Agosto 8th, 2014 Riccardo Fucile
NEL 2012 COSTAVANO IN MEDIA 152.000 EURO L’ANNO, ORA “SOLO” 149.000
Una Porsche! Com’è venuto in mente a una delegata dei dipendenti di Montecitorio, per spiegare i mugugni contro i tagli, di paragonare la «macchina» burocratica della Camera a un’auto di lusso che «come tutte le cose pregiate» è giustamente costosissima?
Quel tetto di 240 mila euro di stipendio massimo che dovrebbe essere imposto è di 9 mila superiore alla busta paga di Angela Merkel: la cancelliera tedesca ha forse una «professionalità » più bassa dei nostri funzionari?
Di più: quel tetto, dopo anni di crisi, consumi in calo, disoccupazione crescente, equivale al Pil pro capite di 9 friulani, 14 sardi, 16 pugliesi o 17 calabresi…
Chi lo spiegherà , ai cittadini, che si tratta di «diritti acquisiti» e intoccabili?
La signora Anna Danzi, che si riconosce in una delle undici (undici!) sigle sindacali di Montecitorio, non poteva scegliere giorno peggiore per schiaffeggiare gli italiani. Proprio nelle ore in cui l’Istat comunicava che siamo ancora in recessione e che l’uscita dalla crisi si allontana di nuovo, ha spiegato a Tommaso Ciriaco di Repubblica : «Il nostro lavoro richiede una elevata professionalità . Come tutte le cose pregiate, come una Porsche, ha un costo. Nessuno si stupisce se costa di più un diamante di una pietra di scarso pregio».
Ma come: abbiamo una squadra di fuoriclasse nel cuore dello Stato eppure siamo l’unico paese dell’Europa e dell’Ocse ad avere avuto negli ultimi anni un crollo del reddito pro capite?
Le cose vanno male solo per colpa dei governi, dei premier, dei ministri, dei deputati e senatori che non approfittano della fortuna di avere in tasca quei purissimi «diamanti»?
Al di là delle ironie, che la progressiva decadenza di una classe politica sempre più mediocre abbia spalancato spazi enormi agli apparati di supporto è indiscutibile.
Che questi apparati siano spesso chiamati a rimediare alle carenze di questo o quell’altro eletto del popolo è altrettanto vero.
E gli italiani devono essere grati a tanti funzionari e dirigenti perbene e preparatissimi che in questi anni hanno accudito uomini di governo talora incapaci, arginandone gli errori.
Chapeau . E grazie.
Detto questo, va ricordato anche che in troppi si sono impossessati di un potere immenso dando ragione a Max Weber: «Ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni».
Al punto che mesi fa Pietro Ichino si levò in Senato sventolando una legge in votazione: «Questo è un testo letteralmente illeggibile. Non è solo incomprensibile per i milioni e milioni di cittadini chiamati ad applicarlo, ma illeggibile anche per gli addetti ai lavori, per gli esperti di diritto del lavoro e di diritto amministrativo. È illeggibile per noi stessi legislatori che lo stiamo discutendo (…) Credo che in Aula, in questo momento, non ci sia una sola persona in grado di dirci cosa voglia dire». Risultato: il burocrate estensore di quella legge è l’unico in grado di interpretarla.
Di quella legge è dunque il padrone. Non va così, in una democrazia sana.
Ha spiegato mesi fa il commissario alla spending review Carlo Cottarelli che i dirigenti pubblici di prima fascia sono pagati mediamente il 4,27% più del reddito pro capite dei propri concittadini in Germania, il 5,21% in Francia, il 5,59% in Gran Bretagna, il 10,17% in Italia.
I cittadini sono o no autorizzati a chiedere perchè mai i nostri dovrebbero essere pagati più del doppio dei tedeschi nonostante il loro Stato, il loro sistema sociale, la loro economia vadano molto meglio?
È accettabile che, come spiegano i dati messi online dalla Camera per una scelta di trasparenza, un consigliere parlamentare possa arrivare a prendere 421.219 euro lordi e cioè quasi duecentomila più di Ban Ki-moon, che come segretario dell’Onu di euro ne guadagna 222 mila?
Di più, mentre altri sindacalisti di Montecitorio come Claudio Capone della Cgil sostenevano il rifiuto del tetto perchè «dà l’idea che un datore di lavoro può decidere che un dipendente guadagni troppo e togliergli parte dello stipendio», la signora Danzi ha aggiunto che per carità , nessun tabù nelle trattative, «ma da dieci anni sigliamo accordi a perdere. Siamo stanchi di vedere peggiorare il nostro status giuridico ed economico senza una riforma organica».
Sicura? Stando ai bilanci della Camera è vero che, dopo tante polemiche sui costi, il monte-stipendi e le retribuzioni medie hanno preso a calare.
Soprattutto grazie agli esodi di chi si è affrettato ad andare in pensione appena possibile, s’intende, col risultato che i trattamenti di quiescenza pesano sempre di più. Ma diamo a Cesare quel che è di Cesare e a Laura Boldrini quel che è di Laura Boldrini, dei grillini e degli altri deputati che hanno appoggiato i primi tagli: nel 2012 un dipendente della Camera costava in media 152.531 euro, l’anno dopo 150.403 e oggi, con i dipendenti ridotti a 1.417, «solo» 149.047 euro. Bene.
