Agosto 17th, 2014 Riccardo Fucile
CAMERE RIUNITE AD AGOSTO, CHI TORNA E CHI RESTA: LE SCUSE DEI PARLAMENTARI PER NON INTERROMPERE LE VACANZE
Nessuno tocchi le vacanze dei politici. Soprattutto se sono appena iniziate.
E anche se c’è in ballo una questione molto importante, il via libera alle armi ai curdi deciso dalla riunione dei ministri degli esteri Ue, i parlamentari delle Commissioni difesa e esteri di Camera e Senato che i presidenti hanno chiamato a raccolta il prossimo 20 agosto ora fanno i vaghi. Oppure respingono l’invito al mittente.
Il Fatto Quoatidiano ha provato a contattarli.
Tra chi – come Antonio Razzi – ammette candidamente “non torno, ho il compleanno della suocera”, chi dice di non saperne nulla e chi, come il deputato M5s Carlo Sibilia, garantisce: “ci sarò”.
Antonio Razzi (Forza Italia)
“Non torno. Sono in Spagna perchè mia suocera compie 87 anni: non succede tutti i giorni”
Michaela Biancofiore (Forza Italia)
“Non ne sapevo nulla di questa adunata. Io ho prenotato, non posso mica smontare il viaggio. Quest’estate poi i lavori parlamentari sono finiti tardi. Sto per prendere un volo per l’America non è che ti possono dire le cose a un minuto dalla partenza, non potrei nemmeno rimborsare il biglietto
Sandra Zampa (Pd)
“Giusta la convocazione, ma sono a Washington e non ce la farò”
Angelo Tofalo (M5S)
“Finchè non arriva quella (convocazione ndr) parliamo di fuffa. Ci sarò? Boh”
Massimo Artini (M5s)
“Per il Movimento per ora sono solo io. Sto provando a sentire colleghi degli Esteri, ma molti di loro sono fuori dall’Italia”
Nico Stumpo (Pd)
“Non so nulla, ho iniziato le ferie oggi, non leggo i giornali da due giorni. Sentirò i colleghi”
Giuseppe Fioroni (Pd)
“Non ne so niente, sono in montagna da due giorni. Quale sarebbe l’argomento? Ah. Vedremo, ci aggiorniamo”.
Manlio Di Stefano (M5s)
“Ci sarò? Tornerà dall’Africa? “Intendevo che ci saremo come Movimento”
Maurizio Gasparri (Forza Italia)
“Sono appena riuscito a partire: si lavora incessantemente. Non lo so, ma non si preoccupi, qualcuno ci sarà ”
(da “Huffingtonpost”)
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Agosto 17th, 2014 Riccardo Fucile
IL MAGISTRATO CHE FECE PARTE DEL POOL DI TANGENTOPOLI: “IN ITALIA TROPPI PROCESSI E TROPPI AVVOCATI”
La riforma della giustizia proposta dal ministro Andrea Orlando? «Si occupa di cose sostanzialmente inutili».
Lo ha detto Piercamillo Davigo, consigliere di Cassazione e magistrato che ha fatto parte del pool di Tangentopoli, intervenendo in un incontro a Champoluc, per «Ayas cultura», moderato dal giornalista Roberto Mancini.
«Ho visto le linee guida, che contengono un errore di fondo – ha spiegato il magistrato -. Si vuole fissare ancora una volta la durata massima di un processo, anzichè cercare di ridurre il numero dei processi per snellire l’attività della magistratura».
Per Davigo «occorre disincentivare in ogni modo il ricorso alle cause, civili e penali. Chi ha torto deve pagare, non costringere chi ha ragione a fargli causa. Deve sapere che se finirà davanti a un giudice e questi capirà che ha torto, si prenderà una condanna ancora più pesante. Non serve una rivoluzione, bisogna partire da pochi principi che avranno ricadute a lungo termine».
Altro tema ricorrente è quello sulle carceri sovraffollate.
«L’Italia, rispetto agli altri Paesi europei e agli Stati Uniti, ha il numero di carcerati più basso rispetto alla popolazione – ha spiegato il magistrato – ma le carceri scoppiano. Per l’insipienza della classe politica, però, si andrà a svuotarle di nuovo. Le soluzioni sono altre: costruire nuove carceri o ridurre il numero delle pene da scontare nei penitenziari».
Il problema nasce dalla base: in Italia, il numero di processi «non ha uguali nel mondo» e per Davigo negli ultimi 20 anni non si è fatta alcuna riforma perchè la giustizia dà da mangiare a 250 mila avvocati: «Questa è una vera bomba sociale. Ogni anno i nuovi avvocati sono 15 mila, si arriverà presto a 400 mila avvocati in totale, a caccia di cause sempre nuove».
La lobby degli avvocati si oppone al principio per cui un cliente deve pagare l’onorario soltanto se la causa sarà vinta.
«I tribunali sono intasati dalle cause perse, l’Italia è l’unico Paese in cui si va sempre al terzo grado di giudizio, per dilatare i tempi, per sperare nella prescrizione».
Gli esempi paradossali sono tanti: «Per anni gli italiani sono stati convinti di vivere in uno Stato insicuro – ha detto Davigo -. Il 60 per cento era convinto che l’Italia fosse insicura, ma solo il 20 per cento diceva che il proprio comune di residenza fosse poco sicuro. E solo l’un per cento degli italiani ha assistito a un delitto. Si è arrivati alla convinzione che i pochi crimini di strada siano più gravi della corruzione».
