovuto, e le somme incassate decurtate in sede di conguaglio a dicembre.
Ma un lavoratore a tempo indeterminato in teoria non dovrebbe avere questi problemi. L’azienda conosce tutti gli elementi, a partire dal “reddito presunto annuo”.
Anche Fabio, dipendente di una società di tlc, a maggio ha trovato 9,84 euro nel cedolino. Lì per lì non ci ha fatto caso. Poi la segnalazione di un altro collega ha fatto scattare l’allarme.
Sì, quello era proprio il bonus Renzi. Ma non dovevano essere 80 euro? Non per tutti. La legge dice che il bonus da 640 euro per il 2014 spetta ai lavoratori dipendenti e assimilati (dunque anche cocopro) che guadagnano tra 8.145 e 24 mila euro lordi annui (senza altre entrate da fitti o da investimenti, ad esempio).
Coloro che ricadono invece nella fascia tra 24 e 26 mila euro ricevono sì il bonus, ma ridotto in modo assai repentino fino ad azzerarsi, secondo una formula precisa, stabilita dalla legge.
In pratica, per ogni cento euro di stipendio sopra i 24 mila euro il bonus mensile cala di 4 euro.
Chi guadagna 25 mila euro l’anno, ad esempio, riceverà 320 euro in otto mesi: 40 al mese, la metà del bonus pieno.
Ecco spiegati i 9 euro e 84 centesimi.
Il reddito di Fabio è vicino ai 26 mila euro, la fascia “pericolosa” in cui ricadono tra un milione e un milione e trecentomila lavoratori dipendenti, a questo punto a rischio restituzione.
Basta una promozione, uno scatto, qualche ora di straordinario, per andare fuori fascia. E fuori dal bonus.
Con il giusto obbligo di restituire le somme non dovute. “Ma non era meglio basarsi sul reddito certo del 2013?”, si chiedono i lavoratori.
Non la pensa così il decreto 66/2014.
Valentina Conte
(da “La Repubblica”)
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Agosto 23rd, 2014 Riccardo Fucile
GLI OTTANTA EURO SONO FINITI IN SIGARI, LUMINI VOTIVI E ANGOSTURA
La mancata crescita economica turba i governi europei e leva il sonno agli economisti. Come è possibile che i cittadini oppongano una così tenace resistenza all’attività virtuosa dei governi, rifiutandosi di spendere e consumare?
Perchè tanta insensibilità ? Perchè tanta ostilità ? E quali sono i rimedi ancora praticabili?
ITALIA
Come è stato speso il bonus di ottanta euro elargito dal governo Renzi? Il campione di italiani preso in esame dagli esperti ha offerto risposte piuttosto deludenti.
Il trentenne tipico li ha spesi tutti in Bloody Mary con qualche goccia d’angostura e molta vodka, con un impatto appena percepibile per l’economia ma devastante per il suo fegato.
Tra gli anziani e nelle zone rurali gli ottanta euro sono finiti, secondo tradizione, sotto il materasso, con il forte rischio di deterioramento nel caso di anziani incontinenti.
Le famiglie più povere, già duramente colpite dalla crisi, non osano spenderli e li hanno messi in una teca con lumino votivo, facendone oggetto di venerazione.
Quelle ricche hanno usato la banconota da cinquanta euro per accendersi il sigaro (i non fumatori hanno appositamente comperato un sigaro facendolo fumare al maggiordomo) e gli altri trenta euro li hanno lasciati allo Stato come mancia.
Il bilancio è sconfortante: solo un leggero aumento del consumo di sigari, di lumini votivi e di angostura.
L’INDUSTRIA
In ogni casa ci sono ormai lavatrice, lavastoviglie, frigorifero e almeno un paio di televisori. Il mercato è saturo.
Per risollevarsi, l’industria si sta dunque ingegnando di proporre elettrodomestici di nuovo tipo. Riciclando i milioni di pezzi in giacenza con un ingegnoso assemblaggio, ecco dunque il lavastoviglie per piatti delicati, indicatissimo per lavare stoviglie di lana o posate di cotone; la lavatrice-freezer che congela il bucato in un solo, comodo blocco, conservabile anche per mesi nel caso non si abbia il tempo di stirare; lo stirabistecche a vapore (trasformabile con un semplice “clic” in stiracotolette), utilissimo per ridare una forma distesa e gradevole a petti di pollo con le orecchie o bistecche tagliate in modo maldestro dal macellaio.