Da qui a dire che da anni i «montecitorini», scusate il neologismo, prendono di meno, però, ce ne corre.
Il costo medio di un dipendente nel 2006, prima della crisi, era di 112.071 euro. Da allora, se le retribuzioni fossero state semplicemente aggiornate con l’inflazione (cosa che gli altri dipendenti, comunque, se la sognano dopo l’abolizione della scala mobile), il costo unitario sarebbe salito nel 2013 secondo i parametri Istat a 128.881. Invece, come dicevamo, è stato di 21.522 euro superiore: più 34% (nominale) in otto anni.
Un incremento stratosferico, offensivo in anni di vacche magrissime.
Nel frattempo, secondo l’Ocse, il reddito medio italiano perdeva dal 2007 al 2012 (e poi è calato ancora…) il 12,9% subendo «una diminuzione di circa 2.400 euro rispetto al 2007, arrivando a un livello di 16.200».
Tutti italiani che la Porsche o i diamanti non possono permetterseli di sicuro…
Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera”)
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Agosto 8th, 2014 Riccardo Fucile
IL PRIMO SALVATAGGIO COSTO’ 4 MILIARDI… UN BAGNO DI SOLDI ANCHE PER LE BANCHE… E ALTRI 2.251 POSTI DI LAVORO IN MENO
“Non sarà una rivoluzione ma una evoluzione, vogliamo rendere Alitalia più sexy”.
E’ stato con queste parole che l’amministratore delegato di Etihad, James Hogan, ha messo l’anello al dito di Alitalia.
Dopo mesi di trattative e colpi di scena, venerdì 8 agosto l’ex compagnia di bandiera ha infatti siglato l’intesa che permetterà al vettore aereo del Golfo, di diventare socio al 49% della nuova Alitalia con un investimento da 560 milioni di euro.
Va, dunque in porto il secondo salvataggio dell’ex compagnia di bandiera a un costo per la collettività che resta alto, sebbene nettamente inferiore ai circa 4 miliardi del primo paracadute offerto alla compagnia dal governo Berlusconi nel 2008.
Difficile al momento fornire una cifra precisa, ma di sicuro l’esborso per le sole casse dello Stato non sarà inferiore ai 600 milioni.
Inclusi i circa 300 milioni di risparmi che la compagnia realizzerà nel 2014 sul costo del lavoro e che sono destinati a trasformarsi in oneri sociali attraverso gli ammortizzatori e il blocco dei contratti.
La cifra inoltre non tiene conto anche di altri “costi oculti” del salvataggio come la “tassa” di tre euro a biglietto sui passeggeri di tutte le compagnie per finanziare l’integrazione di stipendio per i dipendenti in eccesso dell’intero comparto aereo.
E poi ancora i costi del caos bagagli nel pieno delle vacanze estive e degli scioperi per i 2.251 esuberi.
Lo Stato ha del resto soccorso in vario modo la malandata compagnia di bandiera. Innanzitutto via Poste Italiane, secondo socio di Alitalia con il 19,48 per cento, che ha messo sul piatto complessivamente 150 milioni in due tranches.
Di questa cifra settantacinque milioni sono stati sborsati a dicembre durante la gestione dell’ex ad Massimo Sarmi e sono stati ampiamente bruciati dalla compagnia. Altri 75 milioni arriveranno con il prossimo aumento di capitale da 300 milioni necessario alla sopravvivenza dell’azienda assieme ad un prestito ponte da 200 milioni.
Il denaro però non finirà nella “fornace” della vecchia Alitalia.
Il nuovo ad delle Poste, Francesco Caio, ha chiesto e ottenuto di diventare azionista della nuova società in cui investirà la compagnia del Golfo.
Un’operazione complessa, quella congegnata da Caio, realizzata attraverso una scatola intermedia, detta midco, che eviterà a Poste di accollarsi gli oneri del passato che resteranno confinati nel vecchio gruppo, la bad company.
Il sostegno all’Alitalia dalle casse pubbliche non si è fermato però qui.
Già ai tempi del governo Letta, Palazzo Chigi aveva stabilito una serie di incentivi a favore del settore mettendo le mani nelle casse dell’Enav per la copertura finanziaria (61 milioni).
Destinazione Italia, in particolare, aveva deciso che le indennità di volo, concesse al personale navigante, non sarebbero finite per il 2014 nel computo del reddito ai fini contributivi. Operazione possibile grazie appunto a 28 milioni di fondi Enav.
Ora il governo Renzi vorrebbe rincarare la dose con lo Sblocca-Italia dove si prevede che la misura venga allungata fino al 2017 portando il conto del sussidio (finora solo stimato) fino a 112 milioni spalmati su quattro anni.
Di tutti questi fatti e del ruolo dello Stato nella partita Alitalia terrà conto Bruxelles dove il dossier delle nozze con Etihad è già stata depositato da tempo, ma necessita di integrazioni legate alla nuova struttura dell’intesa.
Nell’ipotesi in cui tutto fili liscio, le nozze saranno quindi celebrate per la fine dell’anno. O, almeno, è quanto si augura il management di Alitalia che sa bene quanto sia importante far ripartire l’azienda che ha archiviato il 2013 anno con perdite record per 588 milioni e continua a bruciare cassa.
Più infatti i tempi si allungano, maggiore sarà la liquidità necessaria al gruppo per tenersi in piedi prima di ripartire accanto ad Etihad.