(da “La Stampa“)
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Agosto 17th, 2014 Riccardo Fucile
“FAVOREVOLE A UN INTERVENTO SULLE PENSIONI ALTE A SOSTEGNO DI CHI RISCHIA DI DIVENTARE ESODATO”
Ministro, il Nuovo centrodestra vuole togliere l’articolo 18 ai nuovi assunti. Lei che dice?
«Che se ci infiliamo nel solito braccio di ferro sull’articolo 18 non portiamo a casa nulla. E che invece c’è bisogno di un cambiamento di passo culturale che recuperi il valore positivo dell’impresa, come infrastruttura sociale indispensabile per la crescita e la creazione di lavoro. Quindi più che partire dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, cioè dai licenziamenti, sarei per partire dall’articolo 41 della Costituzione che tutela l’impresa e le sue finalità sociali e dall’articolo 46 che riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione dell’azienda. Dobbiamo cioè uscire dal vecchio conflitto impresa-lavoro e ragionare su partecipazione responsabile, condivisione, cooperazione».
Quindi non può essere l’abolizione dell’articolo 18 il «segnale forte» chiesto dal presidente della Bce, Mario Draghi, al presidente del Consiglio, Matteo Renzi?
«No. Oltretutto sarebbe in contraddizione con la linea decisa dal governo. Se avessimo voluto togliere l’articolo 18 lo avremmo fatto con il decreto col quale siamo intervenuti su contratti a termine e apprendistato. Invece noi abbiamo scelto una strategia in due tappe: il decreto appunto e il disegno di legge delega nel quale affronteremo tutti gli aspetti del mercato del lavoro, riscrivendo lo statuto, come ha detto Renzi, dagli ammortizzatori alla revisione dei contratti, compresa l’introduzione del contratto di inserimento a tutele crescenti».
Quello che dovrebbe consentire il licenziamento nei primi tre anni. Ma perchè le imprese dovrebbero ricorrervi, se possono già utilizzare il «suo» contratto a termine senza causale, sempre per la durata di tre anni?
«Infatti, questo è un tema importante. Non basta introdurre il contratto a tutele crescenti, se non si rende il contratto a tempo indeterminato, e il contratto a tutele crescenti lo è, un contratto meno oneroso per l’impresa, alleggerendo il carico fiscale e contributivo».
In ogni caso si va verso un approfondimento del solco tra nuovi assunti e chi invece lavora con la garanzia dell’articolo 18.
«Sì, c’è un problema su questo versante e andrà approfondito. Favorire la convenienza dei contratti a tempo indeterminato sarebbe già una prima risposta. Credo che lavoreremo su questo».
E togliere del tutto l’articolo 18?
«Non lo chiede nessuno nella maggioranza».
Sempre Ncd chiede un emendamento alla legge delega per strutturare da subito questo nuovo contratto.
«Nel disegno di legge delega il contratto di inserimento è previsto in forma sperimentale. Credo che sia sufficiente. E anche i tempi previsti sono rapidi. I decreti di attuazione della delega arriveranno al massimo entro sei mesi».
Restiamo ai giovani. Che risultati si attende dal programma europeo Youth Guarantee?
«Siamo partiti a maggio. In quattro mesi si sono iscritti già 160 mila giovani ai quali daremo una risposta in termini di formazione, tirocinio, stage o opportunità di lavoro».
Non crede siano pochi, considerando 2 milioni di giovani che non lavorano e non studiano?
«No. Tenga conto che è la prima volta che si fa una cosa così in Italia. Piuttosto sono preoccupato perchè ancora una volta sta emergendo la difficoltà del Sud di mettere in campo iniziative adeguate alle molte iscrizioni di giovani al programma».
Ministro, la disoccupazione, non solo giovanile, è molto alta. E ci sono centinaia di migliaia di lavoratori in cassa integrazione. Se ci sarà la ripresa, una parte di questi rientrerà al lavoro, una parte sarà nel frattempo andata in pensione, un’altra parte rischia di finire esodata, senza lavoro nè pensione. Lei ha promesso un «ponte» per costoro verso la pensione. Di che si tratta?
«Questo è il tema che abbiamo in lavorazione, ma è strettamente legato alle risorse che avremo a disposizione. Stiamo elaborando opzioni diverse in vista della legge di Stabilità . Dovremo vedere in che misura distribuire il costo di questo piccolo ponte o scivolo che dir si voglia tra lavoratori, imprese e fiscalità generale».
Tra le ipotesi allo studio c’è anche il «prestito pensionistico»: il lavoratore cui manchino 2-3 anni alla pensione prende un anticipo di 6-700 euro che poi restituirà in piccole rate al raggiungimento dell’età pensionabile?
«Si tratta di un’ipotesi che aveva formulato il mio predecessore, Enrico Giovannini, e che stiamo valutando insieme ad altre».
Queste ipotesi riguardano solo i lavoratori delle aziende in crisi o potrebbero esserci interventi più generali per reintrodurre elementi di flessibilità nell’età pensionabile?
«Naturalmente partiamo dalle situazioni di emergenza e quindi dai lavoratori delle aziende in crisi. Ma stiamo valutando anche misure di flessibilizzazione, che però non mettano in discussione le attuali età di pensionamento, nel senso che chi volesse uscire uno o due anni prima verrebbe penalizzato. Anche qui bisognerà vedere che risorse avremo a disposizione».
Per intervenire a favore di chi resta senza lavoro e pensione si potrebbe creare anche a un ammortizzatore sociale universale? L’Aspi ancora non lo è, lascia fuori i lavoratori precari.