Nonostante i forti incentivi dell’Unione europea, questi prodotti stentano a decollare, per ragioni che gli esperti di marketing non riescono a individuare.
LE OFFERTE
Neppure le offerte commerciali più allettanti riescono a risvegliare l’entusiasmo del consumatore.
Fallita l’operazione “compra tre Maserati al prezzo di due”, è andata deserta anche l’asta delle Fiat Croma trasformate in Volkswagen o in Volvo, su richiesta del cliente, grazie a una comoda fodera di cartongesso applicata sopra la vettura originale.
Male anche la campagna Coop “torna a casa con il tuo carrello”, destinata ai clienti con una spesa superiore ai cinquanta chili: specie nei punti vendita posti lungo tangenziali e raccordi anulari, i clienti hanno trovato non poche difficoltà a controllare il loro carrello nel traffico.
EDILIZIA
In tutta Europa, e soprattutto in Italia, le case sfitte sono milioni e quasi tutto il territorio è cementificato. Perchè dunque accanirsi a costruire nuovi edifici residenziali, se nessuno è disposto a comperarli?
Ecco dunque il progetto europeo “case WR” (without resident), che per non inflazionare il mercato abitativo finanzia edifici destinati a non essere mai abitati: o senza porte, o ripieni di cemento anche all’interno, o così brutti e malsani che è di gran lunga preferibile pernottare sotto i ponti.
In alternativa, ecco il progetto “VR” (virtual resident), che permette di costruire case con inquilino già incorporato, grazie a uno o più inquilini-ologramma: visti dall’esterno, ecco il nonno che legge il giornale, la mamma che scongela il merluzzo, il papà che gioca a Playstation, il cane che rompe le balle abbaiando senza ragione.
È tutto finto, ma evita lo spettacolo deprimente degli appartamenti sfitti e offre al passante l’idea, rassicurante, che tutto sia come prima.
Michele Serra
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Agosto 23rd, 2014 Riccardo Fucile
QUANDO NON CONTANO CAPACITA’ E COMPETENZE, MA FORME E CURA DELL’IMMAGINE
Prandelli e Balotelli, gli eroi negativi dell’ultimo Mondiale, si sono appena accasati all’estero con stipendi raddoppiati.
Pur non essendo dei fenomeni, sono delle icone: uno del buonismo e l’altro del cattivismo.
Il loro è solo l’ultimo esempio di una tendenza universale che privilegia l’immagine alla bravura, i venditori di forma ai costruttori di sostanza.
Nello sport il modello, anzi il fotomodello irraggiungibile rimane Beckham: uno che ha guadagnato il triplo di Maradona senza valerne la metà , supplendo con l’avvenenza fisica e le giuste frequentazioni alla cronica mancanza di vittorie e di talento.
Dal cinema alla musica, dalla politica alla finanza, ma in realtà in qualunque ambiente di lavoro, gli uomini e le donne «di relazione» prevalgono su quelli «di prodotto».
Le energie che gli altri, i perdenti, mettono nell’attività specifica, essi le concentrano sulla comunicazione.
Godono di una fama immeritata ma luccicante e le loro banalità , pronunciate sempre nel luogo o sul «social» giusto, oscurano le manifestazioni di intelligenza di chi fatica nell’ombra.
Hanno compreso che, in un mondo superficiale e distratto, nessuno ha più l’interesse e forse la capacità di valutare le competenze, mentre ci si lascia volentieri ammaliare dai contorni di una persona che ciascuno potrà poi riempire come vuole.
Un mio amico li chiamava «bravi a prescindere».
La loro filosofia di vita fu riassunta in modo scherzoso ma definitivo da un attento osservatore della categoria, Carlo Rossella, quando si congedò da un pranzo con queste parole: «Torniamo al lavoro… Tutto tempo sottratto alla carriera».
Massimo Gramellini
(da “La Stampa”)
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