Un dettaglio non da poco per le banche creditrici e, nei primi due casi, azioniste, Intesa, Unicredit, Mps e Popolare di Sondrio che rinunceranno a 565 milioni di crediti su un miliardo di debiti finanziari.
Il bilancio dell’operazione di sistema per gli istituti di credito è molto pesante. Soprattutto per Intesa, che guidò’ il salvataggio 2008 con l’allora amministratore delegato Corrado Passera: la banca ha bruciato 176 milioni nella ricapitalizzazione, ha cancellato 40 milioni di debiti e dovrà investirne altri 90 milioni per convertire parte dell’esposizione in azioni.
L’avventura aerea è costata cara anche a Unicredit con prestiti che non rientreranno più (80 milioni) e che diventeranno capitale (160 milioni), oltre a 50 milioni sfumati con la ricapitalizzazione di dicembre.
Mps e Popolare di Sondrio sono riuscite a limitare i danni per via del minore coinvolgimento nel salvataggio targato Cai.
Ma sul fuuro pesa un’altra variabile: le banche avranno in pancia ancora titoli Cai sperando di non essere costretti a svalutarli in futuro come già accaduto in passato.
Il timore è diffuso nell’attuale azionariato della compagnia.
Non a caso dal prossimo aumento di capitale si sfileranno i soci Toto, Marcegaglia e Gavio lasciando il campo a Intesa (88 milioni), Poste (74 milioni), Atlantia dei Benetton (50 milioni), Unicredit (65 milioni) e altri azionisti minori (25 milioni) fra cui la Immsi di Roberto Colaninno e la Pirelli di Marco Tronchetti Provera.
Nonostante tutti i sacrifici pubblici e privati, per Alitalia è però ancora presto per cantare vittoria.
Concluse le trattative con banche, soci e sindacati e siglata l’intesa con Etihad, la compagnia e l’intero progetto finiranno sotto la lente di Bruxelles che non solo dovrà dare l’ok all’ingresso degli arabi nell’ex compagnia di bandiera, ma dovrà anche esprimersi sul ruolo di Poste il cui sostegno all’operazione potrebbe configurarsi come aiuto di Stato.
Lo sa bene la compagnia degli emirati che ha posto come clausola di validità dell’accordo l’ottenimento del via libera da parte delle autorità comunitarie.
Insomma manca ancora tempo al decollo che, con ogni probabilità , vedrà in cabina di pilotaggio in qualità di presidente, Luca Cordero di Montezemolo.
Fiorina Capozzi
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Agosto 8th, 2014 Riccardo Fucile
L’ALLARME DELLE PROVINCE, COLPITE DA TAGLI PER 9 MILIARDI: “NON POSSIAMO GARANTIRE LA SICUREZZA E IL RISCALDAMENTO”… TREMILA ISTITUTI SENZA I FONDI PER LA MANUTENZIONE
L’allarme apertura delle scuole, che dal 2012 a oggi è cresciuto ogni estate con un’intensità pari ai tagli subiti, nelle parole del presidente della Provincia di Bari si fa grido: «Il 17 settembre non riusciremo ad aprire i portoni dei nostri 138 istituti, ci manca tutto». Francesco Schittulli ha scritto al presidente del Consiglio, Matteo Renzi.
Ha scritto proprio così: «La ripresa delle lezioni potrebbe non essere garantita per questioni di sicurezza».
Al suo bilancio mancano 43,5 milioni di euro, destinati alla manutenzione ordinaria e straordinaria: eliminazione delle architetture pericolose, acquisto degli arredi basilari.
Nello specifico, la Provincia di Bari sta chiedendo alla Regione Puglia 116 milioni di arretrati, ma non sono le partite di giro tra enti locali il nocciolo del problema.
La questione è questa: tra il 2011 e il 2014 alle Province d’Italia sono stati sottratti 9 miliardi e 415 milioni, un miliardo e sette solo quest’anno.
Altri 344 milioni di finanziamenti statali non più dovuti (lo dice la riforma Delrio, entrerà in vigore il 12 ottobre prossimo) toglieranno alle centosette Province l’ossigeno per sopravvivere.
Le Province italiane non sono state abolite, solo fortemente depotenziate, e continuano ad avere in carico uno stock importante di scuole: 5.179 edifici che ospitano 3.226 secondarie.
Continueranno in futuro, senza soldi. I presidi baresi rivelano che con i finanziamenti europei ormai si comprano le sedie per le aule, si realizzano i controsoffitti.
I bidelli, in Puglia, sono diventati pittori per le imbiancature interne, elettricisti per l’installazione delle telecamere. Impalcature dimenticate da anni, finestre cadenti.
Per i banchi rotti, spesso, ci si rivolge a sponsor privati.
Al liceo scientifico Scacchi, pieno centro, il dirigente ricorda come da due anni servano 800 sedie nuove: la Provincia ne ha promesse la metà , ha organizzato il bando e alla fine ha fatto sapere: «Ci chiudono, non possiamo più comprarvi le sedie»
Il presidente del Consiglio provinciale di Reggio Calabria, Antonio Eroi, ha detto ai colleghi rottamandi: «C’è il rischio concreto che a settembre le scuole medie e gli istituti superiori non possano aprire perchè le amministrazioni provinciali non potranno fare i bilanci».