«Nella delega stiamo lavorando su un ammortizzatore universale. Ma va risolto il problema di chi lo paga. Dovrebbero farlo le imprese, anche quelle che finora non lo hanno fatto, ma poi ci vorrebbe un intervento a carico della fiscalità generale. E qui torniamo al problema delle risorse».
Ministro, lei è favorevole o contrario a un contributo di solidarietà sulle pensioni alte o al ricalcolo delle pensioni col metodo contributivo per intervenire su quelle che sono esageratamente alte rispetto ai contributi versati? Ci sono ipotesi allo studio su questo?
«Sono favorevole a interventi di questo tipo a patto che siano collegati agli interventi di cui ho parlato prima a sostegno dei lavoratori che altrimenti rischierebbero di finire esodati. Credo cioè che le risorse eventualmente recuperate con un contributo di solidarietà o con il ricalcolo contributivo dovrebbero restare nel sistema previdenziale in una logica di solidarietà per chi soffre di più. Ipotesi se ne sono fatte tante in passato. Adesso bisognerà fare delle scelte».
Ma le pensioni alte sono così poche che si raccoglierebbero briciole.
«Dipende da dove si fissa l’asticella».
Un’ultima domanda sulla prossima legge di Stabilità . Dopo il bonus a favore dei lavoratori, le imprese reclamano un taglio consistente dell’Irap. Ci sarà ?
«L’Irap va ridotta perchè oltretutto ha l’insana caratteristica di colpire le imprese a più alta intensità di lavoro. Ma anche qui non si scappa: dovremo fare i conti con le risorse disponibili».
Enrico Marro
(da “il Corriere della Sera”)
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Agosto 17th, 2014 Riccardo Fucile
IN ARRIVO UN CODICE CHE SOSTITUIRA’ LO STATUTO DEI LAVORATORI
A gennaio il piano Poletti per il lavoro diventerà operativo.
I tempi parlamentari dicono che la riforma del sistema dei contratti potrà andare in porto entro fine anno e, contemporaneamente, potranno essere pronti i decreti legislativi che applicano concretamente il nuovo sistema.
«Poi — rivela il sottosegretario Luigi Bobba — partirà quell’opera di riforma e semplificazione delle leggi sul lavoro, compreso lo Statuto dei lavoratori, alla quale ha recentemente accennato lo stesso Presidente del Consiglio».
Una riscrittura che in molti casi potrà ricalcare la proposta di Scelta civica (primo firmatario Pietro Ichino) presentata con due distinti disegni di legge a luglio e agosto 2013 e che va sotto il nome di Codice del lavoro.
La prima parte del piano Poletti è stata anticipata a maggio con la riforma dei contratti a tempo determinato.
L’obiettivo del governo era quello di ridurre il ricorso ai Co.co.pro. e alle false partite Iva che nascondono spesso rapporti di lavoro subordinato.
I tre anni di contratto a tempo determinato con cinque proroghe massime sembrano aver creato qualche effetto significativo a soli tre mesi dal varo: «Ci risulta — dice Bobba — che in questi novanta giorni i contratti a tempo determinato siano aumentati del 7,6 per cento mentre quelli di apprendistato si siano incrementati del 3,4». Contemporaneamente si sono registrate lievi flessioni per partite Iva e Co.co.pro
Perchè iniziare la riforma con i contratti precari? Perchè rappresentano da soli il 68 per cento dei nuovi rapporti di lavoro.
Ora però la Commissione Senato dovrà approvare la seconda gamba della riforma, quella che riguarda i contratti a tempo indeterminato e gli ammortizzatori sociali. Tutti gli articoli del disegno di legge sono già stati approvati tranne il quarto, quello che riguarda le tutele per gli assunti a tempo indeterminato.
Ma la linea del governo sembra tracciata: a dispetto degli ultimatum di Alfano, l’articolo 18, quello che tutela i dipendenti da licenziamenti arbitrari, verrà mantenuto anche se scatterà dopo tre anni dall’assunzione.
«Del resto — sottolinea Bobba — mi sembra questo il senso delle ultime dichiarazioni del Presidente del Consiglio: “cambiare le garanzie, non eliminarle”».
Già approvato in Commissione invece l’articolo 2, quello che istituisce un principio di tutela universale per tutti i lavoratori su malattia, pensione, disoccupazione.
Si tratta di rendere più efficace il principio dell’Aspi, il sistema di indennità per disoccupati introdotto all’ex ministro Fornero.
Una prima forma di tutela per i disoccupati ultracinquantenni è il cosiddetto «contratto di ricollocazione» proposto da Pietro Ichino , inserito nella legge di stabilità e ora in attesa del regolamento attuativo.
L’ultimo capitolo della riforma è la nascita dell’Agenzia nazionale per il lavoro che dovrebbe coordinare tutte le banche dati sugli occupati e sui pensionati, come avviene in Germania.
Un sistema che dovrebbe coordinare i servizi per il lavoro ora destinati a rinascere su base regionale dopo l’abolizione delle provincie.
Prima dell’approvazione, il piano Poletti avrà bisogno di qualche limatura.
Si tratta, ad esempio, di superare l’incongruenza del cumulo dei contratti: chi venisse assunto prima a tempo determinato (per un massimo di tre anni) e poi a tempo indeterminato (senza tutele complete per altri tre) rischierebbe di trovarsi in una situazione di relativa precarietà per sei anni.