Domenico Zinzi (Caserta) lo ha detto al ministro dell’Interno, Angelino Alfano, compagno di partito: le nostre cento scuole in queste condizioni non otterranno il certificato di agibilità .
Dipendenti e funzionari della Provincia di Biella – che nell’autunno 2012 ha già registrato un default – hanno srotolato striscioni al Giro d’Italia: «Siamo destinati a morte certa».
Sessanta sindaci hanno chiesto un incontro con il governo: «Da ottobre non potremo avviare il riscaldamento delle aule».
Lo scorso inverno i ragazzi sono rimasti in classe con il cappotto, in una zona dove le temperature vanno sotto zero da novembre a febbraio.
A Teramo – meno 14,2 milioni in due stagioni – la sottrazione del calore a scuola è una voce necessaria.
Per la Provincia di Cuneo sono in arrivo altri tagli per cinque milioni e 300 mila euro: «Con questi ammanchi », assicura il commissario Giuseppe Rossetto, «non saremo in grado di far partire le scuole ».
Si va verso il disavanzo, «anticamera del dissesto».
La Provincia di Milano ha trovato geniale l’idea genovese (ottanta strutture, otto milioni da risparmiare) di togliere il sabato alla settimana scolastica: gli studenti sono felici, ventidue presidi su 57 delle superiori hanno aderito, l’amministrazione ha accolto entusiasta la possibilità di risparmio.
Lecco ha più volte sottolineato «la totale assenza » di risorse economiche: «Non abbiamo alcuna copertura finanziaria per qualsiasi gara d’appalto».
Poi, a compromettere il prossimo avvio dell’anno scolastico, ci appalesano i soliti vuoti negli organici.
Rivela la Cgil scuola della Toscana: «A settembre 104 istituti in regione saranno senza preside, 50 senza segretario, 2.706 cattedre saranno vacanti».
La situazione dovrà sbloccarsi entro luglio, dicevano i presidenti, «altrimenti saranno guai seri».
Ad agosto si sta studiando la reintroduzione della tassa sui passi carrai. «Ci vuole l’apertura del patto di stabilità anche per noi, come si è fatto per i comuni, ci stiamo lavorando con il governo », dice il presidente dell’Unione province d’Italia, Alessandro Pastacci. «Le scuole, comunque, le dobbiamo far partire».
Corrado Zunino
(da “La Repubblica”)
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Agosto 8th, 2014 Riccardo Fucile
IL FIGLIO DEL SENATUR PER IL DIPLOMA AVREBBE VERSATO 77.000 EURO DELLA LEGA… IL PARADOSSO: IL LEGHISTA RENZO INDAGATO DALL’ALBANIA PER VIOLAZIONE DELLA LEGGE SULL’IMMIGRAZIONE
Che peccato. Ormai alla laurea taroccata in Albania eravamo affezionati.
Era diventata l’immancabile «titolo di studio» di alcuni dei protagonisti delle più deplorevoli carriere politiche italiane, o meglio padane, visto che l’irresistibile tentazione del pezzo di carta comprato a Tirana colpiva soprattutto in casa leghista.
Ieri il Consiglio dei ministri albanese ha deciso di revocare la licenza a ben diciotto «istituti di istruzioni superiore», fra i quali la mitica Kristal University (ovviamente privata) dove il 29 settembre 2010 risultava laureato in Gestione aziendale Renzo Bossi in arte «Trota», figlio di Umberto e all’epoca rampante e votatissimo consigliere regionale lombardo.
Invece da oggi la pacchia dei diplomifici pare morta e sepolta almeno quanto la carriera politica del Trota.
Il vicepremier albanese, Niko Pelshi, ha annunciato anche la sospensione dell’attività e «azioni legali» per altri tredici atenei di dubbia reputazione, mentre il primo ministro, Edi Rama, proclama la «ferma determinazione» del suo governo a lottare contro il traffico di lauree. Peraltro, gli studenti immatricolati lì, promettono da Tirana, «avranno la possibilità di proseguire gli studi in altri istituti».
Coraggio ragazzi, c’è sempre una prima volta.
La vicenda delle lauree facili è uno scandalo nello scandalo che ha travolto le carriere del Senatur e dei suo cari.
Secondo i magistrati milanesi che scoprirono le loro spese private con soldi pubblici, Renzo Bossi si sarebbe laureato a Tirana pagando 77 mila euro in realtà appartenenti alla Lega e senza mettere mai piede in Albania.
Il che non gli impedì una celebre visita al Salone del libro di Torino dove, benchè basito per la massiccia presenza di quei curiosi parallelepipedi di carta, citò addirittura Popper davanti ai cronisti più basiti di lui.
E non finisce qui.
Anche l’ex senatrice leghista Rosi Mauro finì nei guai per aver comprato con i soldi dei rimborsi elettorali del partito,quindi nostri, la sedicente laurea della sua ex guardia del corpo, Pierangelo Moscagiuro.
Anche lui aveva pagato 77 mila euro e anche lui in Albania non c’era mai andato. Unica differenza rispetto al Trota, lui risultava dottore in Sociologia.
Gli albanesi, peraltro, hanno preso lo scandalo malissimo, quasi più degli italiani.
I partiti nazionalisti organizzarono una manifestazione di protesta davanti al ministero dell’Istruzione.
E la magistratura indagò Bossi junior, perchè per studiare in Albania ovviamente bisogna risiederci e al Trota non risultava concesso (nè chiesto) alcun permesso di soggiorno.
Insomma, il paradosso perfetto: i leghisti indagati per aver violato le leggi sull’immigrazione.
Allora meglio Bossi senior che, acciuffata la maturità alle soglie dei trent’anni, per anni fece credere a tutti, moglie compresa, di essersi laureato in Medicina.
La laurea fantasma è evidentemente una tradizione di famiglia.
Alberto Mattioli
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Agosto 8th, 2014 Riccardo Fucile
A 23 LEGGI MANCANO 148 PROVVEDIMENTI DI SECONDO LIVELLO E 14 REGOLAMENTI ORMAI SCADUTI, IN PRATICA L’INTERA ATTIVITA’ DI GOVERNO…L’ARRETRATO DA SMALTIRE A QUOTA 543, IL RECORD A UN REGOLAMENTO ATTESO DA 14 ANNI
“Dobbiamo accelerare sulle riforme”. Matteo Renzi ha reagito così, mercoledì, alla batosta di un Pil negativo oltre le previsioni, e pure giovedì, dopo le parole di Mario Draghi che ha definito l’Italia “in ritardo”.
Le riforme come unica soluzione per uscire dal pantano velocemente, dunque.
Con un ostacolo che gli è noto da tempo: “E’ inutile fare leggi se non si applicano, è allucinante”. A fine luglio era intervenuto sull’annosa questione dei decreti attuativi mai attuati, quel fardello di migliaia di provvedimenti legislativi privi di norme di secondo livello che rallenta l’entrata in vigore delle leggi o le rende del tutto inapplicabili.
Quel giorno, il presidente del Consiglio aveva scoperto che il senso della velocità che voleva imprimere alle sue riforme rischiava di schiantarsi contro il muro degli atti mancati e dei regolamenti mai regolati che ingessano le leggi ai blocchi di partenza.
Oggi, dopo l’approvazione del decreto Pubblica amministrazione, il premier ha twittato di nuovo sull’argomento: “E ora sotto coi decreti attuativi“.
Perchè la svolta buona, su questo fronte, non è arrivata.
Lo certificano i numeri forniti dall’Ufficio per il Programma di Governo (Upg) a metà luglio: dopo soli cinque mesi di attività legislativa, i decreti inattuati imputabili all’esecutivo Renzi sono già 148.
E presto saliranno ancora, per effetto dei decreti legge che stanno per essere convertiti: la riforma della Pubblica amministrazione e Dl competitività ne aggiungeranno altri 60-70.
Stando all’oggi, dei 33 provvedimenti legislativi pubblicati in Gazzetta soltanto nove non rimandano a norme di secondo livello.
Sono rimasti privi di attuazione, tra gli altri: i provvedimenti sulla Tasi, l’abolizione delle Province, il decreto Poletti sul lavoro, quello sull’Expo di Milano, la proroga dei commissari per le opere pubbliche e perfino il decreto Irpef che contiene il famoso bonus di 80 euro (di ieri, l’impegno di Padoan a rendere permanente il beneficio con la prossima Legge di stabilità ).
Non solo.
Nonostante gli interventi normativi siano recenti, 14 regolamenti hanno già superato i termini fissati per l’emanazione, come nel caso del Durc semplificato: il decreto del Lavoro previsto dal Dl 34 (primo capitolo del Jobs act) che avrebbe dovuto rendere operativa la verifica online della regolarità contributiva delle imprese e che allunga a 120 giorni la validità dei dati dichiarati è scaduto da due mesi.
Ma mancano anche i decreti che determinano e autorizzano le uscite per le misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale (Dl 66), quello che definisce i criteri per l’iscrizione all’albo delle “centrali acquisti” di beni e servizi diversi da Consip e Regioni (doveva arrivare entro il 23 giugno) e altri ancora.
In pratica, la summa dell’intera attività di governo, o poco meno è rimasta sulla carta.
Il male, va detto, è antico.
I governi Monti e Letta hanno lasciato un’ingombrante fardello alle amministrazioni centrali, schiacciate sotto il peso di 889 decreti inattuati.
“Da allora però l’arretrato è calato, i decreti sono scesi a 543”, tiene a precisare Alessandra Gasparri, capo dell’Upg.
Il motivo del miracolo, a ben vedere, non è un cambio di passo quanto il fatto che oltre 300, nel frattempo, siano decaduti per decorrenza dei termini.
Quelli con termine puramente ordinatorio, invece no. Quelli non scadono mai.
Così, tra i tanti ancora da smaltire, spunta il più vecchio di tutti. E’ il “regolamento sulla formazione artistica, musicale e coreutica” e quest’anno compie 14 anni.
Ancora un anno fa veniva evocato dalla legge del governo Letta contente “misure urgenti in materia di istruzione, università e ricerca” (n. 104/2013).
L’urgenza si è però fermata all’articolo 19 che richiama quel fantasma rimasto sulla carta dal 1999 a oggi.
E’ ancora questo, secondo il Comitato per la legislazione della Camera, il decreto attuativo (inattuato) più longevo della Repubblica.
Ciò detto, su questo terreno Renzi non si è rivelato immune al male, anzi.