Ma la soluzione non dovrebbe essere difficile da trovare.
«Tutto il piano potrà diventare operativo all’inizio del 2015», promette il sottosegretario Bobba.
Paolo Griseri
(da “La Repubblica”)
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Agosto 17th, 2014 Riccardo Fucile
CASO DI BATTISTA: MEGLIO I DIAVOLI DEI MINCHIONI
Meglio i diavoli o i minchioni? C’è anche l’elogio babbione del terrorismo dell’Isis dentro ai lunghi e scombiccherati manifesti di politica estera di Alessandro Di Battista, il Kissinger di Beppe Grillo, ispirato alle e-patacche del Web, università Casaleggio Associati.
Nulla a che vedere con i mille Satanasso d’antan a cui eravamo abituati.
Gli amici di Gheddafi, di Saddam, di Khomeini, di Fidel Castro e del sub comandante Marcos, ma anche i nazimaoisti, i Nar filo falangisti libanesi, e gli antisomozisti di Terza Posizione, i filobrigatisti e i simpatizzanti di Pol Pot sino ai troskisti e ai figli di Stalin erano tutti armati di libri veri, dai classici maltrattati di Gramsci e Togliatti, e poi Foucault ed Althusser, passando per la tigre Evola, per De Benoist e per I Proscritti di Von Solomon sino ai Nomadi di Attali e all’Impero di Toni Negri.
E invece Di Battista che è, nientemeno, il vicepresidente della Commissione Esteri della Camera, ritrova nel messianesimo squinternato di Casaleggio il brodo della destra antiamericana contro le multinazionali e contro l’Occidente.
E frullandolo con vecchi fantasmi di sinistra e con l’antisemitismo di Grillo qua e la persino si imbatte – per errore – in qualcosa di vero, ma non ha più bisogno di citare Marx o Heidegger perchè ha ben altri maestri: “come disse Beppe Grillo in uno dei suoi spettacoli illuminanti…”.
Dunque Di Battista, che ha raccontato le sue avventure d’autostop in Centroamerica con un libro inchiesta intitolato Sicari a cinque euro edito da Casaleggio, ieri ha appunto pubblicato sul blog della casa il libretto rosso della politica estera grillina che, senza offesa, non è possibile prendere sul serio nè con l’indignazione nè con l’analisi critica neppure per demolirlo benchè cominci subito con un errore blu definendo “tre popolazioni” i curdi, i sunniti e gli sciiti, che in geopolitica è come scrivere squola con la q.
La verità è che si tratta di un insaccato misto del cattivo umore e dell’irresponsabilità del web, dove c’è ovviamente la Cia, perchè non c’è bomba e non c’è delitto e non c’è dittatore che Di Battista non attribuisca alla k di Amerika: “Mi domando per quale razza di motivo si prova orrore per il terrorismo islamico e non per i colpi di stato della Cia”.
E così evoca un gorgo, un maà«lstrom di schifezze, che coinvolge Opec, United Fruit company, Eni, Cosa Nostra, Enrico Mattei, Buscetta, Giovanni Falcone, Mauro De Mauro, Donald Rumsfeld, l’11 settembre “che è panacea per il grande capitale americano”. . .
E’ una grandine di acronimi, sigle e nomi che piovono come droni: i Paesi dell’ALBA, il Ttip, l’Iraq Petroleum Company, Qasim, le sette sorelle, il Desert storm, e ancora Lockheed Martin, Boko Haram, Al-Bakr…
È insomma una specie di parodia del linguaggio da Foreign Office a cura di Beppe Grillo, un goliardico copia-incolla alla Travaglio, che è forse l’unico tazebao a cui questi jihadisti a 5 stelle si appoggiano, la sola prosa scritta fuori dal web che frequentano: Travaglio è il loro Althusser.
Senza addentrarci nel già noto antisemitismo di Grillo, ovviamente riecheggiato da Di Battista, e nel solito, ormai scontato verminaio di disprezzo, insulti e gogne, è giusto ricordare come attenuante clinica l’autobiografia da Chatwin samaritano di cui va fiero questo povero deputato che al posto dei terroristi dell’Isis avrebbe “una sola strada per difendermi a parte le tecniche non violente che sono le migliori: caricarmi di esplosivo e farmi saltare in aria in una metropolitana”.
Sempre in giro in Patagonia, Cile, Bolivia, Amazzonia, Ecuador, Colombia, Perù e Nicaragua… è stato “cooperante in Guatemala” e nessuno sa cosa significa ma ha un bel suono da grillino planetario, ovviamente in autostop, ben al di là del famoso “giro e vedo gente” di Nanni Moretti.
Ancora più denso di umanità grillina è l’autoqualifica di “specialista di microcredito in Congo”. Ma ecco il più misterioso e dunque affascinante lavoro di Di Battista: “Ho curato progetti di sviluppo nei Paesi australi”.
Laureato in spettacolo a “Roma Tre”, avrebbe voluto fare l’attore e dunque tentò, purtroppo invano, un provino per Amici.
Gli è però rimasta la voglia di farsi protagonista: “Sono pronto a fare il premier” disse a Daria Bignardi.
E ha infatti partecipato a tutte le zuffe politiche riprese dalla televisione. Provocare per apparire è il disturbo catodico che lo rende mattacchione, pronto a dare dell’indecente alla Boldrini o a scrivere appunto l’elogio dei macellai dell’Isis, di cui vi risparmiamo altri particolari, ma anche a battersi per fare una legge “contro la bistecca”, “perchè la carne fa male”, e può ben dirlo lui che dice di essersi “occupato di Diritto dell’alimentazione per conto dell’Unesco”.
Tutti lo ricordiamo quando al troppo mite Roberto Speranza ripeteva, come un invasato: “Tagliati lo stipendio, tagliati lo stipendio, tagliati lo stipendio. Gli italiani hanno fame e voi gli avete tolto il pane”.
E subito dopo, fisso sulla telecamera, con un’intransigenza da eroe nazionale: “Guardategli gli occhi, io li ho visti. Bisogna guardare gli occhi a questa gente per capire che vogliono fare gli interessi dei banchieri”.
Insomma è un picchiatello il grillino al quale ora piace il Califfato e vorrebbe “trattare con i tagliagole, elevarli a interlocutori” perchè il terrorista “non è un soggetto disumano con il quale non si può parlare…”.
Ecco: con la mafia no, con Berlusconi mai, ma con l’Isis Di Battista offre lo streaming…
Abbiamo avuto nel nostro Parlamento diavoli in forma di ladri e di mafiosi, ora abbiamo i Giufà e i Bertoldo di cui Di Battista è in fondo il caso limite, il più goffo e il più ingenuo nella nuova classe dirigente di pasticcioni e di inadeguati velleitari.
Ed è il solo che nessuno prenderà sul serio nella dilagante minchioneria infantile che è la fase terminale della crisi italiana.
Meglio i diavoli dei minchioni.
Francesco Merlo
(da “La Repubblica“)
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Agosto 17th, 2014 Riccardo Fucile
POVERI BOCCIATI ALL’ESAME DELL’INPS… I COMUNI: REDDITO ISEE SOTTO I 3.000 EURO E’ UNA SOGLIA TROPPO BASSA, FONDI INUTILIZZABILI
Per lo Stato italiano chi ha un reddito superiore a 3 mila euro all’anno non può essere definito povero.
Non ha diritto a un sostegno; ce la fa benissimo da solo.
Gli altri, quelli che a 3 mila euro non arrivano, possono invece aspettare.
Un paese che volesse davvero prendere a picconate la sua asfissiante burocrazia forse potrebbe partire da questo rompicapo chiamato social card, che alla fine dello scorso anno avrebbe dovuto assegnare un piccolo contributo mensile a 50 mila persone – così aveva annunciato il governo – e che invece non ne coinvolgerà più di 11 mila, ma non ha versato un euro quasi a nessuno, nonostante i soldi siano disponibili da un anno.
È il 10 gennaio 2013: uno degli ultimi atti firmati dall’allora ministro Fornero rivede la vecchia social card introdotta dai governi Berlusconi sperimentandola nelle 12 città con più di 250 mila abitanti.
Prevede di erogare da 231 a 404 euro al mese, a seconda dei casi, per un anno.
In estate il governo Letta avvia le procedure. I comuni pubblicano i bandi per raccogliere le domande.
Ne arrivano meno del previsto, ma le città (quasi tutte) fanno la loro parte: assemblano le graduatorie e le inviano all’Inps.
Il governo ha promesso di staccare i primi assegni a dicembre, il tempo c’è.
Invece l’Inps risponde a marzo. Ed è una falcidia: a Torino vengono accolte 350 domande su 4900, a Napoli 880 su 2.800, a Bari 321 su 1.100, a Milano 600 su 1500, a Firenze la miseria di 66 su 500.
I poveri non sono abbastanza poveri. Almeno, lo sono per i comuni in cui risiedono, dove spesso sono seguiti dai servizi sociali, ma non per l’Inps, che ha fissato paletti così rigidi da rendere la social card un “benefit” per pochi e sfortunatissimi intimi: bisogna avere un reddito Isee inferiore a 3 mila euro, figli a carico, una casa con rendita bassissima, non aver acquistato un’auto o una moto nell’ultimo anno e mille altri requisiti.
Mentre chi ha fatto domanda aspetta, i comuni ingaggiano un durissimo braccio di ferro con l’Inps: le graduatorie vengono limate, riviste, contrattate.
Passano altri mesi: Catania, Palermo, Milano e Torino a giugno hanno la lista definitiva, le altre annaspano ancora.
Roma, il 31 luglio, ha inviato la sua graduatoria di 5.482 nomi e chissà quando riceverà la risposta.
I beneficiari aumentano: oggi sono 6 mila, Roma esclusa.
Ma dopo 14 mesi quasi nessuno ha ricevuto i soldi promessi per lo scorso dicembre. Gli intoppi non finiscono mai: superata la mannaia dell’Inps, l’aspirante beneficiario deve vedersela con le poste.
La social card funziona come un bancomat: bisogna ritirare prima la tessera e poi il codice pin.
Quindi attivarla e sperare che prima o poi qualcuno la carichi, cioè accrediti il denaro. Invece c’è chi ha la tessera ma non il pin, chi ha il pin ma non riesce ad attivarla e chi ha tutto ma scopre che è scarica.
Finora meno di mille persone hanno ricevuto il contributo: 347 a Torino, circa 200 a Bari, forse altrettanti a Palermo.
Il condizionale è d’obbligo perchè i comuni hanno perso il controllo della situazione. «Io non so chi ha ricevuto la social card e chi no», racconta Agnese Ciulla, assessore alle Politiche sociali di Palermo.
«L’Inps non ci dice nulla». E allora come fate a sapere che non sono arrivate nè le tessere nè i soldi? «Perchè chi aspettava questo sostegno ha perso la pazienza e non sapendo a chi chiedere e con chi prendersela, viene in Comune».