Proprio quel sottobosco di regolamenti successivi, cui demandare in seconda battuta la concreta realizzazione dei provvedimenti, si è rivelato congeniale a una politica che privilegia la mera enunciazione di principi e obiettivi, spesso motivo di conferenza stampa, titoli di giornale e annunci. Il morbo del rimando, paradossalmente, si è fatto sentire perfino sulle contromisure che il premier aveva annunciato per guarire il malato accelerando la produzione dei decreti attuativi: una dopo l’altra, sono finite nel cestino.
La prima prevedeva l’istituzione di una speciale task-force incaricata di smaltire il lavoro arretrato, affidando al ministero di Maria Elena Boschi un “potere sostitutivo” nei confronti dei colleghi che non varavano decreti attuativi entro un determinato termine.
La seconda prevedeva un meccanismo di silenzio-assenso, se il dicastero competente restava a guardare senza fare nulla il provvedimento veniva emanato comunque.
Renzi ci puntava molto, e infatti entrambe le soluzioni erano state inizialmente inserite nel decreto legge sulla Pa.
La disposizione è però sparita nella versione pubblicata in Gazzetta.
In un primo tempo si era pensato a una vittoria degli apparati della burocrazia, poi si è appreso che erano state cancellate a seguito di un Consiglio dei ministri definito “acceso” dallo stesso presidente del Consiglio che, per la prima volta, si era trovato a fare i conti con la resistenza dei componenti del suo governo.
Fatto sta che la cura da cavallo è uscita di lì trasformata in un proposito molto vago: “Ogni volta il Consiglio si aprirà con il ministro dell’Attuazione del programma, Maria Elena Boschi, che indicherà nome e cognome del ministro responsabile del ritardo”, ha detto Renzi in conferenza stampa “e speriamo che questo funzioni come campanello di allarme”.
E speriamo.
Thomas Mackinson
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Agosto 8th, 2014 Riccardo Fucile
“IL PIL NON E’ LA VITA REALE”… “LE PREFERENZE? NON E’ VERO CHE GLI ITALIANI LE VOGLIANO, SERVONO SOLO AI PICCOLI PARTITI”
«Questa non è un’intervista e lei non deve pubblicare nulla di quanto le dico, siamo intesi? Io non parlo mai con i giornalisti».
Al di là della fama di burbero e autoritario, Denis Verdini è il tipico rappresentante di quella fiorentinità alla ”Amici miei” in cui alla fine tutto sfuma in battuta.
Ma non c’è dubbio che sia al centro di tutte le trattative con il governo.
Incontrarlo non è facile, indurlo a parlare molto complicato. Alla fine, però, tra una votazione e l’altra al Senato, per una volta si lascia andare al telefono.
Allora Verdini, come è andata ieri con Renzi e Berlusconi a palazzo Chigi? Da uno a dieci?
«10 e lode».
Pil a — 0,2, mentre eravate nello studio del premier l’Istat ha pubblicato questo dato…
«Di economia non abbiamo parlato, però abbiamo parlato di donne».
Difficile da credere.
«Ma con Berlusconi…che vuole: chi sta con lo zoppo impara a zoppicare».
Davvero non vi siete offerti di dare una mano sull’economia o sulla giustizia?
«Ma sì, su tre ore avremo parlato cinque minuti della situazione economica. E poi quei numeri non vanno enfatizzati, una cosa è il Pil, una cosa è la vita reale. Non sempre coincidono».
Italicum, avete concordato le modifiche sulle soglie e sulle preferenze?
«Alt, non abbiamo concordato un bel niente. Per noi l’Italicum prima versione resta la migliore legge possibile e da lì non ci muoviamo. Abbiamo solo detto a Renzi, che ci ha sottoposto delle ipotesi di modifica, che le valuteremo con calma alla ripresa. Nulla è scontato. La nostra disponibilità c’è, ma non abbiamo fissato dei paletti».
Si parlava di alzare al 40 per cento la soglia per avere il premio, di portare al 4% lo sbarramento e di introdurre le preferenze salvo che per i capilista…
«Eh come correte! Non c’è nessun protocollo segreto, abbiamo avuto delle discussioni ma nulla è deciso. Quelli a cui lei accennava possono essere semmai dei punti di arrivo. Di arrivo, non di partenza».
Il professor D’Alimonte ha suggerito il Toscanellum. Che ne pensa?
«Quel sistema l’abbiamo adottato in Toscana, vuole che non lo conosca? Il professor D’Alimonte ha molta fantasia, ma secondo me è complicato esportarlo a livello nazionale. Comunque vedremo».
E i collegi uninominali?
«Mmmm».
Renzi deve tener conto delle richieste di Alfano sulla legge elettorale: preferenze e soglie di sbarramento più basse. Voi cosa siete disposti a concedere?
«Alfano racconta favole. Il suo problema non sono le preferenze ma i voti che non ha. E lo dimostrano le Europee. Gira voce che io sia piuttosto bravo con le leggi elettorali e mi è stato affidato il compito di escogitare una legge che faccia vincere chi non ha voti. Purtroppo ancora non ci sono riuscito, ma ci sto lavorando eh».
Ma come fate a difendere le liste bloccate? I cittadini vogliono scegliere chi li rappresenta…
«Quanta demagogia: le preferenze sono un elemento di democrazia…i cittadini le vogliono! No, state a sentire due che ragionano come D’Alimonte e Panebianco: le preferenze sono una merce avariata e la favola che sono i cittadini a volerle è solo propaganda dei piccoli partiti. E glielo posso dimostrare».