Palermo, Torino e Catania useranno tutti i soldi a disposizione. Le altre città , se va bene, ne useranno la metà .
Il governo è corso ai ripari. «Servono procedure più snelle», spiega Franca Biondelli, da maggio sottosegretario alle Politiche sociali.
«Le persone hanno bisogno di risposte rapide, invece questo sistema si è rivelato lento».
Per le future social card sono stati stanziati 170 milioni e il ministero ne ha chiesti altri. «La estenderemo a tutti i comuni, garantendo loro maggiore autonomia».
Ma è già certo che i 50 milioni disponibili da giugno del 2013 verranno usati solo in parte: nella migliore delle ipotesi – cioè se Roma riuscirà a spendere tutta la sua dotazione – si arriverà a 36 milioni.
In un paese con 10 milioni di poveri – secondo l’Istat – lo Stato non è riuscito a trovarne 50 mila.
Andrea Rossi
(da “La Stampa“)
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Agosto 17th, 2014 Riccardo Fucile
LE RIVELAZIONI DE “LA REPUBBLICA” E “IL MESSAGGERO”: SCONTO SULLA RIDUZIONE DEL DEBITO, MA SARA’ L’ECOFIN A STABILIRE QUALI RIFORME FARE…E SUL “CORRIERE DELLA SERA” ALESINA E GAVAZZI SUGGERISCONO INVECE DI SFORARE I PARAMETRI EUROPEI
Ottenere da Bruxelles, in vista della preparazione della legge di Stabilità , uno “sconto” sulla riduzione del debito che andrà messa a segno a partire dal prossimo anno per rispettare le regole del Fiscal compact.
E portare a casa anche l’agognata flessibilità sul ritmo a cui occorre far dimagrire il rapporto deficit/Pil.
Il tutto, eventualmente, nella cornice di un vero e proprio “accordo contrattuale” con la Ue, a cui il governo potrebbe delegare il compito di decidere quali sono le riforme prioritarie e quale il percorso da seguire per la loro attuazione.
E’ lo scenario delineato da Repubblica e Messaggero.
Secondo i quotidiani romani l’esecutivo di Matteo Renzi ha intenzione, fin dal Consiglio europeo straordinario di fine agosto, di discutere con i partner della possibilità di uno scambio tra flessibilità e riforme strutturali.
Nulla di nuovo, detta così, ma si tratterebbe di un cambiamento radicale se davvero, come riporta il giornale della Capitale, “secondo il piano italiano dovranno essere l’Ecofin e poi il Consiglio europeo a stabilire le riforme ‘che devono essere considerate prioritarie’ e a indicare ‘gli incentivi ‘ per quagli Stati che le attuano — sotto monitoraggio europeo — ‘in modo coordinato’: più o meno la ‘cessione di sovranità ‘ invocata da Draghi“.
Insomma: il retroscena prefigura esplicitamente il ricorso ai cosiddetti “contractual agreement” proposti da Angela Merkel: contratti tra la Commissione Ue e un singolo Stato che accetta di farsi dettare un piano di interventi e di portarlo avanti sotto la supervisione comunitaria in cambio di più margini per la riduzione del deficit e del debito.
In pratica un’alternativa soft all’intervento diretto della troika.
Una scelta che sembrerebbe in netto contrasto con quanto rivendicato dal presidente del Consiglio dopo la strigliata del presidente della Bce: “Non è l’Europa che ci deve dire cosa fare”, aveva attaccato Renzi. Che però pochi giorni dopo ha incontrato Mario Draghi in Umbria.
Il quotidiano di Largo Fochetti non si spinge a prevedere la firma di un accordo di questo tipo, ma si concentra sul contenuto della trattativa tra Roma e Bruxelles.
Al centro del negoziato ci sarebbero le regole del Fiscal compact, che dal 2015 imporrà di ridurre di un ventesimo ogni anno la parte di debito pubblico eccedente il 60% del Pil (l’Italia ha superato quota 135%).
Secondo Repubblica Renzi, alla luce dei recenti dati sul rallentamento dell’economia dell’intera Eurozona, Germania compresa, vuol chiedere per l’Italia e “per tutti i partner europei con un rapporto debito/pil appesantito” un dimezzamento della quota di riduzione della “zavorra”: non più 0,5% (un ventesimo, appunto), ma 0,25%.
“Con un potenziale risparmio di diversi miliardi, tra i 4 e i 5″, che andrebbero ad alleggerire la legge di Stabilità riducendo i tagli a quota 15-17 miliardi.
E, come effetto collaterale, la possibilità di “escludere una manovra correttiva a settembre”.
In più, il governo vorrebbe ottenere la cancellazione dell’obbligo “di rispettare nel 2015 l’obiettivo fissato nell’ultimo Def di un rapporto deficit/Pil all’1,8%.
L’asticella si potrebbe spostare verso il 2,2-2,4 per cento”.
Intanto dalla prima pagina del Corriere della Sera gli economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi suggeriscono al governo di sforare i parametri europei pur di far ripartire l’economia.
Renzi, secondo il docente di Harvard e il collega della Bocconi, dovrebbe “tagliare subito e in modo permanente le tasse sul lavoro di almeno due punti di Pil (cioè circa 33 miliardi l’anno) e al tempo stesso approvare tagli di spesa della medesima entità ” e “liberalizzare il mercato del lavoro affinchè la maggior domanda che si creerebbe possa produrre posti di lavoro ‘veri’ e non solo precari“.
Il deficit “per qualche anno aumenterebbe”, avvertono Alesina e Giavazzi, “con la conseguenza che violeremmo le regole europee”.
E servirebbero dunque “un piano credibile di rientro e di riforme” che tranquillizzino i mercati.
L’alternativa c’è: “Rimanere all’interno del 3% nel rapporto deficit-Pil” e “sperare che l’economia si riprenda da sola”.
Ma “a noi pare che la situazione sia ormai così seria che i rischi della seconda strategia, cioè non contrastare con efficacia la recessione, siano maggiori della prima”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Agosto 17th, 2014 Riccardo Fucile
“MEGLIO FAR SCENDERE GLI STIPENDI SOTTO I MINIMI CONTRATTUALI CHE UN’ALTA DISOCCUPAZIONE”
“La soluzione è semplice: espansione. Stimolare l’economia tagliando le imposte e finanziandosi col supporto della Banca centrale europea”.
Senza, “fra vent’anni i libri di storia parleranno di decenni perduti”.
Guido Tabellini, economista, ex rettore della Bocconi, è l’esponente più autorevole della cabina di regia economica che Matteo Renzi vorrebbe a Palazzo Chigi.
La sua ricetta, in generale, ricalca il “modello tedesco”: riforme del lavoro che tengano sotto controllo i salari e favoriscano le esportazioni.
Eppure la Germania, che finora ha attuato queste politiche in maniera aggressiva, sta rallentando.
Colpa delle tensioni ucraine, ma soprattutto delle politiche sbagliate dell’area euro.
Quelle che, di fatto, decide proprio la Germania.
Non solo lei. Ma sono ottuse: in queste condizioni i vincoli di bilancio (come il famoso 3% del deficit/Pil) strozzano i paesi del Sud Europa.
L’Italia si deve quindi impegnare per cambiarli?
Non lo accetteranno mai. Chiariamo una cosa: quei vincoli, come la camicia di forza imposta alla Bce — che deve limitarsi a tenere sotto controllo l’inflazione — erano negli accordi. La Germania è entrata nell’euro a queste condizioni di favore. Se fossero state diverse, non lo avrebbe fatto.
Adesso, però, sembra accusare il colpo
Le politiche macroeconomiche sbagliate danneggiano anche loro.
Come se ne esce?
Facendo come Usa e Giappone. Fare deficit per finanziare tagli di tasse. La Bce dovrebbe sostenere questa politica acquistando titoli di stato.
Finora non l’ha fatto.
I tedeschi non lo vogliono.
La Bce ha ribadito di essere pronta a “usare mezzi non convenzionali”.
Per ora sono parole, per giunta in grave ritardo. Guardate il bilancio della Bce: è diversi trimestri che si sta restringendo, insieme all’offerta di credito. Prima o poi sarà costretta a passare dalle parole ai fatti.
Quindi, che si fa?
Riacquistare competitività e rilanciare l’export.
La Germania lo ha fatto comprimendo i salari: così i beni tedeschi hanno conservato prezzi competitivi, ma la domanda interna è calata parecchio.
Non ci sono alternative. Il grande avanzo commerciale tedesco crea squilibri che normalmente dovrebbero essere compensati dalla rivalutazione della loro moneta. Con l’euro non si può fare. Noi non possiamo svalutare il cambio per rendere i nostri beni a prezzi convenienti, ma possiamo riprodurre gli effetti economici della svalutazione. Tagliando i contributi sociali pagati dalle imprese. Dove troviamo i soldi? Tagliando i trasferimenti alle Ferrovie e alle Poste e ad altri servizi.
È il piano Giavazzi. Questo, però, farà salire il prezzo di quei servizi.
Non abbiamo scelta e comunque questo allontanerebbe la deflazione. Ma dobbiamo intervenire anche sul lavoro. Qui abbiamo un esempio.
Quale?
La Spagna, che è tornata a crescere. Bisogna ridurre il peso della contrattazione collettiva a vantaggio di quella aziendale.
Per fare cosa?
Per consentire alle imprese meno produttive di far scendere i salari anche sotto il minimi contrattuali, anzichè licenziare o ricorrere alla Cig.
Un’occupazione senza tutele e con salari bassi.
Sempre meglio che avere una disoccupazione alta o un lavoro a tempo determinato. Il dualismo tra chi ha tutte le tutele e chi non ne ha, c’è già .
Ma così la nostra domanda interna rimane ferma.
Però sarebbe compensata da una maggiore domanda estera. L’effetto regressivo sui redditi bassi potrebbe essere attenuato dalle detrazioni Irpef.
Il premier Matteo Renzi ha detto che “la crescita non si fa tagliando i salari”.
È chiaro che se i salari sono più alti c’è più ricchezza e più domanda. Ma il loro livello deve riflettere la condizione del Paese. Se sono troppo alti rispetto alla produttività questo ha un effetto negativo sull’occupazione. Non c’è antitesi.
Questi sacrifici basterebbero a farci uscire dalla recessione ?
Senza l’intervento della Bce sarà difficile. Ma potremmo negoziare da una posizione migliore.
Lei ha detto che è “meglio uscire dall’euro che ristrutturare il debito pubblico”.
Confermo. Ma sarebbe l’ultima spiaggia e siamo ben lontani da quella situazione. Un’eventuale uscita la pagheremmo comunque a caro prezzo.