Come?
«Mi segua nei numeri. I 26,5 milioni di cittadini che hanno votato alle ultime elezioni avevano a disposizione tre preferenze ciascuno. In teoria avrebbero dovuto essere espresse 80 milioni di preferenze, giusto?»
In linea teorica.
«Invece le preferenze sono state solo undici milioni, quasi tutte al Sud. Anche volendo ipotizzare che ogni cittadino di quei 26,5 milioni abbia espresso solo una preferenza, tradotto in percentuali significa che il 42 per cento degli elettori se ne è servito e il 58% no. Ma invece nella realtà le cose stanno in altro modo: solo 14 su 100 hanno votato usando le preferenze. Dunque di che stiamo parlando? Una legge elettorale va fatta per il cento per cento dei cittadini, non per una minoranza o per i partiti che la chiedono».
Perchè insistono sulle preferenze?
«Ha visto i loro numeri? Glieli dico io, perchè in politica bisogna studiare. Ncd alle europee ha ricevuto preferenze dal 90% dei suoi elettori, Fdi all’80 per cento, mentre il Movimento 5Stelle solo dal 17%, numeri simili a Forza Italia e Pd. Questo significa che i partiti piccoli sono sorretti dai voti della loro stessa classe dirigente, mentre i grandi hanno un voto d’opinione, più libero. Ergo, è un falso dire che le preferenze sono la democrazia. Servono solo a salvare il posto alla nomenclatura dei partiti più piccoli».
È vero che sta spingendo Berlusconi a entrare nella maggioranza di governo?
«Ma noi siamo già al governo, non se n’è accorto? Il governo delle riforme!»
E per l’altro governo, quello vero?
«Per convincerci a entrare, ci devono dare il presidente del Consiglio…la saluto”».
Click.
(da “La Repubblica”)
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Agosto 8th, 2014 Riccardo Fucile
FORSE NON HA CAPITO CHE LA MAGGIORANZA DEGLI ITALIANI NON PUO’ PERMETTERSELO, GRAZIE A POLITICI PATACCARI COME LUI
In preda all’estasi comunicativa che gli italiani hanno conosciuto con B., Matteo Renzi ha salutato i telespettatori della trasmissione di La7 In Onda con un “gli italiani vadano in vacanza belli allegri”.
Gaffe memorabile.
Nella testa delle moltitudini che in vacanza non ci possono andare è risuonato l’originale di Dario Fo: “E sempre allegri bisogna stare che il nostro piangere fa male al re”.
I casi sono due.
O i drammatici dati economici gli provocano effetti allucinogeni e, come il maestro, l’allievo ha visioni di ristoranti pieni.
O più semplicemente fronteggia le difficoltà con il mai rottamato sistema democristiano della dissimulazione.
La mazzata di Mario Draghi (“in Italia le riforme non sono condotte con sufficiente impegno”) viene ammortizzata con un abbraccio: “Ha detto una cosa sacrosanta”, come se il presidente della Bce non parlasse di lui.
È stata una delle più drastiche bocciature che mai si siano sentite nelle ovattate conferenze stampa di Francoforte.
Tanto più che Draghi chiede perentoriamente ai Paesi in ritardo con le riforme economiche una “cessione di sovranità ”.
Insomma, un preannuncio di commissariamento che Renzi ha liquidato da par suo: “Non ha detto che l’Italia deve andare verso una cessione di sovranità ”. Ecco.
Nel bel mezzo del mitico semestre di presidenza italiana, l’Europa ci fa sapere che le riforme forse ce le fa lei.
E Renzi, anzichè fare i conti con una minaccia per la democrazia peggiore della stessa Troika, fa finta di non capire e sfodera nuovi “renzini”: “Con le riforme l’Italia torna a crescere e volare”.
Allegria.
Giorgio Meletti
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Agosto 8th, 2014 Riccardo Fucile
INVECE CHE INDAGARE SULLE SPESE IL COMUNE FA CAUSA A CHI HA CHIESTO CHIARIMENTI SUI RIMBORSI…E’ COSI CHE I RENZIANI “CAMBIANO VERSO”
I consiglieri comunali di Reggio Emilia che lo scorso dicembre avevano denunciato alcune stranezze nei rimborsi spese per le missioni degli amministratori della giunta di Graziano Delrio, ora finiscono nel mirino del Comune.
A distanza di oltre otto mesi dal caso sollevato in consiglio comunale e poi finito in un fascicolo della Procura, l’amministrazione reggiana, come anticipato da il Resto del Carlino, ha affidato un incarico di consulenza legale da 7mila euro per chiarire se l’accesso agli atti che consentì di scoprire le presunte irregolarità sia stato conforme alla legge.
Sotto accusa, anche se dal Comune negano che ci siano denunce in essere, sono finiti Giacomo Giovannini, Zeffirino Irali e Matteo Iotti di Progetto Reggio, che lo scorso dicembre avevano portato all’attenzione della giunta gli “scontrini allegri” relativi ai rimborsi spese per le missioni e le trasferte degli amministratori comunali.