Carlo Di Foggia
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Agosto 17th, 2014 Riccardo Fucile
ADDIO AGLI ACCORDI UE SANCITI AD APRILE… A SETTEMBRE CI SARA’ IL BOTTO DAVVERO
Più si avvicina la scadenza in cui bisognerà aggiornare il Def e scrivere la legge di Stabilità più diventa chiaro che quello che è stato scritto nel Documento di economia e finanza ad aprile previo accordo con Bruxelles è una pia illusione: per rispettare gli impegni scritti per il 2015, infatti, servono miglioramenti in bilancio per non meno di 18-20 miliardi, al netto della conferma del bonus da 80 euro che ne costa altri dieci l’anno.
A poche settimane dal momento decisivo, anche rispetto alle trattative in Europa, il governo si presenta confuso, dilettantesco, a volte schizofrenico.
Un breve riassunto.
C’è un equivoco: i conti pubblici Matteo Renzi, Pier Carlo Padoan e altri membri del governo amano parlare del vincolo del 3%: “Non sforeremo”, dicono.
Questo impegno, però, vale solo per il 2014, mentre l’anno prossimo — cioè l’anno che va definito con la legge di Stabilità a ottobre — abbiamo preso impegni ben più gravosi: un rapporto deficit/Pil reale al-l’1,8% e strutturale (cioè tenuto conto dell’avverso ciclo economico) allo 0,1%, cioè quasi il pareggio di bilancio.
Rispetto alla situazione che si delineerà a fine anno (deficit, se va bene, al 2,9% del Prodotto) significa una correzione di oltre un punto percentuale e forse peggio visto che le previsioni di crescita si sono rivelate al solito troppo allegre: 18-20 miliardi al minimo, appunto, che il governo s’è impegnato a trovare entro il 2015.
Problema: Matteo Renzi continua a parlare solo dei 17 miliardi di tagli della spending review e li cita come copertura del bonus Irpef, che costa dieci miliardi.
Tradotto: la manovra che il Def imporrebbe sul rapporto deficit/Pil non verrà fatta. Peraltro lo sostengono fonti governative, anche se al Tesoro non sono di questo parere.
Ieri Il Mattinale di Forza Italia l’ha messa così: “Servono 30 miliardi”. C’è un equivoco: i consumi interni Come spiega qui sotto il professor Tabellini, se si accetta di stare nella moneta unica, l’Italia i suoi consumi li deve comprimere per non ritrovarsi di nuovo con un debito estero (non pubblico, estero) fuori controllo. Curiosamente, però, l’unico provvedimento serio del governo Renzi — finora il bonus da 80 euro: “Non sono elemosina, ma misura per rilanciare i consumi”, twittava il premier a fine aprile.
In realtà il governo, nel solito Def, aveva stimato in un misero +0,1% l’effetto reale della norma. Forse Graziano Delrio non lo sapeva: “Pensavo francamente che avessero più effetto, ma bisogna pensare a cosa sarebbe successo se non ci fossero stati”.
Chissà , però è bizzarro che la principale fonte di copertura della misura sia un taglio lineare da 2,1 miliardi all’acquisto di beni e servizi di Stato, regioni e comuni (5 miliardi a regime, dal 2015): si potrebbe dire, infatti, che si tenta di rilanciare la domanda interna tagliando… la domanda interna.
C’è un equivoco: gli investimenti
Sono uno dei tormentoni del presidente del Consiglio: i cantieri nelle scuole, il dissesto idrogeologico, le infrastrutture e via così.
Anche nel Def, ovviamente, si parla della necessità di “sfruttare le opportunità offerte da un quadro europeo oggi più favorevole agli investimenti per la crescita e l’occupazione”.
Questo all’inizio, poi nelle tabelle si scopre che gli investimenti pubblici sono passati dall’1,7% del Pil di Monti all’1,6% di Letta giù fino all’1,4% di Renzi.
Negli anni Novanta, per capirci, erano al 3%.
Anche lo Sblocca Italia è un equivoco: Renzi ha parlato di 43 miliardi di investimenti da sbloccare in 27 opere; per Il Sole 24 Ore è “aria fritta” o “una farsa”; le bozze di provvedimento confermano (lo stanziamento di soldi “nuovi” ammonta a un miliardo e mezzo in tre anni).
C’è un equivoco: la crescita del Pil
“A settembre ci sarà una grande ripartenza col botto”, ha sostenuto il premier qualche giorno fa. È bizzarro, però, che per fare “il botto”, proprio a settembre, il governo debba mettere mano a un’operazione che prevede 17 miliardi di tagli di spesa pubblica (nella migliore delle ipotesi) quest’anno e 32 miliardi da quello successivo. Non s’è mai vista, infatti, una riduzione di spesa che non sia recessiva, persino se la si usa per una parziale riduzione di imposte.
Il menù, d’altronde, non è tranquillizzante: oltre alla citata sforbiciata agli acquisti, tagli alla Sanità (altri 300 milioni già quest’anno, oltre 3 miliardi dal 2016); tagli per 2,2 miliardi di trasferimenti alle imprese e di 1,8 miliardi a partecipate e Ferrovie dello Stato (una cosetta che comporterà l’aumento dei biglietti nelle tratte regionali, quelle dei pendolari); probabile anche la proroga per un altro anno del blocco degli stipendi degli statali (attivo dal 2010 e che vale circa 3,5 miliardi l’anno); dulcis in fundo una revisione al ribasso di deduzioni e detrazioni fiscali (non quelle politicamente insostenibili come le spese per i figli o la salute).
Ha ragione Renzi: a settembre c’è il botto.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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