Atti alla mano, il gruppo di opposizione aveva dimostrato come consiglieri, assessori, dirigenti ottenessero indennità senza presentare lo scontrino, oppure si facessero rimborsare cene per due senza specificare chi fosse il secondo commensale.
Sul conto del Comune che andava dal 2009 all’estate del 2013, ossia gran parte del mandato da sindaco del sottosegretario alla presidenza del consiglio Delrio, c’erano per esempio un bicchiere di whisky pregiato da 10 euro o pranzi pagati senza ricevute di appoggio, ingressi in stadi per amministratori con famiglia al seguito o pernottamenti in hotel di fascia superiore. Spese che riguardavano l’allora sindaco Delrio e i suoi assessori, ma anche molti dei consiglieri che oggi sono stati rieletti.
Il caso era scoppiato in una delle ultime sedute consiliari del 2013 e perfino la Procura, dopo un esposto, aveva aperto un fascicolo senza indagati nè ipotesi di reato.
Il Comune, al tempo retto dal vice sindaco Ugo Ferrari, aveva garantito la volontà di trasparenza, ma ora l’amministrazione del neo primo cittadino Luca Vecchi, ha scelto di far luce, invece che sulle presunte irregolarità dei rimborsi, sulle modalità che portarono a scoprire l’entità e il resoconto delle spese per le missioni e le trasferte.
E per farlo, ha scelto perfino la via di un incarico esterno da 7mila euro.
L’ufficio legale del Comune ha infatti affidato con una determina una consulenza all’avvocato Massimo Donini per redigere un parere legale per verificare se il diritto di accesso agli atti sia stato esercitato dai consiglieri in modo “conforme alla legge o se viceversa vi sia stato abuso dell’istituto”.
Il legale dovrà anche valutare se si possano ravvisare “ipotesi penalmente fondate rispetto a quanto esposto dai consiglieri”.
Per ora, specificano dal Comune, “non si tratta di denunce contro nessuno”, anche se in discussione viene messa proprio la modalità con cui i consiglieri hanno avuto accesso agli atti e l’esercizio di questo loro diritto.
“Se c’è stato qualcosa di irregolare, che mi condannino — tuona Irali, che al tempo fece personalmente l’accesso agli atti, chiedendo di vedere la lista dei rimborsi.
Irali non si è ricandidato, ma con Iotti ha cofondato il movimento “Io cambio” che ha partecipato alle europee, e ora si augura che di quell’episodio sia la Procura ad occuparsi.
“Io sono comunque orgoglioso del risultato che ho raggiunto con la mia azione civica, era giusto che i cittadini sapessero”.
L’azione del gruppo di opposizione al tempo aveva scatenato molte polemiche, ma sulla vicenda non è mai stata fatta realmente chiarezza e l’unico atto del Comune è per ora questo incarico esterno anche se, assicurano, “il resto sarà valutato più avanti. Decideremo come procedere nelle fasi successive, dopo il parere legale”.
Silvia Bia
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Agosto 8th, 2014 Riccardo Fucile
INDAGATE TRE PERSONE PER AVER PERCEPITO CONTRIBUTI PUBBLICI IN MODO ILLECITO
Maxi frode nella sanità siciliana. La Guardia di Finanza di Palermo ha sequestrato la società Laboratorio di tecnologie oncologiche Hsr-Giglio Scarl di Cefalù e beni per 40 milioni di euro. Tre le persone coinvolte, tra cui l’ex ministro della Salute (2008-2011) nel governo Berlusconi, Ferruccio Fazio, legale rappresentante del Laboratorio dal 2005 al 2008.
Tutti sono accusati di aver illecitamente percepito, attraverso la società Lato contributi pubblici.
I reati ipotizzati sono truffa aggravata ai danni dello Stato e dell’Unione europea e falso in atto pubblico.
Gli altri indagati sono Antonio Emilio Scala (attuale legale rappresentante del Laboratorio) e Maria Cristina Messa (responsabile dei progetti di ricerca e formazione).
Le indagini, avviate dai finanzieri del nucleo di polizia tributaria e successivamente coordinate dalla Procura di Palermo, si sono concentrate su tre domande di finanziamento pubblico presentate dalla Lato nell’ambito del Fondo agevolazione ricerca.
Si tratta di istanze relative ad altrettanti progetti da realizzare e per i quali il ministero ha concesso contributi per oltre 36 milioni di euro.
Il primo contributo riguarda la ricerca di nuove tecnologie diagnostiche per la cura dei tumori e la formazione di ricercatori e tecnici di laboratorio da qualificare nello studio di queste tecnologie. Il secondo lo studio e il trattamento dei tumori del seno mediante tecniche altamente innovative. Un terzo progetto è stato concesso per lo sviluppo di capacità diagnostiche e terapeutiche attraverso l’utilizzo di nuove tecnologie.
Nei primi due casi, secondo gli investigatori, la società avrebbe ottenuto i contributi “attraverso documenti ideologicamente falsi” in cui si attestavano costi in realtà non sostenuti o sostenuti solo in parte.
Sarebbero state rendicontate, inoltre, ore lavorative dei dipendenti in misura “nettamente superiore” a quelle effettivamente dedicate ai progetti di ricerca. In alcuni casi l’incremento era del 90%. Nel terzo progetto, invece, la Lato avrebbe ottenuto il denaro “nonostante abbia omesso di presentare la documentazione tecnico-scientifica e amministrativo-contabile”.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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